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Autore: _Lightning_    29/08/2019    6 recensioni
Tony si chiede a cosa servano le parole, se siano mai servite, e se ci ripensa ce ne sono troppe tra loro: scritte, urlate, ringhiate, solo pensate ed egualmente dolorose. È certo che adesso non servano. Ne ha l’intuizione, quella scintilla che precede i propri pensieri e lo spinge a imboccare una strada piuttosto che un’altra. Però la ignora, e parla lo stesso:
«Grazie, Cap.»

[Avengers: Endgame // Missing Moment // PoV Tony // Civil War fix-it // Serie Schegge: Finale]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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Passaggi di tempo
 
 
"Mi sono spiato illudermi e fallire
Abortire i figli come i sogni
Mi sono guardato piangere in uno specchio di neve
Mi sono visto che ridevo
Mi sono visto di spalle che partivo
"
 
[Anime Salve – Fabrizio De André]





Se c'è una cosa di cui Tony sarà sempre certo, nei secoli dei secoli, è che non passerà mai una notte senza essere tormentato dall’insonnia.
 
Stringe il cuscino tra le mani e si costringe ad aspettare almeno il primo chiarore dell’alba prima di alzarsi. La partenza è prevista in tarda mattinata, ma non riuscirebbe a sfruttare un’altra ora di sonno neanche con un sedativo, ed è comunque convinto di non essere l’unico ad aggirarsi senza meta per il Complesso.
 
Beh, lui una meta ce l’ha, in effetti: il bollitore del caffè nella sala comune. Perché se proprio deve rimanere sveglio, meglio farlo con una buona dose di caffeina nelle vene. Perché se proprio deve rimanere bloccato nel tempo, vuole concedersi tutti i piccoli conforti che gli può offrire il presente.
 
Quindi, oltre al caffè, scalda anche una porzione troppo abbondante di waffles, cospargendola di una dose troppo generosa di sciroppo d’acero. Quasi sente la voce di Pepper nelle orecchie, che lo rimprovera di dare il cattivo esempio a Morgan con colazioni insalubri e fuori orario. Si ritrova a sorridere, nonostante il pensiero di loro gli apra una fessura nel cuore, un taglio da carta impalpabile, non così doloroso, ma impossibile da ignorare ad ogni battito.
 
Rivolge lo sguardo fuori dalla vetrata, sul patio di cemento cosparso di foglie secche, grigio nella luce fioca. Di nuovo pensa a loro, alla casa sul lago e ai cumuli di foglie ammassati sotto gli alberi dove Morgan ama tuffarsi a capofitto. L’immagine si sdoppia per un istante, diventando l’istantanea di un bambino con una maglietta di Iron Man che fa esattamente lo stesso, sullo sfondo rosso-arancio di Central Park.
 
Scrolla la testa, battendo le palpebre, senza sapere se quella sia una congettura plausibile della sua mente, un ricordo estrapolato dai racconti di May [1], o un misto delle due cose. Però vede l’immagine nel futuro, con un Peter diciassettenne che ripete lo stesso gesto tenendo per mano Morgan; e forse è invecchiato, forse si sta solo lasciando sopraffare dalla speranza e dalla paura che qualcosa vada storto, ma si ritrova a sorridere di nuovo.
 
Sta giusto per conquistare con impegno la metà della sua colazione, quando un lieve battere di nocche sulla porta a vetri gli fa alzare di scatto la testa. Fissa di nuovo il patio, e sulla soglia vede un vecchio leggermente incurvato dall’età, con un cappellino calcato in testa e un giacchetto color sabbia addosso.
 
Rimane perplesso per un attimo, mentre la prima reazione viene messa in moto dal suo sarcasmo:
 
«Se deve consegnare qualcosa, non sono Tony Stank!» dice, a voce abbastanza alta da farsi sentire oltre lo spesso vetro.
 
Il vecchio, inspiegabilmente, sorride appena e sembra non avere alcuna intenzione di andarsene. Tony volge gli occhi al cielo, alzandosi dal proprio posto e maledicendo qualunque divinità esistente e non – incluse quelle terribilmente somiglianti a Lebowski – per l’assurdità delle situazioni in cui va a cacciarsi ad ogni piè sospinto.
 
È solo quando si trova a pochi passi dalla porta e dallo strambo vecchietto, che si congela sul posto sbarrando gli occhi e concludendo, senza ombra di dubbio, di aver appena avuto un infarto del miocardio a sua insaputa, e che quella sia un’allucinazione dettata dal suo flusso sanguigno in stand-by.
 
Perché non può stare davvero fissando una versione ottantenne di Steve Rogers. Veramente ottantenne, non solo un’età anagrafica, ma fisica e visibile nelle rughe, nelle guance molli, nel ciuffo di capelli candidi che sbuca da sotto la visiera del cappello. Gli occhi sono i suoi, però, senz’ombra di dubbio: un po’ annacquati dall’età, oscurati dalle palpebre pesanti, ma dello stesso celeste di uno Steve Rogers trentenne. O ottantenne nell’animo, non saprebbe dirlo – e il tutto non ha molto senso in ogni caso.
 
Quell’infarto gli sta scombinando i pensieri, oltre a mandargli in testa degli spezzoni di Ritorno al Futuro in cui Doc è Rogers e la De Lorean viene sostituita da un furgoncino Ford sputacchiante musica messicana.
 
Sbatte di nuovo le palpebre, e Rogers è inequivocabilmente ancora lì, ancora con un sorriso in volto e ancora con le nocche premute sul vetro. Un altro pensiero si affaccia nella sua mente, un’ipotesi che è plausibile quanto un infarto e se possibile più terrificante. La esprime ad alta voce, più per verificare di avere ancora delle corde vocali funzionanti:
 
«Oh, merda, abbiamo fatto casino…»
 
Steve scuote la testa.
 
«Tony, ti assicuro che è tutto sotto controllo,» dice Rogers, con una voce che non è del Rogers che conosce, incartapecorita dagli anni.
 
Indica la maniglia, che Tony si ritrova ad abbassare chiedendosi, oltre la confusione e l’infarto che diventa un’ipotesi sempre meno probabile, quando mai abbia eseguito così alla svelta una direttiva di Rogers. Lo attribuisce allo shock. È decisamente sotto shock. Se non è tutto frutto di un infarto, lo sta per avere adesso.
 
Fa entrare la versione più antiquata che mai di Rogers nella sala comune, e il suo cervello registra in modo ridicolo il dettaglio che, sotto la giacca e il pail, indossa una delle sue solite, orrende camicie a quadri, più affidabile di un documento d’identità. Chiude la porta con un gesto meccanico e i suoi occhi scattano verso l’ingresso, temendo l’arrivo di qualcuno. O forse sperandolo, perché così avrebbe conferma della propria follia, o del fatto che qualcosa sia andato irrimediabilmente storto col loro furto del tempo. Steve segue il suo sguardo e si prodiga in un’espressione rassicurante:
 
«Non arriverà nessuno. Io, Clint e Nataša siamo in palestra, Bruce in laboratorio, Rocket sta aiutando Nebula ad oliare le giunture e Rhodey e Scott stanno facendo jogging nel campo d’addestramento,» spiega, senza fare una piega. «Thor dorme,» aggiunge, coprendo quella dimenticanza nel cogliere il suo sguardo ancora interrogativo.
 
La sua domanda implicita non riguardava Thor, in realtà. La sua domanda assomiglia più a un gigantesco “cosa cazzo sta succedendo”, ma per ora si fa bastare quella spiegazione, che implica il fatto che quell’incontro, da qualunque luogo recondito sia scaturito, debba rimanere privato.
 
«Okay,» riesce a dire, anche se non è affatto “okay”.
 
E non solo per il fatto che sta parlando con Steve Rogers nei panni in cui l’ha sempre ironicamente immaginato, ma perché l’unica interazione faccia a faccia degna di nota che ha avuto con lui negli ultimi cinque anni è stata un paio di settimane prima, quando gli ha ridato lo scudo [2]. Un gesto che, a tratti, ancora rimpiange e che altre volte, invece, gli concilia inspiegabilmente il sonno; altre ancora, sogna una Morgan inferocita con lui per la perdita della sua amata slitta.
 
«So che hai molte domande…»
 
«Vedo che l’età non ha compromesso il tuo intuito,» ribatte Tony, prima di poterci pensare.
 
E subito gli sembra una reazione sbagliata, inadeguata al Rogers che ha davanti. Che non è un soldato di un metro e novanta coi muscoli pompati, ma un vecchio alto a malapena quanto lui, incurvato, smagrito, con le mani che tremolano appena. Eppure, nella sua fragilità ha un’espressione serena, sebbene tinta da una nostalgia che sembra non voler abbandonare il suo volto.
 
Normalmente nel vedere Rogers, quello vero, gli capita di dover scacciare a forza flash molesti di un bunker innevato. Adesso, vedendolo lì davanti, l’unica immagine che riesce a recuperare – oltre a fantasiosi reboot di Terminator e A Christmas Carol che si proiettano sullo sfondo – è quella di suo padre. E si rifiuta di schiodarsi dalla sua testa, continuando a impallinare il suo obiettivo mentale che, francamente, vorrebbe concentrarsi su questioni più urgenti… per esempio, cosa diavolo ci faccia una versione di Steve Rogers pronta per lo Smithsonian al Complesso dei Vendicatori alla vigilia della missione del secolo.
 
«Da… da quale futuro vieni?» riesce infine a chiedere, schiarendosi la voce come a cancellare il proprio sarcasmo fuori luogo e cercando di mostrarsi al passo con gli eventi.
 
Fuori luogo. Lui, che aveva sempre un principio d’orticaria se non rispondeva a Rogers per le rime, con citazioni per lui inafferrabili o frecciatine mirate.
 
Steve sospira appena, e nel vederlo lì, mezzo incurvato su quelle gambe sottili, a Tony viene quasi spontaneo offrirgli una sedia. Sopprime l’impulso.
 
«In realtà, vengo dal passato...» comincia, sempre il quel tono pacato che stonava in un trentenne, ma che adesso sembra aver trovato il proprietario giusto.
 
«Qualunque cosa voglia dire…» in quell’istante, prende nota della fede nuziale che gli cinge l’anulare, e si blocca a metà della parola successiva, con lo sguardo fisso sul circoletto dorato. «Uh, comunque congratulazioni, suppongo,» tenta impacciato, di nuovo senza pensare.
 
Per poi realizzare che, se Steve è venuto dal passato con un anello al dito, può aver sposato una sola altra persona al mondo. E Peggy probabilmente non c’è più in entrambe le linee temporali. Tony chiude la bocca, sentendo la fessura che ha nel cuore allargarsi appena nel vedere l’ombra che attraversa il volto di Steve.
 
«Grazie,» replica Steve, e sembra sincero, per poi stringere appena le labbra. «Tony, mi piacerebbe molto parlare, ma non ho molto tempo.»
 
«Dovrebbe essere una battuta?»
 
«Vorrei lo fosse, ma ho davvero i minuti contati…» replica lui, prendendo a frugare nella tasca interna della giacca.
 
«Devi tornare indietro?» chiede Tony, deciso a capirci qualcosa.
 
«Devo andare avanti, in realtà, ma fa poca differenza,» sorride lui, e finalmente pesca due fialette familiari dalla tasca, assieme a un congegno identico a quello che ha legato al polso. «Per queste devo un paio di scuse a Pym, ma sono certo che capirà.»
 
Tony non parla, chiedendosi con un senso di straniamento a quale luogo temporale sia riferito quel futuro, e sentendo i pensieri intrecciarsi tra loro alla velocità della luce quando Steve gli tende le fialette.
 
«Stai facendo un pit-stop,» deduce infine, senza accennare a prenderle.
 
Rivede il set di penne tra loro, su una scrivania di vetro, e scaccia il ricordo inopportuno. Ma non prende le fialette.
 
Steve non risponde, rimane con la mano tesa e sembra combattuto – lo vede dal modo immutato in cui corruga le sopracciglia, sollecitando rughe profonde. Rimette in tasca le fialette e lo fissa intentamente. Forse avrebbe voluto spiegargli tutto dopo, forse non ci ha davvero pensato, al come spiegarlo. Qualunque cosa debba spiegargli.
 
E in quel momento Tony sente una puntura allo stomaco. Un presentimento, quella sorta di sesto senso che sembra aver sviluppato dopo essere entrato nel portale. Paranoia. Istinto. La consapevolezza che troppe cose, troppo fragili, ruotano incessantemente attorno a lui. Non è per questo, che l’hanno cercato dopo cinque anni?
 
«Rogers…»
 
«Quell'uno su quattordici milioni sei tu,» rivela lui, e lo sta ancora guardando negli occhi.
 
Addolorato. Gli occhi di chi sta guardando la foto di un caro scomparso – e lo conosce bene, quello sguardo, l’ha avuto per cinque anni nel guardare la cornice sul lavello della cucina.
 
«Vuol dire…» inizia, ma lo sa già, è sempre stato troppo intelligente per il suo bene.
 
«Sì.»
 
Silenzio.
 
Tony ci crede, istintivamente, senza dubitare un istante. E non perché glielo sta dicendo uno Steve con forse cent’anni sulle spalle – magari, lo ammette tra i denti, anche per quello – ma perché così avrebbe senso. È l’unico modo in cui tutto avrebbe senso.
 
Si è interrogato per anni sulla decisione di quel folle di Strange, invano. Anni passati a rigirarsi nel letto in un bagno di sudore e incubi, ad arrovellarsi fino a consumarsi le meningi perché non ne veniva a capo; non ci riusciva, per quanto tempo spendesse in laboratorio e per quanti bicchieri frantumasse sul tavolo per poi farsi togliere le schegge conficcate nei palmi da Pepper; per quanto urlasse e se la prendesse con se stesso, con Thanos, col mondo intero, coi terroristi che non l’avevano ammazzato quel giorno maledetto. E si consumava nelle sue domande, in quell’interrogativo incessante. Perché non era morto?
 
La risposta l’ha sempre avuta lì, oltre la porta sul retro della sua mente, che grattava per entrare nei suoi pensieri, insistente, senza però mai trovare riscontro: perché non era ancora il momento giusto per morire. Perché se lui era vivo, doveva essere per un motivo. E adesso l’ha trovato. L’ha trovato, e un sorriso triste gli spacca le labbra per quel pessimo tempismo.
 
Annuisce, sotto gli occhi interrogativi di Steve, ancora limpidi nonostante il velo dell’età.
 
«Suppongo che tu non possa dirmi il come,» riesce a dire infine, e la sua voce è salda nonostante il cuore che trema.
 
No, chi vuole prendere in giro. La sua voce è apatica, mentre l’istantanea autunnale che ha composto pochi minuti fa si dissolve. Poi si ricompone, quasi la sua mente si fosse resa conto dell’errore: esiste, quel momento, esisterà. Solo che non saranno i suoi occhi a vederlo.
 
«Non posso,» conferma Steve, e riprende le fialette con un gesto stanco.
 
«Bene, allora dammi quella roba, dimmi dove, o meglio quando devo andare per risolvere questo casino e facciamola finita,» sbotta, con un gesto imperioso della mano, l’adrenalina che gli scorre nelle vene.
 
L’ho sempre saputo, pensa, e annulla i propri pensieri perché non vuole pensare. Vuole solo che quella fotografia futura venga scattata, anche se non potrà mai vederla.
 
«Tony, ascoltami,» ribatte Steve, fermandolo, e sotto il velo di serietà c’è un sorriso troppo marcato, per essere rivolto a un condannato a morte. «Questi sono per te,» scandisce poi, stavolta senza offrirgli le fialette e il congegno, mostrandoglieli e basta.
 
«L’ho capito,» quasi sbuffa lui, preso dal nervoso, dalla paura crescente. «Ho capito, Rogers. Ho capito, e va bene così. Va bene così, davvero, ho… ho avuto ciò che meritavo, cioè, che forse mi meritavo.»
 
E non sa neanche lui a cosa si stia riferendo, se alla fine prematura che lo attende o ai cinque anni d’idillio che gli sono stati concessi. Non lo sa, e non vuole saperlo.
 
«Non è abbastanza,» lo contraddice Steve, scuotendo la testa, e il cuore di Tony manca un colpo, minaccia di spaccarsi in due; perché è vero, non lo sarà mai, non per Morgan, non per Pepper. «Morgan ha bisogno di un padre. Pepper di suo marito. Peter del suo mentore. Il mondo di Iron Man,» continua, come leggendogli nel pensiero, come riuscendo a vedere quella fotografia scattata con un barlume di speranza e aggiungendo altri colori a un futuro che quasi non ha il coraggio di immaginare.
 
Tony ferma i propri pensieri, sentendoli inciampare su se stessi, frenando il treno che collega questo momento alla morte indefinita che sa aspettarlo. Lo sente arrestarsi con uno stridio di freni, e il binario che prima sembrava unico, proiettato all’orizzonte, si biforca in parallelo. Tony sgrana leggermente gli occhi, con la mente che fa un balzo verso quel futuro e un vuoto allo stomaco nel fissare di nuovo le fialette che finalmente hanno un significato. La sua seconda possibilità.
 
Scuote la testa, in un riflesso istintivo.
 
«Puoi farlo, Tony. Te l’assicuro,» afferma Steve, senza altre spiegazioni, perché forse ormai lo conosce abbastanza bene da vedere la scintilla di comprensione che gli illumina lo sguardo.
 
«Avanti e indietro,» mormora Tony, ancora esterrefatto, ancora restio a crederci.
 
A credere a tutto, alla sua morte che determinerà il futuro in cui sta per mettere piede, se dà retta a Steve. Al fatto che dopo tornare indietro sarà più doloroso che morire effettivamente. Al fatto che potrebbe rifiutare quell’offerta e accettare di andarsene così come è stato deciso dal Fato, senza cercare di imboccare strade alternative. E sa anche che non può rifiutarlo, perché Morgan e Pepper lo perdonerebbero, ma lui non si perdonerebbe mai per averle lasciate sole. Non si è perdonato per molto meno.
 
«Avanti e indietro,» conferma Steve, per poi accennare un sorrisetto. «I calcoli per tornare qui in tempo li lascio a te, sei sicuramente più affidabile, ma per l’andata posso dirti di aspettare almeno un anno da…» s’interrompe, e Tony riempie senza difficoltà la pausa: dalla tua morte, le cui specifiche non può ovviamente rivelargli. «Da qui a sei mesi. Poi conta un anno,» conclude, ora con la gola un po’ costretta.
 
«Rogers, so che accadrà tra adesso e… e al massimo tre giorni. Non c’è bisogno di indorare la pillola,» scuote la testa lui, alzando le sopracciglia con un sorriso amaro.
 
«Sei mesi,» ribadisce Steve, ostinato come sempre, come se potesse davvero credere di avere ancora sei mesi di vita in questa linea temporale, quando il furto del tempo è tra poche ore.
 
Steve gli porge di nuovo le provette e il localizzatore, ma Tony non allunga ancora la mano, fissando invece il volto invecchiato che avrebbe potuto trovare familiare se le cose fossero andate in modo diverso.
 
«Ne varrà la pena?» riesce a chiedere, cedendo a quella stilla di paura sfuggita alla diga che cerca di arginarla.
 
«Te lo prometto,» replica Steve, solennemente, e se Tony sarebbe stato incline a dubitarne in un altro tempo, in un’altra vita, adesso vi crede di nuovo ciecamente.
 
«E fai tutto questo perché…?» non si trattiene dal chiedere.
 
«Perché mi fido,» risponde lui, con una naturalezza che gli toglie la terra sotto ai piedi. «E spero che tu farai lo stesso. Nonostante tutto,» aggiunge, e le sue sopracciglia si corrugano appena, come mosse da uno spiffero di vento gelido che possono sentire entrambi.
 
«Potrei deluderti,» obietta, chiedendosi da quando deludere qualcuno privo di aspettative verso di lui sia un problema.
 
«Non lo farai,» ribatte lui, con una sicurezza oggettiva, scontata.
 
Tony si lascia sfuggire un sorriso incerto.
 
«A quanto pare no,» gli concede, abbassando il capo.
 
Sente Steve prendere un respiro profondo – un respiro sottile, che gli gonfia appena il petto magro.
 
«Ho cercato di rimediare in qualche modo ai miei errori...» Tony rialza lo sguardo, gli occhi attenti, un battito mancato. «… ma in un tempo in cui non li ho commessi.»
 
Tony ha un altro di quei flash, forse il più paradossale, e al contempo un qualcosa che potrebbe essere vero da qualche parte nell’universo: suo padre impossibilmente allegro, spensierato, sua madre immutata, dolce, e la versione di uno Steve di mezza età che fa il suo ingresso a casa Stark a braccetto con Peggy, come uno di famiglia, venendo subito assediato da un bambino troppo vivace e iperattivo che lo prega di lasciarlo giocare con una padella fuori misura.
 
Batte le palpebre, trovandosi un velo davanti allo sguardo. E anche se non chiede conferma, vede negli occhi di Steve che forse lo conosce meglio di quanto avrebbe mai voluto o ritenuto possibile.
 
«Volevo provare a farlo anche nel tempo giusto,» conclude Steve, senza dargli conferma, e dandogliela al contempo.
 
«Riesco a prenderti molto più sul serio, con quella faccia da vecchio saggio,» scherza Tony, e non riesce a camuffare l’emozione che gli ha stretto la gola per qualcosa che non c’è stato, non per lui, ma che forse avrebbe voluto.
 
Si ritrova le fialette in mano, premute gentilmente nel suo palmo.
 
«Devo andare. Sto per tornare,» aggiunge Steve, con un guizzo scherzoso degli occhi verso la porta.
 
Tony non risponde. Se ne sta lì, con le due provette in mano e pensieri confusi in testa, gli occhi che seguono lo sciabordare liquido e rossastro oltre il vetro. Non parla, e vorrebbe dire il mondo, o forse solo tacere, trovare un modo per ripagare un gesto che non ha prezzo.
 
Prima di poter decidere una linea d’azione, si sente stringere da due braccia ossute. Sobbalza, ma non si ritrae, perché questo è lo Steve che conosce, ma in un certo senso è nuovo, è diverso, è un viaggiatore che dopo novant'anni si è ricordato di un vecchio debito che poteva considerare estinto, e che e ha deciso di saldarlo ugualmente donandogli un pezzo di vita in più con le persone che ama.
 
Gli dà una pacca sbrigativa sulla schiena, per poi staccarsi, riparandosi dietro la sua facciata indifferente, minata dallo sguardo lucido.
 
«Muoviti, nonnetto, o farai tardi,» lo incita, con un cenno del mento in direzione della porta.
 
«Ho ancora un appuntamento, in effetti,» sorride lui, senza offrire altre spiegazioni, e va bene così.
 
Tony si chiede a cosa servano le parole, se siano mai servite, e se ci ripensa ce ne sono troppe tra loro: scritte, urlate, ringhiate, solo pensate ed egualmente dolorose. È certo che adesso non servano. Ne ha l’intuizione, quella scintilla che precede i propri pensieri e lo spinge a imboccare una strada piuttosto che un’altra. Però la ignora, e parla lo stesso:
 
«Grazie, Cap.»
 
Lui sorride, apertamente, e gli si illuminano gli occhi.
 
«Buon viaggio, Tony.»
 
Esce dalla porta da cui è venuto, con passo rallentato ma ancora saldo. Raccoglie una borsa di cuoio da terra, grande, circolare, e Tony emette uno sbuffo incredulo quando se la mette sulle spalle. C’è una folata di vento, uno stormire di fronde, e delle foglie si rincorrono sul patio catturando per un istante il suo sguardo – vede altre foglie, un altro autunno, una scena solo sognata che potrà ammirare di persona. Lo intravede sparire con la coda dell’occhio, e batte le palpebre. Per un istante, è convinto di aver avuto una gigantesca allucinazione. Poi sente il vetro freddo delle provette e abbassa lo sguardo: fissa il rosso denso di un passato e di un futuro che non conosce ancora, ma che ripara la fessura che gli spacca il cuore e lenisce anche altre ferite, più vecchie, mai del tutto guarite.

Il sole filtra dalle vetrate, illuminando la seconda possibilità custodita nel suo palmo. La stringe delicatamente. Sorride e la accetta in silenzio. E accetta finalmente anche qualcos’altro, a lungo atteso, quasi perso nei sentieri intricati del tempo.
 
Un ramoscello d’ulivo.
 

 
 "Mille anni al mondo, mille ancora
Che bell'inganno sei, anima mia
E che grande questo tempo, che solitudine
Che bella compagnia"
 
Fine *
 
 


Note:
 
[1] May in questa serie non è mai scomparsa, poiché ho iniziato a scriverla molto prima di Far From Home.
[2] Per forza di cose, la timeline e gli eventi non sono in linea con il resto della serie, a partire dal fatto che Pepper qui è canonicamente viva, al contrario della serie what-if. Non me ne vogliate, ma questa la considero comunque una conclusione simbolica. Quella “logica” è in
Comunicazioni interrotte.
N.B. Per eventuali dubbi sui dettagli tecnici, rimando allo [
spiegone] già utilizzato per Fermarsi. Mi rendo conto di non aver spiegato quasi nulla nel dettaglio, volutamente per non rallentare la narrazione, ma vorrei fosse chiaro che il tutto è stato progettato e scritto con un criterio logico in mente :) Il sunto, stringatissimo, è che Tony balza in avanti nel tempo, superando la sua stessa morte per ricongiungersi con Pepper e Morgan, per poi tornare indietro dopo anni (di fatto poche ore dopo la propria partenza) e finire per schioccare le dita. Non è esplicitato, ma può ovviare all'invecchiamento subito sfuttando la macchina del tempo "fallata" di Scott Lang.
 
 

Note Dell’Autrice:
 
Cari Lettori,
questa storia segna la fine simbolica della serie
Schegge, nonostante le discrepanze col filone originario.
 
E parto col dire che il finale è un po’ diverso da come avevo progettato all’inizio. Perché, nella mia idea originale, Tony e Steve non dovevano riappacificarsi, almeno non del tutto. All’epoca non riuscivo a trovare un gesto o un motivo abbastanza forte da poter cancellare le loro divergenze e rimettere in moto un’amicizia turbolenta, segnata da bugie, scontri, tradimenti e sfiducia reciproca – soprattutto in luce delle long
SiberiaComunicazioni interrotte, spine dorsali della serie, che offrono più un'accettazione dei fatti e un armistizio, che un perdono e una pace veri e propri.
 
Endgame mi ha fornito il punto di partenza, spingendomi a deviare dall'idea originaria. Non un perdono, almeno non esplicito, ma un motivo per andare avanti, perché se c’è una cosa che non ha prezzo è il tempo. Quello che si scambiano qui è un addio, non una promessa di rivedersi o di continuare a riparare un rapporto danneggiato, e questa era l’unica circostanza in cui sarei riuscita a inserire una scena simile. Con Steve che non è davvero Steve, e ha vissuto una vita in cui ha conosciuto un Tony che non è davvero Tony. E Tony a questo punto ha messo da parte il rancore “perché è corrosivo”, ha offerto il suo ramoscello d’ulivo restituendogli lo scudo (cosa che fortunatamente avevo predetto ante tempora) ed è quindi pronto ad accettare quello di Rogers.
Edit (perché ho la memoria di un pesce rosso): trovate i trascorsi di Steve con Peggy, Howard, Tony&co. nella bellissima
Vie en rose di T612, che è in un certo senso un pezzo complementare a questo headcanon e a Fermarsi, la mia shot compagna <3
 
E sì, sono davvero contenta di essere riuscita a dare questa conclusione alla serie, nonostante il progetto iniziale, e spero abbiate apprezzato il cambio d'intenti :)

Ringrazio di cuore tutti coloro che l’hanno seguita fin qui, in particolare
_Atlas_, T612, leila91 e shilyss, mie sostenitrici sin dalla prima parte che ho pubblicato. Grazie, davvero <3
 
-Light-

 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel
 
   
 
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