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Autore: EdlDeNet    06/09/2019    2 recensioni
Il batterista non avrebbe mai ammesso quella debolezza. Non aveva affatto bisogno che gli altri lo vedessero fragile e potesse scaturirne un, non sia mai, commento poco gradevole e dai caratteri decisamente troppo melensi e dolci per i suoi gusti. Non aveva intenzione di apparire dolce a nessuno, con l’eccezione di chi avesse lui stesso, Roger Meddows-Taylor, esplicitamente valutato potesse considerarsi un fortunato eletto. E certo quella cerchia era a numero chiuso.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Roger Taylor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Roger chiuse gli occhi mentre sentiva l’adrenalina salire in lui. Mancava ormai poco all’inizio del concerto e il mare di gente che urlava a più non posso non era esattamente il massimo per calmare i nervi. Inoltre i tecnici, che andavano e venivano con quel loro fare che sembrava di essere in un formicaio, lasciavano che il disperato bisogno del batterista di calmarsi rimanesse un disperato bisogno senza soluzione.

Aveva da tempo perso di vista prima Brian e John, che erano andati ciascuno dalla propria famiglia per farsi augurare buona fortuna, poi Freddie, che era scappato correndo alla ricerca di un indefinito capo di abbigliamento che mancava al suo appello.

Il biondo, seduto su una piccola e scomoda sedia di ferro lasciata lì da qualche membro dello staff, appoggiò i gomiti sulle ginocchia, infilandosi le mani nei capelli. Oltre la pila di amplificatori dietro cui si era seduto, o meglio nascosto, si estendeva senza fine l’enorme stadio di Wembley. 100.000 persone venute lì con il solo obbiettivo e scopo di vedere loro quattro suonare. Sembrava incredibile. Incredibile pensare come tutte quelle persone avessero aspettato tanto per vederli. Vedere lui, vedere Freddie, vedere Brian, vedere John. Avevano conquistato il mondo con la loro musica e quello ne era la prova materiale. Certo, era stato un lavoro duro, frutto di giorni e notti intere passati in studio a registrare quando erano ancora degli sconosciuti e dovevano approfittare delle ore buche degli altri artisti famosi per poter registrare qualcosa. Eppure in cuor suo Roger era sempre stato sicuro che prima o poi il trionfo sarebbe arrivato. Insieme alla soddisfazione per tanta fatica.

Erano quasi vent’anni che Roger suonava dal vivo e tutte le volte appena un attimo prima di salire sul palco gli veniva l’ansia come se fosse stata la prima. Una cosa odiosa. Odiosa, ma a cercarli avrebbe saputo trovare un sacco di sinonimi. Odiosa, irritante, fastidiosa, sgradevole, esasperante, seccante. Qualsiasi nome gli si volesse affibbiare la cosa non cambiava. Una morsa di ferro allo stomaco, il battito cardiaco accelerato, un’irrefrenabile voglia di prendere a calci tutto quello che gli capitava davanti, un aumento drastico della temperatura corporea, un infantile desiderio di essere in qualsiasi altro posto fuorché lì. Ma soprattutto una cosa che Roger detestava con tutto sé stesso, qualcosa che gli faceva venire davvero un potente istinto omicida, qualcosa che non riusciva a controllare. Un’infinita ed enorme voglia di piangere.

Il batterista non avrebbe mai ammesso quella debolezza. Non aveva affatto bisogno che gli altri lo vedessero fragile e potesse scaturirne un, non sia mai, commento poco gradevole e dai caratteri decisamente troppo melensi e dolci per i suoi gusti. Non aveva intenzione di apparire dolce a nessuno, con l’eccezione di chi avesse lui stesso, Roger Meddows-Taylor, esplicitamente valutato potesse considerarsi un fortunato eletto. E certo quella cerchia era a numero chiuso. In ogni caso nessuno avrebbe mai visto che prima di ogni concerto si metteva a piangere come una bambina. Perché sì, nonostante tutto il suo mastodontico impegno c’era sempre quella maledettissima goccia salata che gli scivolava lungo la pelle liscia della guancia per continuare la sua lenta discesa. Ogni volta il biondo si prometteva che non avrebbe versato nemmeno una lacrima e ogni volta il suo tentativo falliva miseramente.

Quella volta, come tutte le altre sarebbe successo lo stesso identico passaggio, con un’unica differenza. Mentre Roger malediceva ogni possibile essere onnipotente, sentendo gli occhi farsi sempre più umidi, una vocina delicata ruppe il monotono ronzio delle casse e delle voci dei tecnici di sottofondo.

-Papà? – Roger alzò immediatamente la testa mentre la prima lacrima scorreva lasciando una scia argentea sul suo viso. Si pentì amaramente di aver alzato la testa. Non fece in tempo a passarsi il dorso della mano sulla guancia che il tono triste di Felix si fece sentire nuovamente –Perché piangi, papà? –

Era quel “papà” pronunciato così spesso che gli faceva un brutto effetto. Ne era sicuro. Un po’ come il momento di sconforto prima dei concerti. Anni che lo sentiva e sempre la stessa sensazione.

-Non c’è niente, Felix, vai dalla mamma- Aveva cercato con tutto sé stesso di mantenere un tono di voce fermo e deciso, fisso sul non far trasparire nella voce alcuna nota di tristezza o malinconia o qualsiasi cosa che avrebbe potuto spingere il bambino a non seguire quello che poteva apparire come un consiglio o, meglio, un ordine.

Felix inclinò di lato la testa, gli occhi grandi fissi sulla figura del padre. “Sembra così piccolo” pensò, in un’innocente riflessione. Il batterista appoggiò una mano sulla spalla del bambino, sperando che ripetere la frase con un tono più autoritario provocasse un effetto migliore sul comportamento del figlio. O almeno un qualche effetto. Qualcosina di più che un movimento leggero del capo!

-Felix… va dalla mam…- senza neanche preavviso sentì la sua voce spezzarsi in un singhiozzo e le lacrime comparire più numerose che mai ad appannare i suoi occhi celesti. Prima che ancora potesse rendersene conto il peso del piccolo sulle sue gambe e le magre braccia strette attorno al suo collo ebbero l’effetto del colpo di pistola per una gara di velocità. Una gara i cui atleti erano le sue lacrime che scivolavano veloci a bagnare la manica della camicia bianca del piccolo. Il pianto del padre consolato dalla voce calma e tranquilla del figlio. Sembrava che il mondo stesse girando all’incontrario.

“Che cosa sto combinando?!” fu il primo pensiero di Roger quando realizzò cosa stava davvero succedendo. Tutta l’immagine che aveva faticosamente creato di sé stesso agli occhi del figlio caduta a pezzi per una bastarda goccia? Eppure sentiva di non poter fare a meno di quel corpo caldo premuto sul suo petto, di quel sussurro che nel suo orecchio mormorava un “va tutto bene”, incredibilmente ricco di significato a differenza di tutte le volte in cui spesso veniva usato come inutile convenzione. Aveva bisogno di quel movimento lento e regolare della piccola mano che disegnava immaginari cerchi sulla sua schiena. Aveva bisogno di quel respiro flebile sul suo collo.

Stava letteralmente piangendo e stringendo come consolazione il suo primogenito in un travolgente bisogno di affetto.

-A volte mostrare le proprie debolezze non è così male- mormorò Felix, asciugandogli con il dito la guancia bagnata. Esisteva qualcosa di più vero? Eppure lui non l’aveva mai capito. Gliel’aveva detto Brian, quando Clare, in lacrime, gli aveva detto che loro padre li aveva picchiati, gliel’aveva detto John, quando con quel suo sorriso gentile lo aveva trovato a imbottirsi di antidolorifici per non annullare la data di un concerto, gliel’aveva detto Freddie, quando alla nascita di Felix si era lasciato andare ad un momento di malinconia. Eppure gli era sempre sembrato un consiglio così astratto, detto tanto per colmare il silenzio rotto soltanto da qualche leggero singhiozzo.

Solo in quel momento Roger capiva davvero cosa volesse dire la parola “debolezza”.
-Gli uomini forti- proseguì Felix, scegliendo con cura le parole, per paura di peggiorare la situazione –non sono quelli che dicono di essere perfetti e non aver paura di niente o di non aver mai bisogno di una mano. Gli uomini forti- strinse la mano del padre, guardandolo negli occhi, offuscati dal pianto –sono quelli che vedono le loro debolezze e non se ne vergognano- sorrise, mettendo in mostra i dentini bianchi –proprio come il mio papà! –

Roger rise, mentre le lacrime non smettevano di scendergli lungo le guance. Il bimbo aveva ragione. Perfettamente. Felix annuì, scendendo dalle gambe del padre e afferrando gli occhiali da sole appoggiati sopra la cassa accanto a loro.

-Forza papà! Adesso voglio vederti spaccare pezzo per pezzo questo enorme stadio! – Il bambino fece un giro su sé stesso, le braccia aperte a croce.

-Ti prendo in parola, eh? – sorrise il batterista, passandosi la manica della maglia sul viso. Felix annuì, mentre sentiva la mano del batterista accarezzargli i capelli

–Felix…-

-Sì, papà, prometto che non lo dirò a nessuno. Parola di boy scout! – accennò un saluto militare, unendo i tacchi e portandosi la mano alla fronte.

-Sì, papà, prometto che non lo dirò a nessuno se… - Si voltò di scatto, con un ghigno beffardo sul faccino, sventolando in aria gli occhiali –Questi- se li strinse al petto –adesso sono miei! –

-Brutto piccolo…- Roger scosse la testa divertito, facendo il solletico al magro corpicino del figlio.

-Cosa ci vuoi fare, papà… come dice la mamma, a volte si svegliano anche i tuoi geni! -





Angolo dell'autrice:

Salve a tutti! Questa è la mia prima ff che ho voluto (ovviamente) dedicare ai Queen. Mi sono sempre immaginata i rapporti che Roger, Brian e John hanno avuto con i loro pargoli e beh, come poteva non comparire il primogenito del batterista?
E poi, mi sono chiesta come dev'essere salire su un palco con davanti migliaia di persone che seguono solamente i tuoi movimenti... Un po' di ansia penso sia normale. Sappiamo tutti che Roger è solito nascondere il suo lato più tenero XD

La storia è ambientata nel backstage di Wembley, nell'86. A quel tempo Felix aveva circa cinque anni.

Allora, non credo di avere nient'altro con cui annoiarvi! XD

Grazie a chiunque vorrà leggere e recensire.

Alla prossima

EdlDeNet
   
 
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