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Autore: _Lisbeth_    09/09/2019    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Jake non aveva la forza di muovere un solo muscolo. Tremava senza nemmeno rendersene conto, pietrificato davanti al corpo immobile di suo fratello.
“Josh è ancora vivo”, gli avevano detto i medici. Lui si stava sforzando di crederci. Con tutte le sue forze, con tutta la voglia che aveva di rivedere il suo gemello ridere, di sentirlo parlare. Ma Josh non aveva niente di vivo, in quel momento. Era vivo solo perché delle macchine glielo permettevano, era mortalmente pallido e i suoi occhi erano chiusi da giorni, sigillati.
Guardò la figura di suo fratello ricoperta da tubi, fili e lividi e non poté fare a meno di ripensare a quella scena.
La sera del quattro agosto era stata la peggiore della sua vita, era stata la sera che gli aveva distrutto tutto quanto. Josh e Sam erano usciti abbastanza presto per andare in un negozio di strumenti musicali di Detroit per comprare un nuovo giradischi, dato che quello che avevano si era rovinato pochi giorni prima. Jake ne aveva approfittato per aiutare sua madre in casa insieme a Veronica e tutto stava procedendo con la stessa tranquillità che regnava di solito in casa Kiszka. Ronnie aveva alzato gli occhi al cielo quando Jake aveva rimesso per la terza volta il primo vinile di Muddy Waters sul giradischi malfunzionante. Si era però limitata a fare un sorriso, consapevole di quanto Jake amasse la musica di uno dei suoi artisti preferiti nonostante fosse rovinata dai fastidiosi rumori provenienti dall’apparecchio.
Jake aveva poi ricevuto una chiamata dal gemello. Quando aveva risposto, aveva sentito la voce di Josh scocciata, innervosita, che gli diceva che sarebbero arrivati in pochi minuti.
Dopo due ore dalla chiamata, i membri della famiglia in casa avevano iniziato a preoccuparsi. Né Sam né Josh rispondevano alle chiamate.
“Stanno arrivando, ne sono certo. Forse stanno attraversando una zona in cui non c’è campo”, aveva ipotizzato il padre dei ragazzi, anche se la sua voce sembrava esser tutto fuorché tranquilla. L’ansia era evidente negli occhi di tutti e quattro, e quando il telefono fisso squillò Jake si precipitò a rispondere.
“Famiglia Kiszka?”, sentì dall’altra parte del telefono. Jake diede una risposta affermativa.
“E’ la polizia. Samuel e Joshua Kiszka hanno avuto un incidente.”
Nel ripensare a quelle parole i pugni di Jake si strinsero, il ragazzo continuò a fissare il corpo di suo fratello. Gli faceva male persino guardarlo. Gli faceva male guardare quel viso così simile al suo completamente immobile, ricoperto da tagli e lividi, quei ricci ribelli schiacciati dal cuscino su cui erano posati da giorni. Jake abbassò gli occhi per un secondo, per poi rialzarli, spalancarli quando sentì lo statico fischio dell’elettrocardiogramma risuonare come a voler chiamare aiuto.
Quando i medici arrivarono, Josh non c’era già più.
E con lui, non c’era nemmeno più Jake.
 
 
- Non hai toccato cibo, oggi. Per tutto il giorno. Se non ti decidi a chiamare lo studio lo farò di nuovo io.
Jake rivolse lo sguardo verso la sorella e sospirò dal naso, infastidito. – Non ho mangiato perché non c’era nulla che mi piacesse.
- Ma se ti ho cucinato di tutto e a colazione, pranzo e cena non hai fatto altro che giocare con il cibo.
- Erano tutte cose di cui non avevo voglia.
Ronnie sbuffò riponendo un piatto nella credenza. Decise di cambiare argomento, sapendo che con il fratello non si sarebbe andati a finire da nessuna parte. – Come sta Sam?
Jake alzò gli occhi verso la sorella e si morse l’interno di una guancia. – Oh, quindi non ti sei dimenticata di avere un fratello minore.
La ragazza aggrottò la fronte e ricambiò lo sguardo. – Come?
- Da quanto tempo non vai a trovare Sam?
- Io non… - respirò profondamente, si stropicciò un occhio. – Non cambiare argomento.
- Mi hai chiesto tu di Sam.
- Voglio sapere come sta. Non voglio che tu mi faccia la predica.
Jake strinse le labbra e annuì appena a se stesso. – Sta male, Veronica. E io sono l’unico pezzo di merda insieme a quel santo di Daniel che ha il coraggio di andare da lui. Non tu, non mamma, non papà. Perciò non fare l’ipocrita. Non chiedermi come sta, vallo a trovare e basta.
Vide la sorella tirare su col naso, gli occhi le si fecero lucidi. – Sei veramente uno stronzo.
- No, Veronica. Non sono uno stronzo. Sono semplicemente stanco di vedere e sentire gente che dice di star male per Sam ma non fa un bel niente per dargli anche solo un po’ di conforto. E sono stanco di sentire te. – il maggiore si passò una mano sul volto scarno. – Sono esausto di sentirti farmi la predica ogni santo giorno, quando qui sei tu l’unica che evita qualunque problema. Io quella sera stavo soffrendo perché avevo avuto il coraggio di vedere mio fratello, e ciò che i miei occhi hanno visto mi ha fatto del male. Tu continua a viver nel tuo mondo fatto di illusioni, senza avere la forza di affrontare la realtà.
Le parole di Jake fecero male tanto a lui quanto a Veronica. La ragazza vedeva il volto del fratello impassibile ma sentiva il tono di voce arrabbiato, stanco. Si interrogò su se stessa e si rese conto che le parole di Jake non erano sbagliate, non erano dettate dalla rabbia o dal dolore. Non ricordava nemmeno lei da quanto tempo non andasse a trovare Sam. Il suo Sam, il suo fratellino, una delle cose più importanti della sua vita. Magari aveva avuto bisogno di lei, aveva avuto voglia di vederla, e lei per pura codardia non era riuscita nemmeno ad avvicinarsi a quell’ospedale.
L’ultima volta che l’aveva visto lui l’aveva trattata come una perfetta sconosciuta. Aveva respinto i suoi abbracci, l’aveva allontanata, ma la cosa che più le aveva fatto male era stata vederlo in stato di allerta per tutto il tempo, con gli occhi strabuzzati, le braccia magre a circondare il petto come per farsi scudo da qualcosa che non c’era ma di cui lui aveva paura. Non era più Sam.
Quello non era il suo dolce, allegro, imbranato Sam, quello con cui si divertiva a fare giochi improponibili di tutti i tipi anche a vent’anni. Era l’ombra di suo fratello, il riflesso del buio che Sam aveva dentro.
Non si era nemmeno accorta delle lacrime che stavano sfuggendo al suo controllo e della stretta delle braccia di Jake attorno a sé.
Quando se ne rese conto fece scivolare una mano sulla schiena dl maggiore, stringendolo forte a sé.
- Perdonami, Ronnie.
 
 
- Al tre. – sorrise Josh, mostrando a Jake le proprie dita della mano sinistra. – Uno, due…
- Tre. – concluse il gemello, sporgendosi sulla piccola torre di pancake che loro stessi avevano preparato per il proprio compleanno e soffiando insieme a Josh sulle quattro candeline, ognuna rappresentante il numero due. Quello era il primo compleanno che passavano da soli, l’uno insieme all’altro senza nessuno intorno. Certo, amavano festeggiare con la propria famiglia, lo avevano sempre fatto. Però quella notte volevano dedicarsela. La notte del loro ventiduesimo compleanno era diversa da tutte le altre.
Avevano corso su per una bassa collina, rischiando di far cadere il proprio dolce un paio di volte e, esausti, si erano sdraiati ansimanti e ridenti sull’erba.
Dopo aver spento le candeline si erano guardati, si erano mostrati un sorriso che aveva voluto dire infinite, inspiegabili parole, che solo loro avrebbero potuto comprendere. Un sorriso che sapeva di Jake e Josh, di Josh e Jake. In quei pochi istanti, con quel semplice gesto, si promisero tutto. Si giurarono qualsiasi cosa, si affidarono l’uno all’altro completamente.
Presto, però, ci pensò il ragazzo dai capelli ricci a rovinare quel momento, esordendo con: - Avrei dovuto spegnere prima io le mie candeline. Poi avremmo dovuto aspettare cinque minuti e sarebbe toccato a te.
Jake alzò gli occhi al cielo, arrotolando un pancake tra le mani e tirandoci un morso. – Dillo di nuovo e ti butto giù.
- Guarda che è vero!
- Buon Dio.
- Sono il primogenito. Mamma ha guardato prima in faccia me e poi è stato il tuo turno. Ed ero anche più bello.
- Eravamo l’uno la copia sputata dell’altro.
- Ma io ero più bello.
- Infantile.
- Serioso.
- Io non sono serioso.
- No, Jake, no. Per carità, no.
- Non prendermi per il culo.
- Ho le mani in tasca.
- Sei pessimo.
- E tu antipatico.
Jake si allungò per tirare uno scappellotto dietro alla testa di Josh, che rise passandosi una mano sul punto colpito. – Anche manesco. Ah, comunque.
Il gemello lo vide voltarsi, raccogliere lo zaino che aveva posato per terra accanto al suo e aprirlo, estraendone un pacchetto sottile e squadrato, avvolto da carta leggermente strappata e anche un po’ rovinata. – Non hai idea del casino che ho fatto per trovarlo.
Jake sorrise. Prima di prendere tra le mani il proprio regalo fece la medesima cosa che aveva fatto il gemello, mostrandogli una scatola rettangolare, incartata decisamente meglio rispetto all’involucro del regalo di Josh, di dimensioni abbastanza grandi da far inarcare le sopracciglia del gemello. Si scambiarono i rispettivi regali, e il sorrisetto che increspò le labbra di Josh fece sospirare il gemello. – Cosa?
- Lo apro prima io e poi aspettiamo cinque minuti.
- Oh, Dio.
- Posso?
Jake alzò gli occhi al cielo e fece le spallucce, rassegnato. Il fratello sorrise, iniziando a strappare la carta per poi trovare una scatola di cartone. Ne tolse lo scotch e ci sbirciò dentro. Quando intuì cosa potesse contenere quella scatola strabuzzò gli occhi e li puntò verso Jake. – Tu sei pazzo.
- No, Josh. Ho solo tanti soldi.
- Tanti soldi un cazzo, Jake! – il ragazzo tirò fuori con estrema delicatezza la Canon nuova di zecca. Jake era a conoscenza della sua passione per il cinema, della sua aspirazione per diventare un importante regista, quindi appena aveva visto quella videocamera aveva pensato al regalo perfetto. Aveva speso la metà del suoi risparmi, ma vedendo l’espressione sul viso di Josh aveva capito che ne era valsa la pena. Un sorriso a trentadue denti si stampò sul suo volto, gli occhi gli brillarono. Il gemello si sporse verso di lui ma Jake lo bloccò appoggiandogli una mano sul petto, ridendo. – Eh no, Joshua. Prima devo aprire il mio.
- Non so come ringraziarti. Davvero, Jake, io…
Jake simulò un conato di vomito. – Che schifo, Joshua, sei diventato una docile pecorella da un momento all’altro?
- Ti sono solo tanto grato.
- Sì, sì, come vuoi. Ora fammi aprire il mio gioiello. – gli scompigliò i capelli ricci e afferrò la confezione sottile, scartando il regalo con un’espressione sospettosa sul viso. E quando ebbe tolto tutta la carta vide esattamente ciò che si era aspettato. Sulla confezione del vinile c’era una copertina bianca, con la scritta “Electric Mud” in grassetto proprio al centro e il familiare nome “Muddy Waters” scritto in un carattere più sottile proprio sopra al titolo dell’album.
Jake alzò lo sguardo sul fratello e sorridendo allargò le braccia. – Ora puoi abbracciarmi.
 
 
Quando Jake riaprì gli occhi si dimenticò quasi di tutto ciò che era successo l’anno prima. Le uniche immagini impresse nella sua mente erano quelle del suo ventiduesimo compleanno, negli occhi aveva le loro figure stretta l’una contro l’altra sull’erba bagnata. Ci mise un po’ per realizzare. Diede un’occhiata all’orologio a muro e constatò che fossero esattamente le tre del mattino. Sapeva che non avrebbe preso più sonno.
Per qualche motivo gli vennero in mente, l’uno dopo l’altro, tutti gli avvenimenti di quella settimana. Le discussioni con Veronica, la visita che era andato a fare a Sam, gli incontri con Tracy Ziegler. Già da un po’ si era reso conto del fatto che, il giorno della seduta, il suo umore era leggermente migliorato. Solo che affrontare nuovamente la realtà dopo aver messo piede nella stanza di Sam lo aveva fatto crollare di nuovo inesorabilmente.
Come aveva detto, ci aveva pensato a lungo e ancora era incerto sul da farsi. Quando era tentato di chiamare quel numero per prendere appuntamento gli bastava un attimo per rinunciarci. Eppure doveva ammettere che lo avrebbe fatto sentire leggermente meglio. Non del tutto, anzi, quasi per niente, ma valeva la pena tentare. Dopotutto, quel pomeriggio gli era sembrato di intrattenere una semplice conversazione con una ragazza appena conosciuta, escludendo i momenti in cui si erano andati a toccare i suoi punti deboli.
Pensò a Josh. Pensò al sogno che aveva appena fatto. Pensò a come aveva trattato Veronica, pensò a Sam, a Danny, a sua madre, a suo padre.
Pensò al sorriso di Josh, alla risata cristallina che non avrebbe mai più sentito.
Pensò alle lacrime che aveva visto scivolare sulle guance di Ronnie. Pensò a Sam che lo guardava, implorandolo di credergli. Alla forza che Danny mostrava sempre di avere nonostante fosse a pezzi quasi quanto lui.
E quella stessa notte, anche se non ne seppe capire bene il perché, Jake si permise di piangere. Per la prima volta dopo un anno riuscì a mostrarsi fragile a se stesso.
Si decise a comporre il numero dello studio e ad avvicinare il telefono all’orecchio.
 


 

Tracy sbuffò e strinse le palpebre quando la suoneria del suo cellulare la svegliò in piena notte. Sperò che fosse per una giusta causa, schiuse gli occhi e lesse un numero sconosciuto sul display. Allungò la mano destra e afferrò il telefono collegato al carica batterie, se lo portò all’orecchio e si schiarì la gola, parlando a bassa voce. Si alzò dal letto e si spostò in cucina per non svegliare Maggie.
– Pronto? – domandò con la voce roca e impastata. Si appoggiò al tavolo con i gomiti e sentì dall’altra parte del telefono tirare su col naso, udì la voce balbettare, ma nessuna parola, nessuna risposta.
Tracy sospirò e si passò una mano sul viso. - Se è uno stupido scherzo io non ho…
- D-dottoressa Ziegler?
La ragazza trasalì e si stropicciò gli occhi. Era una chiamata di lavoro, doveva svegliarsi. – Sì, posso esserle d’aiuto?
Udì la persona che la stava chiamando trarre un profondo respiro. – Sono… Sono Jake Kiszka.
Si chiese come avesse fatto a non riconoscere la voce del suo primo paziente. E poi, sarebbe potuta andare per logica. Era l’unico ad avere il suo numero che avrebbe potuto chiamarla “dottoressa Ziegler”.
Rizzò le spalle e sistemò meglio il telefono all’orecchio. – Ciao, Jake. Dimmi.
- Ho… Io ho… - la voce era rotta, tremante. Come se il ragazzo stesse trattenendo le lacrime. – Io ho bisogno di… Prenotare un appuntamento.
Tracy non sapeva come sentirsi. Se essere dispiaciuta per sentirlo in quel modo e con quella voce, se essere sollevata dal fatto che Jake volesse aiutarsi. Un comportamento professionale le avrebbe imposto di essere completamente neutra, di fare solo il suo lavoro. Ma lei aveva ventitré anni e quella era una delle prima volte in cui si rapportava con un paziente lei e soltanto lei. Riuscì ad ogni modo a mostrarsi umana, a se stessa e a Jake.
- D’accordo, Jake. Hai bisogno di parlare un po’ anche ora? Va tutto bene?
- Sì. – Jake tirò su col naso e sospirò. – Sì, tutto bene. Ho il raffreddore.
La giovane psicologa non ci credette nemmeno per sbaglio. Tuttavia, non doveva farlo sentire a disagio. Se avesse insistito forse Jake sarebbe stato anche peggio.
- Vuoi propormi tu un giorno? – domandò dolcemente.
Jake singhiozzò. – Domani. Domani va bene?
- Sì, c’è un orario che ti potrebbe essere comodo?
- No. No, qualsiasi orario va bene.
Tracy si appuntò mentalmente tutto quanto. – Alle cinque e mezza ce la fai?
- Credo di sì.
La giovane dottoressa annuì tra sé e sé. – A domani, Jake. Cerca di dormire.
Un altro sospiro. – Buonanotte.
La chiamata si chiuse, e come ogni volta che si ritrovava a svegliarsi in orari notturni quasi improponibili, Tracy si lasciò trascinare dai pensieri.
 
 
Quando la bambina tornò a casa, le lacrime scendevano copiosamente dai suoi occhi. Suonò il campanello un paio di volte, lo zaino che aveva sulle spalle sembrava pesare poco rispetto a tutto il resto. Sua madre le aprì la porta mostrandole un caloroso sorriso, che Tracy nemmeno sembrò notare. Quando Olivia la salutò, sua figlia le rispose con un cenno del capo. Era entrata a testa bassa, ma sua madre aveva capito ogni cosa. Non era la prima volta che tornava a casa da scuola in quelle condizioni, che filava nella sua camera senza degnare nessuno di parola. Ma la donna non poteva lasciare che Tracy continuasse di quel passo.
E in quel momento, la ragazzina si trovava in quello studio proprio perché Olivia e David erano preoccupati per lei, e se non erano riusciti loro ad aiutarla con tutti i provvedimenti possibili, c’era bisogno di qualcosa di più, di un aiuto professionale.
Tracy era rimasta con gli occhi puntati sul pavimento di marmo per tutto il tempo, aveva parlato poco, ma non aveva dimostrato nessun rifiuto nei confronti della psicologa e della seduta.
La dottoressa si chiamava Danielle Warren, e a Tracy piaceva. Le piacevano i suoi riccioli biondi, i suoi occhi azzurri e la bassa statura che la faceva sembrare di svariati anni più piccola di quanti in realtà ne avesse. Aveva un sorriso luminoso, la voce era dolce come lo zucchero e non si era dimostrata per nulla severa o seriosa come gli psicologi che Tracy aveva visto qualche volta nei film.
- Che tipo di cose ti dicono, i tuoi compagni di classe? – le aveva chiesto la dottoressa dopo un paio di sedute. Tracy aveva sollevato le spalle e aveva continuato a tenere lo sguardo fisso sul pavimento come faceva sempre.
- Mi prendono sempre in giro perché non sono magra. Il più delle volte o fanno alle mie spalle, e quando cerco di parlare con loro per chiarire mi ridono sempre in faccia. Mi hanno presa tutti di mira perché ho interessi differenti dai loro. Faccio qualcosa di male?
Danielle sospirò dal naso, l’espressione sul suo viso si stava riempiendo di sconforto nei confronti di quella dodicenne che, sebbene non avesse la colpa di nulla, si stava mettendo in discussione in quel modo. – No, Tracy. Tu non hai fatto niente di male.
- E allora perché sono sempre io che in classe vengo trattata in questo modo?
- Perché sei tanto buona, Tracy. E, purtroppo, talvolta gli altri se ne approfittano per sfogare la stessa rabbia che tu sfoghi nei libri.
 
 
Quando Tracy mise piede nello studio, Jake era già seduto nella sala d’attesa. La giovane psicologa infilò le chiavi nella borsa, si voltò a guardarlo e gli sorrise. – Buonasera, Jake. Un po’ in anticipo? Sei arrivato da molto?
Il ragazzo alzò gli occhi verso di lei e scrollò le spalle. – Non avevo nulla da fare.
- Ti ha fatto entrare la dottoressa Warren?
- Sì.
Tracy annuì, dirigendosi verso la porta del piccolo studio, facendo cenno a Jake di seguirla. Appena entrarono la ragazza aprì le finestre, posò la propria borsa sull’appendiabiti e si sedette dietro alla scrivania, vedendo Jake accomodarsi sulla sedia di fronte a lei. Il ragazzo sembrava completamente diverso dall’ultima volta in cui l’aveva visto. Certo, la statura era la stessa, i capelli anche. L’espressione sul suo viso non aveva nulla a che vedere con il cipiglio scocciato e infastidito che aveva quando lo aveva visto nell’ospedale in cui talvolta lavorava.
Ancora una volta, si domandò il motivo per cui l’aveva visto lì dentro. Non glielo avrebbe chiesto, se Jake avesse voluto gliene avrebbe parlato di sua volontà e lei avrebbe ascoltato.
Il giovane aveva gli occhi stanchi, lo sguardo basso. Gli occhi incavati e il pallore delle sue guance risaltavano l’espressione afflitta ed esausta. Ancora una volta, sembrava non aver chiuso occhio, e Tracy ne aveva anche la prova che era quella chiamata alle tre di notte.
- Come stai, Jake? – chiese lei dopo svariati minuti di silenzio.
- Io… Ieri mi sono reso conto di quanto stronzo possa essere. – alzò la testa e respirò profondamente, incrociando le dita della mano destra con quelle della gemella.
Tracy aggrottò la fronte. – Perché dici così?
- Ho trattato malissimo Ronnie. Ero… Ero arrabbiato, nervoso, triste. E me la sono presa con lei.
La ragazza annuì e strinse le labbra. Aveva bisogno di andare più a fondo alla questione. – Cosa ti faceva star male?
- Tante cose messe insieme. Ma non… - Jake si fermò per un momento, teso. – Non sono importanti. Sta di fatto che mi sono arrabbiato con lei.
- Ti ha detto qualcosa che ti ha fatto innervosire?
- Sì. Ma non dovevo comunque reagire in quel modo.
- Avere una brutta reazione quando si è nervosi o arrabbiati non vuol dire essere stronzi, Jake. – Tracy appoggiò il mento sui dorsi delle mani. Osservò Jake giocare con il bracciale bianco che aveva al polso destro. Non le rispose, restò in silenzio.
Tracy piegò la testa da un lato e continuò ad osservare i suoi gesti. Quel bracciale lo aveva anche alla prima seduta, e in momenti come quelli si era accorta del modo che aveva di sfiorarlo o giocarci. – Vuoi descrivermi cosa è successo?
Jake alzò le spalle. – E’ solo che molte volte Veronica non vuole affrontare ciò che ha di fronte. Questa cosa mi ha fatto innervosire, perché le voglio bene. Non voglio che viva lontana dai problemi, che eviti le complicazioni, perché facendo così non potrà mai superare nulla.
- Sono le stesse cose che fanno star male te?
- Sì.
- Ma tu a differenza sua ti ci interfacci.
- Sì.
La ragazza annuì. Abbassò lo sguardo sulle mani, formulò bene la risposta che avrebbe dovuto dargli. – Forse Veronica non si sente ancora pronta, ha bisogno di un po’ più di tempo per affrontare ciò che la fa star male, ma vedrai che prima o poi avrà la forza giusta per farlo. Quando ti sei reso conto di aver sbagliato, cosa hai fatto?
- Le ho chiesto scusa. L’ho abbracciata, nient’altro.
- E lei ti ha perdonato?
Jake annuì. – Credo di sì.
Tracy sorrise. – A volte, spinti da emozioni che prendono il sopravvento sulle nostre parole o sui nostri gesti, perdiamo il controllo. Non sei stato uno stronzo. Sei stato solo umano, non lo hai fatto per ferirla. E io sono sicura che lei ti voglia bene tanto quanto gliene vuoi tu. Avrebbe capito in ogni caso.
 
 
- Tracy. E dai, Tracy! Non l’ho fatto apposta, volevo solo giocare! Che ne sapevo che sarebbe andata a finire così? – la voce ovattata del fratello fece alzare gli occhi al cielo alla ragazzina. Tracy scosse la testa, si alzò dal letto su cui era seduta continuando a premere il sacchetto ghiacciato contro il proprio occhio sinistro, che aveva sbattuto anche abbastanza violentemente dopo una spinta da parte del fratello per riuscire a prendere la palla con cui stavano giocando. Aprì la porta scorrevole e osservò il fratello maggiore con un’espressione scocciata. Will indossò un sorriso sbilenco.
- Che cosa vuoi? – sbuffò la minore. Il fratello le prese una mano e la sollevò. – Tirami un pugno.
- No!
- Dato che ti ho fatto male, tu adesso devi fare male a me così siamo pari.
La bambina arricciò il naso. – Il pugno te lo tirerei per le idiozie che dici.
- Come va l’occhio?
- Ringrazia che non sono diventata cieca.
Will si passò una mano tra i ricci biondi. – In quante altre lingue devo chiederti scusa?
- Tutte.
- Ma non le conosco!
- Provvedi.
- Ma sono troppe!
- Allora fammi i compiti.
Will fece cadere la mandibola. – Tutti tutti?
In risposta, Tracy lasciò andare per un attimo il ghiaccio e si arrampicò per arrivare a prendere i libri che teneva sulla mensola rossa attaccata al muro. Li sbatté tra le braccia del fratello e sorrise. – Quando hai finito chiamami, vado a guardare i cartoni animati.
Will, vedendo la sorellina allontanarsi, si disse che non sarebbe stata poi un’impresa così ardua. Dopotutto, erano i compiti di una terza elementare e lui frequentava la quinta. Si mise subito a lavoro, ma quando ebbe finito si rese conto del fatto che, sebbene non fossero stati difficili da svolgere, erano passate diverse ore. Non assegnavano nemmeno a lui così tanti compiti a casa. Sospirò e lasciò cadere la testa all’indietro sullo schienale della sedia. – Tracy, ho finito!
La bambina tornò nella propria camera masticando una caramella. – Hai fatto tutto? Ce ne hai messo di tempo.
- Erano tantissimi.
- Sì, infatti. Oltre a quelli per domani, ti ho dato da fare anche quelli per i prossimi tre giorni.
In un primo momento Will si sentì un idiota. Ma si disse di esserselo anche un po’ meritato. Sospirò guardando la sorellina con occhi imploranti. – Mi perdoni?
- Guarda che ti avevo già perdonato da subito, mica è stata colpa tua. Volevo solo una scusa buona per non fare i compiti.
   
 
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