“There’s
a crack
A
crack in everything
That’s
how the light gets in”
Anthem
– Leonard Cohen
Epilogo
Phoenix
"I've been too long, I'm glad to be back
Yes, I am let loose from the noose
That's kept me hanging about
I kept looking at the sky cause it's gettin' me high
Forget the hearse ‘cause I'll never die!"
Marzo 2012, Stark Tower, New York
«Ehi!
Così
non vale!»
«E chi lo dice?»
«Le regole!»
«Uh, non sono mai stato un asso a seguirle, dovresti
saperl–»
«Ah! Preso!»
Tony barcollò all’indietro, sbalzato dal colpo
attutito che l’aveva
raggiunto sulla mascella, e abbassò la guardia dei guantoni
con un mezzo
sorrisetto.
«Ok, ok, Ali, questa la vinci tu,» concesse a
Happy, che stava esibendo un
ghigno trionfante al centro del ring mentre si liberava del casco
imbottito e
del paradenti, ansimando come un mantice.
Tony si spostò al suo angolo,
togliendosi i guantoni e attaccandosi poi con gusto alla
borraccia
d’acqua fredda ignorando il rischio di una congestione. Si
tamponò la fronte
madida con un panno, mentre recuperava il telefono dal borsone, e vide
la spia
di una notifica lampeggiare con insistenza. Sbloccò lo
schermo, indovinando
senza troppe difficoltà i mittenti dei due messaggi ancor
prima di leggerli:
Stark,
la Bronx Expressway è un inferno, arrivo con
un’ora di ritardo. K.
Appuntamento
confermato per martedì prossimo. Si ricordi di testare gli
ammortizzatori nuovi. E MI CHIAMI se ci sono
problemi. Doc.
Tony
represse una risatina al tono minaccioso dell’ultimo
messaggio, e invece
di chiamarlo si limitò a inviargli un selfie in tenuta da
boxe, mettendo bene
in mostra la protesi anteriore nuova, illesa e perfettamente
funzionante. Il
silenzio dall’altro capo gli sembrò una risposta
sufficiente, e fu contento di
aver sedato le ansie del suo medico di fiducia. Inviò poi
una breve replica a
Kyle dicendogli di non preoccuparsi, e che al massimo si sarebbero
visti
direttamente al ritorno dalla sua missione.
Spense lo schermo e cacciò il telefono nella tasca dei
pantaloncini,
districandosi poi oltre le corde del ring dopo aver lanciato un cenno
di saluto
a Happy, ancora troppo intento a riprendere il fiato per continuare il
discorso
sulla differenza tra boxe e kickboxing,
e quanto fosse regolare
sfruttare la protesi come perno snodabile per rifilargli una
ginocchiata.
Dopo
una rapida doccia, sfruttò il breve tragitto in ascensore
per
verificare, grazie ai sensori di JARVIS, se le protesi avessero
subìto qualche
danno durante l’allenamento un po’ movimentato, ma
la scansione non rilevò
nulla di preoccupante. Arrivato nell’attico, si
trovò a sorridere nel vedere la
chioma ramata di Pepper spuntare da dietro lo schienale del divano.
«Happy è ancora vivo?» gli chiese,
sentendo il trillo dell’ascensore.
«Lo sapremo tra qualche ora,» rispose Tony, vago, e
rimediandosi
un’occhiataccia. «Sta bene, sta bene, abbiamo solo
delle divergenze d’opinioni
sulla boxe,» scherzò poi, avvicinandosi al divano
per poggiarle le mani sulle
spalle.
Accettò il bacio sulla guancia, ma si accigliò un
poco, facendo aderire
meglio i palmi alla sua pelle.
«Hai la febbre?» chiese, perplesso.
«No, non direi,» replicò lei, alzando le
sopracciglia, e Tony sospirò.
«Allora si è sballato di nuovo il sensore
termico,» concluse, ritraendo la
mano artificiale. «Sarà stata colpa dei pugni.
Devo ancora calibrarlo,» spiegò
poi, con una scrollata di spalle.
Pepper sorrise, posandogli un altro bacio sul mento.
«Però mi sembra che tu stia facendo
progressi,» lo incoraggiò, guardandolo
dal basso.
«Almeno non prendo più la scossa,»
ridacchiò lui, rimanendo poggiato allo
schienale con gli avambracci.
Pepper si voltò del tutto verso di lui, stringendogli i
polsi.
«Tra quanto parti?»
«Mezz’ora, più o meno, il tempo di
sistemare e mettere l’armatura,» replicò
lui con
leggerezza, ignorando la stilla di preoccupazione che tingeva la voce
di Pepper
in quelle occasioni e impegnandosi per dissiparla. «Oh, Kyle
è bloccato sulla
tangenziale. Così dice, almeno, ma secondo me ha di nuovo
rotto il freno,» non
si trattenne dall’aggiungere, rimediandosi un prevedibile
scappellotto. «Su,
anch’io ho avuto qualche difficoltà a dosare la
potenza, all’inizio,» si
difese, sogghignando e strappando anche a lei un sorrisetto.
«Vai a prepararti, piuttosto, non ho intenzione di sentire
un’altra delle
sfuriate di Fury,» lo incitò invece, cercando di
adottare un tono indifferente.
«Sissignora,» cedette lui, lasciandole un bacio
sulle labbra.
Si avviò verso la piattaforma d’atterraggio
esterno e batté due volte le
mani, facendo subito sbucare la Mark VII da una pedana nascosta.
Staccò i
bracciali dai polsi dell’armatura per assicurarli i suoi, e
ne percepì il lieve
ronzio quando si attivarono, confermando il loro funzionamento. Tra il
vento
sostenuto che spazzava le cime dei grattacieli e il trambusto del
traffico cittadino,
non si accorse di Pepper finché non gli arrivò
accanto, visto che si era
avvicinata dal lato cieco; sobbalzò appena quando gli
posò una mano sulla
schiena. La rassicurò con un mezzo sorriso e prese a
revisionare rapidamente
l’armatura, assicurandosi che soprattutto il braccio e la
gamba destra fossero
in perfette condizioni.
«Quindi? Cosa dovete fare?» si decise a chiede
Pepper, probabilmente dopo
aver soppresso quella domanda per giorni interi.
Tony si prese un momento per rispondere, dando una schicchera distratta
sulla placca frontale dell’elmo.
«In realtà non sono stati molto chiari, ma
dovrebbe essere ordinaria
amministrazione,» confessò, con una scrollata di
spalle noncurante. «Sembra che
il fratellino di Thor abbia dato di matto rubando il giocattolo alieno
preferito di Fury per conquistare il mondo… lo sai come sono
gli dèi: volubili,
delle dive con manie di grandezza…»
«Sicuramente tu lo sai meglio di me.»
«Io non sono...»
«Prima di dire qualunque
cosa,
ricordati che sotto di noi c'è un'insegna di sei metri col tuo
nome
sopra.»
Tony
scosse la testa, cedendole il punto con uno sbuffo prima di riprendere
il discorso:
«Sarà
come un pigiama party tra amici, probabilmente finiremo per annoiarci
a morte e guardare qualche film strappalacrime suggerito da Cap mentre
aspettiamo che i miei sistemi di sicurezza facciano il loro dovere.»
«Prendi
il tuo incarico molto sul serio.»
«Non
si vede?» sogghignò lui, facendo scattare i flap
posteriori della Mark,
che reagirono all’istante.
Concluse
che fosse tutto in ordine; avrebbe solo dovuto compiere un breve
volo di verifica prima di fare rotta verso la posizione attuale
dell’Helicarrier – e rassegnarsi a sorbirsi le
escandescenze di Fury per un nonnulla.
«Ti senti bene?» chiese a quel punto Pepper, senza
preavviso e strappandolo
ai suoi pensieri.
Tony tirò su col naso, prendendo tempo controllando un
deflettore che non
aveva alcun bisogno di essere controllato.
«Le
protesi funzionano così bene che potrei tenere testa a Nat
in
combattimento, non ho nessun tatuaggio al palladio addosso, non sono in
tachicardia e se ce la fa Nick
a seguire gli schermi con un occhio solo, ce la posso fare
anch'io…»
concluse, staccando poi un congegno dall’interno
dell’elmo e equilibrandolo
sull’orecchio, posizionando la lente di fronte
all’occhio sano,
«… con qualche aiutino.»
Premette
un tasto sulla stanghetta del “monocolo”
– così l’aveva
soprannominato Nataša – e il suo senso della
profondità e la visione periferica
si ripristinarono, facendolo barcollare appena per quella sensazione
che
richiedeva sempre un periodo d’adattamento.
L’occhio sinistro era
irrecuperabile, senza operazioni azzardate, e quello era il modo
migliore che
aveva trovato per avere un minimo di destrezza quando era fuori
dall’armatura.
Non che contasse di starci parecchio, ma dopo una missione in cui si
era
ritrovato ad avanzare senza protezioni, con troppi bernoccoli in testa
a forza
di calcolare male le distanze, non aveva più intenzione di
correre rischi.
«E ci sei tu,» concluse infine, in fretta e senza
guardarla. «Non ho
bisogno d’altro.»
Stavolta captò il suo sorriso anche se era parzialmente
voltato; miracoli
della tecnologia.
«Non sei il tipo che si accontenta,» lo
punzecchiò lei.
«Magari non mi sto accontentando,»
ribatté lui, con un pensiero fugace
all’anello sprofondato nella tasca di Happy.
«Magari sto… aspettando,» disse,
sibillino.
«Non sei neanche un tipo paziente,» lo
provocò ancora Pepper, trattenendo
un sorriso.
A quel punto Tony si voltò con espressione falsamente offesa.
«Ho aspettato... quanto? Dieci anni? Se non è
pazienza questa!» scoppiò a
ridere, posandole le mani sui fianchi.
«Quella non si chiama proprio pazienza...»
Pepper si stava ancora sforzando di rimanere seria, ma i suoi occhi
ridevano per lei. Tony però storse appena la bocca, un po'
contrariato, con un
peso aggiuntivo nelle protesi.
«Ho aspettato un po' troppo, eh?»
«Tony, non era un rimprovero.»
Pepper sospirò per la sua permalosità,
scrutandolo con occhi limpidi.
«Sono sicuro che un paio d'anni in più di notti
insonni insieme non ti
sarebbero disp...- Pep! Ahia!»
esclamò Tony, massaggiandosi offeso il
bicipite dove la compagna l'aveva pizzicato. «Tratta bene il
mio braccio
superstite,» protestò.
«Neanche
un paio d'anni in meno di spazzatura,»
continuò lei, con un
cipiglio trionfante e vagamente accusatorio.
«Touché,»
sospirò Tony con un sorriso colpevole, e non
trovando altre parole la strinse in un abbraccio.
Si
concentrò sulla sensazione del suo corpo vicino, e sulla
sensazione
ancora estranea e bizzarra del suo calore contro il braccio
artificiale. Solo
un’impronta calda; per il tatto doveva affidarsi ancora alla
mano sana, con cui
accarezzò una ciocca dei suoi capelli setosi, portandogliela
poi dietro
l’orecchio mentre affondava il naso nell’incavo del
suo collo. Respirò Malibu,
nonostante fosse a migliaia di chilometri di distanza, e il traffico
sottostante si trasformò per un istante in un moto ondoso
che gli cullò i
pensieri.
«Mi hai perdonato di peggio,» mormorò
poi, muovendo appena la bocca contro
la sua spalla.
Pepper
si limitò a stringerlo a sé senza contraddirlo,
posando le labbra
sulla sua clavicola, tra pelle e ferro, e non ebbe bisogno di sensori
per
percepirle.
«A volte mi chiedo come hai fatto,» si
lasciò sfuggire ancora, per poi
ammutolire.
Non era preoccupato per la missione; al contrario, non vedeva
l’ora di
decollare, ma quei momenti sospesi che precedevano la partenza lo
lasciavano
fragile, facendogli dire più di quanto avrebbe voluto.
Un’ombra gli passò nella
mente, quella che gli stringeva a volte i moncherini nel cuore della
notte e
quella che intravedeva ancora a volte nello specchio, sul proprio
corpo. Si
strinse di più a Pepper, nel tentativo di scacciarla.
«Come sempre,» alzò le spalle lei,
inclinando il capo per guardarlo negli
occhi, offrendogli la sua àncora con i palmi posati sul suo
reattore. «Non te ne approfittare, genio,» lo
ammonì
quindi con voce gentile, passandogli una mano sulla nuca in una carezza
che gli
solleticò i capelli.
«Per chi mi prende, signorina Potts?»
ridacchiò lui, di nuovo sereno e
scostandosi per fissarla in volto.
«Esattamente per quello che è, signor
Stark,» ribatté prontamente lei,
catturandolo in un bacio che divenne ben presto più
profondo, accompagnato dal
vento fresco dell’Hudson.
Fu lei a staccarsi per prima, seppur riluttante.
«Tony, devi andare,» dichiarò, in tono
affatto convinto.
«Sicura?» la stuzzicò lui, con un mezzo
sorrisetto provocante.
«No,» ammise Pepper, e di nuovo la sua voce
tradì una punta d’apprensione.
«Ehi, non è la prima volta,»
cercò di rassicurarla lui, prendendo un
atteggiamento spigliato. «Volo, vinco e torno, e ci saranno
Happy, K e il Doc a
tenerti compagnia. E poi, anche tu hai una missione,» le
ricordò
all’improvviso, adesso con un sogghigno e l’indice
meccanico sollevato tra i
loro nasi.
«Tony, K è adulto e perfettamente in
grado…» cominciò lei, alzando gli
occhi al cielo.
«Ti ricordo che l’ex di K è Knight,»
la interruppe Tony. «Quindi
assicurati che questa volta non si sia messo con un narcisista
ossessionato
dalle camicie hawaiane. L’ultima seduta del Doc è
stata più sul tipo nuovo che
su di me,» ragionò poi, accigliandosi, e Pepper
liberò un sorriso, scuotendo la
testa.
«Va
bene, indagherò,» gli concesse, lasciandogli un
ultimo bacio sulle
labbra.
Tony si scostò da lei, si tolse il congegno oculare e
salì sulla pedana,
lasciandosi avvolgere dall’abbraccio metallico
dell’armatura. Saltò giù con una
mossa sicura, in un coro di cuscinetti a sfera, sibili e cigolii, e
lasciò la
placca frontale alzata per guardare Pepper con un sorriso fermo.
«Andrà bene, Pep,» disse, addolcendo lo
sguardo e perdendosi in quello
fiducioso di lei. «Dopotutto, sono Iron Man,»
concluse, con sfrontata
sicurezza, e chiuse l’elmo con uno scatto metallico.
Attivò i propulsori, decollando con uno sbuffo di fumo e
fiamme, verso il
cielo notturno sopra di lui, e si inebriò come sempre della
sensazione del
volo, così familiare eppure così spiazzante, ogni
volta, come se fosse sempre
la prima, o l’ultima. La forza del vento sembrò
scacciar via i pensieri
superflui, scoprendo quelli più reconditi, avvolti sempre in
un bozzolo di quotidianità,
calore e fiducia, ma non erano più così
spaventosi come un tempo.
A
volte
non riusciva a capacitarsi di come fosse potuto arrivare lì.
O di come tutto
ciò fosse potuto capitare proprio a lui. Di come tutti quei
tasselli si fossero
finalmente incastrati al posto giusto; un po' storti, un po' incrinati,
ma a
formare un'immagine ben distinguibile. A volte aveva paura di sprecare
tutto,
di gettarlo al vento, di commettere qualche errore stupido o una
disattenzione,
di vanificare in un battito di ciglia tutto ciò che aveva
realizzato e di
vederli di nuovo cadere ai suoi piedi, sparpagliati e in disordine,
persi.
Temeva
di sprecare quella seconda possibilità che gli era stata
concessa. A pensarci
bene, forse non era esattamente la seconda. C’erano
già quelle donategli da
Yinsen e Pepper, che aveva sfruttato al meglio, rialzandosi ogni volta
più
alto, con o senza armatura. E forse anche suo padre, a modo suo, gli
aveva
aperto un’altra strada. Una non meno in salita, certo, ma
già parzialmente
battuta, ad agevolare i suoi passi per il primo tratto per poi
lasciargli il
compito di continuare a tracciarla verso il futuro.
Suo
padre diceva sempre che gli Stark erano fatti di ferro. Uno dei suoi
detti,
ripetuti allo sfinimento, acquisiti e mai compresi. Si rendeva conto
adesso di
aver sempre mal interpretato quell’espressione: il ferro
grezzo, prima poi,
finiva per spezzarsi. La sua vera qualità non stava nella
pura resistenza, ma
nel fatto di essere duttile e malleabile proprio nel momento in cui era
più
fragile, acquisendo nuove forme per poi essere temprato. E poi forgiato
di
nuovo, e ancora, e ancora, senza mai raggiungere una forma definitiva,
evolvendosi e adattandosi ad ogni cambiamento. Adesso l’aveva
finalmente
capito.
Aumentò
la spinta dei propulsori, slanciandosi verso cielo notturno e lasciando
dietro
di sé una scia bruciante che si rifletté sulle
cromature rosso-oro, animandole
come le fiamme guizzanti di una fenice in volo.
S'impennò
ancora più in alto e l'adrenalina prese a scorrergli nelle
vene, mentre la
velocità accelerava anche i battiti del suo cuore nel
tracciare un arco di
fuoco trionfante sopra le luci di New York.
Guardò
verso l’orizzonte a portata di mano e un sorriso
affiorò spontaneo sul suo
volto: aveva sempre fatto un ottimo uso delle sue seconde
possibilità.
*
Note finali:
Cari Lettori,
un po’ mi tremano le mani, a scrivere queste note. Non credevo possibile di poter arrivare fin qui, forse in cuor mio quasi non lo speravo, perché mettere un punto fermo a Phoenix vuol dire metterlo anche nella mia vita. Riguardandola, non è la mia storia migliore, ma è sicuramente quella a cui sono più affezionata e che raccoglie molto di quello che mi sono frenata dal riversare in altre storie o ambiti. Non è mia, non nel senso stretto del termine, ma la sento tale, e costituisce una parte di me non trascurabile. E sì, saranno delle note molto lunghe, perché credo ci sia molto da dire, e dopotutto ho creato un capitolo aggiuntivo anche per questo.
Se qualcuno, sette anni fa, mi avesse chiesto di cosa parlasse Phoenix o quale fosse il suo messaggio fondamentale, il tema portante, la me quindicenne avrebbe risposto senz'ombra di dubbio con un banale eppure vero "non arrendersi mai". Ed è così, in parte. La resilienza è una delle basi fondanti della storia, questo è innegabile. Ma per forza di cosa oggi, dopo sette anni e da ventitreenne, la mia risposta è diversa.
Adesso direi che Phoenix è una storia di accettazione, intesa in molti modi e con molte sfumature differenti.
È accettare se stessi, i propri difetti e pregi, ciò si è in grado di sostenere o meno. È accettare il proprio corpo e la propria mente, il fatto che entrambi possano essere feriti in egual modo e che entrambi possano guarire; che un disagio psicologico può essere invalidante quanto uno fisico e presentare ostacoli che sembrano egualmente insormontabili. È accettare i propri limiti e allo stesso tempo la propria capacità o meno di superarli, perché non sempre si può: ci ripetono fin da bambini che possiamo fare tutto ciò che vogliamo, ma nella realtà questo non è sempre vero e accettarlo richiede tempo, sforzo e maturità. È accettare il fatto che non sempre si può cambiare se stessi o la propria vita, e che ogni nuovo passo è un salto nel buio, ma che rimanere fermi e rifiutarsi di provare non può mai essere la soluzione. È accettare che a volte è invece necessario fermarsi, aspettare, riflettere, darsi tempo anche quando si è certi di non averlo. È accettare che il passato non si può mai del tutto lasciare alle spalle, che influisce su di noi anche quando riusciamo a vederlo in un'ottica più serena, e che non per questo bisogna rinnegarlo. È accettare il fatto che pur non avendo ottenuto tutto ciò che si desiderava, si può ancora essere felici e vivere una vita piena, riconoscendo di meritarsela.
L'accettazione implica un successo non totale. Nel lieto fine di questa storia è racchiusa quindi una punta di fallimento, che sia per la paura che frena Tony da un’operazione di troppo, dai demoni che a volte ancora tornano a galla, o dall’aver bisogno di un sostegno psicologico costante. Sono “fallimenti” positivi, è un riconoscere i propri limiti che ha richiesto l’intera durata della storia. Limiti di cui non ci si deve vergognare nel modo più assoluto e che non intaccano la propria identità.
Qui mi permetto di dire che quella di Tony è stata un’evoluzione, se non ben riuscita, almeno naturale, perché è un cambiamento che ha colpito me, prima di trasferirsi su Tony: quindici anni non sono ventitré, dopotutto, ed è il motivo per cui le revisioni non hanno intaccato l’anima della prima parte, per quanto fallata, e per cui ho accentuato ancor di più la tripartizione della storia:
Flames parla della non-accettazione, del rifiuto categorico di integrare un cambiamento nella propria vita volendolo sopraffare. È stata scritta in piena adolescenza, quando opporsi a tutto e tutti sembrava essere l'unica soluzione, pur nella consapevolezza delle conseguenze. È stato un periodo di rabbia, sia per me che per MoonRay, di esclusione, di incredulità per il modo in cui girava il mondo, e l’interruzione repentina della storia è coincisa con eventi personali che richiedevano a gran voce quella pausa.
Ashes è una continuazione in singolo necessaria, perché in un certo senso non riuscivo ad accettare di aver lasciato Tony e di aver lasciato me stessa a un passo dal "risalire". È collegata a un periodo altrettanto complesso della mia vita, e oltre a segnare la scissione definitiva tra me e la mia collega (almeno qui), parla di un'accettazione mentale che inizialmente io neanche riuscivo a concepire, ma solo a vagheggiare, del riuscire a convivere col cambiamento e con gli ostacoli che continuano a frapporsi tra noi e un benessere a lungo atteso.
Rebirth, nella sua oggettiva imperfezione, cerca di rappresentare come ci si senta a dover affrontare un male che entra all’improvviso nella nostra vita; un malessere interno, nel caso di Tony, o esterno, nel caso di Pepper. C’è molto di personale, in quei PoV Pepper, e in un certo senso è stato liberatorio scriverli, oltre che necessario. E il tutto culmina con un'accettazione mentale e al contempo affettiva di se stessi, qui indissolubilmente intrecciate. Accettare se stessi vuol dire accettare di essere amati per ciò che si è e a prescindere da ciò che si è.
Ma qualunque cosa vi abbiate letto, comunque la vogliate interpretare, ciò che conta è che Phoenix non pone come fulcro le vittorie, ma le sconfitte che le hanno precedute, senza le quali le vittorie stesse non sarebbero mai esistite o avrebbero avuto meno importanza. Non si rinnega mai il fondo, né le cadute, anche quando si è arrivati in cima – ed è proprio a questo che si ricollega la citazione iniziale. È un messaggio in sé molto semplice, magari scontato, persino banale, ma che credo interessi la vita di ognuno nel momento in cui ci troviamo di fronte a ostacoli, scelte o limiti quotidiani e non. Phoenix, sin dal titolo stesso, si fa metafora di quei cambiamenti radicali resi necessari da eventi improvvisi, cambiamenti poi portati avanti coscientemente e completati con l'aiuto di chi ci sta vicino.
Questa è solo una delle chiavi di lettura tra quelle che ho voluto inserire, ed è probabile che ve ne possano essere molte più di quante intendessi: sono sempre stata dell'idea che ogni interpretazione, per quanto divergente od opinabile, sia egualmente valida fintantoché avvicina il lettore a ciò che viene narrato. Non esistono veri fraintendimenti in questo senso, quanto modi diversi in cui ognuno si sente toccato dalla medesima parola scritta. Spero solo che ognuno di voi abbia trovato la propria chiave, e che la custodirà almeno per un po' assieme al ricordo di questa storia.
Ringraziamenti:
C’è una lunga lista di persone da ringraziare, in riferimento a questa storia. Prima di tutto, grazia a coloro che hanno letto, tantissimi, a coloro che hanno commentato e aggiunto la storia tra le seguite, ricordate o preferite, facendomi ogni volta sorridere. Un ringraziamento speciale a Emyclarinet, T612 e 50shadesofLOTS_Always, che hanno seguito fedelmente questa storia da quando l’ho ripresa <3
Grazie a MoonRay, che nonostante separazioni e divergenze e periodi di distanza, rimane presente nella mia vita, paradossalmente avendomi dimostrato proprio oggi che lei c'è, sempre, in qualsiasi circostanza. E incarna ancora quella parte spensierata della mia adolescenza che non vorrò mai dimenticare a dispetto degli anni, e che mi fa rivivere ogni volta. Perché non importa quanto tempo passerà: avrò sempre in testa quelle sere di brainstorming, risate, Guitar Hero, Resident Evil e scrittura con in mano una tazzina da caffè piena fino all’orlo di Nutella. E forse te lo scrivo qui perché so che non leggerai e sono parole che dovrei dirti a voce, o forse perché una parte di me spera che tu legga <3
Grazie ad _Atlas_, il motivo per cui ho ripreso questa storia a distanza di anni. In realtà ti ho già ringraziata in varie sedi e circostanze, ma non perderò mai occasione per ripetermi: grazie per il supporto, per la fiducia e per avermi spronata a riavvicinarmi a un progetto che, oltre a darmi grande soddisfazione come autrice, è riuscito a modo suo a farmi ritrovare un po' di serenità in un momento complesso. Hai contribuito non poco tu stessa a quest'ultimo fatto coi tuoi splendidi commenti, con le tue storie, con le chiacchierate estemporanee, con le chiare dimostrazioni di telepatia reciproca e con i post e le chiacchierate sceme che ci scambiamo – e che rendono molto chiaro quanto siamo sceme noi stesse. E oltre a ciò, grazie anche per tutto il supporto morale e psicologico, spero reciproco, in ambito universitario e personale. Non scherzo quando dico che sarei probabilmente molto più “indietro” di così, se non fosse stato per quel messaggio datato gennaio 2018 che, oltre alla voglia di rimettermi in gioco, mi ha fatto trovare un’amica <3
Un ultimo grazie di cuore a tutti voi per esservi imbarcati in questo lunghissimo viaggio, che ha finalmente trovato la propria conclusione. Perché, per citare Tony, “la fine è parte del viaggio”.
Con affetto, a tutti voi che avete letto e seguito nel corso di questi anni,
-Light-