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Autore: crazy lion    02/09/2019    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti che Demi e la sua famiglia hanno vissuto, raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Questa storia racconta un episodio che potrebbe essere benissimo accaduto.
Un pomeriggio, Patrick se la prende con la moglie per un motivo stupido. Inizia così un violento abuso fisico che la lascia segnata più nell’anima che nel corpo. Devastata, con una bambina di pochi mesi da consolare, Dianna si isola da tutto e tutti, immersa nel dolore e nella vergogna. Il giorno seguente viene a trovarla una sua vicina di casa, Joyce, con i figli Andrew e Carlie. Come passeranno il pomeriggio? Mentre i bambini giocano e fanno amicizia, Dianna riuscirà a sentirsi almeno un po’ meglio e soprattutto a raccontare ogni cosa e denunciare? O dovrà combattere contro altri demoni?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Vale non solo per Demi, ma anche per tutti gli altri personaggi di cui ho parlato.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza
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NOTA INIZIALE IMPORTANTE:
questa storia presenta un linguaggio un po’ forte (anche se non in maniera eccessiva e solo in una scena). Ma soprattutto tratta tematiche forti e delicate in modo serio. Ci sono scene di abuso fisico (non sessuale!) e psicologico e altre di depressione post partum e anoressia, malattie delle quali Dianna ha veramente sofferto, due temi dei quali ho già parlato in altre fanfiction anche se qui l’ho fatto in modo un po’ più approfondito ma non troppo particolareggiato. Non parlo dei disturbi alimentari o della depressione per incitare qualcuno o per dire che essere anoressiche è figo, anzi! Entrambe sono malattie e il mio unico intento è in parte quello di trattare di qualcosa che la donna ha veramente vissuto, in parte di sensibilizzare le persone.
Come molti di voi sanno, Patrick Lovato era un uomo violento. Prima di leggere il libro di Dianna, "Falling With Wings: A Mother's story", che consiglio, non conoscevo tutti i dettagli. Ha staccato due dita alla moglie schiacciandole in una porta, l’ha lanciata contro il divano rompendole la mandibola, la ridicolizzava, lanciava oggetti (una volta l’ha fatto anche contro le figlie), urlava, beveva e si drogava. Nel suo memoir la donna parla di tutto questo. Non specifica se il marito le abbia messo le mani addosso altre volte, ma è possibile visto tutto quello che è accaduto.
Le scene di abuso fisico non sono state descritte troppo nel dettaglio e ne ho parlato tenendo sempre conto del rispetto che provo nei confronti delle persone reali di cui tratto, anche di Patrick stesso per quanto non condivida affatto le sue azioni. Non mi sarei mai permessa di renderlo un personaggio violento se non lo fosse stato realmente. Come sia Dianna sia Demi hanno detto, lui voleva avere una famiglia ma i suoi problemi gli hanno reso impossibile occuparsene. Io non credo fosse un uomo totalmente cattivo e so bene quanto una malattia mentale possa condizionare una persona, ma ritengo comunque che abbia fatto delle cose che non possono essere giustificate. In ogni caso, la violenza fisica qui descritta non ha l'intento di offenderlo.
Lo scopo di tali momenti violenti non è quello di mostrare la cattiveria dell'uomo né, non sia mai, di incitare qualcuno. Non mi permetterei mai di fare questo! Ho scritto tutto ciò per far riflettere sulla violenza sulle donne e sulle sue varie forme.
 
Dianna per anni è stata una vittima, poi ha deciso di andarsene. Non ho idea del perché non abbia mai denunciato, ma vi prego, se qualcuno vi fa del male non restate con lui. Lei aveva paura ma lo amava, pensava di poterlo cambiare, e infatti i suoi pensieri saranno piuttosto contraddittori a significare il fatto che non era stabile quando pensava quelle cose. Ad ogni modo poi si è resa conto del suo errore, ha capito che anche se lei e il marito si erano amati per molti anni quello non era più amore, ed è questo che io dico a chiunque si trovi in una situazione tragica del genere: l’amore che provate non può essere definito tale, voi meritate di meglio. Meritate qualcuno che vi rispetti, che non vi dimostri il proprio affetto prima picchiandovi e poi chiedendovi perdono e coccolandovi. Quella è violenza. Non posso immaginare quanto sia dura, ma vi prego, per voi stesse e, se ne avete, per i vostri figli, trovate la forza di denunciare. Sarà un inferno, ma ne uscirete più forti di prima.
 
 
 
 
 
 
[Eminem:]
You swore you'd never hit 'em; never do nothing to hurt 'em
Now you're in each other's face spewing venom in your words when you spit them
You push, pull each other's hair, scratch, claw, bit 'em
Throw 'em down, pin 'em
So lost in the moments when you're in them
It's the rage that took over
[…]
[Rihanna:]
Just gonna stand there and watch me burn
Well, that's alright because I like the way it hurts
Just gonna stand there and hear me cry
Well, that's alright because I love the way you lie
I love the way you lie
I love the way you lie
(Eminem ft. Rihanna, Love The Way You Lie)
 
 
 
He was kind and compassionate—until he drank. Then he became a completely different person. That’s when the anger would come out—an anger that was violent and scary.
(Dianna De La Garza, Falling With Wings: A Mother’s Story, CHAPTER EIGHT)
 
Traduzione fatta da me:
Era gentile e compassionevole - finché non beveva. Poi diventava una persona completamente diversa. Era allora che la rabbia emergeva - una rabbia che era violenta e spaventosa.
 
 
 
In that moment—when I refused to acknowledge my husband’s actions, when I excused his behavior, and when I lied for him—my life took a dangerous turn. No longer just a woman in a bad marriage, now I was also a victim—someone who had given away her voice and her power to the very man who had harmed her. Sadly, I was not alone. I’d eventually learn from agencies like the National Coalition Against Domestic Violence that every nine seconds in the US a woman is assaulted or beaten and one in three women are physically abused by an intimate partner. Sadly, the violence often happens in the very place where women should feel safe—at home. And many, like me, never report the accident.
(Dianna De La Garza, Falling With Wings: A Mother’s Story)
 
Traduzione fatta da me:
In quel momento - quando rifiutai di riconoscere le azioni di mio marito, quando scusai il suo comportamento e quando mentii per lui - la mia vita prese una svolta pericolosa. Non più solo una donna in un brutto matrimonio, ora ero una vittima - qualcuno che aveva dato via la propria voce e il proprio potere allo stesso uomo che le aveva fatto del male. Sfortunatamente, non ero sola. Sfortunatamente, avrei imparato da agenzie come la National Coalition Against Domestic Violence che ogni nove secondi una donna viene assalita o picchiata e una ogni tre donne viene abusata fisicamente da un partner. Sfortunatamente, la violenza avviene proprio nel posto dove la donna si dovrebbe sentire sicura - a casa. E molte, come me, non denunciano mai l’accaduto.
 
 
 
Life had slapped me in the face, and my new reality was simply trying to survive.
(Dianna De La Garza, Falling With Wings: A Mother’s Story,)
 
Traduzione fatta da me:
La vita mi aveva presa a schiaffi in faccia, e la mia nuova realtà era semplicemente cercare di sopravvivere.
 
 
 
 
 
 
TEMPESTA E FALSA QUIETE
 
Era un fresco pomeriggio di fine febbraio a Los Angeles, e in una casa nel centro della città un bambino era seduto alla scrivania della sua cameretta a studiare, o perlomeno a provarci. Sbuffò e guardò disperato verso la Play Station che si trovava a metà di quel grande tavolo e che aveva il permesso di accendere solo e soltanto dopo aver finito i compiti.
"Uffa!" esclamò. "Io voglio giocare adesso."
Un lieve bussare lo distrasse.
"Avanti" disse.
La porta era solo appoggiata, non poteva chiuderla se non di notte, e sapeva già chi fosse. Il papà non era a casa, per cui si trattava solo di una persona.
"Come va?"
"Bene mamma, grazie."
"A che punto sei?"
"Quasi finito" disse chinandosi sul quaderno e scribacchiando qualcosa.
"Posso vedere?"
Lui sospirò ma cercò di non farsi sentire, poi spostò il quaderno in modo che potesse controllare. La donna si chinò e, per un momento, i suoi lunghi capelli biondi finirono sopra il foglio. Se li scostò con un rapido gesto.
"Tre più due non fa sei, amore" lo corresse, senza però arrabbiarsi. "Contiamo con le mani insieme?"
E fu così che Joyce si rese conto che il figlio aveva sbagliato tre delle cinque operazioni che la maestra di matematica gli aveva assegnato. Sistemarono tutto insieme e lei provò a farlo ragionare in modo che capisse dove e perché aveva sbagliato, poi controllò il diario e si rese conto che Andrew non aveva altri compiti né per il giorno dopo né per il successivo, almeno per il momento. Una sua caratteristica era che, anche se non gli piaceva studiare, quando ci si metteva faceva compiti fino a terminare anche quelli per i giorni seguenti.
Alzatasi, Joyce andò in bagno, si pettinò e raccolse i suoi capelli biondi, come quelli della figlioletta Carlie, in una coda di cavallo che però non legò con un elastico. La tirò sopra la testa e la fissò con un mollettone in modo che il collo fosse libero e la pelle potesse respirare.
"I tuoi capelli sono tanto belli" le disse una vocina da dietro.
Si girò di scatto e vide il bambino, non si era nemmeno accorta che l'avesse seguita.
"Tesoro, grazie!"
"Perché li hai legati?"
Non solo, ora la mamma stava andando in camera e, dopo aver socchiuso la porta lasciando Andrew fuori, si cambiò i pantaloni della tuta con un paio di jeans e si mise un'altra maglietta dopo essersi rinfrescata.
"Perché," rispose mentre usciva, "dobbiamo andare da delle persone e voglio essere carina. Tu sei a posto così, tranquillo."
"Davvero? Da chi? Da chi?" iniziò a chiedere il piccolo saltellando per il corridoio.
"Fa' piano, Carlie dorme. Tra poco lo vedrai, e sono sicura che sarai felice. Andiamo in salotto, appena lei si sveglia partiamo."
Andrew volò giù per le scale nonostante la mamma gli dicesse sempre di non correre, e si lanciò sul divano; poi si mise composto, dritto e con le mani sulle ginocchia e aspettò.
Carlie si svegliò dopo poco e una volta che l'ebbe cambiata Joyce le scaldò il latte. Purtroppo ne aveva avuto molto poco e, anche se ora la piccola aveva solo cinque mesi, non ne aveva già più. Le era dispiaciuto tanto, ovviamente, dato che era riuscita ad allattare Andrew fino a un anno. Comunque, alla fine aveva dovuto arrendersi e dare alla bambina il latte in polvere. Lei non l'aveva presa molto bene all'inizio, poi però si era abituata.
"Andresti a prendere il biberon per tua sorella?" chiese la mamma al bambino. "È sul tavolo della cucina."
"Sì!" Felice di poter dare una mano, il bambino fece quanto gli era stato chiesto tornando in salotto a testa alta e con un'espressione fiera in volto. "Forse è troppo caldo" azzardò.
"No, tranquillo. Va benissimo così."
"Sicura?"
Joyce sorrise.
Andrew aveva solo sei anni - o quasi sette, come spesso ci teneva a puntualizzare -, ma quando si trattava della sorellina era sempre così attento!
"Sicurissima!"
Ovviamente la donna aveva messo apposta il biberon sul tavolo in modo che lui potesse fare qualcosa e aiutarla.
"Ecco, tieni."
Glielo diede tutto fiero, come se avesse fatto qualcosa di importante.
"Grazie, sei stato bravissimo."
"Ora posso giocare?"
"Ma certo."
E così il bambino corse di sopra a giocare con la Play, finalmente, mentre la donna avvicinò il biberon alla bambina che lo prese subito in bocca.
"Grazie al cielo non è successo niente e sei con me" mormorò, "e stai bene."
Era passato, non doveva più pensarci, ma la gravidanza per lei era stata difficile. Non se l'era goduta come la prima.
Sorrise nel vedere che Carlie succhiava felice.
"Hai tanta fame, eh? Bene, chissà se anche Demi è affamata come te. Dovrò chiederlo a Dianna."
 
 
 
Dei passi pesanti scesero le scale o meglio, i dieci gradini ripidi di quella casetta piccola e vecchia e il legno scricchiolò sotto i piedi dell’uomo. La donna non alzò nemmeno gli occhi. Il marito si era svegliato e si stava dirigendo in cucina. Sembrava più tranquillo, sperò che non accadesse niente quel pomeriggio.
"Perché diavolo non mi hai preparato il caffè?" urlò Patrick, mentre il suo grido rimbombava tra le mura di casa. "Perché?"
Dianna, seduta sul divano a leggere, fece letteralmente un salto. Patrick era andato a letto dopo essere tornato a casa prima dal lavoro quel giorno e si era appena svegliato.
"N-non… non mi avevi detto che lo volevi" rispose lei, continuando a guardarlo negli occhi.
"Lo voglio sempre appena mi sveglio, che sia di mattina, di pomeriggio o di sera, porca troia! Te l'avevo detto, non ricordi? Cazzo, te l'ho ripetuto tante di quelle volte! Ma perché sei tanto deficiente da avere una memoria così breve? Cosa sei, peggio di un pesce rosso?"
Lei deglutì a vuoto. Spesso la ridicolizzava in quello o altri modi, ma ogni volta faceva male e lei non aveva più il coraggio di difendersi, altrimenti sarebbe stato peggio. No, non le pareva che l'avesse mai fatto ma non si azzardò a dirlo.
"Ah, sì ora ricordo, che stupida sono" mormorò.
Doveva cercare di non farsi intimidire troppo, però. In fondo aveva paura, ma non avrebbe dovuto, giusto? Lo amava, lui amava lei, e se le faceva paura era solo perché era lei a sbagliare.
Le si avvicinò e lei non sentì il tanfo di alcol che spesso percepiva quando tornava a casa la notte. Essendo stato al lavoro, l'uomo era sbarbato di fresco e aveva un buon odore di shampoo e schiuma da barba. I lineamenti del suo viso erano dolci, ma gli occhi mandavano lampi. Le avrebbe fatto del male, lo capì da quello sguardo.
"Appunto, te lo sei detto da sola: sei stupida. Sono felice che tu finalmente l'abbia capito. E comunque no, invece. Non te lo ricordi" disse, con voce tranquilla. "Non dirmi bugie, Dianna Lovato."
Alzò una mano e la colpì sulla bocca, non troppo forte ma abbastanza perché lei sentisse dolore alle labbra e ai denti. Li strinse ma peggiorò solo la situazione.
Dianna pesava quarantadue chili, pochissimo, ma da molto tempo scendeva un po' o saliva di poco di peso e diceva a tutti che era così di costituzione e che il suo dottore, dal quale in realtà non andava mai, lo sapeva e che era tutto a posto. Proprio a causa della magrezza provò ancora più dolore. Di solito lui non la picchiava mai in faccia o in zone in cui i lividi avrebbero potuto vedersi. Due volte solo se l'era presa con lei tanto da farle veramente male: la prima due mesi prima che scoprissero di aspettare Demi, quando l’aveva lanciata in aria e lei aveva sbattuto contro una gamba del divano, sentendo la sua mandibola fratturarsi, poco dopo quando lei aveva cercato di scappare le aveva staccato due dita chiudendole la mano in una porta, e ora Dianna era senza una parte dell’anulare mentre il mignolo le era stato riattaccato, e un'altra in cui le aveva spaccato un labbro e il sopracciglio, graffiandole anche il viso. Non ricordava cos'aveva fatto quella volta, ma sapeva che dopo lui se n'era andato e lei si era medicata da sola ed era rimasta in casa per giorni. Non perché lui le impediva di uscire, quello grazie a Dio no, ma perché se l'avesse fatto qualcuno si sarebbe accorto della situazione e avrebbe sospettato di Patrick, forse, e lei non voleva che accadesse.
Ritornò con la mente al presente perché lui le prese i capelli e glieli tirò così forte da farla gemere mentre, proprio grazie a tutta quella forza, le piegava all'indietro la testa e il collo. Anche quelli le dolevano da morire, tanto che la donna credette che le si sarebbero spezzati. In realtà era solo la sua immaginazione: la stretta e la posizione del collo e della testa non erano tali da provocarne la rottura.
"Cosa vuoi che ti dica?" gli domandò flebilmente.
Si sentiva piccolissima sotto il suo sguardo, troppo fragile per reagire.
"Che hai sbagliato e che ti scusi, innanzitutto" ruggì.
"H-ho sbagliato, scusa" rispose, suonando il più convinta possibile altrimenti lui le avrebbe fatto ancora più male.
"Bene. Anzi, abbastanza. Stavolta passa, la prossima dovrai essere più convincente."
“D’accordo” mormorò.
La lasciò andare tanto all'improvviso che alla donna girò la testa e cadde in avanti sul pavimento freddo e duro, facendo in tempo per fortuna a proteggersi il capo. Una fitta lancinante le partiva ora dal collo e le arrivava fino alla zona lombare. Aveva preso una bella botta cadendo anche a causa della magrezza. Sperò che non ci fossero altri danni e che,  nel caso, la pelle sarebbe solo diventata nera per un po’. Le labbra le bruciavano come se avesse avuto la febbre sopra i quaranta gradi, ma per fortuna non erano spaccate né aveva perso alcun dente. Non era mai successo, grazie a Dio, a parte quella volta in cui, però, i suoi denti erano rimasti sani.
"Ora fammi il caffè, senza zucchero e con un liquore a parte a tua scelta. E fa in modo che quella dannata bevanda non sia lunga e sia forte, chiaro?"
"C-certo."
Mentre camminava verso la cucina, Dianna tremava come una foglia. Ma, si ripeté, aveva sbagliato, se l'era meritato e anzi, si stupiva che non avesse fatto di peggio. Si tastò la schiena per capire se il dolore era insopportabile ma no, non lo era. Doveva essere solo una botta. Se fosse stata rotta non sarebbe nemmeno riuscita ad alzarsi probabilmente, né avrebbe dovuto. Fu dura mettere l'acqua nella moca e poi accendere il fuoco. Rischiò di scottarsi tanto le tremavano le mani e non le era mai capitato e mentre lo versava nella tazzina e riempiva il bicchierino con il liquore rischiò di far cadere tutto a terra. Glieli portò entrambi su un piccolo vassoio, appoggiandolo sul divano dove l'uomo era seduto. Patrick bevve tutto mentre lei lo guardava e poi, una volta finito, disse:
"Non era abbastanza forte, maledizione!"
Ebbe la decenza di non urlare sapendo che la loro figlia più piccola dormiva. Dallas era appena uscita dall'asilo e la mamma di un'amichetta era venuta a prenderla lì per portarla a casa loro per qualche ora, almeno non era costretta a vedere tutto questo. Aveva già visto troppo. Patrick urlò e lanciò tutto per terra. Dianna scattò da un lato per non essere colpita dai pezzi di ceramica.
Demi, che dormiva nella loro camera, scoppiò a piangere.
"Te l'avevo fatto più corto possibile" provò a protestare la donna alzando la voce. "Vado dalla bambina."
"Ferma!" le intimò e le si parò davanti. "Stai ferma, cazzo. E non lo era abbastanza" ringhiò, "e non mi contraddire" concluse, scandendo bene ogni singola parola.
"Ho sbagliato, quindi."
Non era una domanda, ma un'affermazione. Commetteva spesso errori con lui, sbagliava anche le cose più stupide o meglio, anni dopo si sarebbe resa conto che Patrick continuava ridicolizzarla per ciò che faceva o per le decisioni che prendeva.
"Come fai spesso, mi pare. Oggi l’hai già fatto due volte, sei davvero una grande. Bel record" concluse ridendo.
"S-scusami" balbettò la donna.
L'aveva fatto stare ancora male, era tutta colpa sua.
"Come hai detto? Parla più forte, non ti sento" disse ridacchiando. "E sai che odio quando balbetti. Non farlo!"
Uno schiaffo sul mento che le fece dolere tutte le ossa della faccia, per fortuna non tanto violento da romperle o fratturarle ma abbastanza da farla strillare come aveva fatto poche volte in vita sua.
"Scusa, non si ripeterà più."
"Per stavolta ti perdono."
Dianna gli girò intorno e corse verso le scale, riuscì a salire e lui la seguì urlando:
"Dove credi di andare, brutta stronza incapace?"
La porta della loro camera era aperta, voleva chiuderla in modo che la bambina sentisse il meno possibile le loro urla e magari entrare e girare la chiave, così da stare al sicuro. Demi piangeva forte, e quando si avvicinò alla porta Dianna incontrò i suoi occhi. Demetria era troppo piccola per leggervi dentro il terrore e la disperazione della mamma, ma di sicuro comprendeva che qualcosa non andava.
"Voglio solo chiudere, lascia che…" provò a dire, ma lui la fermò e la bloccò contro il muro vicino alla stanza. “Non voglio che veda tutto questo!” urlò Dianna ritrovando coraggio. “E se come dici spesso non desideri farle del male, sono sicura che non lo vuoi neanche tu.”
“Sta’ zitta.”
“No, non starò in silenzio! Patrick, le tue figlie continuano a vederti in questo stato e a loro non fa bene.”
Dianna lo capiva, anche se si sarebbe resa conto solo anni dopo dei danni che tutto ciò aveva provocato in particolare a Demi, ma non solo.
“Ti ho detto di stare in silenzio!” Se uno gridava forte, l’altra lo faceva di più e lui aumentava il tono. “Mi ascolti quando ti parlo o sei sorda?”
Dianna era percorsa da brividi gelidi lungo tutto il corpo, aveva caldo e poi sudava freddo e quando lui urlava cercava di non respirare, per paura che potesse arrabbiarsi anche per quello.
Una delle sue mani si abbatté sullo sterno di lei, non le fece male ma le mozzò il fiato per un secondo.
"Non provare mai più a scappare da me, tanto non ci riuscirai" sibilò mentre lei sentiva il suo fiato sul proprio collo. "Vado a vedere Demi."
Lei prese un profondo respiro e cercò di non balbettare.
"D'accordo" riuscì solo a sussurrare.
Farlo entrare in quelle condizioni? Era da pazzi, ma non poteva opporsi o sarebbe stato peggio. Eppure… e se le avesse fatto qualcosa? Non poteva permetterlo. La sua prima reazione fu fare qualche passo in avanti per seguirlo. Temeva che, in quello stato, avrebbe potuto far male alla piccola. Una terribile e continua fitta di dolore le si fece strada nel petto, mista alla paura che le provocava un forte tremore alle mani. Non riusciva nemmeno a tenerle ferme e lo stesso valeva per le gambe, che minacciavano di cedere da un momento all’altro.
"Non le farò niente, stai tranquilla" le assicurò il marito. "Scusami per quello che ho fatto, perdonami, non succederà più" concluse mettendosi in ginocchio e piangendo.
Lo diceva sempre, ma forse quella sarebbe stata davvero l'ultima volta, magari avrebbe deciso di curarsi, di farsi aiutare e sarebbe guarito, non l'avrebbe più ridicolizzata, o sminuita, non le avrebbe messo più le mani addosso, smettendo anche di lanciare oggetti e gridare.
"Ti perdono."
Glielo ripeteva ogni volta. Gli credeva perché lo amava, e poi tutto ricominciava daccapo. Dianna non si rendeva ancora conto che quella situazione doveva finire, che Patrick le stava facendo violenza fisica e psicologica, che quello non era vero amore anche se lo era stato in passato.
L'uomo le si avvicinò e lei, che teneva le braccia incrociate al petto come se avesse voluto difendersi, dopo lunghi momenti di esitazione le aprì piano, pianissimo, e si lasciò stringere. All'inizio rimase immobile, con le braccia penzoloni, mentre cercava di capire cosa provava. Si sentiva sicura nella sua stretta, ma aveva ancora paura ed era oppressa da un forte senso di colpa per questo. E alla fine lo abbracciò a sua volta, con le poche forze che le rimanevano.
L’uomo le si fece ancora più vicino, la puzza di alcol era nauseabonda. Le sfiorò le labbra con le sue e provò ad introdurre la lingua nella sua bocca. Dianna, dopo un momento di indecisione, aprì la bocca e lo baciò a sua volta. Non si sentiva costretta, lo amava ed era normale che quelle cose succedessero in una coppia, ma la paura la paralizzava ancora e all’inizio non aveva saputo cosa fare. Stare tra le sue braccia forti, quelle che l’avevano spinta e schiaffeggiata con violenza, adesso le sembrava la cosa più bella del mondo. Si sentiva protetta e al sicuro.
"Vado dalla bambina, allora" disse lui lasciandola.
La sua voce era ancora alterata, Dianna vi lesse una punta di rabbia, ma i suoi occhi erano diversi, sinceri e dolci, di una dolcezza che non gli vedeva spesso in quelle situazioni.
La donna tornò di sotto e in velocità raccolse i vetri con una paletta e li gettò via, ripromettendosi di spazzare il prima possibile e di usare l'aspirapolvere. Mentre lo faceva il terrore tornò con prepotenza e soppresse qualunque emozione positiva. Le scese qualche, silenziosa lacrima, ma da poche e rare quelle gocce salate piene di dolore e paura si trasformarono presto in un'abbondante pioggia che lei iniziò a coprire con le mani. Non doveva farsi vedere mentre piangeva davanti a lui. Non lo faceva quasi mai, ma quando lei sbagliava e lui la spaventava, o nel momento in cui tornava a casa ubriaco e impazziva, a volte lei non resisteva. Adesso tremava più di prima, aveva ancora più paura. Poteva sentire l’odore del terrore riempirle le narici. Un odore metallico e nauseabondo come quello del sangue, ma questo era ancora peggiore.
Dianna raggiunse in fretta il marito in camera. La piccola, che adesso aveva sei mesi, si era calmata. La stanza era piccola, il loro letto, quello della bambina e un armadio ci stavano appena. Lì tutto era minuscolo e vecchio. Lei sapeva che il marito amava entrambe le loro figlie con tutto il cuore e che non avrebbe mai torto loro un capello. A volte temeva che sarebbe potuto accadere ma erano solo pensieri che faceva nei giorni più bui, non erano vere e proprie paure. Non sarebbe mai arrivato a tanto, era impossibile. Fece un piccolo cenno di diniego per scacciare quei pensieri dalla mente. Tuttavia la paura ebbe il sopravvento sulla ragione e si mise davanti alla culla. Stava letteralmente separando la bambina e Patrick con il suo corpo. Demi non si era calmata del tutto, si lamentava ancora.
"Voglio solo prenderla in braccio, Dianna. Te lo giuro!" esclamò l'uomo.
Lei si stupì: credeva che l'avrebbe spinta da una parte o che le avrebbe tirato ancora i capelli, ma non era accaduto. Forse la crisi di rabbia era passata. Dopo un momento di esitazione e con il respiro praticamente bloccato la donna si spostò. Demi le sorrise e il suo piccolo volto si illuminò ma, appena il padre le si avvicinò, quella luce nei suoi occhi si spense un po'. Forse aveva già dimenticato le sue urla, forse no, ma di certo percepiva tensione nell'aria.
"Ciao, piccolina" mormorò Pat mentre la prendeva in braccio.
Lei gli sorrise.
"Non saluti papà? Non gli dici niente?"
In quel momento sembrava un'altra persona rispetto a poco prima.
"Da" mormorò lei dopo un po'.
"Be', è già qualcosa."
Patrick passò qualche minuto a coccolarla, baciarla e sussurrarle parole dolci. La amava davvero tantissimo, su questo Dianna non aveva alcun dubbio. Ma non era molto presente né per lei né per Dallas, e lei non riusciva ad accettarlo. Se voleva tutto quel bene alle loro figlie, perché non passava più tempo con le piccole? Perché tornato dal lavoro ci giocava e poi la notte rientrava a casa ubriaco e strafatto, o a volte si presentava così anche quando rincasava?
"Devo andare, tesoro. Torno tra qualche giorno. Papà ti vuole bene, ricordalo" le disse prima di rimetterla nella culla.
"Vai via, amore?" gli domandò la moglie.
"Sì, per lavoro. Devo fare una cosa in un'azienda fuori città, starò via fino a mercoledì."
Era venerdì.
"Perché parti oggi se cominci lunedì?"
"Per vedere il posto, ambientarmi un attimo."
"Capisco, e quando me l'avresti detto?" azzardò lei, cercando di non essere troppo brusca.
Non voleva farlo arrabbiare, ma non sopportava nemmeno che non le dicesse che sarebbe stato via più di un giorno, e fuori città poi.
"Te lo sto dicendo adesso!" la attaccò.
Ecco, era tornato il Patrick violento di poco prima.
La prese per mano stritolandole le dita e la trascinò letteralmente fuori dalla stanza, poi la inchiodò di nuovo al muro prendendole i polsi e stringendoli fino a  strapparle un piccolo gemito ma non così tanto da provocare danni.
"Vedrà tutto, andiamo giù!" lo pregò, ma lui non ascoltò.
Intanto, Demi si lamentava.
"Sono io a decidere cosa si fa o no e dove si va o no, chiaro? E non ti azzardare mai più a tenermi lontano da mia figlia" sibilò, mentre le metteva un dito sopra l'altro e glieli tirava.
"Se le farai del male…"
"Ti ho detto che non sarà così."
Le mise un dito fra le costole e premette tanto che Dianna perse il respiro. Un altro schiaffo forte, stavolta su uno zigomo, così vicino all'occhio che anche questo bruciò e sembrò schizzarle fuori. Le sembrava che vi ardesse dentro il fuoco dell'inferno.  E un seguente sull'altra guancia, più doloroso dei precedenti, che le fece uscire un lungo grido di dolore e che prontamente coprì mettendosi una mano sulla bocca.
"Ti ucciderò", era questa la conclusione della frase. Ma non la disse mai.
La bambina aveva sentito quei rumori e il suono prodotto dalla mamma e adesso muoveva freneticamente le manine e le gambe mentre strepitava e strepitava. A Dianna si spezzò il cuore. Ma non era la prima volta che Demi assisteva a scene del genere e non sarebbe stata, purtroppo, nemmeno l'ultima.
"Con chi starai in questi giorni? Vedrai qualcuno?" le chiese, con gli occhi che mandavano lampi.
"Joyce, la nostra vicina. Siamo amiche da molto tempo, lo sai. Suo marito Frank parla spesso anche con te, sono persone affidabili."
"Non mentirmi. Chi cazzo vedrai?" urlò Patrick.
"J-Joyce" ripeté la donna tremando. "Lasciami, mi fai male. Mi fai male!" Gridò anche lei, stavolta. Cercò di liberarsi con degli strattoni ma la stretta aumentò. Le pareva che le stesse piantando dei coltelli nei polsi e sentiva le vene pulsare.
“Wow, che grinta” disse Patrick prendendosi gioco di lei.
Dianna tirò ancora, ma invano.
"Hai davvero paura che ti possa tradire?”
“Sì. O forse lo stai già facendo, puttana? Eh, Dianna? Sei una puttana? Dimmelo!”
“Non sono una puttana” disse con voce ferma. Se fosse stata lucida e non si fosse trovata in quella situazione avrebbe anche voluto aggiungere che era un termine offensivo e che lui non avrebbe dovuto chiamare così nessuno, ma aveva troppa paura per pensarci. “Sai che non lo farei mai."
"E perché non lo faresti?"
"Perché ti amo" mormorò flebilmente la donna.
"Ripetilo."
Ora aveva iniziato a spingerla, lei non oppose resistenza tanto sapeva che non sarebbe servito a niente. Sperò, pregò Dio e tutti gli angeli e i santi del cielo che non la buttasse giù per i gradini.
Le mie bambine, pensava, hanno bisogno di me, hanno bisogno della mamma. Ed io devo, voglio vivere per loro.
La sua testa macinava freneticamente ma non riusciva a formare un pensiero coerente, la donna era bloccata tra quelle mani dalla presa d'acciaio che ora sembravano scavarle nei fianchi e non sapeva come muoversi, dove scappare. Provò a dargli un calcio, ma lui lo evitò. Non la gettò sul pavimento come se si fosse trattato di un oggetto e come lei si sarebbe aspettata, invece la prese per i fianchi e la sollevò per poi farla sdraiare a terra. Le si mise sopra a cavalcioni e le premette ancora di più le spalle contro il pavimento freddo. Respirare era difficile.
Dio, ti prego fallo smettere. Fallo smettere!
"Ti amo!" esclamò Dianna con quanta più decisione possibile e non facendo tremare la voce. "Non ti tradirei mai perché ti ho sposato e ti amo con tutto il mio cuore."
Credeva che in questo modo l'avrebbe lasciata andare. Così fu. Aspettò che si alzasse a fatica, poi avvicinò il suo viso a quello di lei e sussurrò:
"Provaci, e giuro che ve la farò pagare molto cara. A te e a quell’ipotetico bastardo figlio di puttana. Chiaro?"
"C-chiaro."
"A mercoledì" disse Patrick.
Scese le scale, sbatté la porta con veemenza, salì in auto e se ne andò.
Quando la moglie sentì che si era allontanato si tirò su a fatica gemendo per la sofferenza. Andò in camera e, nonostante Demi piangesse ancora, tirò un urlo lacerante che coprì con un cuscino per non spaventare nessuna delle persone che avrebbero potuto sentirlo.
"Scu-scusami" disse poi avvicinandosi al lettino. "È successo tutto per colpa mia, come sempre." Prese in braccio la bambina e se la strinse al cuore cercando di calmarla con una ninnananna, anche se tra il tremore e i singhiozzi non le uscì affatto bene. "La tua mamma è un disastro" continuò. "Fa un casino dietro l'altro. Ma ama tanto te e Dallas e non permetterà che vi accada nulla, capito?"
Cullata dai lenti passi della madre e dalla sua voce che, anche se tremante, era dolce, Demi si calmò definitivamente. Allungò una manina e le toccò il viso, provocandole un piccolo gemito, poi la guardò con un'espressione che Dianna non riuscì a decifrare. Curiosità, forse, per dei segni che non aveva mai visto così da vicino, e la cosa fece sì che la donna versasse ancora più lacrime.
"Non è niente" disse. "Adesso mi sistemo e passa."
"Baba" mormorò la bambina.
A sei mesi, Dianna ormai lo sapeva, i bambini iniziano la fase della lallazione, benché alcuni possano farlo già a quattro e continuano anche dopo. Era bello udire le sue prime sillabe, pensò mentre le dava un bacio.
"Esatto, niente."
La rimise nel lettino, poi sempre piangendo andò in bagno, si guardò allo specchio e si fece schifo: era rossa in viso, aveva alcuni graffi profondi sulle guance e i capelli scompigliati che secchi, sembravano paglia. Ma più che altro soffriva, sia fisicamente che soprattutto dentro, perché lui la feriva e poi la curava con i baci e gli abbracci per farle di nuovo del male e riaprirle le ferite della sua anima, ancora e ancora. I danni causati da quella sfuriata non erano gravi, si disse, aveva le guance più rosse del fuoco ma se Dio avesse voluto non si sarebbe formato nessun livido. Il dolore alla schiena si sarebbe protratto per diverso tempo, ma aveva passato di peggio. Sentiva ancora le sue mani grandi abbattersi con violenza su di lei e ora sì, si concesse di tremare in modo incontrollabile e piangere un po'. Appena le lacrime cominciarono a scendere la donna sentì un dolore così forte alla testa che le venne la tentazione di batterla sul muro, anche se così avrebbe fatto ancora più male. Andò in cucina e stava per prendere due antidolorifici, ricordandosi subito dopo che sarebbe stato meglio di no visto che stava allattando. Per non danneggiare la salute di Demi o non fermare la produzione di latte lasciò perdere e si massaggiò le tempie, si mise anche una salvietta con dell'acqua fredda in quel punto e questo le diede un po' di sollievo anche se non tanto quanto aveva sperato. Mise le mani dietro la schiena e toccò fino a dove riusciva ad arrivare. Certi punti erano più caldi di altri e facevano male, ma non quanto si aspettava. Quando provò a piegarsi, però, riempì la stanza con un forte gemito. Tirò fuori del ghiaccio dal congelatore e se lo mise al centro della schiena, dove faceva più male, rimanendo poi sdraiata sul divano a pancia in su per diverso tempo. Piano piano provò sollievo e ringraziò mentalmente quel freddo, le parve anche di cominciare a respirare meglio, poi rimise via tutto. Dopo essersi data un'altra sciacquata al viso la donna salì di sopra e, dato che Demi si era appisolata, andò a farsi una doccia. Con l’acqua calda sperava di lavare via lo sporco che sentiva dentro per aver commesso tutti quegli errori con lui, unito al senso di colpa. Ma i ricordi di quanto accaduto fecero sì che, senza accorgersene, grattasse il suo corpo così come la testa più forte di quanto avrebbe dovuto. Quei gesti non la aiutarono a stare meglio, ma almeno ora era un po’ presentabile. Una volta rivestita e con i capelli asciutti, si stampò un finto sorriso in faccia. Era tutto a posto, lui la amava, lei anche, aveva sbagliato e l'aveva punita, andava bene così, se lo meritava. Era questo che continuava a dirsi.
Vide che alla bambina, che si era di nuovo svegliata, era caduto il ciuccio sul cuscino e glielo diede, ma Demi lo sputò.
"Non lo vuoi? D'accordo."
Lo mise nella scatolina che teneva vicino al comodino e poi se lo infilò in tasca per portarlo di sotto nel caso le fosse servito più tardi. Dopo averle cambiato il pannolino e averle messo una tutina al posto del pigiama, la allattò.
"Che ne dici se andiamo a fare una passeggiata solo io e te?" le chiese una volta finito.
In quel momento era la propria casa, e non l’esterno, a terrorizzarla. Forse uscire e andare in un posto isolato le avrebbe fatto bene in qualche modo.
La bambina sorrise e la donna lo prese come un sì. Prima di partire però fece una telefonata.
"Dianna, ciao! Quando arrivi?" le chiese Joyce.
Sentire la voce dell’amica la fece quasi piangere per il sollievo. Joyce non le avrebbe mai fatto male.
"Cara, mi dispiace ma non riesco a venire oggi." E ora cosa si inventava? "Non sto tanto bene, ho un fortissimo mal di testa e non mi passa con niente."
Il che era una mezza verità, ma la sua voce era roca e aveva tremato, in più le scendevano ancora alcune lacrime e molte altre si stavano asciugando.
"Oh, mi dispiace. Tra l'altro stai allattando per cui non puoi nemmeno prendere farmaci."
"Già, pensavo di andare a fare una passeggiata per vedere se mi passa. Potresti venire domani?"
La sua voce tremò più forte mentre diceva quelle frasi. Sapeva che era una mezza verità e nonostante fosse abituata a mentire, ciò non significava che non le facesse male.
Dirle di non venire sarebbe stato motivo di sospetti. Non aveva voglia di vedere nessuno ma avrebbe dovuto fare uno sforzo sovrumano per sembrare normale.
"D'accordo, nessun problema. Ma sei sicura che vada tutto bene? Hai litigato con Patrick, per caso?"
"Litigato?” chiese alzando un po’ la voce. “No, no! È da mesi che non succede più. Va tutto a meraviglia fra noi, non preoccuparti."
La donna sembrò convinta.
"Va bene" disse, "ci vediamo domani. E sappi che se hai bisogno, per qualsiasi cosa io ci sono."
"Lo so, grazie."
Joyce e Dianna erano amiche fin da quando lei si era sposata con Patrick ed era andata a vivere lì. Si erano incontrate un giorno mentre entrambe stavano andando a fare la spesa. Era il 1984 e da allora non si erano più lasciate. Anzi, la loro amicizia era cresciuta sempre di più ogni giorno.
Dopo aver messo la bambina nel passeggino per un momento, Dianna mormorò:
"Devo andare a fare una cosa. Torno subito e poi usciamo. Fai la brava, va bene?"
Ricevette un dolce sorriso e "Ahh ah ah" come risposta.
Andò in bagno e cominciò a lavarsi ancora più e più volte, anche con il sapone, piano altrimenti i segni lasciati dal marito le facevano male. Prima le era finito dello shampoo sul viso e aveva quasi gridato per il bruciore. Si guardava e poi si sciacquava quasi ossessivamente, ma come avrebbe potuto essere altrimenti? La sua anima era a pezzi, si sentiva sporca come se avesse fatto qualcosa di male, pensava di esserselo meritato e si faceva sempre più schifo ogni volta che lui la ridicolizzava o nei pochi momenti come quello in cui le metteva le mani addosso. Il passeggino era vicino al bagno, Dianna l'aveva messo lì nel caso Demi avesse avuto bisogno di qualcosa, così sarebbe corsa immediatamente anziché andare in salotto o in cucina, ma ora se ne pentiva. La bambina la stava, ovviamente, guardando. Sorrideva, allungava le manine verso la mamma, muoveva i piedini e le gambe per quanto le era possibile.
Sta vedendo tutto pensò con orrore, sta vedendo tutto questo rossore e i graffi, forse. Chissà cosa pensa. La fortuna è che è ancora troppo piccola per capire.
"Piccola mia" riuscì solo a mormorare tra le lacrime.
Demi intanto continuava a muoversi e a produrre suoni che, anche in quella situazione così drammatica e tragica, riuscivano ogni tanto a strappare un lieve sorriso alla donna. Sorridere le faceva male alla faccia, ma si sforzò di non dare a vedere niente.
E un'altra fortuna, se si poteva definire tale, era che aveva segni rossi ma non lividi, o almeno non ancora. Era meglio coprirli subito. Si sarebbe vergognata troppo a farsi vedere in quel modo, non voleva spezzarsi ancora di più. Mentre applicava il correttore sul mento, sulle guance e sugli zigomi per coprire anche i graffi, delicatamente altrimenti le dolevano, pensava che ci sarebbero stati dei segni che niente e nessuno avrebbe potuto mai lavare via: quelli della sua anima. Erano più neri del nero stesso. Eppure lei doveva e voleva restare, era giusto così perché era innamorata.
Dopo più di un'ora passata a guardarsi, lavarsi e usare il correttore mentre piangeva, la donna si decise ad allontanarsi dal lavandino dopo essersi osservata per l'ennesima volta allo specchio: era a posto, non si vedeva niente. Nessuno avrebbe mai saputo. Di dirlo a Joyce non ne aveva la minima intenzione e nemmeno alla sua famiglia: sarebbe stato troppo umiliante. Avrebbe dovuto convivere con quel segreto per sempre. Ora doveva solo sforzarsi di sorridere e parlare senza mostrare dolore. Di positivo c'era che la sofferenza non era così forte da farla sospettare di avere qualcosa di rotto, né era uscito sangue. In fondo erano stati schiaffi, non pugni, anche se questo non diminuiva il dolore psicologico che ciò le provocava.
Dopo aver messo una giacca leggera alla bambina - era febbraio ma a Los Angeles non faceva freddo - uscì. Camminò per non seppe nemmeno lei quanto. Non guardò nessuno, tenne sempre gli occhi bassi e non salutò le poche persone che si rivolsero a lei. Attraversò un parco giochi dove spesso andava con Dallas e  in cui aveva portato anche Demetria per farla stare all'aria aperta. C'erano molti bambini con le mamme o le nonne e Dianna ne conosceva parecchie. Loro la riconobbero, la salutarono, la chiamarono, ma lei non rispose mai. Tenne ancora una volta gli occhi bassi, domandandosi cos'avrebbe risposto se qualcuno avesse visto un graffio o un segno. Non aveva né un cane né un gatto, quindi?
“Stavo giocando in giardino con Dallas, sono caduta mentre correvo lungo il vialetto e questo è il risultato.”
Poteva andare, anche se non le piaceva molto. Ci avrebbero creduto?
Procedere a piedi con tutto quel traffico cittadino non era facile, ma riuscì ad arrivare in un altro parco in cui generalmente non c'era nessuno. Non c'erano giostrine, soltanto alcune panchine sotto degli alberi, per cui era insolito che ci venissero dei bambini. Generalmente ci passava la gente con il proprio cane, o ci venivano alcuni anziani. In quel momento però non c'era nessuno. La donna si sedette sotto un albero, non stette lì a riconoscere quale, e girò il passeggino verso di sé.
"Visto?" chiese con dolcezza. "Abbiamo trovato un posto in cui stare sole. Per fortuna."
Mormorò quelle ultime due parole come se volesse che Demi non le sentisse.
Solo da pochi giorni aveva messo la bambina lì e non più nella carrozzina. Lo schienale del passeggino era reclinabile: in questo modo anche se non riusciva ancora a stare dritta per più di qualche secondo non doveva sforzarsi troppo e poteva stare comoda.
"Aaaaah!"
Demi tirò un urletto e poi sorrise allungando le manine verso l'albero.
"Sì, sono le foglie che si muovono, tesoro" le disse la mamma. "Senti che il vento le spinge? Fanno un fruscio bellissimo: sssh, sssh" fece per cercare di riprodurlo.
Demetria era tenerissima quando si sforzava di avvicinarsi il più possibile a loro per prenderle, ma falliva perché non era abbastanza grande.
"Ecco, tieni."
Forse non avrebbe dovuto, ma gliene diede una in mano perché sentisse com'era fatta e la osservò con attenzione perché avrebbe potuto metterla in bocca. Fu quello che cercò di fare e la donna le allontanò subito le manine dalle labbra.
"No, non si mette in bocca."
La foglia era gialla ma non del tutto secca, quindi la bambina riusciva a passarsela da una manina all'altra senza romperla. La guardava con curiosità e attenzione. Ad attirarla forse era il colore giallognolo, dato che i bambini della sua età sono ancora molto attratti dal rosso e dal giallo.
Demi, allora, riuscì a strapparla più o meno a metà e, approfittando di un momento di distrazione della mamma che guardò il cielo, provò ad infilarsene in bocca un pezzo.
“Demetria Devonne Lovato, no!”
Le bloccò il braccio e gliela tolse di mano ma riuscì a calmare subito la piccola, la fece distrarre perché guardarono insieme un passero che volava via lontano, chissà dove.
Dianna sorrise ancora ma il sorriso si spense piano piano. La verità era che, per quanto amasse Patrick, dopo che lui la ridicolizzava o la picchiava lei si sentiva sempre una nullità, un essere senza più niente, capace di provare solo un sentimento: il dolore unito al senso di colpa per aver sbagliato ancora una volta. Se non ci fossero state le sue bambine con lei, Dianna non sapeva quello che avrebbe fatto e non voleva nemmeno pensarci. A volte avrebbe voluto essere anche lei come  quel passero, chissà forse scappava da un gatto che voleva fargli del male, ma lei lo amava troppo per andarsene.
Quando Demi alzò le braccine per essere presa in braccio, Dianna la sollevò senza dire niente né sorridere in adorazione come faceva di solito. Se la mise sulle gambe e la guardò mentre appoggiava la testina alla sua spalla, poi rimase immobile e silenziosa. I suoi occhi erano persi nel vuoto mentre la bambina si guardava intorno e riproduceva diversi suoni. Se fosse stata più lucida, Dianna avrebbe sicuramente sorriso di fronte alla curiosità della piccola che alzava gli occhietti ogni volta che vedeva volare un insetto o che le foglie si muovevano, o che sollevava la testa quando un uccellino passava di lì. L'aveva fatto con Dallas, ma anche con Demi non finiva mai di stupirsi.
"Brrr, mmmbrrr, mmmbrrr, brrr" fece, poi iniziò a giocare con i capelli della mamma, non tirandoli ma mettendoci le manine in mezzo.
La donna non l'avrebbe mai creduto possibile, ma quei versi e tale gesto la fecero ridere anche se solo per un momento. Dopo aver asciugato la saliva che era colata sul mento della figlia, decise di restare lì solo qualche altro minuto. Iniziava a fare più freddo. La panchina scricchiolò e Demetria lanciò un urletto ma si calmò subito. La mamma fece appena in tempo a metterla nel passeggino e ad iniziare a spingere che le squillò il cellulare. Aprì la borsa e lo tirò fuori. Si trattava di un telefono grande, con la tastiera come quella di un cordless. La aprì e premette sul tasto di risposta.
"Pronto?"
"Con chi cazzo sei? E dove?"
Patrick. Non aveva guardato il nome sullo schermo. Si fermò. Spingere e tenere in mano quel cellulare così grande era difficile. Pensò anche che, vista la loro situazione economica non proprio rosea, forse avrebbe dovuto venderlo, ma per ora non era necessario.
"Sono al parco. Siamo io e Demi da sole" rispose con voce ferma.
“Mi stai dicendo la verità o mi prendi per il culo? Guarda che se scopro che mi hai detto una bugia non ho idea di cosa ti farò."
"Ti giuro su quello che vuoi che è vero. Non ho visto nessuno e ho parlato solo con Joyce al telefono. Verrà a trovarmi domani."
Avrebbe voluto chiedergli se era già arrivato, cosa di cui dubitava, e come faceva a chiamarla se era in aereo, ma non osò. Sapeva che le avrebbe risposto una cosa come:
"Non sei nella posizione di fare domande."
O peggio. Quando era  tanto arrabbiato si comportava così. Nei momenti nei quali, invece, era dolce era del tutto diverso.
"Va bene. Ti chiamo domani sera o forse dopodomani. Ti amo!"
"Anch'io ti amo" gli rispose, poi aspettò che fosse lui a chiudere la chiamata.
Dopo aver rimesso a posto il telefono, senza nemmeno rendersene conto iniziò a correre mentre le lacrime le rigavano il viso, entravano nei graffi e bruciavano. Tutti i suoi sensi erano in allerta. Sulla strada  ogni voce maschile le sembrava quella di lui, le pareva di sentire il suo fiato sul collo, le sue mani sul proprio corpo mentre la stava per picchiare. Riusciva a trattenersi a stento dal gridare per non allarmare nessuno. Non voleva apparire pazza, temeva che se avesse dato di matto le avrebbero portato via la bambina. Con tutti i sensi in allerta continuava a macinare metri e metri. Piangeva ma si era coperta il viso con i capelli sperando che nessuno lo notasse. Ad un occhio esterno appariva come una donna con un bambino che chissà come mai aveva molta fretta. Lei lo amava così tanto, eppure lui riusciva a terrorizzarla anche quando era lontano. E se invece fosse tornato indietro e l'avesse trovato a casa? E se le avesse fatto di nuovo del male? Era sicuro tornarci o sarebbe stato meglio nascondersi da qualche parte? Ma dove? Non aveva nessun posto in cui andare senza destare sospetti. Certo avrebbe potuto cercarsi una stanza d'albergo almeno per qualche giorno, ma era sicura che lui prima o poi l'avrebbe trovata. Rientrare a casa era l'unica soluzione. Attirata dalla velocità, Demi urlava e rideva un sacco. Non si rendeva conto della drammaticità della situazione, non capiva che la mamma aveva paura e che aveva pensato di scappare perché il papà era cattivo. L'avrebbe scoperto molto tempo dopo.
Tenere il passeggino e correre non era semplice, spesso perdeva il fiato e doveva fermarsi ma allo stesso tempo avrebbe voluto continuare ad andare. Le parole di lui le riecheggiavano ancora nella testa. Non vedeva l'ora di andare a casa, in un posto dove sentirsi al sicuro almeno quando lui era dolce o nei momenti nei quali era via.
"Ah, ah, ah!" continuava a ripetere Demi, battendo le manine sui bordi del passeggino e poi l'una contro l'altra.
Quando la mamma si fermò di botto la bambina la guardò un po' confusa, ma capendo che non era successo niente ricominciò a ridere. Chiusasi in casa, Dianna corse d’istinto a chiudere tutte le imposte tenendo la bambina con una mano. Non fu facile ma ci riuscì, e una volta al buio tornò in salotto. Conosceva quella casa palmo a palmo, per lei non era un problema non vedere niente o quasi, ma una volta lì accese una luce.
“Ecco, così nessuno ci disturberà” disse, quasi senza fiato.
Il sorriso di Demi si spense non appena  incontrò gli occhi pieni di lacrime della madre. La bambina divenne triste e lo fece notare con un silenzio che non era da lei, seguito poi da alcuni suoni e un principio di pianto. Dianna rimase ferma dov’era e non fece niente, continuò a fissare un punto indefinito della stanza con i sensi sempre in allerta, almeno fino a quando i lamenti di Demi non si trasformarono in un pianto disperato.
 
 
 
Joyce aveva visto Dianna rincasare, probabilmente dalla sua passeggiata, e poi uscire di nuovo per tornare con Dallas. Sembrava che stesse bene e questo l'aveva tranquillizzata.
"Non so che cosa le è successo oggi" disse al marito quella sera dopo cena, mentre Andrew era davanti alla televisione immerso in una partita di football americano. "Sembrava stanca."
"Appunto, vedrai che sarà stato solo questo. Non preoccuparti" le rispose l'uomo con dolcezza, poi le accarezzò i lunghi capelli e le circondò con un braccio la vita magra.
"Ha detto che lei e Patrick non litigano da mesi."
"E tu non le credi?" le chiese con la sua voce calda e profonda.
"Non so. Vorrei ma… mi ha sempre detto che discutevano per una questione di soldi, perché lui perdeva spesso il lavoro e cose così, ma prima stavano ad Albuquerque e non potevo vederli. Ora che invece sono qui, effettivamente non li sento praticamente mai discutere."
"Ma sei comunque preoccupata" concluse lui per lei.
"Un po'. Faccio male secondo te?"
Gli occhi dell'uomo, verdi come quelli del figlio, si fecero serissimi per un momento, talmente tanto che sua moglie quasi si spaventò.
"Potresti parlarle e vedere se si apre un po' di più, ma non forzarla. Se non se la sente dobbiamo darle i suoi tempi."
"Hai ragione, potrebbe allontanarsi da me altrimenti e non è questo che voglio. A te Patrick ha detto qualcosa?"
"Oggi l'ho incontrato e mi ha spiegato che stava partendo per qualche giorno per lavorare in un'azienda fuori città."
"Ah."
Nessuno dei due pensava che la loro situazione fosse grave. Patrick non si era mai fatto vedere dalla coppia ubriaco o drogato, dava di sé l'immagine di un marito impegnatissimo ma abbastanza presente, a volte nervoso o stressato o stanco o, anche quando era via, Dianna lo dipingeva in quel modo. Se Joyce e Frank avessero saputo, all'inizio non ci avrebbero creduto e poi sarebbero rimasti sconvolti dicendo in seguito alla donna di farsi aiutare, cosa che avrebbero fatto diversi anni dopo quando ne sarebbero venuti a conoscenza. Ora pensavano che i Lovato fossero una coppia con alcuni problemi ma che si amava tantissimo e con due figlie stupende. Insomma, quattro persone felici nonostante i problemi economici.
Carlie, in braccio alla mamma, giocava con un sonaglino che prendeva in mano, portava alla bocca e poi rimetteva sulle sue gambette.
"Ti piace stare con la mamma, vero?" le chiese il papà accarezzandole i capelli soffici.
La piccola gli sorrise.
"Chi preferisci dei due?"
"Dai, non chiederglielo!" protestò prontamente Joyce. "Le metti ansia."
"Scherzavo."
Detto questo fece il solletico ai fianchi alla bambina, che gridò e rise buttando le braccia di qua e di là.
"È come te, anche tu lì lo soffri tantissimo" osservò l'uomo.
"Già, e non osare provare a farmelo."
Lo minacciò puntandogli un dito contro.
"Sto lontano, giuro."
"Papà!"
Andrew aveva spento la televisione ed era corso in cucina urlando.
"Non c'è bisogno di gridare così. Dimmi."
"Perché non sono potuto andare da Demi con la mamma e Carlie, oggi?"
"Te l'ha detto: Dianna era stanca."
"E perché?"
"Ha anche lei due bambini ed è un po' difficile a volte."
"Perché?"
"Lei e suo marito devono fare tante cose, portare un bambino a scuola, occuparsi dell'altro e non possono riposare molto. In più, oggi Patrick era via."
"Perché era via?"
"Per lavoro e tornerà mercoledì. Lei è da sola, con due figlie e fa ancora più fatica. Oggi ha preferito andare a passeggiare perché le diminuisse il dolore, ma sono sicuro che domani potrai vedere Demi. D'accordo?"
"Va bene" disse mentre il suo volto si illuminava.
Non vedeva l'ora. L'aveva vista alcune volte, una delle quali quand'era neonata, e ricordava di essersi stupito di quanto fosse piccola.
"Anch'io ero così piccolo, papà?" aveva domandato a Frank.
"Certo" aveva risposto lui e Andrew era rimasto a bocca aperta.
Ma come facevano i bambini ad essere tanto minuscoli e a venire fuori dalla pancia? Anni prima i suoi genitori gli avevano raccontato che era la cicogna a portarli, ma quando aveva visto sua mamma incinta non ci aveva più creduto.
Joyce e Frank si guardarono e sorrisero. Andrew faceva davvero tante, tante, tantissime domande, soprattutto quei continui "Perché?". Era così da quando aveva cinque anni circa. La sua curiosità non aveva limiti, il che era positivo.
L'uomo prese in braccio Carlie e disse al figlio:
"Guarda cosa faccio ora."
"Oddio, no" mormorò Joyce ridendo. "Devi proprio?"
"Come sempre starò attento, e poi sai che lei si diverte."
"Cosa? Cosa?" chiese il piccolo.
"Adesso te lo mostro." Dato che la piccola riusciva a tenere sollevata la testa, l'uomo la girò con il volto verso la madre e il fratello, mise un braccio tra le sue gambe arrivando a posizionarle una mano sul pancino, mentre l'altro si trovava sulla schiena e la teneva con decisione. Carlie era in posizione prona. "Vola!" esclamò il padre facendo un movimento in avanti con le braccia per poi tirarle subito verso di sé.
Carlie iniziò a fare vocalizzi di diverse tonalità e sorrideva divertita.
"Wow!" esclamò Andrew, che aveva osservato la scena con attenzione.
"Visto? Lo facevo anche con te quand'eri piccolo e ti piaceva tantissimo."
"Papi, verresti a giocare con me con i dinosauri?"
"Ma certo."
Dopo aver ridato la bambina alla moglie, che iniziò a sussurrare con voce dolce "Ma cosa ti fa fare il papà? È matto?", Frank corse in salotto con il figlio.
Andrew prese in mano un collo lungo e lo piegò con il muso sul tappeto facendo finta che stesse brucando l'erba tutto tranquillo. Frank invece scelse un denti aguzzi e lo fece avvicinare, ma appena l'altro lo sentì iniziò a correre. Nella realtà erano entrambi enormi, Frank onestamente era ignorante in materia e non sapeva se i due potessero essere considerati preda e predatore, ma Andrew ne aveva solo altri due, entrambi carnivori. Ne aveva chiesti altri per il suo compleanno, si era preso in anticipo dato che avrebbe compiuto sette anni il 30 aprile. I due si inseguirono per lungo tempo, l'uomo e il bambino fecero i più svariati versi per cercare di emularli, pur sapendo che non ci stavano riuscendo nemmeno lontanamente. Nel frattempo Joyce e Carlie erano venute sul divano ed ora la piccolina, sostenuta da alcuni cuscini e circondata da altri, era seduta lì accanto alla mamma che la controllava. Giocando, Andrew immaginava di essere tornato indietro di milioni di anni, quando la Terra - come aveva studiato a scuola - era completamente diversa da come la conosciamo oggi ed era popolata solo da dinosauri di diverse tipologie e dimensioni. Non sentiva più i versetti della sorellina, la voce della mamma che ogni tanto parlava con il papà né nient'altro. Era talmente immerso nel gioco che era convinto di essere il dinosauro che teneva in mano e sapeva che doveva fare solo una cosa: scappare. Frank lasciò che fosse Andrew a vincere.
"Yay, ho vinto!" esclamò il bambino. "Mi merito dei pop corn?"
"Ce li meritiamo tutti" disse Joyce. "Frank, se tieni d'occhio la piccola vado io a prepararli."
"Sei sicura?"
"Eh, mmm" fece la piccola come per inserirsi nel discorso.
"Sicura."
Frank la aiutava tantissimo, anche quando tornava a casa stanco dal liceo in cui insegnava e doveva preparare delle lezioni si interrompeva per darle una mano, di notte facevano a turno per cambiarla o calmarla e, se Joyce doveva darle il biberon, lui le faceva compagnia e la teneva sveglia. Ora voleva fare lei qualcosa per lui. Più di una volta gli aveva lasciato delle lettere nelle quali lo ringraziava e gli diceva che lo amava o l'aveva fatto a voce, adesso se si trattava di preparare dei semplici popcorn non avrebbe di certo lasciato a lui il compito.
Poco dopo i tre gustarono quelle delizie. La donna fece assaggiare a Carlie un po' di sale, appena appena, tanto per farle sentire il gusto. La bambina ovviamente lo leccò e le piacque molto, tanto che con un breve pianto fece capire di volerne ancora.
"No," le disse la mamma anche se sapeva che non avrebbe capito, "ti fa male. Un'altra volta, okay? E poi fra poco inizieremo con le pappe, sentirai che buone!"
Il pediatra aveva detto di aspettare i sei mesi, come avevano fatto con Andrew.
Quando il bambino ebbe la sorellina in braccio, dopo aver chiesto il permesso, domandò alla mamma se secondo lei Dianna gli avrebbe lasciato tenere Demi.
"Penso di sì, amore. Domani le chiederemo, va bene?"
"D'accordo."
Sperava di sì, perché pur essendo piccolo sapeva già che gli piaceva molto tenere in braccio i bambini.
E così quella serata trascorse tra giochi, cibo e tante risate, in un clima familiare molto più caloroso e sereno di quello dei Lovato.
 
 
 
Quella sera a casa era tutto diverso, Dallas l'aveva capito fin da quando era tornata prima di cena. Il papà non c'era, ma non sarebbe tornato da un momento all'altro, quindi si stava meglio. Le mancava, certo, ma era anche felice perché vedeva che la mamma sorrideva un po'.
Ora erano tutte e tre sul divano, Demi circondata dai cuscini giocava con un peluche di un piccolo scoiattolo marrone, mentre le altre due guardavano la televisione. Si trattava di un programma di cucina in cui, in quel momento, una donna anziana stava preparando una torta. Dallas si stancò presto di osservare, mentre la mamma sembrava molto interessata.
"Perché guardi queste cose e non un film?" le domandò.
"Perché spesso i film rispecchiano la realtà. E non voglio pensarci per qualche ora."
Fu come se la risposta fosse giunta da lontano, quasi che Dianna si trovasse a chilometri di distanza persa in chissà quali pensieri.
"Hai paura del papà quando è cattivo?"
Dallas non aveva capito tanto bene le parole della mamma vista la sua giovane età, ma le sembrava di aver comunque afferrato qualcosa. Sperò di non sbagliarsi.
"Sì" ammise Dianna, anche se generalmente non ne parlavano mai insieme.
"Ti ha fatto male, oggi?"
"Cosa? No! No, che dici? Si è solo un po' arrabbiato perché avevo sbagliato una cosa ma aveva ragione, tutto qui."
La bambina le lanciò uno sguardo dubbioso di cui la donna non si accorse. Credeva che la mamma stesse dicendo una bugia, che il papà le avesse dato uno schiaffo o le avesse urlato contro.
"Anch'io ho paura," avrebbe voluto rispondere, "tanta."
Ma il discorso della mamma le aveva bloccato le parole in gola e preferì lasciarle dove si trovavano. Comunque, se aveva detto una bugia come lei credeva, perché non le si allungava il naso come succedeva a Pinocchio? A lei però non era mai capitato, quindi forse nella realtà non accadeva.
"Posso toccarla?"
Dallas era sempre molto attenta, chiedeva se le era possibile toccare o no la sorellina per paura di farle del male.
"Ma certo. Piano, con dolcezza, come ti dico spesso."
"Starò attentissima."
Le accarezzò la pancia, poi il viso. Si soffermò sulle sue guance morbide e gliele schiacciò piano per non farle male. Demi fece un versetto a metà tra una risata e un urletto divertito, poi prese un dito della sorella nella sua mano.
"Foto, assolutamente. Momento da immortalare" dichiarò Dianna correndo a prendere la macchina fotografica.
Era una scena troppo bella per non essere ricordata.
Lo scatto venne perfetto.
"La aggiungi al libro?" chiese Dallas.
Non ricordava come si dicesse, ma la mamma e il papà stavano preparando da anni un libro che riempivano di loro fotografie.
"Sì, la metterò nell'album, ma prima dovremo andare a farla sviluppare."
"A fare cosa?"
"La fotografia, che ora è solo un'immagine, dev'essere messa su una specie di carta dove poi si potrà vedere. Questo è un lavoro che possono fare solo delle persone esperte, capisci?"
Annuì.
"E quando ci vai?"
"Quando ne avremo ancora un po'."
"Ma io la voglio adesso!"
Dianna avrebbe voluto sgridarla: le aveva insegnato da tempo che non si deve dire "voglio" ma "vorrei" e ci teneva che la sua bambina fosse educata, ma fece una faccetta così carina con quel broncio che non riuscì a far altro se non ridere.
"Lo faremo il più presto possibile, te lo prometto."
"Voglio che viene più grande per giocarci insieme" disse la bambina con un gran sorriso.
"Dovrai aspettare ancora un pochino, ma meno di quanto credi e sono sicura che farete dei giochi bellissimi. Ora però è tardi e bisogna andare a letto, Demi dovrebbe stare già dormendo."
"No, uffa! Voglio stare ancora qui" si lamentò.
"La vedrai domani mattina e rimarrete insieme fino a quando ti porterò all'asilo, come sempre."
Intanto Demi tirava i capelli della sorella e sembrava che la trovasse un'attività molto interessante. A volte batteva le gambette sul divano e cercava di portarsi quelle cose lunghe e morbide alla bocca.
"Ma mamma!"
"Niente "Ma mamma". Ora non lo senti, ma sei stanca e hai bisogno di dormire. Coraggio."
Dallas provò ad insistere ancora ma alla fine si arrese. Dianna la accompagnò in camera e la aiutò a mettersi il pigiamino, le diede la buonanotte e uscì con la più piccola in braccio.
Una volta tornata di sotto le preparò il latte e la guardò mentre mangiava, la ascoltò succhiare e si rilassò udendo quel suono, l'unico che rompeva il silenzio della stanza. Era strano non sentire urla, piatti o bicchieri rotti, né vedere il marito barcollare, sbattere contro i muri o sentirlo parlare in modo strano perché ubriaco o fatto.
Dio, perché non possiamo vivere in pace?
Era più tranquilla rispetto a quel pomeriggio, ma non si sentiva ancora a posto. Il giorno dopo sarebbe andata meglio. Era sempre così. E poi era sicura che Patrick sarebbe tornato il mercoledì successivo e sarebbe stato dolcissimo e affettuoso, magari anche per giorni interi.
"È sempre così," si disse, "lui è buono."
Dopo aver cambiato la bambina e averla messa a letto già addormentata, Dianna si preparò una camomilla per calmarsi un po'. La bevve sprofondata sul divano, ci aveva messo anche del miele per addolcirla di più e se la gustò tutta. Non aveva mangiato molto a cena ma non lo faceva mai, e dopo aveva sentito le voci nella sua testa ma le aveva ignorate anche se era stato tremendamente difficile.
Era strano. A volte si trattava solo di una voce, altre di più persone, ma sempre femmine, ragazze forse, che le dicevano cose orribili ma vere su se stessa. Di solito erano di più quando mangiava troppo per i suoi standard o quando non vomitava per alcuni giorni. Stava cercando di non dimagrire troppo per non fermare la produzione di latte, ma non era semplice.
Riuscì ad addormentarsi, ma prima dovette prendere una coperta di lana dall'armadio e un paio di calzini da un cassetto perché aveva troppo freddo. Le capitava spesso di tremare. Ma andava tutto bene, lei stava bene e non aveva nessun problema, stava benissimo e riusciva a gestire tutto. Se pesava poco era solo perché voleva essere perfetta, ma era giusto così. Lei doveva esserlo a tutti i costi. I tremori però continuarono anche nelle ore successive, non importava quanto si rannicchiasse o in che posizione si mettesse. Quella notte si stava rivelando particolarmente difficile. Provò a fare lunghi respiri profondi, ma anche quello non le risultò facile. Alla fine si sentì talmente stanca che non riuscì a far altro se non chiudere gli occhi e scivolare nell'oscurità. Si svegliò due volte per dar da mangiare a Demi e cambiarla e un altro paio perché si lamentava dato che i dentini iniziavano a spuntare. Le bastò darle un anello da dentizione che teneva in frigo e che aveva preso in farmacia. La piccola si calmò subito e se lo mise ancora più dentro la bocca spingendolo con le manine per godersi il fresco, poi si riaddormentò.
Demi piangeva e Dianna non aveva nessuna intenzione di alzarsi. Fissava il soffitto e non riusciva a pensare a niente, la sua mente non era molto lucida in quel momento. Immaginò di essere su una scala e cadere all'improvviso, o che se avesse preso in braccio la figlia questa le sarebbe scivolata giù rompendosi la testa sul pavimento. Sì, era sicura che sarebbe successo, per cui era meglio lasciare che piangesse un altro po'. E poi, sinceramente, era così stanca che era come se non le interessasse.
Demetria smise per un attimo, poi riprese a piangere in maniera sempre più insistente e quasi arrabbiata,  provando a sedersi sul lettino e chiudendo le manine a pugno.
Quella notte si era girata e rigirata nel sonno, scossa da incubi terribili nei quali Patrick le urlava contro, la picchiava a sangue, le rovinava anche l’altra mano e se la prendeva anche con le bambine. Grazie al cielo tutto ciò non era mai successo, ma quei brutti sogni l’avevano accompagnata per ore intervallati da episodi simili a quello del giorno prima accaduti veramente. Provò ad uscire dalle coperte per andare in bagno ma non ci riuscì, fece dei movimenti grazie ai quali queste le si attorcigliarono intorno e lei cacciò un urlo disumano mentre le pareva che quel tessuto fossero le mani del marito su di lei mentre la inchiodavano al muro o le stringevano i polsi.
"Mamma? Mamma!"
Forse Dallas aveva bussato, se era stato così non se n'era nemmeno accorta. Si lamentò appena.
“Perché hai urlato?” chiese con voce stridula a causa della paura.
“Niente tesoro, un incubo” disse mentre ritornava alla realtà e riusciva a liberarsi. “Scusa se ti ho spaventata e svegliata.”
“No, ero già sveglia. Demi sta piangendo da tanti minuti, non lo senti?"
"Mmm, sì, lo sento."
Ora il pianto si era fatto più straziante.
È anche colpa mia, ancora.
"Ho bussato tante volte e non mi hai sentita. Perché non la aiuti? E non mi prepari la colazione stamattina?"
Aveva la testa ovattata, le sembrava di essere circondata da una nebbia che non se ne andava mai del tutto e che quel giorno era ancora più spessa del solito, ma udendo l’ultima domanda della figlia ricevette una scossa. Balzò in piedi in un attimo, diede un bacio alla bambina più grande e si scusò con lei.
"Non sto tanto bene, oggi. Grazie per avermelo detto."
"Non importa, ti perdono."
Dianna ricacciò indietro le lacrime mentre in gola le si formava un groppo inestricabile.
"Fai schifo come mamma" le disse una voce diversa da tutte le altre, che udiva ogni volta che capitava una situazione del genere. "Sei orribile."
No, io faccio tutto quello che posso pensò. Non credo di essere così orribile. O forse sì?
“Sì, credimi. Io sono l’unica di cui puoi fidarti.”
Ma cerco di dare il massimo!
“Non è abbastanza, fai sempre cagare.”
La donna deglutì.
"Perché fa così?" chiese Dallas ridendo, mentre Demi alzava e abbassava le mani chiuse a pugno e si portava le gambe al petto per poi distenderle.
"Devo cambiarla. Mi dai una mano?"
La bambina annuì vigorosamente. Seguì la mamma, felice di poter aiutare e si sentì grande quando questa le chiese di buttare il pannolino sporco.
Dopo aver dato da mangiare a Demetria, la donna preparò la colazione per sé e per la figlia maggiore.
"Trentaquattro calorie per una tazza di latte scremato e centoundici per i cereali integrali fanno centoquarantacinque" sospirò la donna.
"Cosa stai contando?"
Dallas non riusciva a capire visto che la mamma parlava piano, ma la matematica le piaceva molto e i numeri la interessavano anche se, almeno per il momento, riusciva a contare solo fino al cinque.
"Niente di importante" le rispose, sentendosi già schifosamente grassa nell'ingerire quelle calorie.
Ma doveva fare dei pasti quantomeno decenti, se non altro per la salute di Demi che era piccola, necessitava di molte energie e attenzioni da parte sua e che la mamma fosse almeno un po’ in forze. E poi la stava ancora allattando, doveva tenere in considerazione anche quello.
Una volta scesa dalla macchina per accompagnare Dallas dentro sentì tutti gli sguardi su di sé e le voci che le dicevano:
"Hai mangiato e ora tutti ti guardano. Ecco, vedi? Quelle donne ridono di te, cicciona orrenda."
E lei credeva fermamente in quelle parole, non capiva che era malata, che l'anoressia e la sua testa gliele facevano sentire. Sapeva che le voci erano in lei, ma allo stesso tempo le sembravano persone reali, le uniche alle quali poteva affidarsi e che erano in grado di capirla. Resistette fino a quando accompagnò Dallas nell'edificio, poi uscì correndo con Demi in braccio, la rimise in macchina e sfrecciò via rischiando di perdere il controllo del mezzo mentre le pareva che l’aria nei polnmoni fosse sempre meno, ma cercò di fare dei bei respiri. Non poteva crollare ora, se avesse fatto un incidente e sua figlia si fosse fatta male o peggio non se lo sarebbe mai perdonato, mai. Una volta a casa crollò a sedere sul pavimento e cominciò a respirare con difficoltà. Evitò di guardarsi allo specchio per non sentirsi un mostro più di quanto già non fosse. La testa le girava, tutto era confuso e soprattutto, Dio, non c’era aria in quel posto, ma non aveva la forza di alzarsi e uscire. Demi era nel box, l’aveva messa lì appena entrata.
Sto morendo pensò. È la fine.
Era bloccata, non riusciva a muoversi o a fare niente, né a pensare a qualcosa di diverso, nemmeno di non volersene andare per le figlie. Poi Demi la indicò con un ditino e disse:
“Ma.”
Dianna si stupì che a soli sei mesi fosse riuscita a dire quella sillaba. Di certo non poteva significare “mamma”, ma la aiutò. Quell’attacco di panico passò presto, improvvisamente com’era arrivato. I sorrisi, i gorgogli e le risate della figlia la distrassero in fretta da quei pensieri e ringraziò Dio di non essere sola in quel momento, altrimenti non sapeva cos'avrebbe fatto.
"La mia cucciola!" esclamò alzandosi e avvicinandosi a lei. "Mi dispiace per oggi, davvero."
 
 
 
Quel giorno Andrew era rimasto a casa da scuola perché aveva un forte mal di testa, a cui i genitori avevano creduto perché quella mattina era molto pallido e non era da lui. Dopo aver preso una pastiglia che la mamma gli aveva dato ed essersi riposato un altro po', il bambino scese in salotto dove la madre e la sorella stavano giocando.
"Come ti senti?" gli chiese la donna avvicinandosi a lui.
"Sto meglio, grazie."
"Ne siamo felici, vero Carlie?"
Lei non disse niente.
"Perché non facciamo un dolce per oggi pomeriggio?"
"Sai che è una buona idea? A Dianna farà piacere."
Dopo essere andati a comprare qualche ingrediente, i due cominciarono a lavorare. Quello che scelsero era un dolce semplice da preparare, ma il bimbo si divertì moltissimo a schiacciare i biscotti con una bottiglia fino a ridurli in pezzi, alcuni più grossi e altri più piccoli.
"Quando mi insegni a cucinare qualcosa, mamma?"
"Aspettiamo ancora alcuni anni."
"Perché?"
"Devi diventare un po' più grande, io alla tua età non lo facevo di certo."
"Va bene, ma voglio diventare bravo come te."
"Oh, grazie amore!"
Joyce era sempre felice quando il figlio o il marito si complimentavano con lei per come cucinava, quindi sperò che Carlie sarebbe stata dello stesso avviso.
Dopo il riposino pomeridiano e il pasto della più piccola, i due uscirono di casa e si diressero verso casa Lovato. Le imposte erano quasi tutte chiuse a parte una e Joyce non sapeva se suonare o no il campanello, ma alla fine lo fece.
Si sentì la porta aprirsi e poi Dianna e Dallas comparvero sulla soglia.
"Siete arrivati! Siete arrivati, siete arrivati, siete arrivati!" continuava ad esclamare la prima saltellando.
"Sì, tesoro, ora però apriamo altrimenti non entrano" le disse la mamma.
Dopo che si furono salutati e abbracciati, si accomodarono chi sul divano, chi sulle poltrone.
"Perché porti il maglione, Dianna?" le domandò il bambino.
In realtà la donna indossava anche una canottiera, una maglia a maniche corte e una a maniche lunghe.
"Ho un po' freddo" mentì, dicendosi che quel giorno c'era un vento più fresco del solito e il cielo era nuvoloso, quindi i due avrebbero potuto crederci.
Era in particolare preoccupata che Joyce notasse qualcosa di strano, ma non lo fece e ringraziò il tempo per essere così. Si vestiva in quel modo soprattutto nelle stagioni invernali anche quando non faceva freddo, in primo luogo perché ne aveva comunque e poi perché in quella maniera evitava che qualcuno notasse quanto era magra, o faceva sì  che se ne accorgesse di meno. In primavera ed estate invece cercava di coprirsi di meno ma di non mettersi mai troppo in mostra.
"Abbiamo portato un dolce” disse Joyce che teneva un piatto con una mano, "ma dev'essere messo in frigo."
"Lo faccio subito, grazie. Non dovevate, siete stati gentilissimi."
"Oh figurati, non è stato un problema."
“Sai che il 4 febbraio ho compiuto cinque anni?” chiese Dallas a Joyce, alzandosi sulle punte per sembrare più alta.
“Sì, tesoro. Sono venuta alla tua festa di compleanno, ricordi?”
L’avevano festeggiata di sera loro quattro, Dianna e le bambine. Patrick non c’era. La donna aveva detto che era al lavoro ma non era vero, dato che una volta finito il party era tornato a casa ubriaco e tutto sporco di vomito.
“Ah sì, è vero.”
“Io invece ne compio sette il 30 aprile” ci tenne a far sapere Andrew che poi domandò: "Dov'è Demi?"
Era venuto lì per quello, dal giorno prima non aspettava altro che vederla e adesso iniziava a non avere più pazienza.
"Ti faccio vedere, vieni."
“È da ieri che scalpita” commentò Joyce dalla cucina.
Fu allora che il bambino notò che in ingresso c'era una strana costruzione quadrata e Demi era lì dentro, sdraiata a pancia in giù, che giocava con qualcosa, un peluche probabilmente.
"Mamma, cos'è questo?"
"È il box. Serve per dare ai bambini dell'età di Demi o più grandi un po' di spazio per muoversi da soli e giocare, di solito si usa quando la mamma ha qualcosa da fare."
"Sì, almeno riesco a pulire un po' casa, ma non la faccio mai stare lì troppo tempo. Non voglio che diventi una prigione, ma un luogo di divertimento e infatti a volte mi avvicino e gioco con lei" spiegò la donna, mentre Andrew era sempre più incuriosito.
"E non ce l'abbiamo anche noi?"
"Sì, ma Carlie è un po' piccola. Lo tireremo fuori tra un mese se saprà girarsi sulla  pancia e sarà un po' più autonoma."
La bambina in questione si era riaddormentata e Joyce la rimise nella carrozzina per un po' in modo da avere le mani libere.
Quello strumento era ingombrante, certo, soprattutto per le passeggiate, ma Carlie non riusciva ancora a stare dritta. La ragazza doveva sempre controllare che non facesse movimenti bruschi o non si facesse male, ma non era mai successo niente.
"Posso, Dianna?" chiese Andrew indicando Demi.
"Certo. Avvicinati, toccala pure!"
"Non giochi con me?" chiese Dallas sbuffando.
"Scusa, tra un po' arrivo."
Dopo aver ottenuto il permesso dalla mamma di andare a divertirsi in salotto, la bambina corse nell'altra stanza.
Il piccolo si inginocchiò e allungò le mani fino a toccarle la schiena.
Demi sollevò la testa e i due si guardarono per qualche secondo. Andrew sorrideva e si aspettava che lei facesse lo stesso o che, quantomeno, gli stringesse la mano. Ma non accadeva nulla. Demi aveva girato la testina verso di lui e lo osservava con curiosità ma senza sorridere né fare altro.
"Perché non capisce chi sono?" chiese il bambino alle due donne. "Carlie ride quando mi vede."
"Tua sorella sta con te tutti i giorni" gli spiegò la mamma. "Non vedevamo Demi da qualche settimana. I bimbi così piccoli non riconoscono tutti, nemmeno Carlie lo fa. È solo dai sei mesi, l'età di Demetria, che iniziano a farlo con mamma e papà, ma la tua sorellina ti vede sempre e quindi sa che sei qualcuno di cui si può fidare, ti vuole bene e anche per questa piccolina è così" continuò Joyce, allungando una mano e accarezzandole un piedino.
La bambina lanciò su un lato del box il peluche con cui stava giocando e tornò a concentrarsi su Andrew con più attenzione, mentre tutti e tre ma soprattutto lui aspettavano qualche  altro segnale.
"Eeeh?" disse infine e, per la prima volta, sorrise.
"Aspetta, la metto sul divano così ce l'hai più vicina" gli spiegò Dianna prendendola in braccio.
Una volta seduta e circondata dai soliti cuscini, Demi guardò Andrew che le si era inginocchiato davanti, sul tappeto. Il bambino batté le mani, lei tirò un urletto e poi iniziò a ridere, attirata da uno spaghetto di colore rosso della sua maglia. Andrew rideva con lei, intenerito e divertito allo stesso tempo e mentre la piccola muoveva le manine sulla maglia di lui, il bimbo gliele toccava. Non riusciva a resistere, erano così carine.
"Ha le manine tanto piccole" disse con voce sognante, "come Carlie."
Joyce e Dianna annuirono. Preferivano non dire nulla e lasciare un po' di tempo ai due per conoscersi meglio e interagire.
"Sei bellissima" le disse Andrew sottovoce e lei gli mise un dito sulla bocca, incuriosita forse dal movimento delle labbra.
Lo faceva anche con i suoi genitori o Dallas qualche volta.
Il bambino ricordava benissimo la prima volta che l'aveva incontrata e sapeva che il suo cuoricino aveva battuto fortissimo, ma quelle successive ancora di più. Ora sembrava che stesse per esplodere. Era contento di essere lì, si sentiva bene e non si stava affatto annoiando a rimanere davanti ad una bambina molto più piccola di lui con la quale, ne era consapevole, non avrebbe potuto giocare subito. Anzi, in realtà era tutto il contrario. Era affascinato da lei, dalla sua vocina, dai suoi movimenti, da come lo guardava con quegli occhi curiosi. Gli prese un dito e glielo tirò leggermente, poi lo lasciò andare.
"Cosa voleva fare, Dianna?"
"Sapere come sei fatto. Potrebbe toccarti anche il viso. È normale per i bambini."
"Qualche volta lo fa anche Carlie anche se è più piccola, ma non mi ha mai tirato il dito così."
"Ogni bambino scopre chi gli sta intorno in modo diverso."
Demi si spostò leggermente in avanti, allungando ancora le braccia verso di lui e toccandogli il mento, poi le spostò sugli occhi.
"Ehi, no!" esclamò il bimbo.
Temeva che gliele avrebbe messe dentro ma non accadde.
La piccola ricominciò l'esplorazione e stavolta, visto che Andrew era quasi alla sua altezza, riuscì a toccargli la testa e a tirargli i capelli anche se erano corti.
"Demi, no. Lascialo" intervenne Dianna liberandolo.
"Piccola mocciosa!"
Il bambino si pentì subito di quell'esclamazione, gli aveva fatto male e gli era uscita spontanea, ma non era stato giusto chiamarla in quel modo. Difatti la madre lo sgridò ricordandogli che era più piccola di lui e che non doveva dire parolacce.
"Scusa Demi, mi sei tanto simpatica" le disse e poi si scusò anche con Dianna che gli rispose con dolcezza che non importava.
"Uah" fece la bimba tutt'altro che stanca, prendendo con due dita il labbro superiore del nuovo amico.
Lo lasciò andare subito, poi rise per l'ennesima volta.
"Ma com'è che i bimbi piccoli sono sempre felici?" si chiese Andrew.
"Possiamo andare a mangiare il dolce?" domandò poi.
Dianna rise e Joyce lo rimproverò con tono bonario.
"Andrew, non è casa nostra. Lo faremo quando…"
"Tranquilla, va benissimo" la interruppe l'altra accarezzando il bambino.
Una volta in cucina, Dianna tagliò quattro fette e le mise in dei piatti prima di portarle a tavola, poi versò ai tre un bicchiere di succo d'arancia e a lei dell'acqua.
"Perché hai una fetta così piccola, tesoro?" chiese Joyce all'amica. "Prendo io la tua e ti do la mia, non è giusto che siano tanto diverse."
"Oh, non ti preoccupare. Non ho molta fame, sinceramente."
Quel giorno non aveva vomitato né a colazione né a pranzo e non andava per niente bene, non poteva ingrassare ancora di più altrimenti sarebbe stata imperfetta e forse Patrick allora l'avrebbe ridicolizzata ancora di più, anche se a dire il vero non faceva mai commenti sul suo corpo.
L'altra provò a insistere ma Dianna rifiutò, così alla fine tutti cominciarono a mangiare.
"È buonissimo, Joyce!" esclamò Dallas che poi si rivolse ad Andrew: "Giochi con me dopo la merenda?"
"Sì! Ci divertiremo."
"Evviva!"
Dallas batté le mani per la gioia, poi tornò a concentrarsi sul suo dolce.
Dianna, che aveva messo Demi su un seggiolino attaccato al bordo del tavolo, mangiò e bevve in fretta continuando a pensare
È buonissimo" Ma no, non devo pensarla così, questo è veleno per il mio corpo. Mi farà diventare una grassona schifosa. Quante calorie avrà? Duecento? No, di più. Devo liberarmene velocemente, magari dopo quando non c'è nessuno e Demi dorme potrei fare delle flessioni o dei salti, ma tanti, per cercare di eliminare il più possibile. Sono stanca ma devo, per forza, a costo di svenire.
Aspettò qualche minuto per non destare sospetti e alla fine decretò:
"Vado un attimo in bagno."
Joyce non disse nulla di particolare, dal suo sguardo non lesse nessuna nota d'allarme il che era positivo. Una volta infilatasi dentro, la donna aprì il rubinetto dell'acqua al massimo così da coprire i rumori, poi si chinò sul water e si infilò due dita in gola. All'inizio sentì un sapore acido, ma quando le spinse più a fondo il vomito cominciò a salire. Liberatasi del contenuto del suo stomaco e assicuratasi che nessuno avesse udito, si alzò sentendosi leggera per la prima volta in quel giorno. Finalmente aveva il controllo della situazione. Si alzò, si risciacquò la bocca, si lavò i denti per far sparire l'odore e si guardò allo specchio. Era meno grassa di prima, per ora poteva andar bene.
"Tutto okay?" le chiese Joyce che, seduta sul divano, teneva in braccio Carlie e Demi assieme.
La prima si era svegliata e sorrideva mentre teneva la mano di quella che forse sarebbe diventata una sua amichetta. Avevano praticamente la stessa età, quindi le due donne speravano che sarebbe stato così.
"Sì, perché?"
"Sei stata via un po' e ho sentito l'acqua aperta per diversi minuti."
"Ah sì, mi sono rinfrescata un attimo perché avevo sudato" si giustificò.
Non era il massimo da dire ad un'ospite, anzi, ma era la prima scusa che le era venuta in mente e l'altra ci credette.
"Se non ti sentivi a tuo agio, hai fatto bene."
Dianna aggiunse che non si era cambiata perché i vestiti che ora indossava erano praticamente puliti, li aveva portati solo quella mattina dopo averli stirati il giorno precedente, il che era vero.
Almeno questa non è una balla.
“Ma perché porti anche quella felpa così grossa? Non hai caldo?”
“Senti le mie mani.”
L’altra gliele prese tra le sue con una stretta delicata. Quanto avrebbe voluto che anche quelle di Patrick fossero sempre così, pensò la donna.
“Sei congelata!”
“Visto?”
“Hai misurato la pressione?”
“Sì ed è normale e so cosa stai per dire: sì, sono magra ma non riesco mai ad andare sopra i quarantasei o quarantasette. Il mio dottore dice che comunque sto bene e che non c’è da preoccuparsi.”
“Sicura?”
“Sicura. Mangio regolarmente, sul serio, mi sento bene e non ho la febbre, l’ho  provata prima. La temperatura è un po’ bassa ma niente di allarmante.”
Sorrideva mentre parlava e non lo faceva troppo velocemente per non sembrare agitata.
“Se ci fosse qualcosa che non va me lo diresti?”
“Saresti la prima a saperlo dopo Patrick.”
Si ricordò di aggiungere quelle due ultime parole per non destare sospetti.
“Va bene, ti credo.”
Joyce non aveva nessun motivo per non farlo. Dianna le aveva detto cose sensate, non sembravano scuse e poi era sicura che non le avrebbe mentito. Era attentissima alla salute delle figlie e di chi le stava intorno, come avrebbe potuto non esserlo con la propria?
Dianna era esausta. Tirare fuori ogni volta scuse con Joyce era davvero stancante perché lei tendeva a rendersi conto di quando non stava bene. Per fortuna Patrick le chiedeva molto poco cose del genere.
 
 
 
"Ti faccio vedere le mie bambole" disse Dallas a Andrew.
Mentre le due donne erano sul divano a parlare, lei l'aveva trascinato nella sua cameretta. Aveva dei giocattoli anche in un cesto sul tappeto della sala, ma era difficile parlare e far finta di essere le sue bambole se  c'erano altre persone che discutevano lì intorno.
"D'accordo" disse il bambino, e sinceramente la frase di Dallas non prometteva niente di buono.
Tutta contenta, la piccina ne prese alcune che aveva messo sedute su uno scaffale di una piccola libreria. Era stato il papà a costruirgliela, alta un po' più di lei ma non troppo in modo che riuscisse a prendere ciò che voleva. Era piena di bambole e di libretti per bambini.
"Eccole qui!" trillò.
"Oh, delle Barbie."
Non notando il poco entusiasmo e il breve sbuffo di Andrew l'altra proseguì:
"Sì, che cosa ti aspettavi, bambole di pezza? Quelle sono antiche."
"Giusto, dovevo capirlo. Come si chiamano?"
"Questa Shanti."
Gli mostrò una bambola vestita da indiana e con la carnagione un po' scura, con i capelli legati in una crocchia.
"Mi piace come nome. Sai cosa significa?"
"No."
"Pace."
"Davvero? Ma è bellissimo!"
Lo guardò con occhi attoniti, poi chiese ad Andrew se avrebbe voluto giocare con lei.
"Con la bambola? Come?"
Dallas ne tirò fuori un'altra, stavolta con la pelle, se si poteva definire così, "normale" come disse il bimbo non appena la vide, ovvero di nessun colore diverso dal suo e da  quello della bambina. La piccola disse che si chiamava Jasmine, poi prese due tazzine e due piattini che teneva su un altro ripiano assieme ad altri accessori.
"Ora devi preparare loro il tè, io intanto faccio sedere Jasmine al tavolo."
"Qui non c'è nessun tavolo" ribatté l'altro.
In effetti nella camera c'erano solo un letto e un armadio.
"Ma come? È qui, non lo vedi?" chiese mettendo una mano sul parquet.
Oddio, un tavolo immaginario. Si stava mettendo male, si disse il bambino. Dal tè dove sarebbero andati a finire? Ma per farla felice accettò. Con Shanti in mano, fece finta che questa mettesse le due tazze sul fornello dopo averle riempite d'acqua e aggiungesse la bustina di tè al limone. Nel frattempo Dallas aveva messo a a sedere la Barbie e le aveva posizionato le braccia come se fosse stata appoggiata su qualcosa, la tavola probabilmente, poi mise i piattini e fece finta di posizionarvi di fianco anche dei tovaglioli.
"Il tè è pronto" disse Shanti, ovvero Andrew, dopo qualche altro secondo.
Doveva smettere di pensare a se stesso e calarsi nel personaggio, pensare di essere lei. Se fosse stato un maschio sarebbe stato più facile, ma una femmina… Insomma, bleah! Quale maschio vorrebbe essere una femmina a quell'età nei giochi?
"In così poco? No, ci vuole di più, e poi dovrai aggiungerci lo zucchero" gli fece notare la piccola passandogli una zuccheriera finta con dentro un cucchiaino di plastica.
Lui si mise le mani davanti al volto. Cercava di divertirsi, ma proprio non ci riusciva. Quelli erano giochi da femmine e non capiva perché i maschi dovessero essere costretti a farli, mentre era quasi un'offesa per una bambina chiederle di giocare a calcio, se non in rari casi, o alla Play Station o ad altri.
Una volta che il tè fu pronto e versato nelle tazze, Jasmine e Shanti aspettarono alcuni minuti perché si raffreddasse. Intanto la seconda prese dallo scaffale dei finti biscottini che mise su un altro piatto.
"Oh, non ti dovevi disturbare" disse in fretta Jasmine.
"Invece sì, sei mia ospite."
Andrew doveva ammetterlo, era bello vedere quanto Dallas ci tenesse a quel gioco, tanto da cambiare voce per restare di più nel personaggio.
"Nessun problema, l'ho fatto volentieri."
Anche lui cercò di farlo, ma quella che gli uscì non gli piacque poi molto.
E così le due mangiarono e bevvero complimentandosi l'una con l'altra per la bontà di quei prodotti, anche se non li avevano fatti loro.
"Sai che stasera c'è una festa a casa di Felicity?" domandò Jasmine.
E ora chi sarebbe questa? pensò il bambino, poi si diede mentalmente uno schiaffo.
"Ah sì? Che bello, non vedo l'ora di rivederla!"
Ma che cos'aveva appena detto? Non solo aveva finto di sapere chi fosse quella Barbie, ma si era comportato come se fosse un'amica di vecchia data e, anziché dire che aveva un altro impegno e finirla lì, aveva allungato il gioco. No, non riusciva proprio a staccarsi dalla realtà ed entrare nel personaggio anche se ci era andato vicino.
"Infatti, anch'io. Ci andiamo? Ha  detto che più gente c'è meglio è, ma alla fine ci saranno solo alcune amiche."
"Va bene."
Durante i minuti successivi Andrew dovette cambiare la sua bambola, fare finta di truccarla e farle la treccia, cosa che non avrebbe mai pensato di fare, oltreché sceglierle un vestito per la serata da una scatola di abitini che Dallas gli fece vedere. Se lui sorrideva per farla felice ma non si divertiva un granché, lei non sembrava accorgersene e anzi, era eccitata come se dovesse andare davvero a quella festa.
"Sei sicura che questo vestito vada bene, Shanti?"
"Sicurissima!"
Era un abito blu, un po' scollato ma non troppo e con delle frange in fondo, unito a delle scarpe bianche con il tacco.
"Dici? E se mi è troppo largo? O troppo stretto? E se le scarpe sono quelle sbagliate?"
Andrew rispondeva ad ogni domanda con gentilezza ma, se forse la sua bambola stava adorando quei momenti, lui li odiava con tutto se stesso. Cos'avevano le donne con i vestiti? Perché faticavano così tanto a trovare qualcosa e si facevano mille problemi? Suo papà lo diceva spesso della mamma ed Andrew, seppur piccolo, stava prendendo da lui. Aveva fatto indossare a Shanti un altro vestito da indiana, nero stavolta, con un paio di stivaletti dello stesso colore e si era detto che andava benissimo così.
Il gioco continuò ed era tanto lungo che il bimbo si domandò se avrebbe mai avuto una fine.
 
 
 
Dianna si era fatta un tè con un po' di zucchero. Normalmente non sarebbe stato così, ma voleva avere un po' di forza e in quel momento si sentiva troppo stanca. Ne aveva offerta una tazza anche a Joyce e adesso, mentre lo bevevano, le due bambine erano con loro sul divano, l'una vicina all'altra, e si guardavano.
"Come vanno le cose a casa?" le domandò Dianna.
"Bene. Il mio lavoro mi manca ma non troppo. È bello stare qui e vedere Carlie crescere, lo era anche quando è nato Andrew. Certo però sento la mancanza dei miei clienti più affezionati.” Joyce faceva la commessa in un supermercato. “E poi sai, le mie colleghe e anche gli allievi di Frank mi vengono a trovare."
Suo marito, invece, era insegnante di matematica in un liceo.
"Davvero?"
Ora era molto interessata. Non credeva che degli studenti si potessero affezionare ad un insegnante tanto da andare a trovare sua moglie e i suoi figli, che di certo conoscevano molto poco.
"Prima che io stessi a casa, con il mio permesso mio marito ha dato loro il nostro indirizzo, così se qualcuno avesse voluto vedere la bambina avrebbe potuto farlo, anche se una volta l'ho portata nella scuola dove lui insegna. E hanno cominciato ad arrivarmi biglietti di auguri per la nascita, fiori, e qualche volta dopo un paio di mesi è venuto un gruppetto di due o tre persone. Tutti sono stati molto educati, avevano sempre paura di disturbare."
"Sono felice che tu abbia un rapporto così bello con loro, pur non essendo la loro insegnante."
"Significa che Frank insegna bene e di questo è sodisfatto, ma non solo. Se hanno un problema lui cerca di aiutarli, se vengono a parlargliene li ascolta. Credo sia anche questo che loro apprezzano di lui. Molti dicono che i professori devono essere oggettivi ma io non penso che sia così. Non sono lì solo per insegnare, né sono delle macchine. Sono anche umani come i loro studenti e devono dimostrarlo. Non sono psicologi ma possono comunque dare loro dei consigli o far loro coraggio."
Le brillavano gli occhi mentre parlava e Dianna si domandò da quanto questo non accadesse a lei. Forse dalla nascita di Demi. Erano passati pochi mesi ma sembrava un'eternità. I giorni felici ormai erano andati. E poi aiutare qualcuno in quel modo ed essere fieri di farlo doveva essere bellissimo, Frank doveva esserne molto fiero. Si ricordò di parlarne con lui quando l’avrebbe incontrato.
"A te invece non manca lavorare a quella concessionaria della Ford?"
Dianna era stata una segretaria lì prima che Demi nascesse e aveva anche cantato nei weekend. Prima era stata una cantante di musica country in alcuni club, con una band e un manager a seguirla e accompagnarla, poi per vari motivi tutto era finito.
"Un po', ma in futuro non so cosa farò, se tornerò lì o meno. Vedremo come si metteranno le cose."
"In che senso?"
Se fosse riuscita a cambiare Patrick, forse avrebbe potuto tornare al lavoro tranquillamente, ma se la sua rabbia fosse continuata che cos'avrebbe fatto? Sarebbe scappata? Il giorno prima non ci pensava, quel giorno invece sì. La sua mente era proprio contorta. Lo amava, era vero, ma a volte ne aveva abbastanza del suo uso di alcol, droga e dei suoi attacchi. Era stanca e piena di dolore sia fuori che dentro, ma allo stesso tempo gli voleva troppo bene e poi, appunto, se lo meritava. Non riuscì a fare un ragionamento che arrivasse ad una conclusione logica.
"Nel senso che se Patrick riuscisse a mantenermi potrei anche pensare di non lavorare" rispose, ma lo riteneva poco probabile.
Non era nemmeno sicura che sarebbe riuscito a tenersi quel lavoro visto tutto ciò che beveva e di cui si faceva, anche se quando andava via la mattina si adoperava perché lo vedessero al meglio e non sospettassero di niente.
"Dici sul serio? Non ti piace lavorare, essere indipendente?"
Sì, perché mentre lavoro ho il controllo sulla mia situazione mentre su tutto il resto no.
Non avrebbe mai potuto confessarlo, per cui disse una mezza verità:
"Sì, ma amo anche fare la mamma."
"Non ti ci vedo a fare solo la moglie e la madre, Dianna. Comunque rispetterò qualsiasi tua decisione."
"Senti, non lo so" tagliò corto lei. "Non ho idea di quello che farò."
Joyce lasciò correre. Era chiaro che l'altra non ne voleva parlare. Tuttavia non riusciva a capire l'amica e decise di porle un'altra domanda.
"Come fai a vivere con queste incertezze sul futuro? Nessuno di noi sa cosa accadrà, è vero, ma io so che ho un lavoro e che anche Frank ce l'ha. Tu invece non hai idea di cosa farai. Non ti fa agitare questa cosa?"
Dianna rifletté per qualche attimo.
"Sinceramente no" rispose infine. "Patrick ci ama e in qualche modo faremo, sono tranquilla."
L'altra non insistette. Sapeva che Dianna non era una persona irresponsabile e voleva fidarsi di lei, anche se non era sicura che quello fosse il modo giusto di vivere. Ma forse non lo era per lei ed invece era corretto per l'altra.
"Mmm" disse Carlie mentre stringeva la mano a Demi.
"Che carine!" commentò Joyce. “Non è vero?"
Ma Dianna non era più lì. Il suo sguardo era perso nel vuoto e la mente lo era ancora di più. Rifletteva sul fatto che non vedeva l'ora che Patrick tornasse perché ne sentiva la mancanza. D'altro canto, aveva paura che quello che era accaduto prima potesse risuccedere e si sentiva bene all'idea che fosse lontano. Non riusciva più a capirsi, era come avere la testa, i pensieri, i sentimenti divisi a metà tra l'amore e la paura, tra la consapevolezza di meritarselo ed il dolore, non solo fisico, tra il voler scappare e il desiderio di restare, che per il momento era predominante, anche se il primo non se ne voleva andare nemmeno se lei provava a scacciarlo con tutte le sue forze. In fondo avrebbe potuto tornare dalla sua famiglia in Texas e stare bene, ma si sentiva così anche lì. Meglio, allora? E se una volta arrivata là Patrick le fosse mancato e lei fosse tornata indietro, o se lui l'avesse trovata e riportata a casa? Sarebbe ricominciato di nuovo tutto o le cose sarebbero cambiate e lui avrebbe compreso i suoi errori? Era meglio rimanere e provare a cambiarlo, cercare di sopravvivere e di godersi i momenti in cui non era ubriaco o drogato, perché era in essi che il vero Pat si mostrava.
La mia non è vita, è sopravvivenza. Io non sto vivendo, sto provando a sopravvivere. Sto soffrendo, ma lo sto anche amando tantissimo.
Forse un giorno sarebbe stato tutto diverso. Si riscosse quando sentì la voce di Joyce che le poneva una domanda per la seconda o forse terza volta.
"Ah, sì, sono carinissime" rispose con un gran sorriso.
"Ti senti bene? Non mi rispondevi più, pensavo che non mi stessi ascoltando" le spiegò l'altra, seccata.
"Scusami, è che sono un po' stanca in questi giorni e comincio a pensare a tante cose. Mi manca molto la mia famiglia, non la vedo da tempo e per adesso non ho la possibilità di tornare in Texas, perciò soffro parecchio."
"Immagino che averla lontana non sia affatto facile, anzi, non posso nemmeno perché i miei genitori sono qui come quelli di Frank, però posso provarci."
Dianna la ringraziò e ancora una volta ebbe prova del fatto che Joyce fosse una donna molto rispettosa dei sentimenti degli altri. Non li sminuiva mai, nemmeno quando qualcosa che per lei non era niente per loro era più grande di una montagna. Esistevano poche persone così al mondo, e la donna si diceva spesso che se ce ne fossero state di più la Terra sarebbe stata di sicuro un posto migliore.
L’altra cambiò argomento.
"Quando è nata Carlie ho imparato a conoscerla ora per ora, come facevo con Andrew, e poi ancora adesso cerco di dormire quando lo fa lei perché dopo so che richiede tutta la mia attenzione, pur volendo i suoi spazi."
"Ti capisco, è lo stesso per me. È stupendo vedere come crescono, il modo in cui conoscono il mondo che li circonda, se stessi e gli altri con i movimenti, la voce, come si fanno capire - o a volte anche no - con il pianto."
"Già. Hai ragione, capita che non si riesca a comprendere che cosa desiderino. Sono i momenti più difficili in cui si prova di tutto."
E anche quelli più snervanti pensò Dianna, ma non lo disse per paura di essere considerata una cattiva mamma.
La densa nebbia che la circondava da quando Demi era nata stava tornando, lo sentiva, nonostante la presenza dell'amica e di quattro bambini in casa. E i pensieri che aveva avuto quella mattina ripresero a farsi strada in lei, soprattutto quelli riguardo il non essere un buon genitore. Non poteva esserlo, se aveva paura che la bambina le cadesse e se spesso quando piangeva molto perdeva la pazienza e poi tutta quella stanchezza, i tremori, il freddo non la aiutavano di certo.
"La porto al parco spesso, o comunque a fare una passeggiata ogni giorno" disse ancora Dianna. "Tu?"
"Sì, anch'io. A meno che non ci sia brutto tempo, ovviamente, anche se in quel caso Carlie è irritabile e non è facile tenerla in casa. Le piace molto guardare gli altri bambini."
"La mia ha anche iniziato a sollevare la manina come per salutarli."
“Grazie al cielo l’ho trovata e non ne ho portata a casa una che non era mia” disse Dianna, riferendosi al fatto che il giorno dopo la nascita di Demi un’infermiera le aveva portato un’altra bambina.
Per fortuna lei se n’era accorta e, dopo una ricerca frenetica, Demetria era stata trovata nel letto dell’altra mamma. Era stato un momento terribile per Dianna, tanto che quando ci pensava ancora piangeva.
“E grazie a Dio io non ho avuto un aborto spontaneo o un parto prematuro” sospirò Joyce.
La sua gravidanza era stata a rischio fin dall’inizio, tanto che aveva dovuto passarla praticamente tutta a letto per non complicare le cose. Carlie era nata un mese prima, ma stava bene. Sarebbe stato impossibile dimenticare quei dolori, pensarono entrambe, diversi ma accomunati dal fatto che loro erano entrambe madri e avevano sofferto per le loro figlie. Ora però era tutto passato, erano insieme e solo questo contava.
Le due sorrisero intenerite quando le piccole lanciarono insieme un urletto. Questo le aiutò a riprendersi da quel brutto momento fatto di ricordi dolorosi e di paura.
Parlarono ancora di bambini, confrontandosi sulla marca di pannolini che compravano, sugli oggetti che servivano alle piccole e che avevano preso, sul dare o meno il ciuccio - Dianna era favorevole, Joyce no - e su molto altro. Fu interessante e Dianna partecipò con piacere alla conversazione, anche se non sentiva di avere la testa lucida come prima, era come se si trovasse lì ma allo stesso tempo quella nebbia l'avesse portata distante dalla situazione presente. Dove? non lo sapeva nemmeno lei.
 
 
 
"Demi!"
"Carlie!"
Fu questo che prima Dallas e poi Andrew esclamarono insieme quando stavano finendo il gioco, dato che le sentirono piangere. Riconoscevano anche da lontano i pianti delle sorelle ed erano convintissimi che, se avessero udito mille bambini vagire, sarebbero riusciti a farlo comunque. Sistemarono in fretta e poi corsero giù a vedere cosa stava succedendo.
"Cosa c'è?" chiesero, anche questa volta insieme, facendo voltare le due donne nella loro direzione.
"Stanno bene, non preoccupatevi" rispose la mamma di Andrew. "Demi piange non so perché e Carlie l'ha semplicemente seguita."
Avevano controllato: non avevano fame, erano pulite e non avevano freddo, le manine e i piedini erano caldi.
"È di Demi questa?" chiese il bambino avvicinandosi alla porta della cucina e raccogliendo una tigre marrone di peluche.
"Sì" rispose Dianna, "gliel'avevo data in mano poco tempo fa. Deve averla lanciata, ma non ce ne siamo accorte. Grazie, tesoro. Puoi ridargliela tu, se vuoi."
“Certo. Ha un nome?”
“Stripe.”
“Mi piace.” Si avvicinò al divano e, appena lo vide, la bambina smise di piangere e sorrise. "Tieni" disse, mettendogliela accanto.
Demi la accarezzò, provò a prenderla in mano ma non ci riuscì dato che era troppo grande e gli prese un dito come per ringraziarlo.
"Come fa la tigre, Demi?" chiese ancora lui, riprendendola in mano. "Raurrr" continuò, muovendo le zampe davanti dell'animale sopra la pancia della piccola che scoppiò a ridere.
Come faceva la risata dei bambini piccoli ad essere così bella e dolce? Fu questo che Andrew pensò mentre gli venne spontaneo sorridere sempre di più.
Intanto, Carlie stava facendo lo stesso perché Dallas giocava con lei in modo simile, ma con un orsacchiotto bianco che Joyce le aveva dato. Le loro risate riempirono la stanza per alcuni minuti, mentre le due muovevano braccia e gambe e tutti gli altri le guardavano e sorridevano.
"P-posso prenderla in braccio?" domandò Dallas.
Conosceva Joyce da poco, non erano ancora in confidenza e non sapeva se aveva fatto bene a porre o no quella domanda. Forse la donna si sarebbe arrabbiata o avrebbe detto che la bambina era troppo piccola.
"Ma certo" rispose invece con un sorriso affettuoso. "Siediti, però."
"So che devo, la mamma me lo dice sempre."
"Sei una brava bambina" le sussurrò dandole un bacio, poi sollevò Carlie e gliela mise fra le braccia. "Le tue mani sulla sua pancia, passa le tue braccia sotto le sue. Così, bravissima!" si complimentò vedendo che quella spiegazione era stata inutile, dato che la bambina aveva già fatto tutto da sola.
Tenere in braccio un bambino era molto più bello che farlo con una bambola, perché il primo si muoveva e la seconda no, e poi la faceva sentire più grande. A soli cinque anni e per quanto fosse matura la bambina non riusciva ancora a dare un nome a tutte le emozioni che provava in quel momento e non faceva quei pensieri per paragonare i bambini alle bambole per dire che fossero dei giocattoli. Sapeva che non lo erano, ma quello era l’unico esempio che le era venuto in mente.
"Mi batte tanto il cuore!" esclamò, "come con Demi."
Ma stringere sua sorella era molto più bello, forse perché appunto lei faceva parte della sua famiglia.
"È normale, tesoro" la rassicurò la mamma. "È perché sei felice."
"Felice", ecco qual era la parola che stava cercando.
“Eh, eh.”
Facendo suoni del genere la bambina le prendeva le altre dita, le toccava il viso, si spostava di qua e di là sulle sue gambe tanto che Joyce dovette fare molta attenzione perché non cadesse dalle braccia di Dallas. Carlie non era ancora attiva come Demi, ma ci stava arrivando. Carlie accarezzava anche le punte dei capelli della bambina o a volte glieli tirava. Era molto forte, anche se non sembrava.
Andrew si sedette accanto a Demi, nel posto dove prima c'era Dianna che in quel momento si era alzata e provò a sollevarla. La bimba non si spaventò, e anzi con la voce fece capire di essere deliziata da quel gesto, ma non appena se ne accorse Joyce guardò male il figlio.
"Avresti dovuto aspettare Dianna, chiedere a lei" lo rimproverò con voce dura, con un tono che non era da lei. "Non siamo a casa nostra e lei non è tua sorella, e comunque nemmeno io ti lascio prendere in braccio Carlie da solo. Se è così c'è un motivo."
"Ma Demi è mia amica" si difese il piccolo. "Volevo farlo da solo. Sono grande, ho quasi sette anni io!"
"Non importa" continuò la donna alzando un po' di più il tono. "E se ti fosse caduta? E se si fosse fatta male?"
"Joyce, calmati" cercò di rabbonirla l'altra donna. "Andrew, tua mamma ha ragione. Chiedimi la prossima volta, d'accordo? Noi sappiamo che sei bravo, ci fidiamo di te, ma sei ancora piccolo per prendere in braccio da solo dei bambini tanto minuscoli."
"Avete ragione, mi scuso" mormorò abbassando lo sguardo.
Le due donne lo perdonarono e il sorriso tornò subito ad illuminargli il volto.
Carlie iniziò a piangere, o almeno fu questo che Dallas pensò.
"Vuole te" disse a Joyce. "O le ho fatto male?"
Non avrebbe mai voluto, non ne aveva avuta la minima intenzione. Cosa poteva aver fatto? Forse la stava stringendo troppo?
La donna si spostò sul divano e si avvicinò alle due, disse qualche parola dolce alla figlia e poi si rivolse alla più grande.
"Non le hai fatto niente, anzi la stai tenendo benissimo. Sembri una mammina."
"Davvero?"
Le si illuminarono gli occhi. Non ci poteva credere. Come a molte bambine della sua età, anche a lei sarebbe piaciuto avere dei figli un giorno, anche se ancora non si rendeva conto che essere genitore era un'enorme responsabilità.
"Te lo assicuro. Comunque non ha pianto, mi ha solo chiamata. Ora sto più vicina così puoi continuare a tenerla."
Dianna, in piedi davanti a loro, scattava foto in continuazione.
"Ti prometto che saremo amici per sempre" sussurrò Andrew a Demi, così piano che nessuno a parte loro lo udì.
"Ah lalalalala, mmm, mmm" disse lei in risposta prima di mettere una manina sopra la sua mano, palmo contro palmo.
Il cuore del bambino iniziò a fare le capriole. Sapeva che non era possibile, eppure era anche consapevole del fatto che, in qualche modo a lui sconosciuto, Demi doveva aver capito e ricambiato quella promessa con la voce, il cuore e quel contatto. Una promessa che negli anni a venire sarebbe stata seguita da altre, con più partecipazione della bambina e in situazioni differenti, e che si sarebbe realizzata davvero e, molti anni dopo, trasformata in qualcosa di molto più profondo e speciale.
Poco dopo, dato che le bambine più piccole cominciavano ad essere stanche, Joyce decise di tornare a casa.
“Oh, mamma!” si lamentò Andrew. “Cinque minuti” provò, continuando a stringere Demi.
“No, tesoro.”
“Tre minuti.”
“No.”
“Uno, allora.”
“Nemmeno. È ora di andare, su. La rivedrai presto.”
La donna ringraziò tantissimo Dianna e la abbracciò.
"Ci vediamo, e chiamami più spesso anche se stiamo molto vicine, o vienimi a trovare anche tu. Mi fa piacere."
"Lo farò, grazie di essere passata. È stato un bel pomeriggio, mi è piaciuto parlare con te e mi sono divertita."
“Anch’io.”
"Grazie che hai giocato con me" trillò Dallas, baldanzosa.
"Che abbia" la corresse Andrew, che già a quell'età sapeva parlare piuttosto bene e odiava quando qualcuno sbagliava. "Sono stato contento di farlo" mentì.
"Magari giochiamo ancora, un altro giorno."
"Ma anche no" mormorò fra i denti, poi per non farla stare male e dato che si era accorto che, per fortuna, non aveva sentito, aggiunse: "Ehm, ma sì, volentieri. La prossima volta però prepariamo un pranzo o una cena, e voglio anche Ken oltre alle Barbie. Ce l'hai?"
"Sì, ce l'ho e te lo darò per giocare."
"Bene."
Almeno avrebbe potuto fare anche qualche cosa da maschio, per esempio dire che aveva una partita di calcio così la fidanzata l'avrebbe lasciato uscire, e lui avrebbe finto di giocarci.
 
 
 
Per cena Dallas volle la pizza, così Dianna se la fece portare a casa.
"Perché prendi sempre la Margherita?" chiese la bambina alla mamma.
Non capiva perché non provava mai quella con i wurstel e le patatine fritte come faceva lei. Era così buona.
"Mi piace molto, come a te quella."
E già stava contando quante calorie all'incirca avrebbe preso con quel pasto. Qualche volta era accaduto che la piccola si accorgesse di ciò che faceva e le chiedesse:
"Perché mangi poco e poi vomiti?"
E lei aveva sempre risposto che non stava tanto bene e di non dirlo a nessuno, neanche a papà. Non voleva che accadesse anche quella sera. Era stato un pomeriggio carino e non era il caso di lasciare la figlia con quelle domande in testa, così si sforzò, si disse che le calorie non sarebbero state poi tante anche se  sapeva che non era così e che non sarebbe ingrassata moltissimo. Aveva già rimesso il dolce, poteva concedersi una pizza quella sera, e doveva farlo anche per le sue figlie, per Demi soprattutto. Guardò i loro occhi innocenti, quelli di Dallas che avevano, sul fondo, già dei lampi di sofferenza - anche se la donna non riusciva ancora a capire quanta fosse - e quelli di Demi, privi di ogni dolore. Continuando a pensare alle loro espressioni riuscì a finire metà pizza, mettendo il resto in frigo. Le dispiaceva buttarlo via, nel caso ci avrebbe messo del tonno e l'avrebbe data a Dallas il giorno seguente. Si trattenne fino a quando le mise a letto, poi andò in bagno e si provocò il vomito. Non rimise tutto dato che era passato un po’, ma almeno qualcosa uscì. Tra le coperte pianse tutta la notte per quello che aveva fatto al suo corpo, per lo schifo che sarebbe diventata continuando a mangiare a quel modo e quando si alzò e si guardò allo specchio ebbe la tentazione di spaccarlo perché vide una donna talmente grassa da far ribrezzo. Ma non fu quello l'unico motivo per il quale pianse. Il pomeriggio trascorso non era stato male. Aveva chiacchierato con un'amica, si era distratta, aveva visto le sue figlie, Andrew e Carlie sorridere, ascoltato le risate meravigliose di due bambine più o meno della stessa età, eppure quella nebbia non se n'era mai andata e i pensieri avevano continuato a fare avanti e indietro, avanti e indietro, a volte confondendola, altre bloccandola. Il giorno prima, con Patrick in quelle condizioni, in casa c'era stata una tempesta, l'ennesima, tanto violenta da far tremare il suo intero essere e da romperlo sempre un po' di più, per poi curarlo con i baci e gli abbracci lasciando però un'altra serie di cicatrici nel suo cuore e nella propria anima. La quiete di quel giorno, d’altronde, era stata falsa, perché anche se lei lo negava a se stessa e non l'avrebbe mai ammesso, nulla sarebbe mai cambiato e anzi, non avrebbe fatto altro che peggiorare.
 
 
 
 
 
NOTE:
1. mi è sembrato importante tradurre le frasi tratte dal libro. Sono molto potenti, in particolare la seconda e credevo fosse fondamentale che tutti, anche chi non sa l’inglese, fossero in grado di capirle.
2. Lo ribadisco qui se qualcuno legge per la prima volta una mia storia: Demi da piccola ha vissuto ad Albuquerque, poi in Texas e infine a LA, ma nelle mie storie ho sempre scritto che è andata a Los Angeles quand’era piccolissima per rendermi le cose un po’ più facili. Essendo non vedente non è semplice descrivere le ambientazioni e dato che in alcuni racconti parlo anche di Andrew, ho preferito inventare un po’. Ammetto comunque che non è stata una scelta facile vista la mia ossessione per il realismo.
3. Gli errori dei verbi dei bambini sono voluti.
4. Quando Demi aveva otto mesi Dianna pesava circa trentotto chili e mezzo, l’ha scritto nel libro. Per cui ho pensato che quando ne aveva sei non pesasse molto di più. Una mia amica ha il peso che lei ha in questa storia ma sta bene, non ha nessun problema e per lei è sempre stato così, acquista qualche chilo e poi lo perde con facilità. Come faceva Dianna a gestire una famiglia, con tutte le sue difficoltà, e due figlie piccole a trentotto chili e mezzo? Non ne ho la più pallida idea e mi domando anche come riuscisse a stare in piedi e come nessuno si accorgesse del suo problema. Non so se Patrick lo notasse o no, lei non lo scrive. Ad ogni modo ho letto che per nascondere la magrezza certe persone si vestono molto, così ho usato questa tecnica qui. I sudori e i tremori, così come la nebbia, sono tutti sintomi che lei ha veramente avuto.
5. L’episodio del sopracciglio spaccato è inventato (così come quello del compleanno di Dallas con ciò che ha fatto Patrick), gli altri due no.
6. Dianna ha scritto nel libro, prima di scoprire di aspettare Demi e nel momento in cui era in ospedale e le stavano riattaccando le dita, che raccontare alla sua famiglia che il marito le aveva fatto del male sarebbe stato troppo umiliante.
7. Dianna ha sempre detto che Patrick amava tantissimo le bambine, ma si è resa conto dopo che avrebbe dovuto andare via per evitare che accadesse qualcosa di pericoloso. La sua riflessione sul fatto che lui avrebbe dovuto essere più presente è inventata, ma è plausibile vista la situazione.
8. Patrick non credeva che la moglie lo tradisse, o almeno lei non ne parla, ma è un comportamento tipico di alcune persone contro le loro vittime di violenza domestica così, sempre non volendo offendere nessuno, ho deciso di inserirlo.
9. Mi è stato detto che i telefoni cellulari nel 1993 esistevano (cosa che sapevo già), ma non so quanti li avessero negli Stati Uniti,  e che erano simili a dei cordless. Nel caso in cui qualcuno ne sapesse di più o volesse correggermi fatelo pure, non me ne intendo molto.
10. Lo svezzamento si inizia a sei mesi, prima i bambini non sono pronti a mangiare cibi solidi.
11. Sia nel documentario “Simply Complicated” che nel libro viene detto che tutte si tenevano i propri dolori dentro. Ora non so se parlassero o no di quello che succedeva allora in casa o se quando l’hanno detto si riferissero agli anni successivi, in ogni caso mi è sembrato realistico aggiungerlo.
12. Quando Dianna nel libro parla dell’anoressia, non si riferisce alle voci, non dice nemmeno che vomita, solo che mangiava poco. Ma essendo questa malattia una battaglia con la propria mente e dato che uno dei modi per non ingrassare è quello di vomitare, anche se non tutti gli anoressici lo fanno, mi sembrava realistico riportarli assieme al fatto, sempre non detto, che si vestisse o si coprisse molto. In ogni caso, su vari siti dedicati ho letto che il vomito elimina la metà delle calorie che si sono appena ingerite e inoltre ha conseguenze deleterie per il corpo: danni ai denti, laringiti acide e croniche, le ghiandole salivari possono infiammarsi o gonfiarsi, ma si può anche morire per emorragia o è possibile che si rompa l'esofago, nei casi più gravi.
13. I bambini di sei mesi riescono a girarsi sulla pancia e provano a sedersi o stanno seduti per un po’. Non tutti ovviamente, ognuno è diverso.
14. Contare le calorie è un comportamento tipico di molte persone anoressiche, così come pensare che tutti parlino di loro e vedano le imperfezioni del loro corpo.
15. Il box non deve essere usato fino a quando il bambino non è in grado di stare un po’ seduto, tenere sollevata la testa e girarsi autonomamente.
16. È vero, Dianna faceva quei lavori. Nonostante durante la seconda gravidanza il marito lavorasse e il suo comportamento fosse migliorato aveva iniziato a lavorare perché, ha scritto nel libro, questo le dava la sensazione di avere il controllo sulla sua situazione. Ha ripreso quando è stata una madre single, anni dopo. Aveva iniziato a cantare con una band in vari club in giro per gli Stati Uniti, spesso Dallas da molto piccola danzava sul palco e a volte cantava qualche canzone, era molto amata. Ma più il tempo passava più la situazione tra lei e Patrick peggiorava: lui beveva, litigavano, Dianna si è resa conto che non poteva prendersi cura di Dallas, e avrebbe voluto andarsene ma non ci è riuscita. Arrivata con il suo gruppo in un albergo del New Mexico, senza aria condizionata e sporchissimo, non ne ha potuto più ed è tornata a casa con tutti gli altri, poi se non ricordo male non ha più cantato con loro.
17. L’episodio di Dianna che aveva perso Demi è reale, l’ha raccontato nel libro. Lo potete trovare, scritto da me e con alcune frasi citate dal memoir e da me tradotte, nella storia “Ritrovata” presente sul mio profilo.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
ciao a tutti!
All’inizio questa avrebbe dovuto essere una storia incentrata su Andrew e Demi, poi i personaggi mi hanno portata dove hanno voluto e mi hanno spinta a trattare più approfonditamente tematiche di cui prima non avevo mai parlato così tanto. Ci ho messo qualche settimana per scriverla perché è stata difficile dal punto di vista dei sentimenti che mi ha provocato e delle sensazioni che ho voluto far provare. Spero di non essere stata troppo spinta nella trattazione di scene di violenza. Mi sono sforzata al massimo e anche oltre per mantenere il rispetto sia per quanto concerne le tematiche trattate sia per quanto riguarda i personaggi famosi.
 
Nota per chi sta leggendo la mia long: non potrò ricominciare a scrivere “Cuore di mamma” ancora per qualche settimana, non sono nemmeno a un quarto di capitolo quindi aspettatevi un aggiornamento probabilmente a ottobre inoltrato. Mi dispiace moltissimo, non potete immaginare quanto ma come ho scritto in un’altra storia alcuni problemi familiari gravi mi stanno tenendo lontana dalla scrittura di quella long. Scrivere one shot è facile perché iniziano e finiscono lì, ma per una long per me ci vuole una concentrazione maggiore.
Intanto spero che questa OS vi sia piaciuta.
   
 
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