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Autore: T00RU    06/09/2019    3 recensioni
Un ragazzo -Kageyama arriverebbe pure a definirlo un gremlin, piccolino ed incazzato com’è- con indosso la divisa della squadra di basket della loro università, rannicchiato all’interno dell’armadietto e le ginocchia portate al mento. Gli fa quasi pena.
Kageyama non sa cosa dire.
Prima che possa aprire bocca, il ragazzino si porta un indice alle labbra. «Shh, mi sto nascondendo».

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[kagehina centric ; bokuaka + kuroken if you squint]
[7.385 words]
Genere: Comico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nell’entrare nell’aula, Kageyama viene travolto dall’odore di arte che impregna la sua stanza preferita del complesso universitario ogni volta che mette piede al suo interno: solventi, vernice, colori ad olio; alcuni dei suoi compagni di corso stanno già organizzando il necessario per iniziare a dipingere e Tobio li saluta con un cenno della testa prima di avviarsi verso la sua solita postazione, pronto a prepararsi a sua volta. E’ venerdì, e ciò significa due ore di disegno dal vero. Spera solo non sia il turno di Terushima, a fare loro da modello; per quanto i suoi capelli siano sempre diversi, sicuramente interessanti da osservare e replicare -a causa della ricrescita sempre più evidente, della sua tinta sempre più sbiadita e della luce sempre differente sul suo colore finto- e un ottimo allenamento per imparare a fare uso della luminosità, il ragazzo può essere una grandissima spina nel fianco. Soprattutto se obbligato a stare seduto immobile per più di cinque minuti.
Perché si sia offerto a fare da modello è tutt’ora un mistero, ai suoi occhi.
-«L’avrà fatto per ingigantire ulteriormente il suo ego spropositato» ha ipotizzato una volta il suo compagno di stanza, Aone.-
«Niente paura» come a leggergli nel pensiero, Kenma -che ora è al suo fianco; non l’ha nemmeno notato entrare- non alza nemmeno lo sguardo mentre sistema i pennelli sul proprio banco. «Ho incontrato Bokuto prima sulle scale; oggi è il turno di Keiji».
E con un sospiro di sollievo Kageyama tira fuori dalla propria valigetta i colori ad olio.


Mentre osserva i lineamenti del modello di fronte a sé, Kageyama si rende conto di quanto gli piaccia dipingere Keiji: lineamenti delicati, gli occhi sempre taglienti e decisi e i capelli ricci che gli ricadono sulla fronte, il tutto accompagnato dalla luce filtrata dalle veneziane.
Non vuole essere drammatico, ma raramente ha visto un essere umano più bello di Akaashi.
«Bokuto-san ha vinto alla lotteria» si lascia scappare, e Kozume soffia una risatina dal naso. «Un simile aspetto, penseresti: “li deve pure avere degli standard!”. E invece,» e non c’è nemmeno bisogno di finire la frase che entrambi hanno capito dove Kozume voglia andare a parare. Kageyama sorride, continua a spennellare sulla tela.
«Vi sento» li avverte il modello, voce pungente -si guadagna una protesta da parte di Kita che gli intima di non parlare, perché è finalmente arrivato alla parte inferiore del viso-; i due si scambiano uno sguardo prima di tornare a dipingere.
A metà del suo dipinto, Kageyama si rende conto di aver finito la trementina e di essersi dimenticato di portarsi dietro la boccetta comprata una settimana prima per sicurezza. Perfetto.
Fa un passo indietro, osserva con attenzione la tela che gli si para davanti e poi abbassa lo sguardo sulla tavoletta di plastica usata per mischiare i colori; potrebbe provare ad andare avanti senza solvente, ma ha paura di rovinare il resto del colore. E’ un semplice lavoro fatto per esercitarsi e sa che non riceverà un voto, non è la fine del mondo se non diluisce tutti i colori, ma non vuole rischiare di rovinare un lavoro il cui sviluppo gli sta piacendo: è forse fin troppo raro che gli piaccia un suo dipinto ad olio.
«Kenma» chiama, e il ragazzo gli mostra di star ascoltando con qualcosa che dovrebbe assomigliare ad un «Hm?», ma che in realtà sembra più un verso indistinto che altro.
«Non è che avresti un po’ di trementina, per caso?».
Kenma appoggia il pennello sul piatto che usa per mescolare i colori; «Oggi sto lavorando con gli acrilici, ma se sei fortunato mi è rimasta la boccetta dall’ultima volta che ho lavorato ad olio».
Però, ovviamente, nemmeno Kozume può venire in suo soccorso ed è abbastanza sicuro che tutti gli altri stiano lavorando con gli acquerelli, o a carbone.
Va bene. E’ tutto a posto. Solitamente teniamo un po’ di trementina negli armadietti, per sicurezza.
E Kageyama spera che non sia già stata usata tutta, mentre si avvia verso la serie di piccoli armadietti presenti nell’aula: gli arrivano esattamente all’altezza del volto -a volte pensa che siano stati costruiti troppo in alto; sopratutto quando i suoi compagni di corso non riescono ad arrivarci nemmeno in punta di piedi e gli devono chiedere aiuto-. Fa una smorfia, mentre apre l’anta della credenza dove è abbastanza sicuro di aver visto la boccetta di trementina mentre in un’altra lezione fortuita ha finito il tubetto del colore blu. Ciò che si trova davanti non potrebbe essere più lontano dalle sue aspettative.
Un ragazzo -Kageyama arriverebbe pure a definirlo un gremlin, piccolino ed incazzato com’è- con indosso la divisa della squadra di basket della loro università, rannicchiato all’interno dell’armadietto e le ginocchia portate al mento. Gli fa quasi pena.
Kageyama non sa cosa dire.
Prima che possa aprire bocca, il ragazzino si porta un indice alle labbra. «Shh, mi sto nascondendo» e fa per richiudere l’anta, ma Kageyama la tiene aperta con la forza. «Come cazzo ci sei arrivato, qui su?» sussurra, a denti stretti.
L’altro tentenna. «Mi sono arrampicato».
«Da quando accettano dei gremlin nella squadra di pallacanestro?» e Kageyama pensa che o i suoi compagni di corso non li stiano sentendo, troppo presi a dipingere, o a nessuno importi abbastanza da andare a vedere con chi diavolo si sia messo a parlare, la faccia nascosta all’interno della credenza.
«Sarò anche basso, ma posso saltare!» e il ragazzino dai capelli rossi ora sta alzando la voce; Tobio si gira verso il resto della stanza. Nessuno sta badando a loro; il professore è seduto, i piedi appoggiati alla cattedra, e sembra stia guardando un film al computer -Kageyama non sa ben dire; ha gli auricolari nelle orecchie e ridacchia, scuotendo la testa-.
«Prendi quello di cui hai bisogno e vattene, o farai saltare la mia copertura».
«Ma sei stupido?» Tobio non sa se stia dicendo sul serio o se lo stia prendendo per il culo. Lo sguardo del ragazzo esclude la seconda possibilità. «Quello che mi serve è dietro di te, come faccio ad arrivarci?».
Il gremlin lo guarda intensamente, sembra tentato di ignorarlo e richiudere l’anta; invece sospira. «Cosa ti serve?» sussurra, avvicinandosi al suo viso.
«La boccetta di trementina».
E il ragazzino inizia a frugare dietro di sé, tastando per trovare la boccetta contenente il liquido tanto agognato. Ad un tratto si ferma, per poi riprendere la ricerca.
«E’ questa?» gli sventola davanti una boccetta di inchiostro rosso.
Sarà una lunga ricerca.
«Quello è inchiostro rosso, la trementina è trasparente».
«Non hai paura di finire per berla?» e Tobio non gli può dire di aver rischiato un po’ troppe volte e che si è sempre fermato con le labbra sul bordo del bicchiere nel quale la versa di solito; che razza di impressione darebbe? «Ho più di un neurone, che vuoi che ti dica». Falso. E’ sempre stato fiero di essere stato messo al mondo con un solo neurone funzionante.
Il ragazzo non sembra convinto, ma decide di non commentare. Ancora fruga, fruga e tira fuori dal casino che sta creando tra gli oggetti prima ordinatamente sistemati la stessa boccetta di inchiostro rosso che ha tirato fuori qualche minuto prima.
«Ops» ridacchia.
Tobio è a tanto così dall’afferrarlo per il colletto della divisa e lanciarlo dritto dritto in un altro continente, ma in un modo o nell’altro riesce a trattenersi mentre aspetta che quel piccolo gremlin gli trovi la trementina che tanto gli serve. Inizia a picchiettare un piede contro al pavimento, impaziente.
«Kageyama?» lo chiama Kenma dalla sua postazione; Tobio si gira, Kozume non ha staccato gli occhi dalla propria tela. «Arrivo, Kenma. Un attimo» e poi si rivolge al ragazzino nell’armadio. «Ti vuoi muovere? Non ho tutta la giornata».
«Non si vede un accidente, qua» ma finalmente gli piazza davanti al viso la tanto agognata boccetta di trementina. Tobio l’afferra con disperazione e ne esamina il contenuto, speranzoso: ne è rimasto un goccio talmente piccolo, non basterà mai per finire il dipinto. Tutto questo casino per un goccetto di solvente. Aggrotta le sopracciglia, tirando un profondo respiro.
«Non si ringrazia?». Tobio vorrebbe fargli bere la trementina con la forza. Invece, opta per ignorarlo. «Io sono Hinata Shouyou, comunque».
«Chissene frega» e Kageyama chiude l’anta dell’armadietto, ma non la socchiude come l’ha trovata. La chiude a chiave.


«Che ci faceva Hinata nell’armadio della credenza?» gli chiede Akaashi mentre Tobio sta camminando per uno dei corridoi dell’edificio, pronto a tornarsene in camera a dormire fino alle tre del pomeriggio, per la lezione di letteratura giapponese. Kageyama si sistema la valigetta, portandola da una mano all’altra; «Lo conosci?».
«E’ nella squadra di basket di Kuroo».
Tobio Kuroo non l’ha mai incontrato faccia a faccia, l’ha solo visto in giro un paio di volte e l’ha riconosciuto come uno dei migliori amici di Bokuto, ma mai niente di più; è abbastanza sicuro che non sappia nemmeno della sua esistenza. Forse è andato a vedere qualche partita di pallavolo del suo migliore amico, ma sicuramente non avrà prestato troppa attenzione a lui, l’alzatore.
«Allora gioca davvero?».
Akaashi soffia una risata. «A quanto pare è a dir poco formidabile» e poi continua. «L’hai davvero chiuso a chiave lì dentro?».
Ah. Kageyama se n’era quasi dimenticato. «Sembra di sì».
«E se muore?».
«Pazienza».
«Sei sempre il solito, Tobio-kun».

 



Hinata non scambierebbe la sensazione del mettere piede nel campo da pallacanestro per niente al mondo; il sentirsi così piccolo in mezzo ad un campo tanto grande, con la consapevolezza di essere l’unico in grado di fare canestro utilizzando i propri metodi per sgusciare tra i giocatori alti solitamente almeno trenta centimetri in più di lui. No, proprio non vorrebbe giocare a nessun altro sport.
Non dopo aver scoperto come ci si possa sentire a sbeffeggiare silenziosamente un diciannovenne alto due metri, dall’alto del suo metro e sessantaquattro, dopo aver fatto punto.
«Buongiorno!» saluta raggiante, mentre i suoi compagni di squadra si stanno preparando per l’allenamento del mattino; appoggia la propria borsa con il cambio vicino a quella di Lev, che gli rivolge un cenno della testa. «Hinata».
Il ragazzo si gira verso di lui. «Che c’è, vuoi lanciarmi nel canestro di nuovo?» e qui Lev scoppia a ridere, scuotendo la testa. «Non ti avrei avvertito, se fosse stato così».
Hinata esala uno sbuffo indispettito, mentre si sta infilando la maglietta a maniche corte nera. «Oggi mi sento in forma; ti va di gareggiare a chi fa più canestri?».
Shouyou si sforza di tirare fuori la testa che è rimasta incastrata nel colletto, Lev lo aiuta; quando la sua testa piena di capelli rossi finalmente sbuca fuori, Hinata gli fa un occhiolino. «Oh, ci puoi proprio scommettere», ed entrambi corrono fuori dallo spogliatoio senza prestare attenzione alle grida del capitano, Kuroo, che sta intimando loro di non darsi troppo alla pazza gioia, almeno per quella giornata. Ma Hinata e Lev sono già nella sala degli attrezzi e hanno già tirato fuori due ceste di palloni, ignorando le richieste del capitano di fare attenzione, di tornare a sedersi sulla panchina, siccome tra qualche minuto farà il proprio ingresso nella palestra il vicepreside.
A Shouyou non potrebbe importare di meno: quello lì si infila sempre a disturbare i loro allenamenti per parlare con Kuroo delle partite a venire, finendo per distrarre tutti per un buon quarto d’ora; che venga. Shouyou però non vuole dover sentire la sua voce nasale e fastidiosa più dello stretto necessario.
Prende un pallone e lo lancia, mancando il canestro di qualche centimetro; si porta le mani ai capelli tirandoli con forza, e inizia a borbottare a bassa voce.
«Ti vedo scarsino, oggi» osserva Lev, tirando a canestro e centrando perfettamente; Hinata si gira verso di lui, sopracciglia aggrottate. «Devo ancora riscaldarmi per bene, Lyovochka».
Mentre si allontana dal canestro Lev gli passa vicino e gli tira uno schiaffo sulla nuca, per poi tornare alla sua postazione vicino alla cesta pronto a monitorare ogni movimento di Hinata ed esultare al prossimo tiro, che sicuramente sbaglierà.
Però Shouyou fa canestro -è stato un colpo di fortuna, in realtà: il tiro è stato pessimo- ed immediatamente gli rivolge una linguaccia.
Si volta di scatto quando alle sue orecchie giunge quella voce nasale e strascicata che tanto disprezza, per qualche motivo: i suoi occhi incontrano per un istante quelli dell’uomo basso e grasso che è il loro vicepreside, e per educazione accenna ad un inchino. L’uomo lo ignora completamente, portando lo sguardo sulla figura di Kuroo, che è visibilmente ed insolitamente teso. Scrolla le spalle.
Tirano a canestro, si scambiano più volte e ora è arrivato di nuovo il turno di Lev a lanciare, sono dieci pari e sa che tra poco dovranno iniziare l’allenamento vero e proprio. Deve fermarlo appena in tempo per impedirgli di vincere.
Ma come fare?
Lev sta controllando che i propri gomiti siano posizionati correttamente, e Shouyou approfitta del suo momento di distrazione per afferrare una palla dalla cesta: Lev lancia e Hinata con lui.
I due palloni si scontrano, quello lanciato da Lev schizza in una direzione inaspettata e nessuno dei due è in grado di fermarlo prima che sia troppo tardi. Osservano impietriti come pian piano la traiettoria della palla trova la propria fine sulla testa del vicepreside, il cui parrucchino finisce dritto nelle mani di Hyakuzawa.
Vorrebbe potersi scusare, ma la superficie della testa dell’uomo è talmente liscia e riflette la luce talmente bene che Hinata sa che se solo aprisse bocca per provare a scusarsi, scoppierebbe a ridere -peggiorando la situazione-.
Il suo sguardo incontra quello di Kuroo. Inizia ad indietreggiare.
Lev, al suo fianco, sembra aver smesso di respirare.
«Hinata Shouyou! Haiba Lev!» tuona il capitano, e prima che se ne possa rendere conto veramente, sta già correndo fuori dalla palestra.
Merda, merda, merda è l’unica cosa che gli passa per la testa mentre corre per i corridoi bui dell’ala est del campus. Di tanto in tanto si guarda alle spalle, terrorizzato all’idea che Kuroo lo possa seguire, ma dopo aver corso su e giù per l’edificio vuoto -sono pur sempre le sette del mattino, le lezioni non inizieranno prima delle otto- si rende conto di essere completamente da solo.
Chissà se Lev è ancora vivo.
Dovrebbe cercare un posto per nascondersi.
Ah, l’ho proprio combinata grossa, questa volta e fa una smorfia al pensiero di dover tornare in palestra e rivedere la scena del crimine il giorno seguente.
Dovrà anche rivedere Kuroo.
Beh, almeno ha vissuto una buona vita.
Potrebbe anche decidere di lasciare la squadra di pallacanestro: in fondo, non è lo sport che fa per lui.
Non è questo il momento per perdersi in inutili pensieri si dice, mentre inizia ad aprire le porte di varie classi in cerca di un posto dove nascondersi per la giornata: alla sola idea che Kuroo lo possa trovare gli tremano le ginocchia come gelatina; è un buon capitano, lui, ma rare volte l’ha visto arrabbiato.
Kuroo arrabbiato è terrificante.
Lo mette a disagio essere la causa e il bersaglio di tale ira.
«Laboratorio di arte» legge sottovoce, prima di infilare la testa all’interno della stanza. C’è una credenza. Bingo.
Entra nel laboratorio e si chiude la porta alle spalle, avviandosi verso il tanto agognato nascondiglio che -ironia della sorte- si trova troppo in alto; è decisamente una maledizione, essere nato talmente basso. Sa che in punta di piedi non ci arriverà mai, ma siccome tentar non nuoce -forse dovrebbe smettere di pensarlo, visto che è lo stesso treno di pensieri che l’ha portato a catapultare il parrucchino del vicepreside nello spazio- si alza al massimo delle sue capacità sulle punte dei piedi e stende la mano fino quasi a farsi male.
Torna ad appoggiare le piante dei piedi per terra; se vuole riuscire a salire, sa che dovrà saltare.
Salta ripetutamente, arrivando un paio di volte quasi a riuscire ad infilarsi in uno degli armadi -in fondo, la potenza del suo salto è l’unico motivo per cui è un membro ufficiale della squadra dell’università; ancora per poco, comunque-. Però non si può attaccare come una scimmia agli armadi, o si romperanno e lo faranno cadere a terra rovinosamente. Prendere la rincorsa gli sembra troppo pericoloso: potrebbe benissimo prendere una sedia tra le tante presenti e usarla per salire, ma chi andrebbe a rimetterla a posto? Aprirebbero l’anta per curiosità e lo troverebbero pateticamente rannicchiato al suo interno, a cercare di nascondersi dalla furia del suo capitano che sa dovrà affrontare prima o poi.
E rincorsa sia.
Speriamo solo di non farci troppo male e cerca di aprire l’anta.
Dopo svariati tentativi ci riesce, osserva bene lo scarso contenuto dell’armadio che per fortuna ha scelto, e si allontana da esso.
Arriva alla porta d’entrata, prende un sospiro profondo e chiude gli occhi, per poi riaprirli e iniziare la propria rincorsa per saltare dritto nell’armadio; senza esitazione, nel saltare stende le mani in avanti e si ritrova con le gambe a penzoloni nel vuoto e una serie di tubi, tubetti, boccette e boccettine che vengono indelicatamente rovesciati mentre si sbraccia per riuscire ad entrare del tutto.
E’ già un miracolo che il suo peso e la forza del salto non abbiano fatto cadere l’armadio.
Un ultimo sforzo, e finalmente è entrato all’interno di esso, nonostante il contenuto sia stato scombussolato non poco; per quanto sia piccolo per essere un diciannovenne, si trova a doversi rannicchiare su se stesso, ginocchia al mento e le costole che quasi gli vanno a premere sui polmoni. Per fortuna non è claustrofobico.
Improvvisamente sente delle voci dall’altra parte della porta del laboratorio d’arte e fulmineo chiude l’anta dell’armadio, lasciandola aperta un filo per riuscire a respirare e vedere quello che sta succedendo.

Hinata non sapeva Akaashi facesse il modello per gli studenti di arte -non ne è sorpreso, però: sarebbe stato un crimine tenersi tutta quella bellezza solo per sé e Bokuto-: lo vorrebbe salutare, ma non può permettersi di farsi scoprire. E’ stato talmente bravo fino ad adesso, è arrivato persino a controllare il proprio respiro in modo tale da non far sospettare di nulla i presenti.
Ad un tratto sente qualcuno chiedere ad un certo Kenma di una certa… com’è che l’ha chiamata?
Non ha sentito bene la conversazione tra i due, ma dallo spiraglio che ha lasciato vede che qualcuno si sta avvicinando verso il suo nascondiglio. Vorrebbe poter schioccare le dita e sparire all’istante, invece gli si ferma il cuore quando un ragazzo apre l’anta dell’armadio e si ferma a guardarlo interdetto, con gli occhi sgranati.
Non è nemmeno in punta di piedi: davvero, è ingiusto essere così alti.
Hinata lo batte sul tempo. «Shh, mi sto nascondendo» e vuole richiudere l’anta senza nemmeno aspettare una sua risposta, tanto ha paura che il professore lo possa vedere e mandare a calci da dov’è venuto.
Il ragazzo lo ferma. «Come cazzo ci sei arrivato, qui su?».
Sai, mi sono lanciato di testa fino a riuscire a rannicchiarmi su me stesso come se fossi un contorsionista circense da quando ho due mesi di vita. «Mi sono arrampicato».
Il moro davanti a lui lo guarda intensamente, sembra squadrarlo con un’espressione indecifrabile dipinta in viso. «Da quando accettano i gremlin nella squadra di pallacanestro?» chiede.
Oh, questo è troppo.
Gliel’hanno chiesto così tante volte, ormai non dovrebbe più toccarlo: invece, da brava testa calda qual è, gonfia le guance e aggrotta le sopracciglia. «Sarò anche basso, ma posso saltare!» improvvisamente sembra non importargli del fatto che il professore e il resto della classe lo possano sentire: deve difendere il suo onore a tutti i costi, anche a quello di essere rimandato per le orecchie davanti a Kuroo. Rabbrividisce al solo pensiero di doverlo rivedere.
Il ragazzo davanti a lui si guarda intorno, allarmato; Hinata gli vuole tirare un pugno dritto sulla testa, tanto gli sta antipatico.
«Prendi quello di cui hai bisogno e vattene, o farai saltare la mia copertura» afferma. Il moro lo sta guardando stranito. «Ma sei stupido?» gli chiede, e ciò che lo innervosisce di più è il fatto che sembri una domanda sincera, genuina. «Quello che mi serve è dietro di te, come faccio ad arrivarci?».
Hinata lo guarda intensamente, corrucciato; ad essere sinceri, è tentato di richiudere l’anta e lasciare quel gran maleducato al suo destino.
Sospira.
«Cosa ti serve?» chiede sottovoce, avvicinandosi un poco per sentire la risposta.
«La boccetta di trementina».
Prende ed inizia a frugare, cerca a tastoni le boccette che nel buttarsi nell’armadio ha rovesciato; non sa nemmeno che aspetto abbia, la tanto agognata… come l’aveva chiamata? Clementina? Merendina?
Gli piacciono le merendine.
Lo stomaco prende a brontolargli, interrompe i suoi movimenti mentre spera che l’altro non lo senta.
Finalmente sotto alle sue dita si presenta quella che sembra una boccetta: spera solo sia quella giusta. La faccia del ragazzo di fronte a sé non sprizza particolare simpatia. «E’ questa?» gliela sventola davanti, il liquido rosso al suo interno ricopre il vetro del contenitore.
«Quello è inchiostro rosso, la trementina è trasparente» certo che gli piace fare il saputello; Hinata però non è stupido, a sua sorella piace dipingere e numerose volte l’ha vista bere per sbaglio l’acqua sporca degli acquerelli. «Non hai paura di finire per berla?».
Il ragazzo distoglie lo sguardo in fretta, lo fissa su un punto del muro alla sua sinistra. «Ho più di un neurone, che vuoi che ti dica».
Sarà, ma ad Hinata sembra comunque una gran cagata. Non commenta, prova a cercare quello che gli è stato richiesto anche con lo sguardo, ma il suo corpo e quello del moro fanno ombra e non riesce a distinguere nulla se non con il tatto: quindi riprende a tastare, va a tentoni e spera di uscirne trionfante, quando tira su la boccetta che ha appena trovato. E’ l’inchiostro rosso di prima.
«Ops» cerca di sdrammatizzare, tornando immediatamente al lavoro; sente il nervosismo dell’altro che sta aspettando impaziente, ha paura che parli con il professore e gli rovini la copertura: in fondo non avrebbe nulla da perdere, lui.
«Kageyama?» sente una voce fioca, ma non capisce da che parte stia arrivando: preferisce concentrarsi sulla ricerca della famigerata trementina -si è ricordato come si chiama!-. Il ragazzo -Kageyama- si gira, allungando il collo verso al proprio compagno di corso. «Arrivo, Kenma, un attimo».
Torna a rivolgersi a lui; «Ti vuoi muovere? Non ho tutta la giornata».
Certo che pretende un bel po’, il principino.
Come se fosse facile stare a frugare tra una serie infinita di boccette e tubetti mentre è lì, rannicchiato su se stesso in un armadio e a malapena si sente i polmoni. Vorrebbe vedere lui al suo posto.
E’ indispettito, ma vuole levarselo di torno al più presto. «Non si vede un accidente, qua».
Le sue dita incontrano un contenitore di vetro e prega tutti gli dèi da lui conosciuti affinché sia quella dannata trementina; quando vede quello che gli sta sventolando davanti al viso, Kageyama afferra la boccetta con disperazione. La sua espressione passa da speranzosa a infastidita a incazzata in un battibaleno: che avesse sbagliato di nuovo? E’ già pronto a tornare alla ricerca di quel famigerato tesoro, ma il moro non dice niente.
Evidentemente ci ha azzeccato.
«Non si ringrazia?» si lascia scappare, in un tentativo di essere simpatico. Kageyama lo ignora.
Decide di provarci un’altra volta. «Io sono Hinata Shouyou, comunque».
«Chissene frega» e vede l’anta chiudersi di fronte ai suoi occhi; non può nemmeno esultare, finalmente lasciato in pace, perché subito dopo si sente il click della serratura che viene chiusa, e ben presto Shouyou capisce di essere stato chiuso a chiave all’interno di quella piccola credenza grande un millimetro quadrato.
Fortuna che non soffro di claustrofobia, ma è abbastanza sicuro finirà per morire lì dentro.
Che morte terribile, la sua: tutto perché ha fatto volare il parrucchino del vicepreside.
Capirai vorrebbe dire. La perdita di quel parrucchino non sarà così tragica, men che meno sentita.
Oddio.
Morirà davvero lì dentro.

Non sa quanto tempo sia passato da quando quello stronzo di Kageyama lo ha chiuso a chiave nella credenza, forse ore, forse l’intera giornata -se l’ossigeno era scarso, ora che per curiosità ha deciso di aprire una bottiglietta di solvente è abbastanza sicuro di aver perso la sensibilità alle narici; gli bruciano gli occhi-, ma gli sembra un’eternità e non può nemmeno chiamare aiuto, perché gli studenti se ne sono andati, il professore anche e prima che i bidelli inizino a fare il loro lavoro fa in tempo a liberarsi da solo.
Ormai si è rassegnato al suo destino; spera solo che i sensi di colpa tormentino Kageyama fino alla fine dei suoi giorni. Chissà come reagirà sua sorella: sarà triste? No, inizierà a gridare dalla felicità all’idea di poter finalmente vendere tutta la sua collezione di manga per guadagnarci dei soldi.
Tsukishima sarà dispiaciuto? Scoppia a ridere con amarezza solo all’idea.
E Lev, invece? Onorerà il suo coraggio? Darà la colpa a lui interamente? O sarà sepolto accanto a lui?
Kuroo probabilmente sputerà sulla sua tomba.
Saranno i fumi del solvente, ma è talmente perso nell’immaginare la vita delle persone a lui care in una chiave quasi apocalittica dopo la sua ipotetica morte, da non sentire i passi che si stanno gradualmente avvicinando al suo armadio.
Il click della serratura, e i suoi occhi incontrano quelli di Kuroo.
Sarà il bruciore causato dal solvente, o magari è davvero felice di rivedere il suo capitano, ma gli si inumidiscono gli occhi; gli scende anche una lacrima solitaria, ma è veloce ad asciugarla con il dorso della mano. «Kuroo-san» inizia. «Sono davvero felice di vederti. Quello stronzo, ugh, pensavo sarei morto qui dentro, ci credi?».
Kuroo lo guarda.
«Sei comunque nella merda fino al collo, lo sai, vero?».
Ah.
Se n’era quasi -parola chiave: quasi- dimenticato.
«Chiudi pure a chiave quando te ne vai, grazie per essermi venuto a trovare» afferma, facendo per chiudere di nuovo l’anta dell’armadio.
Kuroo però non glielo permette, lo tira per un orecchio finché non si trova a dover saltare giù dall’armadio; questo finché il mobile non cede sotto al peso di Hinata -che davvero, in realtà è leggero come una piuma-, staccandosi dal muro e schiantandosi sul pavimento, rompendosi. Non sa nemmeno come, ma Tetsurou è riuscito ad acchiappare Hinata e ora se lo trova in braccio, entrambi a guardare i pezzi di legno e colore -eccolo, quel bell’inchiostro rosso- sparsi sulle mattonelle.
Kuroo e Shouyou si guardano, il più piccolo ancora tra le braccia del capitano, che lentamente lo mette giù.
«Corri».

 



Bam.
La palla tocca il pavimento e schizza via, pronta ad essere raccolta da qualcuno dell’altra squadra.
Bokuto finisce il movimento della schiacciata e appoggia entrambi i piedi a terra, alzando le braccia al cielo e buttando la testa all’indietro, facendosi colpire il viso dalla luce al neon della palestra. «Hey, hey, hey!» grida esaltato, come suo solito.
Konoha gli si avvicina e gli scompiglia i capelli, guadagnandosi un sussulto stranito da parte dell’asso; «Per fortuna sono sempre nella tua squadra».
«Infatti, non è giusto!» grida Tsutomu dall’altra parte della rete; Konoha gli risponde con una scrollata di spalle e un occhiolino.
Kageyama cerca di riprendere fiato, si passa distrattamente il dorso della mano sulla fronte, almeno per togliersi la maggior parte del sudore che minaccia di gocciolargli dalla punta dei capelli dritto negli occhi.
Dall’altra parte del campo gli altri compagni di squadra seguono l’esempio di Tsutomu e non sono affatto contenti di aver perso un altro punto -e di conseguenza, la partita- per mano di Bokuto, che quando non sta attraversando uno dei suoi “periodi depressi” ammassa punti su punti come un carrarmato, condannandoli ad un intero giro di campo in tuffi.
«Sei sempre più preciso, Kageyama. A volte mi spaventi» e Tobio lo ringrazia -era un complimento, vero?- prima di avviarsi verso lo spogliatoio, lasciandoselo alle spalle a chiacchierare con Konoha e Goshiki che ora, anche se con il fiatone, non sembra più altrettanto arrabbiato.
Si spoglia velocemente e con altrettanta agilità entra nella doccia, per rinfrescarsi e lavare via tutto quel sudore; rivolge il viso dritto verso il getto d’acqua tiepida che scorre e chiude gli occhi, facendo dissipare la tensione che stava iniziando ad irrigidirgli i muscoli.
Quando esce, asciugamano in vita e capelli bagnati fradici che gli gocciolano sulla pelle, Bokuto si sta togliendo le ginocchiere.
«Ah, Tobio» richiama la sua attenzione. «A quanto pare, stamattina Kuroo ha trovato uno dei suoi giocatori chiuso a chiave in un armadio del tuo laboratorio di arte».
Kageyama inarca un sopracciglio, iniziando a frugare nella borsa del cambio alla ricerca di un paio di mutande. «Ah, allora non è morto».
Koutarou sgrana gli occhi, quasi dimenticandosi di togliersi l’altra ginocchiera. Si alza in piedi. «Ne sai qualcosa?».
«Sono stato io a chiuderlo lì dentro».
«Kageyama!».
«Sai, Bokuto-san, a volte mi ricordi Akaashi-senpai».
«Perché lui è senpai, mentre io sono solo san?!».

 



Il giorno dopo, Kageyama mette piede nel laboratorio di arte e viene accolto da uno dei bidelli che sta raccogliendo pezzi di legno sparsi per terra; il pavimento è impregnato di rosso, quasi a sembrare la scena del crimine di uno spietato omicidio.
Si sentono i piccoli passi di Kenma, che si posiziona poco dietro di lui. «E’ morto qualcuno qui, ieri?» e nonostante l’apatia nella sua voce Tobio riesce a capire che sta scherzando; per qualche motivo, però, non riesce a ridere.
Gli manca l’aria nel petto. «Oh mio Dio» sussurra.
«L’ho ammazzato davvero».

«No, non hai ammazzato nessuno, Tobio-kun» gli ripete per la millesima volta quella giornata Akaashi, dall’altra parte della cornetta del telefono.

 



Kenma gli tira un calcio sugli stinchi quando fa per stiracchiarsi sul divano del salotto; Kageyama lo fissa intensamente. «Guarda che non è il tuo divano, eh».
Kozume arriccia il naso. «Nemmeno il tuo».
«Non fatevi problemi» Bokuto entra in salotto e lancia sul tavolino da caffè una serie di fotocopie piene di sottolineature fluorescenti e appunti disordinati. «L’appartamento sarà pure nostro, ma quel divano è del padre di Keiji».
«A maggior ragione dovremmo farci problemi!».
Si sente la serratura della porta d’entrata scattare, la porta si apre e tutti e tre si girano verso Akaashi, che è appena entrato in casa. Si toglie le scarpe in fretta, chiama Bokuto a gran voce -«Sì, amore?»- e quando finalmente si volta rimane pietrificato davanti alla porta. «Ah. Siete qui» osserva, riferendosi ai due ragazzi del primo anno seduti sul suo divano.
Non sembra troppo elettrizzato.
«Avevi altri piani, Akaashi?» Kenma inclina la testa di lato, un movimento quasi impercettibile del sopracciglio.
«Io? Ma quando mai».
Kageyama preferisce fingere di non aver capito mentre Koutarou ha preso a ripetere a bassa voce delle nozioni di fisica; è una settimana che non fa altro che lamentarsi per l’imminente esame, ma sembra che solo ora si sia messo a studiare seriamente.
«Comunque» Keiji cambia discorso, ignorando le occhiatine provocatorie di Kenma e optando per posizionarsi sulle gambe di Bokuto, che è seduto sulla poltrona alla destra del divano; il ragazzo cinge la sua vita con un braccio, si sporge in avanti e gli lascia un bacio sulla spalla.
«L’ultima partita di pallacanestro della stagione sarà domenica prossima» spiega. «Vi va di venire?».
Ormai Kageyama associa quello sport ad una sola parola: gremlin.
Dopo l’incidente della credenza -il suo professore sta ancora cercando il colpevole- l’ha visto raramente in giro; avranno sicuramente qualche materia in comune, ma non si è mai disturbato troppo a conoscere gli altri suoi compagni di corso, se non quelli del laboratorio di arte.
Un dubbio lo tormenta.
«Akaashi-senpai, ma gioca davvero?».
«Ti ho già detto di sì».
«Continuo a non crederci».
«Allora vieni alla partita» Keiji alza un sopracciglio in segno di sfida e gli rivolge un ghigno; Bokuto è passato dal recitare le nozioni di fisica a dondolare il capo avanti e indietro, probabilmente a ritmo di una canzone che gli sta passando per la testa.
Kenma passa lo sguardo tra i due. «Ma chi?».
«Il gremlin» rispondono in coro Akaashi e Kageyama: ormai sono abituati a chiamarlo così, tra di loro, per velocizzare le cose.
-«Non è carino chiamarlo in questo modo solo perché è basso» Akaashi scuote la testa mentre apre la porta e fa passare Tobio per primo; quest’ultimo lo ringrazia e inizia a guardarsi intorno nel piccolo supermercato in cerca dei biscotti che Bokuto si era premurato di consigliargli come i “migliori biscotti della storia”. Camminano spediti tra le persone che corrono da una parte all’altra dell’edificio portandosi appresso i carrelli; forse non è stata una buona idea presentarsi vicini all’ora di chiusura.
«Non gli ho mica chiesto io di essere così basso» ribatte Tobio, guadagnandosi uno sbuffo di disappunto da parte dell’amico. «Sei sempre il solito davvero, Tobio-kun».-
Kozume inizia a cercare nella tasca della sua felpa, tirandone fuori il telefono; lo sblocca. «Non è di tanto più basso di me, eh. Potrei anche offendermi».
«Infatti tu sei un hobbit» interviene Bokuto improvvisamente; Akaashi si gira lentamente verso di lui, incredulo. Kageyama scoppia a ridere. Il ragazzo preso di mira gli tira un orecchio con prepotenza.
«I fumi dei solventi ti hanno dato alla testa?» Tobio gli lancia un’occhiataccia, l’altro lo ignora e prende a giocare su qualche applicazione scaricata. Schiocca la lingua al palato. «Può essere».
Keiji, sempre dal suo posto sulle ginocchia di Bokuto -ora hanno le mani intrecciate, con l’altra Koutarou gli accarezza una coscia-, attira la loro attenzione. «Allora, venite o no?».
«Mi tocca?» Kenma non alza lo sguardo dallo schermo del telefono.
«Sì, ti tocca» Kageyama si gira verso i più grandi. «Teneteci due posti liberi».

 


 

Mentre si avvicina alla porta d’entrata della palestra che porta agli spalti, Kageyama vede nel riflesso del portone di vetro Kenma, che è ancora a cinquanta metri di distanza e non accenna a voler accelerare il passo. Lo capisce, non ha la minima voglia di guardare… quanto dura una partita di basket? Oddio, è uno di quegli sport le cui partite vanno a tempo. Non ce la può fare.
Kenma lo raggiunge, si guardano. «Ti va di stare fuori a giocare ad Animal Crossing?» e nel dire ciò, il più basso tira fuori dalla tasca della sua solita felpa rossa di un paio di taglie troppo grande il Nintendo e glielo sventola di fronte al viso. Accanto a loro, un gruppo di studenti li supera ed entra in palestra.
Kageyama deve ammetterlo, l’offerta è estremamente allettante, nonostante Animal Crossing sia il gioco da lui più odiato in assoluto; è lì lì per accettare, poi si ricorda di Bokuto e Akaashi che sono stati tanto gentili da riservare loro due posti, e che ora li staranno aspettando.
Da quando gli importa degli altri?
Odia avere degli amici.
«Ci stanno aspettando dentro, metti quell’affare in tasca e andiamo».
Quando mettono piede nella palestra già si pente di aver scelto di fare la cosa giusta; talmente tanti allievi, della loro scuola e di quella avversaria, occupano gli spalti e gli sembra di soffocare tra così tanta gente. Le due squadre si stanno riscaldando, mentre cerca con lo sguardo i capelli di Bokuto nota con la coda dell’occhio il gremlin che ha rotto una delle credenze del laboratorio di arte.
Hinata.
E’ sorpreso nel constatare di ricordarsi ancora il suo nome.
Sta saltellando sul posto in un angolo del campo, gli viene quasi da ridere nel vederlo vicino a quello che dovrebbe essere un suo compagno di squadra; sembra di mezzo metro più alto di lui.
E’ impossibile che giochi davvero. Akaashi mi ha solo preso per il culo.
Kozume indica con il dito una delle file centrali della parte riservata alla loro università; «Lì c’è Bokuto-san, sta urlando qualcosa al capitano» e prendono a camminare verso di lui, disturbando nel mentre tutti gli altri studenti che già hanno trovato il loro posto e stanno comodamente seduti a parlare tra loro.
Kageyama si siede vicino ad Akaashi e Kozume dall’altra parte, vicino a Bokuto, che ha iniziato a parlargli di quello che dovrebbe essere il capitano: Kuroo.
«Ti va di conoscerlo? E’ single».
Ha un terribile vizio di giocare a fare il Cupido della situazione, ma finché non interviene nella sua vita amorosa, è a posto.
«Bokuto, lasciami in pace».
Koutarou arriccia il naso e sul suo viso si forma un piccolo broncio; Keiji gli prende la mano con delicatezza. «Te l’avevo detto di non impicciarti».
«Non sarebbero male, insieme!».
«Solo perché è grazie a Tetsu che stiamo insieme, questo non significa che dovresti ricambiare il favore».

 



La partita inizia dopo poco e Tobio scopre che no, Akaashi non lo aveva preso per il culo. Hinata gioca veramente, non passa le ore a riscaldare la panchina come pensava avrebbe fatto. Hinata gioca ed è pure bravo -riesce già a sentire il «Te l’avevo detto!» di Akaashi, con tanto di ghigno in segno di superiorità-, lo osserva mentre sguscia tra gli altri giocatori, che in confronto a lui sembrano dei giganti scoordinati e impacciati, nonostante Kageyama -secondo la sua limitata conoscenza dello sport- li consideri degli ottimi giocatori.
Il capitano gli passa il pallone e Hinata lo afferra con naturalezza, palleggia e quando si avvicina al canestro salta, facendo guadagnare alla squadra altri due punti. Sta attaccato al canestro qualche secondo, poi si lascia cadere sul pavimento della palestra che ormai è quasi scivoloso a causa del sudore.
Kageyama rimane a bocca aperta.
Sarò anche basso, ma posso saltare!
Non scherzava mica, il nano.
Keiji si gira verso di lui, un sopracciglio alzato. «Vedi? Te l’avevo detto» e schiocca la lingua al palato; nella sua voce si sente un tono quasi di prepotenza, che caratterizza il suo modo di parlare ogni volta che dimostra a qualcuno di avere ragione. Il che è terribilmente spesso.
Tobio rotea gli occhi; si chiedeva quando gli avrebbe rinfacciato il suo essere dalla parte del torto. «Non è così straordinario» mente, scrollando le spalle.
Akaashi soffia una risata, scuote la testa e torna a guardare la partita, la sua mano sinistra in quella destra di Bokuto.
Hinata, un’espressione concentrata dipinta sul suo viso, corre da una parte all’altra del campo senza battere ciglio e senza perdere velocità, è quello che segna più punti per la squadra e sembra non essere ancora stanco; Kageyama si chiede come sarebbe averlo nella squadra di pallavolo. Un incubo, quasi sicuramente: Bokuto è già difficile da gestire e la sua quantità di stamina non si avvicina nemmeno lontanamente a quella di Hinata, non vuole immaginarsi come sarebbe dover avere a che fare con due Koutarou contemporaneamente.
Non è più attento a ciò che sta succedendo in campo, si è incantato a guardare intensamente un punto fisso del pavimento lucido mentre è impegnato a pensare; improvvisamente, un grido lo fa sobbalzare.
«Hey!» grida qualcuno, e gli ci vuole un po’ per capire che quel qualcuno è Hinata, che lo sta guardando in piedi e fermo in mezzo al campo, le braccia portate ai fianchi. Poi con una mano lo indica. «Tu sei lo stronzo che mi ha chiuso a chiave nella credenza del laboratorio di arte!».
Kageyama spalanca gli occhi e spera con tutto se stesso che tra il pubblico non ci sia anche il suo professore, o finirà per dover abbandonare il corso di arte dall’imbarazzo. Ma come ha fatto a riconoscerlo, in mezzo a tutta quella gente?
Sbianca, le parole gli muoiono in gola e gli si secca la bocca tutto d’un tratto; l’intero corpo studentesco si gira verso di lui, anche gli alunni che sono venuti in trasferta per supportare la squadra avversaria.
Scorge con la coda dell’occhio lo sguardo del professore di arte -che sta scuotendo la testa, deluso- e cerca di evitarlo, facendo finta di non averlo notato.
Gli sembra di essere stato trasportato in quella scena di High School Musical 3 -sua cugina l’ha obbligato a guardare tutti i film più e più volte, ormai li ha imparati a memoria-, con la sola differenza che il giocatore lo sta insultando davanti a tutti, e non esternando il suo amore.
Il capitano della loro squadra sembra sul punto di sbottare, mentre gli avversari, forti della distrazione generale, continuano a fare punto e gli altri giocatori cercano di fermarli e rubare la palla.
A corto di parole, Tobio boccheggia come un pesce fuor d’acqua.
«Scusalo, Shouyou!» gli viene da piangere quando Koutarou interviene al suo posto. Akaashi, accanto a lui, gli intima di fare silenzio. Viene ignorato.
Ora anche l’arbitro ha sospeso la partita; dice qualcosa a Kuroo e quest’ultimo annuisce, accennando un mezzo inchino, viso arrossato dall’imbarazzo e dal nervoso.
«Accetta di andare a prendere un caffè con lui! Per farsi perdonare pagherà anche la tua parte!».
Kageyama si gira talmente in fretta verso quello che in questo momento definirebbe un grandissimo, enorme, gigantesco imbecille da avere paura di essersi quasi spezzato il collo.
Ma si è bevuto il cervello?
Keiji gli tira uno schiaffo sulla nuca, Kenma si sporge in avanti e guarda estremamente divertito il malcapitato Tobio, che al momento preferirebbe essere ovunque, ma non lì; preferirebbe persino essere alla sua prima lezione di arte all’università dove Terushima, il modello di quel giorno, si era spogliato davanti a tutti pensando di dover essere un modello di nudo. Lo sguardo di Kozume sembra dirgli Questo non sarebbe successo se solo avessi accettato di stare fuori a giocare ad Animal Crossing, ma non importa; Kageyama lo ignora e riporta lo sguardo sul gremlin, che lo sta guardando intensamente.
Ha le sopracciglia aggrottate e le labbra ridotte ad una linea, poi i suoi tratti si rilassano e scrolla le spalle. «Okay».
E dicendo ciò, l’arbitro fa ricominciare la partita e Shouyou è veloce a recuperare i punti persi -per gran gioia del capitano, che ora sembra voler esplodere di meno-.
L’intera palestra è in uno stato di confusione totale, nessuno capisce a fondo cosa sia appena successo, men che meno Kageyama: è talmente sotto shock, non riesce a spiccicare parola per il resto della partita mentre Akaashi, al suo fianco, minaccia il proprio ragazzo di ogni morte possibile. «Ti ho detto di starne fuori e di smetterla di giocare a fare il Cupido, ma non capisci mai un cazzo» e Tobio non l’ha mai sentito così arrabbiato nei confronti di Bokuto, nemmeno quando per sbaglio ha ucciso il suo pesce rosso, Marvin.
Li conosce da a malapena un anno, ma a giudicare dalla faccia sorpresa di Kenma -che nonostante stia seguendo la discussione, sta scattando una foto al campo da gioco-, non è tutti i giorni che Keiji si infuria in questo modo con il suo preziosissimo e amatissimo Bokuto.
Koutarou rotea gli occhi. «Ma cosa vuoi che sia? Un giorno mi ringrazieranno» in quel momento la partita finisce, segnando così per la loro università la vincita del campionato studentesco anche per quell’anno. «Anzi, sai cosa? La mia missione non è ancora finita» afferra per una mano Kozume, impegnato a disegnare una freccia sulla sua nuova storia di Instagram, e lo trascina giù dagli spalti -«Bokuto, che cazzo fai? Aspetta un att- Bokuto sto per cadere, stai fermo!»- e dritto verso il campo fermandosi solo quando si trova davanti Kuroo.
Kageyama li guarda parlare, Akaashi di fianco a lui sembra sul punto di voler prendere a pugni qualcuno -Tobio si offrirebbe volontario-; «Quando torniamo a casa lo lascio» continua a ripetere, anche se entrambi sanno che non sarà così quando varcheranno la soglia di casa.
«Hey, tu. Kageyama» si sente chiamare nuovamente; Hinata lo ha raggiunto, è qualche fila più in basso, asciugamano sulle spalle. I suoi capelli sono madidi di sudore, così come il resto del suo corpo, che splende sotto alle luci artificiali della palestra.
Ha il fiatone.
«Sì?».
«Il mio bar preferito è quello che divide l’ala est dall’ala nord. Ti avverto: ho dei gusti parecchio costosi, però. Akaashi-san, hai il permesso di passargli il mio numero» e dicendo ciò, se ne va.
Kageyama guarda la sua figura andarsene, tranquilla, correre giù per gli spalti verso la sua squadra; usa l’asciugamano per colpire in viso un ragazzo alto con gli occhiali, che in tutta risposta gli afferra la testa con una mano e prende a tirargli i capelli, mentre altri due -uno di loro è il gigante che si stava riscaldando accanto ad Hinata- cercano di separarli.
Tobio è a corto di parole.
«Cos’è appena successo?».
«Credo che Bokuto ti abbia appena organizzato un appuntamento».
«Lo ammazzerai lo stesso?».
«Sì, probabilmente».



Heilà!
Sono tornata con una nuova os kagehina, probabilmente l'ultima storia che pubblicherò prima dell'inizio della scuola, siccome non avrò tempo nemmeno di respirare.
Scriverla è stato tremendamente divertente, con Hinata che si lancia in una credenza, Tobio exposed davanti a tutti... iconic.
Come sempre, e sono sicura che non cambierò mai, non so bene cosa dire in questo piccolo angolo autrice, perciò...
Grazie per esservi fermati a leggere questa piccola cosetta, se vi va lasciate una recensione, fanno sempre piacere!
Scusate per eventuali errori!
A presto si spera.
mar.

   
 
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