Capitolo 2
La maga
Then I open
up and see
The person falling here is me
A different way to be
I want more
Impossible to ignore
Impossible to ignore
They'll
come true
Impossible not to do
Impossible not to do
(Dreams,
The Cranberries)
Loki
aveva rivissuto la sera in cui si era festeggiata la battaglia di
Nornheim così
tante volte da perderne il conto. Conosceva a memoria ogni battuta,
discorso o
insignificante evento di quel banchetto che si distingueva dagli altri
per il
fatto che lì, solo in quel punto della sua storia, si
nascondeva la
motivazione, il segreto che aveva spinto Sigyn a essere così
sciocca e avventata
da sacrificare se stessa. In verità, non avrebbe dovuto
stupirsi più di tanto.
Era la dea della fedeltà come lui lo era
dell’inganno. Aveva scelto di seguire
la propria natura in virtù di quel suo delicato e dolce
orgoglio che
gliel’aveva fatta preferire tra tutte.
Qualsiasi
cosa facesse, in qualunque modo tentasse di fermarla, Sigyn, quella
notte,
s’innamorava di lui, anzi, di più: capiva di
amarlo e lo accettava. Ecco il
punto, il disastroso momento in cui il destino prendeva la piega che,
ormai,
l’Ase conosceva fin troppo a fondo. Lei diventava la sua
donna, nonostante il
biasimo di due interi regni. Poi, certo, lo avrebbe lasciato,
esasperata
dall’ambizione, profonda come una voragine nera, che lo
abitava, per poi piangerlo
fino a consumarsi gli occhi quando lui si sarebbe fatto inghiottire dal
buio
siderale oltre il Bifrost, ma quella sera, guardandosi allo specchio,
Sigyn
avrebbe riconosciuto il viso e lo sguardo brillante di una donna
inevitabilmente innamorata.
Non
c’era
variante che Loki non avesse mutato, ma ora, nell’ultimo
viaggio attraverso il
tempo che aveva scelto di intraprendere, coperto da un mantello con il
cappuccio che gli copriva il volto, si limitò a fare da
spettatore muto, osservando,
per l’ennesima volta, ogni dettaglio di quel preciso momento:
un privilegio
che, più tardi, avrebbe pagato a caro prezzo, ma per tornare
nella Asgard che
aveva ricostruito e cancellare, definitivamente, il retaggio del
passato,
avrebbe fatto qualsiasi cosa. Una goccia gli cadde
sulla punta degli
stivali immacolati, un’altra sul pavimento di legno della
sala. Si sfiorò la
punta del naso accorgendosi di avere le dita macchiate di sangue
scarlatto.
Ogni volta che recitava le rune proibite che gli permettevano di
sfidare il tempo,
il suo corpo soffriva, corroso dal seiðr e dal potere
sfibrante.
Thor
aveva ragione. Si era scelto una prigione terribile, sottostava a
torture
spaventose.
Sigyn
– quella di un tempo, perduta, probabilmente, per sempre
– gli passò accanto senza
vederlo, sorridente e allegra: una nuvola di seta chiara e bracciali
tintinnanti che rivolgeva un ultimo sguardo a lui, per le Norne, al
Loki
sprezzante e fiero di quel tempo che, nello stesso momento, buttava il
capo
all’indietro per ingollare l’ultimo sorso del
pregiato idromele regalato dai
Nani a Odino in persona.
Il
dio dell’inganno si fissò nella mente ogni
particolare della scena, riflettendo
su quanto pesasse sulle sue spalle la conoscenza del futuro, su quanto
fosse
ingiusto cogliere i semi del dolore che li avrebbe attesi.
Lei,
che sarebbe arrivata persino a inginocchiarsi al cospetto di Odino
sfiorando
con la fronte il pavimento, per avere la possibilità di
poter scendere, anche
solo per un’ora, nelle buie celle di Asgard dove lui era
stato rinchiuso,
sorrideva innamorata e soddisfatta, inconsapevole della follia che, di
lì a non
molto, l’avrebbe resa pazza.
Quante
ore era rimasta, immobile, in attesa che Padre Tutto, irato e crudele
come il
re spietato che era stato, acconsentisse ad ascoltarla, di
più, ad accordarle
il permesso di vederlo?
Lui e
Sigyn non avevano fatto altro che rimanere rinchiusi in una trappola,
un
cerchio perenne che li portava sempre allo stesso, terribile,
risultato: lei
pronunciava un terribile quanto ignoto incantesimo e perdeva per sempre
la
ragione, lui non riusciva a impedirglielo.
Hela,
ritrosa e infinitamente sapiente, gli aveva mostrato il lato infantile
del suo
volto spaventoso, quando si era decisa a spiegare perché il
fato tessuto dalle
Norne fosse un insieme di bivi differenti che conducevano,
però, alla medesima
fine. Solo che Loki non l’aveva accettato. Si era rifiutato
di sottostare
all’idea che non esistessero scappatoie né
sotterfugi, che il destino non
potesse essere mutato anche lì, nell’inevitabile
fine. Occorreva solo trovare
il sentiero adatto e avere pazienza, la stessa dimostrata quando, poco
più che
ragazzo, aveva scoperto i sentieri che partivano da Asgard e portavano
ad altri
mondi, sostituti del Bifrost ignoti a tutti, portali che era possibile
attraversare senza farsi intercettare dallo sguardo color oro di
Heimdall. Era
stato attraverso uno di quelli che i Giganti di Ghiaccio erano
penetrati nella
Casa di Odino, rovinando l’incoronazione di Thor e segnando,
per sempre, il
futuro degli Æsir e il suo. Facendosi forza, si decise a
visitare, di nuovo, un
altro momento del proprio passato, uno che, forse, celava in
sé anche un altro
segreto.
.
♥
La
prigionia sfiancava Loki. Gli toglieva la ragione, il sonno, il
respiro,
persino. Non c’era nemmeno abbastanza spazio per pensare.
Godeva dell’assurdo e
ironico privilegio di una cella regale, a misura della sua persona,
abbellita con
mobili e libri: tutta una serie di ipocrite comodità che
accettava, ma verso
cui provava uno sprezzo senza pari. Stavolta, però, aveva
deciso di
intervenire. Di parlarle, di estorcere dalle labbra morbide di lei il
segreto
che, nel presente, era intrappolato nella sua testa svagata, nella
memoria
ormai fallace. Ecco perché acconsentì a entrare
nel perimetro sorvegliato e arredato
con attenzione. L’attese fin quando non la vide avanzare
verso il vetro della
cella. Reggeva un vassoio.
“Tua
madre mi ha chiesto di portarti una zuppa[1].”
“E tu
le sei molto devota, vedo.”
“È
preoccupata, lo siamo tutti.”
Loki
inclinò il capo di lato. “Anche tu? Eri in pena
per me?” le chiese, mellifluo e
crudele.
Sapeva
già cosa gli avrebbe risposto Sigyn. Abbassando le ciglia
scure, si sarebbe
fatta coraggio, ammettendo che il tempo e i racconti delle sue gesta
sconsiderate e spietate l’avevano rattristata profondamente,
ma che non erano
riuscite a mutare in alcun modo i suoi sentimenti.
Gli
avrebbe detto che lo amava, Loki lo sapeva, come ricordava
perfettamente di
averla derisa per la sua granitica fermezza. Colpa del rancore che gli
anneriva
lo spirito, della necessità di non avere legami
né di rimpiangere una relazione
in cui era rimasto invischiato suo malgrado, senza quasi rendersene
conto.
Iniziata perché Sigyn gli aveva chiesto, un pomeriggio
lontano, di aiutarla a
tradurre un passo di un poema antico che lei amava e su cui si
lambiccava da
settimane.
“Che
mi darai in cambio, mia signora?” le aveva domandato beffardo
e lei, seria e
altera, non si era scomposta a tale richiesta, reputando che la
conoscenza
valeva una concessione. Incuriosito e ammirato da quella sete di sapere
ben
nota, Loki le aveva chiesto di trascorrere un’ora insieme, da
soli.
Sigyn
aveva accettato, a patto, però, di scegliere il posto: le
rive del lago, che,
anticamente, erano parte del fiordo immenso su cui si affacciava
Asgard. L’Ase
l’aveva trovata una scelta interessante,
sebbene non originale.
“Qui
vengono le coppie d’innamorati a baciarsi sotto la luna;
c’è una grotta, poco
più avanti, dove Bor, mio nonno, fece scolpire nella roccia
una scala che
conduce a un’enorme caverna: lì, una lastra
trasparente, illuminata da torce
impossibili da spegnere, mostra cosa si nasconde sotto la superficie
dell’acqua.”
“Lo
so, la conosco,” aveva ribattuto lei con un sorriso appena
accennato sulle
labbra morbide e dolci. “Viene usata per impressionare le
ragazze.”
“E tu
vuoi essere impressionata, Sigyn? O sedotta?”
Lei
si era voltata verso le acque placide del lago. “Voglio
approfittare di una
serata tiepida mite e bella e chiacchierare in compagnia.”
Teneva i capelli
sciolti sulle spalle e un mantello di lana leggera le copriva la figura
sottile
e ben fatta.
Loki
aveva ammirato la massa dorata e spettinata dei suoi capelli.
“Domani diranno
che abbiamo una storia.”
Sigyn
si era girata verso di lui ridendo. “E noi li lasceremo
parlare, non è vero
Lingua d’Argento?”
Si
erano baciati contro la parete umida di roccia fiocamente rischiarata
dalle
lampade eterne, cercandosi con impazienza le labbra, stretti in un
abbraccio
convulso e nervoso, che saziava appena la voglia di toccarsi e
scoprirsi. Allo
scadere di quell’ora pattuita e concessa, si erano appartati
ridendo in quel
luogo banale e scontato, ritrovandosi a scambiare effusioni frettolose
e
intense, cariche di tutto lo strazio di un incontro negato, desiderato,
cercato, ma non soddisfatto, nonostante Sigyn gli avesse piantato le
unghie
nelle spalle e si fosse inarcata contro il suo corpo. Non sarebbero
diventati
amanti quella notte, nonostante il desiderio accecante. Lei avrebbe
preso a
negarsi a lungo, anteponendo ai loro incontri lo studio intenso delle
rune e
certi impegni diplomatici. Si sarebbe trasformata in una preda
incantevole e
ambita, ma difficile da catturare.
Di
fronte allo spettacolo sotterraneo e onirico di quel frammento di lago
visibile
da sottoterra, con le labbra ancora gonfie a causa dei baci che si
erano
scambiati, aveva sorriso facendogli una promessa strana ed eccitante al
tempo
stesso, capace di acuire i suoi sensi di cacciatore, di guerriero, di
orgoglioso
principe dei fieri Æsir.
“Non
cadrò ai tuoi piedi,” gli aveva detto.
Si
trattava di un ricordo lontano, molto più distante, nel
tempo, di quanto Sigyn
potesse immaginare. Loki Laufeyson vi si soffermò
assaporando in bocca il
sapore di fiele delle cose smarrite. Il se stesso cui si era sostituito
aveva
provato una fitta d’ira e di gelosia, all’idea di
averla persa. Ma quella Sigyn
era ancora riconquistabile, in qualche modo. Lo suggeriva lo sguardo
grigio e
umido, l’esitazione con cui aveva posato le dita delicate
sulle sue. Riconobbe
che si era trattato di un tocco leggero e carico di significati, si
chiese se
il giorno lontano dell’appuntamento al lago lei, con ancora
il sapore della sua
bocca sulle labbra, avesse preso un foglio per disegnare a memoria il
suo volto,
replicando con attenzione ogni particolare, caratteristica, aspetto.
Il
dio dell’inganno pensò a tutto queste cose e
ripeté la frase. “Eri in pena per
me.”
Nessuna
domanda, stavolta, ma solo una constatazione. Lei batté le
palpebre,
distogliendo solo per qualche momento lo sguardo da lui.
“Sono
sempre innamorata di te, Loki.”
L’Ase
sollevò il mento fiero, incrociò le mani dietro
la schiena diritta. Le avrebbe
risposto diversamente, stavolta. Se non poteva mutare il destino,
sarebbe
riuscito a scoprire l’incantesimo segreto che
l’aveva distrutta. La cicatrice
che gli segnava il collo prudeva, forse per il contatto tra la pelle
rimarginata e il collo della casacca.
“Cos’hai
fatto alla mano, Sigyn?”
La
ragazza si allontanò di scatto, nascondendo rapida le dita
sotto una piega del
mantello scuro che indossava. Era una domanda retorica, quella del dio
degli
inganni; era perfettamente a conoscenza di cosa le fosse successo e
perché, ma
desiderava sapere se lei gli avrebbe raccontato la verità o
una menzogna.
“Non
chiedermelo,” soffiò. “È
passato.”
Loki
scosse la testa, senza camuffare il ghigno sardonico che avevano
assunto le sue
labbra furbe. Non era una questione archiviata,
nient’affatto. Avrebbe avuto
ripercussioni sul futuro, perché quella mano stretta da una
fasciatura candida
nascondeva il segreto di un incantesimo terribile, uno che Sigyn aveva
pronunciato per lui. Per trovarlo. Per rintracciare
la sua firma dopo
che lo avevano creduto morto, dando così modo a Odino di
liberare tanta parte
di materia oscura da mandare Thor su Midgard[2].
Rinchiuso in quella stessa cella, si era ripromesso che non
l’avrebbe mai
perdonata per una simile leggerezza, salvo poi ricredersi quando, dopo
Thanos, gli
era venuto il ragionevole sospetto che lei avesse sacrificato la
ragione per
lui. Per tentare di rintracciarlo di nuovo, magari.
“Com’è
andata, mia dolcissima dea della fedeltà?”
Sigyn
non rispose. Non era tenuta a farlo, del resto. A entrambi tornarono in
mente
alcuni lunghi e bui pomeriggi d’inverno, certe serate fredde
passate insieme a
rotolarsi nel letto. La voce arrochita di Loki era stata volutamente
suadente.
“Sei
un’abile strega,” ricordò. “Ma
che prezzo hai pagato, per trovarmi?”
“Devo
andare.” La donna si voltò verso
l’uscita della cella, ma Loki
l’intrappolò,
bloccandole con un braccio il varco. Le due guardie che sorvegliavano
pigramente le segrete di Asgard scattarono verso il vetro della
prigione,
terrorizzate all’idea che l’ingannatore potesse
prendere in ostaggio Sigyn o
approfittare del momento per fuggire.
“So
cos’hai fatto stavolta,” le
rivelò rapido, a denti stretti. “Hai recitato
una formula pericolosissima e hai posato la mano sul braciere,
lasciando che
bruciasse, perché il prezzo da pagare per ritrovarmi era
quello – le tue
lacrime mute per una posizione rivelata.” Scoprì i
denti, soddisfatto dalle
guance di Sigyn che perdevano colore, dalle sue spalle scosse da un
tremito a
stento trattenuto, ma riprese a parlare. Era un uomo spietato, del
resto. “Perché
lo hai fatto? Come hai potuto?” le soffiò contro.
I
secondini avevano ormai varcato l’ingresso della gabbia e gli
puntavano incerte
le lance contro.
Sigyn
uscì dalla prigione, la mano ancora nascosta sotto le pieghe
del mantello, ma
si voltò di nuovo verso di lui. L’ultima domanda
del dio dell’inganno l’aveva
colpita. C’era qualcosa di stonato, nella rabbia di Loki.
Parlava come se
avesse il cuore avvelenato dal rimpianto, dalla nostalgia, dalla
disperazione.
La guardava come si osserva un fantasma, ma il principe degli
Æsir non era un
uomo che si arrendeva facilmente. Dal suo analitico e tagliente punto
di vista,
persino la prigionia poteva rappresentare
un’opportunità interessante. Quando
era stato riportato in catene ad Asgard, da Thor, sotto il bavaglio di
ferro
che doveva tenere a freno la sua lingua sardonica c’era
dipinto un sorriso.
Quel ghigno lei lo aveva visto, Loki lo sapeva. Niente poteva essere
perso
davvero, se si era dotati della mente svelta del migliore mago di
Asgard, del
più brillante stratega dei Nove Regni. I fallimenti erano
opportunità, per chi
sapeva fare tesoro della mole di informazioni che racchiudevano.
“Indossavi
abiti chiari, una volta,” notò Loki oltre il
vetro, con voce distante, ma
carica di rammarico. Circondata dalle guardie, Sigyn abbassò
lo sguardo sul
corsetto nero e aderente, sulla gonna ampia e leggera, del medesimo
colore, che
le scivolava sulle gambe. Lei lo ricordava. Ma un giorno più
triste degli
altri, di fronte ad uno specchio, si era accorta che il mondo non aveva
più
colori, e allora aveva strappato i suoi capelli e si era stretta in un
lutto
serrato.
“Questi
toni mi si addicono di più, adesso.”
“Eri
in lutto per me?”
“Non
m’importa averti accanto o saperti al mio fianco. Non sei il
tipo d’uomo che
può accontentarsi di vivere con una donna e avere una
famiglia,” spiegò la dea
della fedeltà arcuando appena le labbra in un sorriso triste
– forse,
dopotutto, era esattamente questo che lei avrebbe voluto, da lui. Lo
amava, in
fondo, anche se erano state proprio la sete di libertà e la
crudele spavalderia
che non le aveva mai nascosto, a stregarla. “Posso vivere
sapendoti lontano,
amore mio, ma devo avere la certezza che tu stia bene. Da te, non
desidero
altro.”
Aveva
lasciato che la sua pelle bruciasse, per lui.
Era
una dichiarazione d’amore generosa, spiazzante, totale. Che
non chiedeva
niente, anzi, donava e, per questo, era più difficile da
accettare.
Loki
si avvicinò al vetro della cella arrivando quasi a sfiorarlo
con il naso.
“Cosa
saresti disposta a fare, qual è l’incantesimo
peggiore, il più spaventoso che
riusciresti a recitare, per me?”