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Autore: mega n    23/08/2019    0 recensioni
[I Demoni ]
[I Demoni ](I Demoni)
Fuggiti dalla provincia, Stavrogin e Verchovenskij si rincontrano in uno squallido appartamento di Pietroburgo, costretti a fronteggiare le azioni compiute durante le ultime settimane, mezzi poeti, mezzi folli, mezzi avventurieri, mezzi esuli, da soli incapaci di ricavare, da tante metà, tuttavia, un intero...
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stavrogin lo guardò storto, perplesso; lasciò che finisse di parlare, non trovando la forza neppure d’interromperlo, ancora scosso dalla sua repentina comparsa. Certo, egli stesso l’aveva chiamato a sé a Pietroburgo, egli stesso s’era apparecchiato a comunicargli l’esiziale pericolo che gravava sulla sua persona, egli stesso aveva disposto che lo raggiungesse in tanto breve tempo, intimandogli di concludere al più presto ogni affare. Egli l’aveva voluto avvertire, l’aveva desiderato presso di sé una volta di più, per quanto in precedenza avesse persistito nell’affermare d’essere disgustato dalla sua persona e dal suo operato: eppure non riusciva a separarsene, tanto morbosa era l’ossessione dell’uno per l’altro! Non aveva mai davvero considerati tutti i tentativi di Pëtr di guadagnarsi il suo appoggio e, in qualche modo, la sua stima, quasiché un essere tanto frivolo ed insipido ne avesse necessità; un essere frivolo ed insipido, tale l’aveva sempre considerato, dal culmine della propria ostentata indifferenza nei suoi confronti. Tuttavia, mentre ora gli parlava, farneticamente, narrando tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni, dall’assassinio d’Ivan, all’orrifico suicidio d’Aleksej, che ancora, era palese, lo angosciava, per le modalità in cui s’era svolto, alle folli risoluzioni del padre, alle reazioni di quel che rimaneva del quintetto… mentre ora gli discorreva d’argomenti tanto futili e privi, per lui, d’interesse, trovava quasi piacevole la sua compagnia: aveva, quel folle, perduta pressoché ogni traccia del delirio dei loro ultimi incontri, e di questo si rallegrava immensamente.
«Stavrogin», riprese, una volta ch’ebbe concluso, riportandolo alla realtà, Verchovenskij, fissandolo confuso: pareva, egli, star prestando estrema attenzione al suo resoconto, e, ancora prima che lusingato, ne era preoccupato e sorpreso. Stavrogin avvertì un che di innaturale e, paradossalmente, di demoniaco nel suo nome, pronunciato a quel modo, tanto carezzevole e melodioso, seppur un poco strascicato, quel modo, tutto di Verchovenskij, di rivolgerglisi come allo splendore d’una divinità d’Olimpo discesa: lo conosceva per un appassionato, un ambizioso, un assetato di potere, uso a trattare con lui con talora affettata servilità, com’un vermiciattolo accecato dalla folgorante vista del Sole, e su questo non errava, ma, se era mera ammirazione, lo riconosceva, era una strana, anzi piuttosto stravagante, ammirazione; certo, nulla poteva essere, se non ammirazione! Che fosse ubriaco? Non escludeva l’ipotesi, da ubriaco gli si rivolgeva sempre con modi assai curiosi…
«Dite pure», rispose, secco, Stavrogin, giocando nervosamente colle pagine del libro, per non rischiare di tradire atti d’impazienza o di qualsivoglia passione dinanzi a cotanto basso e vile essere.
«State poco bene?», domandò Verchovenskij, osservando sgomento l’acuto pallore del collocutore, «Stavrogin, che avete mai?». Stavrogin taceva; aveva lo sguardo vitreo, smarrito da qualche nel vuoto della misera stanzetta: se ne stava lì, in piedi, nel mezzo di uno squallido appartamento pietroburghese, con le valigie ancora intonse, gli abiti da viaggio ancora indosso, ancora avviluppato nella pelliccia, i capelli scarruffati, e quel terrifico libro ancora stretto tra le mani, colle unghie, più affilate d’un serto di stiletti, che ne trafiggevano la carta; se ne stava là in piedi, avversario all’esecrando nichilista, che tanto gli aveva dichiarato d’idolatrarlo, atterrito com’un bambino… come quella bambina di via Goròchovaja… scosse il capo; doveva smettere di rimuginare, di pensare a quant’accaduto; non sarebbe mutato alcunché, anche seguitando a fantasticarci sopra. Tanto valeva, egli l’aveva voluto, egli, il bel Sole di quell’insignificante verme, egli, nessun altro. Scosse ancora il capo, e scrollò le spalle, in visibile, convulso subbuglio; non poteva mostrarsi a quel modo a Verchovenskij, ne andava del suo orgoglio. Squadrò l’uomo che si trovava dinanzi, ed ancora scosse il capo, sforzandosi di ridere, come un tempo tanto bene gli riusciva.
«Mai stato meglio», tagliò corto, asciutto, «Che volete ancora?», soggiunse, notando, con stentato fastidio, ch’egli non accennava ad andarsene: ma, si trovò a constatare, di contraggenio, che non voleva se ne andasse. Non subito, almeno.
«A voi posso dir tutto…», rispose, flebile, Verchovenskij.
«Tutto, purché vi sbrighiate – vedete bene che ho da fare», ribatté Stavrogin, con un moto d’ira, mentre, tediato, simulava di leggere l’infausto volumetto.
«E tutto, tutto vi dirò!», ripeté l’altro, «Stavrogin! Tutto vi voglio dire, e tutto ho da dirvi! Oh, se solo avessi più tempo! Ma già cala la notte – ah, potessi soltanto dir all’attimo di fermarsi, tant’è bello! Stavrogin! Ah, Stavrogin! Tutto vi devo dire, ché tutto ho da dirvi!», farneticava, come in preda ad ebbrezza.
Stavrogin non controbatteva, bofonchiando piuttosto qualche passo dell’Apocalisse, e prendendo a misurare a lunghi e ponderati passi il campo da battaglia, preciso e meccanico in ogni singolo gesto come una macchina.
«Stavrogin, siete bello!», gridò Verchovenskij, «Ma sapete che siete bello? Lo sapete, voi? Lo sapete ch’amo la bellezza, voi? Sì, son nichilista, e pur idolatra, ché voi siete il mio idolo, Stavrogin!».
«Cosa volete, Verchovenskij?», insisté l’interlocutore, passandosi stancamente una mano sul viso e stropicciandosi gli occhi; ma egli restava là, immobile, inamovibile anzi, dacché lo vedeva bene, certo che lo vedeva, che non aveva intenzione d’andarsene, ormai che l’ora era tarda, «Già me l’avevate detto, folle! Com’è che dicevate? Miserabile, vizioso, smorfioso signorino, vero? Sì, così dicevate…».
«Non lo rinnego! Ma ve lo dissi, ve lo dissi! Senza voi, son Colombo senza America, Stavrogin – Stavrogin, un Colombo senza America può forse dirsi Colombo?».
«Colombo devastò l’America», gli rammentò, tetro ed austero, Stavrogin, «Che volete ancora da me? Non s’è forse già dissolto, il vostro progetto, pazzo bramoso che non siete altro? Non siete forse un fuggiasco, e presto non sarete forse esule all’estero, come quando vi conobbi? Che volete? Danari, non ne ho. Protezione, non posso fornirvene. Appigli in Europa, non ho motivo di darvene. Che volete? Che credete ch’io possa più far per voi? Ah! Una cosa, però, ve la concedo: scriteriato irragionevole era anche Colombo…». Inesorabile come una frusta, richiuse il libro e lo gettò sul pavimento senza troppa grazia; Verchovenskij ne scorse di sfuggita l’autore, ma non il titolo: «Vi piace Puškin?», interrogò, con un sonoro barlume di speranza nella voce.
«Come a tutti», replicò con sufficienza Stavrogin, «Non in tutta la Russia: in tutta Europa, trovatemi uomo che non ami, conoscendolo, Puškin, e mi getterò ai vostri piedi!», seguitò, sogghignando malignamente. Verchovenskij, se non vi fosse stato più che aduso, sarebbe stato sorpreso dalle variegatissime espressioni ed emozioni che, nell’arco di pochi secondi, si alternavano, come danzando, sul bel viso di quell’algido uomo; sorpreso fu tuttavia dal piacere che traeva dalla contemplazione di quel ghigno crudele ed efferato. Volle nondimeno insistere, ancora speranzoso di riuscire a cavar qualcosa da quella conversazione: «E voi lo conoscete?».
«Puškin? Naturale».
«La conoscete, quella che dice: di voi m’innamorai, e quest’amor puro…».
«Nell’alma mia, ancor, destar si potrebbe – mi domando se sia umanamente possibile il contrario! E con ciò? Conosco anche quella che dice: un demonio ci conduce…».
«Siete bello, Stavrogin… Ed orgoglioso, e crudele come pochi…».
«E voi ancora mi perseguitate, pur conoscendomi, amico caro!», si schermì, scabro, Stavrogin, avvicinandosi minacciosamente al collocutore, con un indefinibile, ineffabile cipiglio dipinto sui severi, seppur delicati, lineamenti, «Sono un vile, un codardo, un vigliacco – e, sì, un vizioso signorino, ma che volete farci? Ho scelta, oltre a gloriarmene? Dicono che potrei dar lezioni al Divin Marchese, e forse è vero – che volete più che vi dica? Che più volete sapere, per essere soddisfatto, ed andarvene?».
«Volete che me ne vada?», chiese, deluso, Verchovenskij, chinando il capo e lo sguardo, incapace di sostenere quello, rovente, di Stavrogin, che gli aveva puntati addosso due occhi di fuoco, talché pareva volerlo ardere vivo, quasi fosse stato un eretico sul rogo, «Se voi siete vigliacco, io neanche verme sono, allora! Voi! Voi che non avete paura di nulla!».
«No. No, restate; non voglio che siate, come per Aleksej Nilič, l’ultima mia conversazione – restate fino a domattina; tanto, ch’avete di tanto urgente da fare?».
«Kirillov v’ha sempre fatta tanta pena, ora mi rammento…».
«Valeva più di cert’uomini ch’io e voi conosciamo… più di me e voi, anche…».
«Stavrogin, che avete? Mai v’ho udito parlar così».
«Tanto, che importa? Seguitate, seguitate col vostro Puškin, seguitate col vostro Karmazinov, seguitate con chi vi pare… ma fate un po’ come vi pare, ma lasciatemi in pace!». Erano ormai a pochi passi l’uno dall’altro. Verchovenskij l’avrebbe voluto stringere a sé, in quell’attimo, mirandolo tremare, scosso da convulsi fremiti d’orrore, non per lui; pure, non aveva idea di che l’agitasse tanto: soltanto, avrebbe voluto stringerlo, tanto gli ispirava, per dir così, compassione e sconcerto; egli, l’uomo che da nulla mai era agitato, egli tremava come un fanciullo che tema una punizione! “Ed io che posso mai far, s’egli trema? S’egli ha paura, che devo far io?”, ponderava tra sé l’infelice, meditando ancora i versi che prima con tanto ardore aveva citati.
«Siete bello, dite! Siete bello, dite ancora! Siete bello: non sapete dir altro! Ma che volete mai!», rincarava la dose Stavrogin, ed avanzò ancora di qualche passo, «Che volete mai, da me?», gli soffiò sulle labbra tremebonde, per poi scoppiare in una fragorosa risata, allontanati per un istante, o così mostrò, i propri fantasmi. Non era un pazzo, s’ostinava a cercare di convincersi, non ancora; era perfettamente conscio di sé e delle turpitudini ch’insozzavano la sua nobile figura: era ben peggio ch’essere pazzo, decretava; sapeva di dover, in qualche modo, se non redimersi, ché gli era impossibile, quantomeno pagare per esse. Non era pentito; era tormentato da una straziata colpa: quale sarebbe stato il prossimo passo, convertirsi e credere in una qualche religione? Poh! S’augurava, sprezzante, di perire prima che ciò potesse accadergli; ma, nel frattempo, che trovasse una qualche maniera per alleviare la stretta di quel cappio attorno al collo!
Verchovenskij lo vide tanto vicino che avrebbe potuto baciarlo; non osò, tuttavia: troppo bene si rammentava di come aveva rabbrividito quella sera in cui, fervente, appena gli aveva baciata la mano, di come, per qualche arcana cagione, l’aveva fissato spaventato. Eppure, l’aveva lì, lì, più bello che mai, dinanzi a sé, tutto per sé, l’aveva lì, il bel Nikolàj Vsévolodovič, che tante volte di sfuggita aveva ammirato, di cui mai era riuscito a saziarsi, che ognora aveva tentato di soddisfare; l’aveva lì, tutto per sé, con tutta una notte a disposizione per parlargli, e non era in grado di sputare una mezza sillaba ch’egli non deridesse! S’offrì nuovamente d’andarsene, tenendo gli occhi rigorosamente fissi sulle assi del pavimento; fu lo stesso Stavrogin a costringersi a persuaderlo a rimanere fino al mattino: «Ma dove volete andare a quest’ora? Tardi com’è! Non siate ridicolo, Pëtr Stepanovič; volete del tè? Ve ne faccio portare; sedete; ci saremo di buona compagnia, eh?». Ambedue furono piuttosto maravigliati dal tono dolce e soave con cui quei pensieri erano stati espressi: era un’affabilità, una naturalezza ch’al giovane Stavrogin era pressoché totalmente ignota, ed egli stesso non aveva idea di come avesse potuto supplicarlo, trattenerlo con preghiere; neppure sua madre aveva mai agito ne’ suoi confronti! Era giunto ad esorbitanti livelli di patetismo, e non aveva altra scelta: doveva ammetterlo, quantomeno a se stesso.
Verchovenskij ricusò il tè, ma non ebbe remore nel restare ed intrattenersi ancora un poco con l’amico, se così poteva permettersi d’appellarlo. Nessuno, però, si sedette; si ritrovarono ancora in piedi, l’uno di fronte all’altro, due contendenti in procinto di duellare; mancavano soltanto le pistole, a questo proposito.
«Mais, passons», esordì, dopo un interminabile silenzio, Verchovenskij, «Passons, come direbbe mon père…». Stavrogin proruppe in una fragorosa risata, al ricordo di quel vecchio: «Pierre, mostrate un po’ di contegno, mio caro!», rispose, con uno sdegno che mai s’era permesso, prima d’allora, con Pëtr Stepanovič.
«Nicolas!», esclamò Verchovenskij, ricuperando coraggio ed alzando lo sguardo, rimirando il giovane con occhi rilucenti; prese a scimmiottare la prosaica Varvara Petrovna, con immancabile apprezzamento d’entrambi. Parevano già ubriachi: eppure, quella poca vodka che avevano, era ancora chiusa in uno de’ tanti bagagli malamente ammucchiati in un angolo…
Nikolàj Vsévolodovič fu tanto divertito che non s’avvide della pericolosa vicinanza, sempre maggiore, al collocutore; se ne accorse, invero, soltanto allorché questi, esasperato dalla lunga attesa e dalla tensione ch’era novamente scesa tra loro, lo baciò, fugace. Tuttavia, lo lasciò fare; voleva proprio vedere fin dove si sarebbe spinto quel pazzo; certo che voleva vederlo: una volta tanto, voleva divertirsi anch’egli!
Verchovenskij si compiacque della morbidezza di quelle labbra, e del calore che impressero alle sue; e si maravigliò non poco, quando Stavrogin, dopo l’iniziale stupore, le assalì con non minore ardore, ferace e brutale come non si sovveniva d’esser mai stato, pur nella sua pregevole riputazione di vizioso signorino e dissoluto bramoso.
Rammentava, il signorino, quand’erano stati sporadici amanti in Svizzera, certo che lo rammentava; era un fatto a cui non alludevano mai, di cui non disquisivano mai, se non come se non li riguardasse punto in nulla; rammentava la sibaritica libidine di quelle ore, sfuggite ai lamenti di Liza, che aveva, negli ultimi giorni di frequentazione, principiato a non dargli pace; a lui, allo sventurato Nikolàj Vsévolodovič, per quanto poco essere una vicenda plausibile, conoscendo il carattere d’ambedue: Pierre gli s’era effettivamente posto come un dilettevole sollazzo, ma presto se n’era tediato, con tutte le questioni che opponeva alla loro relazione. Era stato egli, Stavrogin, ad iniziarla: se lo rammentava perfettamente; era stato egli, Stavrogin, a troncarla pressoché sul nascere. Verchovenskij l’aveva divertito, ma non aveva mai palesato altro che disgusto per lui: pure, gli s’era più d’una volta concesso. Ed ora, ora gli si offriva con spaventosa arrendevolezza, e coll’arsura d’un innamorato! Che mai! Quell’uomo era necessariamente pazzo: solo un pazzo si sarebbe tant’infatuato d’un vile individuo come lui; non che gli dispiacesse, s’invenne a considerare.
«A che pensate?», chiese Pëtr Stepanovič, dopo che l’altro l’ebbe lasciato riprendere un attimo fiato.
«A nulla». Egli comprese, pur troppo bene: «Sapete che mi dispiace, per Ginevra… quante volte ve lo dovrò ribadire, ancora?».
«Che volete?».
«Vi paion, queste, domande da porre? Voi m’avete implorato di tenervi compagnia! Voi, mio caro, mia America, voi, mio idolo!».
«Pazzo!».
«Pazzo? Sì, pazzo, pazzo, pazzo sono! Son pazzo, son un mascalzone, un farabutto, ed un pazzo; forse, forse è vero, sono pazzo: ma quanti pazzi vi venerano come questo? Quanti pazzi possono gloriarsi di venerarvi ed osannarvi, dite! Quanti, quanti pazzi v’amano, amano la vostra bellezza come l’amo io?».
«Nessuno, ché nulla v’è da amare», sorrise gravemente Stavrogin, traendo a sé l’altro, per poi cominciare, con una flemma disumana, a spogliarlo: «Non siate qui, domattina, quando mi sveglierò», l’ammonì, prima di cingerlo nell’amplesso d’un bacio passionale.
***
Di lì a pochi giorni, Pëtr Stepanovič Verchovenskij, fuggito ormai all’estero sotto falso nome, come sotto falso nome s’era riparato a Pietroburgo, ricevette, insieme a due sgualciti volumi, l’Eugenio Onegin e le poesie di Puškin, una lettera di poche righe dal defunto Nikolàj Vsévolodovič Stavrogin, cittadino del cantore di Uri; era scritta in accorato francese, onde evitare il freddo sapore del voi russo. Non menzionava la notte trascorsa prima della partenza di Pierre; né tantomeno sfiorava il suicidio del giovane aristocratico. Comunicava, brevemente, l’intenzione di partire per la Svizzera con Daša Šatova, e scontare lì, tra le aride gole montane, qualsiasi pena a cui i propri demoni avessero voluto condannarlo; era giusto così; forse avrebbe, diceva, avuto modo di scontarla anche prima: era un pensiero che l’attanagliava costantemente; non si sarebbero più rivisti. Era giusto così. Odiava ed aborriva se stesso in maniera inimmaginabile; ch’egli non tentasse dissuaderlo, già da tempo era persuaso a tale passo. In quanto a lui, Pëtr Stepanovič, non mancasse d’informarlo degli esiti della loro scommessa; a tale scopo, allegava quel che più riteneva meritevole del Poeta. Che leggesse anche per lui qualche versetto dell’Apocalisse ogni giorno, per quanto non ne fosse degno. Voleva essere sincero, franco sino alla fine; ma più non v’era molto su cui essere franco.
Vostro, si firmava, Nikolàj Stavrogin.
Fu colpito da quel vostro, ma non volle ammetterlo; giunse poco più tardi la notizia della morte di Stavrogin, ed all’udirla gli s’enfiarono gli occhi di lagrime; rinchiuse la lettera ed i libri in un cassetto della scrivania, e mandò a Varvara Petrovna le proprie condoglianze.
L’indomani, pareva già essersi scordato del giovane.
Ma chi poteva dirlo? Non lo sapeva neppure egli.
Forse l’aveva veramente amato; foss’anche per un istante, ma l’aveva amato; l’aveva amato, come l’avevano amato Liza e, soprattutto, Daša.
Nella solitudine delle lunghe giornate estive, tuttavia, non pensava alle derisioni, od ai colloqui filosofici che aveva intrattenuti con Stavrogin; riusciva a farneticare solamente i fatali versi di Puškin di quella che sembrava esser divenuta la sua lirica favorita: di voi m’innamorai, e quest’amor puro…
   
 
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