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Autore: Spoocky    15/08/2019    8 recensioni
12 Novembre 1944, un soldato americano rimane ferito in un campo minato ed i compagni sono impossibilitati a recuperarlo.
Il sottotenente tedesco Friedrich Lengfeld decide di rischiare la vita nel tentativo di prestargli soccorso.
La storia dell'angelo di Hürtgen, l'unico soldato tedesco ad aver ricevuto un riconoscimento ufficiale dagli Alleati.
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
- Questa storia fa parte della serie 'Human Beings'
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Carissimi lettori, nel ringraziarvi per essere passati da queste parti, vi informo di non aver alcuna intenzione propagandistica nel pubblicare questo scritto. Non ho intenzione né interesse di promulgare in alcun modo l'ideologia nazista e quanto ne consegue, il mio intento è piuttosto quello di far conoscere un personaggio storico ignoto ai più.
Pur basandosi su testimonianze di fatti realmente accaduti questa è pur sempre un'opera di fantasia e non ho la pretesa di insinuare che gli eventi si siano svolti nel modo in cui li racconto. Ad esclusione del sottotenente Lengfeld, dei soldati Gees e Bösl (che non ho la certezza essere stato presente al fatto in questione), tutti gli altri sono personaggi di fantasia. L'identità del soldato americano coinvolto è tutt'ora ignota, così come la sua sorte, e ho operato di fantasia per cercare di colmare quei vuoti nel modo più verosimile possibile.
Le parole citate alla fine sono una traduzione di quelle incise in Inglese e Tedesco sulla lapide commemorativa dell'evento.
La frase iniziale "Non una battaglia, ma una missione di soccorso" è tratta dalla canzone "Hearts of Iron" dei Sabaton e non ne accampo i diritti.

Ringrazio vivamente PerseoeAndromeda per il suggerimento del prompt ^^

Buona Lettura ^^

 
Nicht ein Schlacht, ein Rettungsaktion


12 novembre 1944, Foresta di Hürtgen, Vestfalia

Le prime luci dell’alba sfiorarono con delicatezza le cime degli alberi e una brezza leggera ne scosse le fronde.
Il tetro ed umido autunno stava lentamente iniziando a cedere il passo all’inverno. Già la foresta sembrava assopita, velata dalla nebbia caliginosa che saliva dal Thönbach, e già la prima neve macchiava a sprazzi il terreno fangoso. Le precipitazioni avevano fatto marcire lo spesso strato di foglie a terra insieme a parte del sottobosco ed il forte odore impregnava l’aria, intrecciandosi con altri più acri e con un penetrante olezzo ferroso, emanato da macchie scure sparse ovunque: sulla terra, sulle foglie, persino nella neve fresca.
Non si udiva un animale, nemmeno il canto di un uccello solitario, ma il bosco era tutt’altro che quieto.
Gli spari erano cessati da tempo, ed anche le esplosioni, ma non le grida, che si diffondevano ovunque da uno spiazzo nascosto di terreno paludoso. Il “Wilde Sau[1]”, come lo chiamavano i Tedeschi.
Da ore, ormai, un uomo ferito giaceva a terra, le sue gambe dilaniate dall’esplosione di una mina, e gridava senza sosta, supplicando i compagni di venire a salvarlo.
 


Il XII Reparto di Fanteria dello US Army era sparpagliato tra gli alberi.
I suoi operativi avevano trascorso la nottata a combattere contro i Tedeschi per il controllo di ciò che restava della catapecchia nei pressi del cimitero, una volta la casa del custode. Quel rudere constava ormai di quattro mura cadenti e qualche trave, ma costituiva un riparo non indifferente dall’umidità e dalle intemperie. Un vantaggio tattico importantissimo, con quel clima.
Gli Americani superavano in numero gli avversari ma questi ultimi conoscevano alla perfezione il territorio e lo sfruttavano al meglio. Nel corso della nottata erano riusciti a respingere gli Alleati e ad attestarsi nella catapecchia, ricacciandoli indietro attraverso il campo minato e collocando una mitragliatrice a protezione del sentiero che vi si snodava accanto, impedendo loro di recuperare terreno.
La maggior parte del XII Fanteria ne era uscita indenne, ma il povero Henry Collins[2]  aveva accidentalmente calpestato un ordigno, ed ora le sue grida giungevano strazianti alle orecchie dei suoi commilitoni impotenti.

Il soldato semplice Taylor rabbrividì e tentò di coprirsi le orecchie con le mani, ma non riuscì a bloccare il suono. Il soldato Freeman, rannicchiato per terra accanto a lui, lo vie e sbottò: “Non si può fare qualcosa per farlo smettere?”
“Perché nessuno è ancora andato a prendere Collins?” Gli fece eco Salomon Kheane, anch’egli soldato semplice.
“Perché il vostro amico è nel bel mezzo di un fottuto campo minato! Ecco perché!” Li mise a tacere il sergente MacLeash, nello stesso tono brusco con cui dava gli ordini “Quel diavolo di un Fritz! Ha messo una mitragliatrice a coprire il sentiero, anche volendo non ci sarebbe modo di mandare una squadra medica a riprenderlo senza rischiare di perdere altri uomini.”
“Crucchi bastardi!” sbottò allora il soldato Taylor “Sarebbero capaci di sparare sulla bandiera della Croce Rossa e pulircisi il culo!”
“Modera i toni!” lo redarguì il sergente, assestandogli sul retro dell’elmetto uno scapaccione tanto forte da sollevarglielo “Nemmeno loro si abbasserebbero ad un livello simile. Il problema non è la mitragliatrice in sé, quanto il fatto che la suddetta costringerebbe i nostri a dover attraversare il campo minato e rischiare di saltare in aria ad ogni passo. Chiaro il concetto?”
“Sissignore.”
“Sissignore.
“Sissignore.”
“Mi fa piacere.” La sua voce prese un tono più conciliante, quasi affettuoso, ed estremamente insolito in un uomo tanto duro  “Le sento anch’io le urla di quel ragazzo laggiù e, credetemi, mi spezzano davvero il cuore. Anche a me prudono le mani dalla voglia di fare qualcosa e l’istinto mi urla di mollare tutto e tirare quel poveraccio fuori da lì. L’esperienza però mi insegna che, se lo facessi,  rimarrei secco o ferito a mia volta e poi dovreste recuperare anche me.”
“Quindi non si può proprio fare nulla, signore?” chiese Kheane.
“Nulla, soldato. A meno che i Fritz non alzino bandiera bianca e non accettino di cooperare, cosa della quale dubito dato che hanno tutto l’interesse a tenersi stretta la loro tana.”
Quelle parole misero fine alla discussione e le grida di Collins che chiamava aiuto ritornarono ad essere gli unici suoni nella foresta.
 

Gli Americani non erano gli unici a sentire le urla disperate del loro compagno: poco prima dell’alba un soldato era piombato di corsa nella catapecchia dove il sottotenente Friedrich Lengfeld, al comando di quanto restava della 175° Compagnia di Fanteria della Wehrmacht, si era rifugiato con i suoi uomini, per avvisarlo della situazione.
Il ventitreenne era al comando da poche settimane, da quando il suo ufficiale predecessore era stato ucciso in battaglia in ottobre, ma si era già distinto presso i suoi uomini per le sue doti di comando. Anche in quell’occasione si dimostrò all’altezza delle aspettative e ordinò subito al radiotelegrafista Hubert  Gees[3] di accorrere presso il mitragliere e raccomandargli di non sparare qualora una squadra di recupero si fosse presentata in soccorso del ferito.

I Tedeschi avevano subito pesanti perdite ed erano a corto di rifornimenti da giorni. Non erano quindi in uno stato d’animo granché belligerante in quel momento: se ne stavano rannicchiati intorno ad un fuocherello, affamati ed esausti, variamente avvolti da coperte e cappotti, e si sfregavano le mani per scaldarsi. Di quando in quando qualcuno si grattava a causa dei pidocchi.
Nessuno però sentiva il bisogno di lamentarsi e la maggior parte di loro era solo grata per quel riparo pericolante che li schermava un poco dalle intemperie. Alcuni, stremati dalla lunga nottata di combattimenti, si erano stesi a terra posando il capo chi sulle braccia incrociate, chi sulla schiena di un compagno, chi direttamente sul pavimento.

Il sottotenente Lengfeld stava rannicchiato in un angolo, ponderando il da farsi.
Perché nessuno di loro era sordo e, nel cupo silenzio del bosco, l’eco delle grida disperate del ferito arrivava anche lì.
 

Intorno alle dieci e trenta del mattino, quando ormai la situazione si protraeva da ore, Lengfeld scattò in piedi: non ne poteva più, doveva tentare di fare qualcosa per quel disgraziato o non se lo sarebbe mai perdonato. Diede il segnale di adunata ed i suoi uomini esausti si trascinarono in piedi, per poi allinearsi sull’attenti di fronte a lui.
“Camerati.” Li apostrofò “Tutti noi ci rendiamo conto dello stato attuale delle cose: laggiù c’è un uomo ferito e a questo punto è evidente che i suoi compagni non possano recuperarlo. Non ha importanza se sia un nemico e non un compagno: come uomini e come soldati dobbiamo tentare di fare qualcosa! L’ufficiale medico e due barellieri si attrezzino per una missione di recupero. Il soldato Gees, il soldato Bösl, ed il soldato Fischer faranno da scorta. Io stesso guiderò la squadra. Gli altri resteranno qui ed hanno l’ordine di difendere ad oltranza questo edificio: sarà anche un rudere cadente ma è pur sempre Madrepatria e per amor di essa non possiamo permetterci di arretrare d’un passo. “
Le sue parole furono accolte con un unanime ed accorato: “Sissignore!”

In pochi minuti la squadra medica fu pronta ed allineata appena fuori dall’edificio. Lengfeld si calò lo Stahlhelm sulla testa e se lo allacciò sotto al mento: “Sergente Fichte, a lei il comando. Seguitemi!”
Era normale, per lui, mettersi in prima linea e guidare le sue truppe in battaglia, rischiando tanto quanto e più di loro. Lo fece anche in quel momento, con naturalezza, senza un istante d’esitazione.
Gli uomini lo seguirono fiduciosi, saldi nelle proprie intenzioni grazie all’esempio del loro giovane comandante: nonostante fosse poco più di un ragazzo aveva il talento innato di infondere loro sicurezza e l’esperienza aveva dimostrato loro che non li avrebbe abbandonati in caso di difficoltà.
 

Il soldato Collins giaceva da un tempo infinito su quel terreno umido e gelido.
Le sue ferite erano profonde ed il sangue gli aveva infradiciato l’uniforme, poi il freddo l’aveva irrigidita, attaccandogliela alle membra. Era passato tanto che non sentiva più dolore: solo quel gelo impietoso, che gli era penetrato nelle ossa.
Pur immobile, aveva le vertigini, e non capiva se fosse diventato cieco o se non avesse più le forze per aprire gli occhi. Non riusciva nemmeno più a formulare un pensiero coerente.
Sapeva solo di avere paura, di non voler restare solo.
Gridava senza nemmeno rendersene conto, il bruciore alla gola insulso rispetto al resto, nella speranza inconscia che qualcuno lo sentisse e lo aiutasse, ma soprattutto per sfogare la sua profonda angoscia.
 

La squadra avanzava lentamente, procedendo con cautela sul sentiero che sapevano essere sgombro dalle mine. A guidarli erano i lamenti del ferito, sempre più deboli man mano che il tempo scorreva.
Rendendosi conto di non avere un minuto da perdere, Friedrich decise di abbandonare il sentiero per addentrarsi nel Wilde Sau: “Così sarà più facile raggiungere quel povero disgraziato e guidarvi da lui. Restate sul sentiero a meno che non vi chiami, mi raccomando, non rischiate di ferirvi anche voi.”
Preoccupati per la sua sorte, i compagni tentarono di dissuaderlo ma lui liquidò le loro preoccupazioni con un cenno della mano e si allontanò.

Per tutto il tempo, gli uomini della sua squadra lo seguirono con lo sguardo, ciascuno di loro con il cuore in gola ed il volto tirato dall’ansia.
I primi strati di ordigni erano anticarro, quindi facilmente individuabili ed evitabili, ma più il giovane avanzava, più il terreno si faceva incerto.
Le grida dell’americano avevano lasciato il posto ad un tetro silenzio, se si tendeva l’orecchio si riusciva giusto ad avvertire qualche flebile lamento. Lengfeld non aveva più nulla a cui fare riferimento nel suo cammino. Proseguiva quasi alla cieca, osservando con grande attenzione il terreno prima di posare i piedi. Ma tutta la sua cautela e l’esperienza non bastarono a sconfiggere il destino.
Fu questione di un attimo: aveva scorto una sagoma indistinta tra i grovigli di filo spinato e stava per chiamare i suoi uomini quando il suo mondo esplose in un lampo accecante.

I soldati si rannicchiarono in posizione di difesa, come previsto dall’addestramento, non appena udirono il boato ed evitarono di larga misura i detriti sparsi tutto intorno dall’esplosione.
Quando riaprirono gli occhi, il fumo già iniziava a diradarsi ed il loro giovane comandante giaceva a terra immobile. Entrando nel campo minato con una prudenza che con il senno di poi avrebbero potuto ritenere minore del dovuto, accorsero al suo fianco. L’americano non si muoveva né si lamentava più. Impossibilitati a stabilire se fosse vivo o morto, i tedeschi si piegarono sul corpo del loro caduto.
Il volto del giovane era esangue. Un rivolo di sangue colava dal naso e le guance erano sporche di terra, macchie di sporcizia fin troppo evidenti sul biancore della pelle.

Uno degli infermieri gli raccolse una guancia nel palmo della mano e gli sollevò con delicatezza il capo da terra. Gli spazzolò il terriccio dal viso con i polpastrelli, un tocco leggero, come se avesse paura di fargli male in qualche modo.
Vedendo il giovane ufficiale in quelle condizioni, i più vicini si affrettarono ad estrarre il proprio pacchetto di medicazione individuale dal tascapane per porgerlo al medico. Altri offrirono chi la propria borraccia, chi parte della propria razione. Tutti beni che, in una situazione precaria come quella, avrebbero potuto fare la differenza tra la vita e la morte per loro.
Il medico lo sapeva e si guardò bene dall’accettare nulla che non fosse strettamente necessario per prestare il primo soccorso al ferito. Il retro della sua giubba era intriso di sangue, che sgorgava copioso da due sole ferite, apparentemente. Il medico applicò dei pacchetti di medicazione alle lacerazioni, strappandogli una serie di lievi gemiti nonostante l’incoscienza.

Insieme, i membri della squadra sollevarono con estrema cura il corpo del ferito, e lo adagiarono con delicatezza sulla barella, avendo cura di distenderlo su un fianco per non urtare le lacerazioni. Lengfeld respirava appena. Il torace a malapena si muoveva e dovettero accostargli una mano al viso per accertassi che fosse ancora vivo.
Gees incrociò speranzoso lo sguardo del medico, ma questi scosse il capo sconsolato: non c’era modo di stabilire quanto realmente gravi fossero le ferite del giovane ma non aveva dubbio che fossero serie. I danni interni rischiavano di essere insanabili.
Nel tragitto verso il luogo di medicazione della prima camminarono lentamente, cercando di non far subire scossoni alla barella. Per loro fortuna la nevicata aveva livellato il sentiero e le buche erano piene d’acqua, quindi più evidenti alla vista.
Nonostante le loro precauzioni, presto il ferito iniziò a gridare per il dolore intollerabile che gli causavano le ferite e, per tutto il tragitto, i suoi lamenti straziarono il cuore ai camerati, preoccupati di poterlo perdere così giovane.
 

All’ arrivo nel posto di medicazione, i portantini vennero accolti da un paio di camerati con la fascia della Croce Rossa al braccio, che raccolsero il ferito e lo depositarono con delicatezza su una branda già macchiata di sangue.
A vederlo così, pallido ed immobile su quel lettuccio spartano, pareva anche più giovane e fragile di quanto fosse in realtà. Un ciuffo disordinato di capelli biondi gli ricadde sul viso, dandogli l’aspetto vulnerabile di un bambino addormentato. Solo uno schizzo vermiglio sulla sua pelle lattea fugava quell’impressione, strappando al giovane ogni accenno d’innocenza.

Mentre il dottore si lavava le mani con l’acqua di una borraccia, i suoi assistenti iniziarono a spogliare Lengfeld, togliendogli con delicatezza l’uniforme insanguinata.
Nonostante le loro premure, tuttavia, Friedrich emise un grido lacerante e prese a dibattersi anche se riuscì solo ad ingarbugliarsi nella coperta che gli avevano steso addosso. Il dolore gli aveva tolto completamente la lucidità e non riconobbe nemmeno i soldati quando lo afferrarono per immobilizzarlo. Gli parlarono piano, per indurlo a calmarsi, ma non diede segno di aver compreso le loro parole e tentò debolmente di liberarsi.
Le schegge proiettate dall’ordigno dovevano avergli danneggiato i polmoni perché, in seguito a quegli sforzi, fu colpito da un violento accesso di tosse che lo portò ad espellere dei globi sanguinolenti nel fazzoletto che gli era stato posto davanti, mentre le sue labbra si macchiavano di rosso. L’accesso lo lasciò stremato e i suoi infermieri lo riadagiarono con cura sul suo giaciglio, avendo cura di tenergli il petto e le spalle sollevate: “Non si agiti, signore. Va tutto bene.”
“Non si preoccupi, signor sottotenente: non è grave. Guarirà presto”
Con quelle ed altre parole i sanitari tentarono di rispondere ai lamenti del superiore, cercando come potevano di sorreggerlo e fargli coraggio mentre il medico trafficava alle sue spalle, suscitandogli altre grida e gemiti di dolore.

Quando il ragazzo fu a torso nudo, furono subito evidenti i due fori d’entrata delle schegge: entrambi erano del diametro di pochi centimetri e con i bordi leggermente slabbrati, ed entrambi sembravano molto profondi. Era ancora troppo presto perché si formassero dei lividi ma già al tatto si percepivano diverse irregolarità nel costato: “Non va bene.” Sibilò il medico a denti stretti, poi rivolto al suo paziente “Sottotenente Lengfeld riesce a sentirmi?”
L’unica risposta che ricevette fu un singhiozzo ansante, che interpretò come un assenso.
“Molto bene. Riesce a muovere le gambe?”
Non appena Friedrich tentò di muoversi venne sopraffatto da una fissa lancinante e si accasciò sulla branda con un grido.
“Va bene, signore, va bene. Non si preoccupi: resti sdraiato tranquillo e mi lasci finire di medicarla.”
Vennero applicati dei bendaggi impermeabili sulle ferite ed il torace del giovane venne avvolto con delle bende. Poi fu fatto stendere sul fianco e gli infermieri lo avvolsero pietosamente con delle coperte.

Uno di loro bagnò un fazzoletto e prese a tergergli il volto dal sudore, tamponando le sue labbra esangui ed inumidendole.
Pur nel relativo tepore delle coperte, Lengfeld tremava e si lamentava, incapace di trovare sollievo.  Nonostante i suoi uomini si prodigassero per accudirlo, non c’era modo di prestargli conforto. Sembrava essere impallidito ulteriormente ed ogni centimetro di pelle esposta era freddo in modo inquietante. Gli venne somministrata una dose di morfina, che lo aiutò a quietarsi un poco, e gli venne accostata una tazza di latta alle labbra perché potesse dissetarsi. Non riuscì a sorbire che pochi piccoli sorsi. Era passata un’ora dal suo ferimento e già era chiaro ai medici che per lui non ci fosse nulla da fare.
Venne convocato un sottufficiale addetto ai trasporti, recatosi sul posto perché ferito lievemente. Questi si rese immediatamente disponibile a caricarlo
sulla propria camionetta per trasportarlo nelle retrovie, dove forse avrebbero avuto i mezzi necessari per salvargli la vita.
 

Quell’ennesimo spostamento fu un calvario per il giovane, che arrivò all’ospedaletto di Froitzheim spossato ed ancora sofferente.
Venne ricoverato immediatamente ed esaminato con cura ma le sue condizioni erano ormai disperate: l’esplosione e le schegge dell’ordigno gli avevano provocato dei danni interni insanabili.
“Dategli della morfina.” Ordinò il medico che lo aveva visitato, il suo tono rammaricato ma fermo “Non ce la farà.”

Alcuni dei i ricoverati in grado di alzarsi si accostarono al letto di Lengfeld e gli tennero compagnia nelle sue ultime ore.
Qualcuno raccontava degli aneddoti da casa, qualcuno parlava di quanto bella fosse la foresta durante la primavera, qualcuno rimase in silenzio, partecipando discretamente al suo dolore. Quando Friedrich, ormai semincosciente, riprese a lamentarsi uno di loro gli tenne la mano mentre l’infermiere gli somministrava un’altra dose di morfina.
Un altro sedette al suo fianco ed intonò Wiegenlied aus dem Dreißigjährigen Krieg[4] come avrebbe fatto al momento di mettere a letto il proprio figlio.
Sul campo nessuno di loro avrebbe mai osato tanto ma in quel momento drammatico prevalse la compassione suscitata dalla sofferenza di quel povero giovane.
 

Otto ore dopo essere stato raccolto dal Wilde Sau, il sottotenente Friedrich Lengfeld spirò nell’ospedale da campo di Froitzheim, in conseguenza delle ferite riportate nel tentativo di prestare soccorso ad un nemico sconosciuto.
Un ufficiale medico gli chiuse le palpebre con un gesto simile ad una carezza e lo coprì rispettosamente con un lenzuolo.

Cinquant’anni dopo un veterano americano avrebbe saputo del suo gesto e lo avrebbe commemorato con una lapide, visibile ancora oggi nel Sacrario Militare di Hürtgen, che recita le seguenti parole:

Non vi è amore più grande di quello
dell'uomo che sacrifica la vita per il proprio nemico.
 
In memoria del sottotenente Friedrich Lengfeld.

- The End -
 
Note:
[1] Letteralmente “Cinghiale selvaggio”, nome in codice del campo minato.
[2] Nome di fantasia, l’identità del ferito è tutt’oggi ignota.
[3] Altro personaggio realmente esistito, insieme al soldato Bosl (del quale non è certo abbia partecipato alla missione) la vicenda è infatti nota dalla sua testimonianza. Gli altri sono nomi di fantasia.
[4] https://www.youtube.com/watch?v=A1mVThPN58M
Ninnananna il cui testo, composto nel 1917 da Ricarda Huch a quanto mi risulta, parla di un ragazzino pronto a partire per la guerra al seguito del proprio re.

Di seguito le fonti su cui ho basato questo racconto:

Un gruppo di reenactors reinterpreta la vicenda: www.doctormetal.it/leutnant-friederich-lengfeld/

http://1-22infantry.org/history4/lengfeld.htm

https://www.warhistoryonline.com/war-articles/hurtgen-forest-the-heroic-german-officer-killed-in-a-minefield-trying-to-save-an-american.html

https://www.argunners.com/friedrich-lengfeld-died-enemy-battle-hurtgen-forest/

https://digilander.libero.it/historiamilitaria4/lengfeld.htm

La storia partecipa alla SummerBingoChallenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [ https://www.facebook.com/groups/534054389951425/?ref=bookmarks]
  
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