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Autore: The Custodian ofthe Doors    09/09/2019    4 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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VII- Moon.

 

 

 

L'entrata era coperta da un lungo tendaggio di velo bianco, leggero e impalpabile che donava all'ambiente esterno un'aria ben più mistica e fumosa di quello che era in realtà.
Aveva seguito fino a quel momento gli ultimi aggiornamenti, la diretta in tempo reale di quell'assurda gara che la sua famiglia aveva dato il via libera per organizzare.
Ad onor del vero, così com'era successo per molti dei suoi fratelli, si stupiva ancora che questo macello fosse stato organizzato nei minimi dettagli, che non fosse stato conseguenza di qualche grande profezia, di qualche grande lite o di qualche grande puttanata che uno a caso di loro aveva fatto. No, per una volta era tutto stato deciso, se ne era parlato, c'erano voluti alcuni mesi per definire i dettagli e per stampare tutti i dannati volantini. Questa volta nessun ragazzino innocente avrebbe rischiato la propria vita per accontentare i capricci di un dio, questa volta non sarebbe stata come le altre, eppure… eppure di nuovo come molti dei suoi fratelli si arrovellava nel cercare di capire la beffa, dove si nascondesse il tranello, la fregatura.

Perché c'è, c'è di sicuro, specie visto chi è stato a progettare tutto ciò.

Non l'avrebbe mai ammesso davanti ad anima viva, avrebbe preferito rischiare la morte piuttosto che dirlo ad alta voce, ma quell'uomo, quell'essere, le incuteva sempre una certa ansia.
Aveva avuto modo di vederlo all'opera, si ricordava ancora come lo avesse scioccamente sottovalutato, lei poi, che non sottovalutava mai una preda, che sapeva come le sorti di una caccia potessero ribaltarsi in poco tempo. L'aveva fatto comunque, aveva guardato quel ragazzino alto neanche un metro e sessanta, sporco di terra e polvere, con le unghie nere ed i vestiti stropicciati che chiedeva la grazia al Dio sbagliato e si poggiava con tranquillità ad Ade, senza paura di sporcarlo, senza paura di star toccando una divinità. L'aveva guardato e si era domandata come un mortale conscio della loro esistenza potesse comportarsi in quel modo, così sprovveduto, così indifferente… e come poteva Ade accettare la cosa. Ma non aveva capito nulla, così come non avevano capito gli altri, così come Ares l'aveva relegato al ruolo di ragazzino divertente e impertinente, come Apollo avesse riso con lui dei suoi insulti, così come Atena si era eretta sopra di lui senza capire quanto quello che si trovava davanti a lei fosse solo un albero che presto sarebbe cresciuto sino a sfiorare i cieli.
Seduta comodamente sul suo trono di pelli Artemide fissava il bosco attraverso il velo delicato della sua tenda, pensierosa e guardinga come non lo era dall'ultima Grande Profezia.
Neanche le sue ancelle le davano così da pensare, neanche le sue prede, e poi quella richiesta… no, Artemide lo sapeva, c'era sotto qualcosa, qualcosa di grande.
Il velo bianco tremulò, l'immagine opaca della boscaglia si dilatò lasciando posto al volto pallido e gioviale di Ipnos, dietro di lui riusciva ad intravedere delle macchine ed una figura imponente, sicuramente Efesto, che discuteva animatamente con un'alta e longilinea siluette nera, Thanatos senza dubbio alcuno.

<< Salve a te cugina, come va il campeggio?>> chiese il dio sistemandosi il cappello a falde larghe.
Artemide alzò un sopracciglio. << Perché malgrado passino i secoli continuate tutti a farmi la stessa battuta? Non sono in campeggio, Ipnos, sono accampata, sto rincorrendo la mia prossima preda.>>
L'altro annuì come se avesse finalmente capito qualcosa di importante, come se la volta successiva non le avrebbe fatto quella stessa domanda. Ma Ipnos era così: poteva giurarti di aver capito una cosa, che non l'avrebbe fatto mai più, e poi farla non appena gli si voltavano le spalle semplicemente perché se ne era dimenticato. Non c'era neanche di che arrabbiarsi con lui ormai.
<< E nel frattempo hai preparato qualcosa? La prossima prova è la tua, lo sai, sì?>>
<< Ovviamente, per chi mi hai presa? Per mio fratello?>>
<< Quale dei tanti?>> chiese l'altro sorridente.
<< Il gemello.>>
<< Oh, avrà una prova anche lui, te lo ha detto?>>
<< No, al momento mi è parso più occupato per affari suoi.>> ammise mentre il ricordo del volto pensieroso di Apollo si faceva largo nella sua mente. << E per altro, trovo decisamente stupido lasciare a lui una prova futura, e quindi più impegnativa, e chiedere a me di far la terza. Penso vi sarebbe convenuto di più far il contrario.>>
Ipnos si strinse nelle spalle, il bavero del cappotto gli coprì quasi tutto il volto e solo la fronte chiara rimase in mostra, come la gobba calante della Luna.

Ed il fatto che somigli così tanto al mio astro, cugino, è una cosa che mi ha sempre dato da pensare.

<< In ogni caso, tutto è pronto, una delle mie ancelle dovrebbe esser venuta a consegnarvi dei rotoli.>>
Ipnos annuì ancora, pronto a replicare, quando uno scoppio sullo sfondo lo fece sobbalzare e girar di colpo.
<< Questa è tutta colpa tua Gio! Lo so che ci stavi giocando tu con quella roba!>> rombò la voce bassa ma potente di Efesto.
<< Calunnie e maldicenze! Se fossi stato io lo scoppio sarebbe stato molto più grande!>>
<< Togli quelle manacce dai miei sensori!>>
<< Oh, ma certo, ora sono manacce, ma quando ti serviva qualcuno che si infilasse nel tuo bel drone ti erano simpatiche, eh? Devo ricordarti che mi hai fatto infilare letteralmente un braccio nel culo di quel dicobolo? No, perché c'è stato un momento in cui ho pensato di doverlo assolutamente inserire nel curriculum. “ Ottime doti meccaniche, pratico nell'infilare braccia nei culi delle statue” che te ne pare?>>
replicò con fin troppo sarcasmo una voce lontana che però Artemide non faticò neanche per un momento a ricollegare al suo proprietario.
Quindi Gio era in sala macchine con Thanatos ed Efesto? Era praticamente alla direzione dell'intero teatro?
Gio nella sala del Delta… aveva libero accesso a qualunque luogo sorvegliato da una delle macchine di Efesto, aveva occhi ed orecchie ovunque.
Perché la cosa la insospettiva più di quanto già non facesse?

<< Perdonami Artemide.>> La voce allegra di Ipnos la riportò a prestagli attenzione. << Credo proprio di dover andare, sento le voci di quei due ma non del mio di gemello e temo che Thanatos possa decidere da un momento all'altro che un dio del fuoco e delle fucine ed un Gio non ci servano più. Non vedo l'ora di vedere la tua prova! Buon campeggio e salutami le tue giovani marmotte!>>

Prima che potesse replicare ad una sola delle sue parole il collegamento s'interruppe ed il velo tornò ad essere quello che era stato in precedenza.
Artemide si massaggiò le tempie, affaticata anche da una semplice conversazione con il gemello pallido.
Per fortuna non era presente nessuna delle sue ancelle, se lo avessero sentito chiamarle “giovani marmotte” probabilmente avrebbero smesso tutte di dormire per pura ripicca verso il dio.

<< Dimmi che la cosa ti preoccupa tanto quanto preoccupa me.>>
Ancora ad occhi chiusi la dea non si sforzò neanche di voltarsi verso la sua ospite o di mostrarsi sorpresa per le sue parole o la sua semplice presenza. A dir la verità la stava aspettando.
<< Vuoi forse dirmi che hai paura di ciò che potrebbe fare?>> chiese mentre un sorrisino divertito le curvava le labbra.
Il grugnito poco elegante che ricevette in replica la fece sorridere solo di più.
<< Non dirlo neanche per scherzo, non c'è nulla che possa intimorirmi.>>
<< Quando dici questo genere di cose mi ricordo perché i mortali ti definiscono come l'altra metà di Ares.>> Artemide si mosse ad agio, aprendo gli occhi e voltando il viso verso l'altra dea.
Atena, se possibile, ringhiò più di quanto non facesse il prima citato dio della guerra.
<< Smettila di paragonarmi a quel bifolco. Sono intelligente e razionale, a differenza sua, per questo so che non c'è nulla che meriti il mio terrore, ogni cosa può essere affrontata e superata.>>
<< Anche Giordano Delle Vie?>>
La dea si esibì in una smorfia che, se solo al posto della sorella ci fosse stato Apollo, l'avrebbe segnata per tutti i secoli a venire. << Non chiamarlo in quel modo, gli da molta più importanza di quanta non gliene diano già gli altri.>>
Con passi decisi la dea si avvicinò al giaciglio di pelli e vi si sedette con rigida alterigia.
Artemide sospirò, quella scenetta l'aveva già annoiata. << Il tuo odio nei suoi confronti è sempre ammirevole e costante. Anzi, mi azzardo a dire che con il passare del tempo si è intensificato.>>
<< Siamo Dei, Artemide, noi siamo- >>
<< Te ne prego, non dire “superiori a queste cose” perché la storia della nostra esistenza si basa sull'odio reciproco che proviamo gli uni per gli altri e per coloro che osano essere migliori di noi.>>
<< Detta così pare quasi che ci riescano.>>
<< Alcuni sì. >> sogghignò sinistra come il suo astro, << Aracne, no?>>
Atena replicò quella stessa smorfia schifata di prima ed Artemide si disse che alla prossima le avrebbe fatto una foto. Ma non avevano tempo per queste cose, c'era ben altro a cui pensare.
Sebbene nessuno dei loro famigliari pareva essersi posto il problema, Artemide sapeva che Atena, così come lei, aveva preso più che seriamente la cosa e che era li soprattutto per discuterne.
<< Cosa ne pensi? >> le chiese giusto per iniziare dal principio.
La dea della saggezza si sedette meglio ed alzò il mento al cielo, preparandosi per una delle sue migliori spiegazioni.
<< Ovviamente ha un obbiettivo che differisce da quello che ha pubblicamente proclamato a tutti noi. Sebbene il suo piano sia apparentemente ben congegnato nei minimi dettagli, converrai con me che ci sono ben più di un paio di falle.
Punto primo: ha posto la gara come un modo per “evitare morti inutili”, ha puntato sui sensi di colpa, blandi, che alcuni di noi ancora hanno per le ultime imprese e sulla logica di altri di noi. Ci ha esplicitamente detto “è inutile mandare a morire dei ragazzini, figli vostri su cui voi stessi dovete contare per le vostre imprese, quando potreste tenerli in salvo e magari permetter loro di vivere per un po' come dei ragazzi normali”. Sensi di colpa e logica. Poseidone si sarebbe tagliato una mano piuttosto che sentirsi riaccusare da un suo figlio di fregarsene di loro, Zeus non avrebbe tollerato un altra predica da parte di un semidio, Ermes ancora crede di aver tutte le colpe del mondo ed Era… beh, per quanto non le piacciano i figli illegittimi è anche la dea della famiglia, la morte inutile di una progenie a caso non le piace molto. Altri come me, Tiche, te, Efesto e anche tuo fratello, abbiamo semplicemente constatato che se in questa fantomatica missione fossero morti i migliori dei nostri, perché avremmo preteso solo i più forti per il nostro divertimento, in caso di pericolo non ci sarebbero stati semidei degni di questo nome per adempiere al nostro volere.>>
Nel corso dei millenni Artemide si era domandata spesso come potessero in così tanti trovare in Atena la loro “dea preferita”. Le sue parole erano pregne di intelligenza, di saggezza… ma così spietate, così fredde… “avremmo preteso solo i più forti per il nostro divertimento”… per l'Ade e poi si domandavano perché fosse anche la dea della strategia di guerra…
<< Così ci ha convinti tutti più o meno facilmente: i nostri figli non si sarebbero lamentati, Chirone o Lupa non avrebbero battuto ciglio, ma avremmo comunque avuto il nostro piccolo show.
Ci ha detto che chiunque avrebbe voluto, tra di noi, avrebbe potuto ideare una prova, ci ha dato il potere ma non completamente, è stato più un contentino, uno studente più intelligente del suo insegnante che gli assicura che rimarrà comunque il più grande dei due perché lui è appunto solo un povero alunno.>>
<< Ci ha ingannati quindi.>> disse in parole povere Artemide, che da sempre aveva avuto questa grande dote di riassumere ciò per cui la gente sprecava inutilmente fiato.
Atena annuì, infastidita in parte da quell'interruzione brusca e sbrigativa. << Sì, possiamo dire così, a questo punto tutti noi eravamo già attratti da questa nuova proposta, non ha dovuto insistere troppo.
Ma veniamo al punto secondo: se la sua intenzione era davvero quella di regalarci un grande spettacolo senza vittime inutili, dando la possibilità a qualcuno di degno di tornare alla sua vera e prima vita, perché ha aperto le selezioni a tutti?
I Campi di Pena sono vuoti, Artemide, vuoti. Tutti i mostri che vi sono stati rinchiusi per tutto questo tempo sono ora liberi di girare per l'Ade, si sono trovati faccia a faccia con gli eroi che li hanno uccisi magari e abbiamo visto tutti cos'è successo in quel labirinto.>>
<< L'edera di Persefone non perdona, devo dedurne che ne sei delusa? Avresti voluto, cosa? Che continuassero a giocare?>> chiese la dea della Luna alzando scettica un sopracciglio.
L'espressione infastidita di Atena valse più di mille parole, ma la dea non era solita star zitta.
<< Persefone ha barato. Ha mosso le sue piante come- >>
<< Oh, per l'Olimpo, risparmiami questa sceneggiata Atena!>> proruppe ormai annoiata Artemide. << Avremmo e sicuramente fatto tutti la stessa cose e quando faremo la nostra prova ognuno di noi muoverà le fila per far sì che i nostri prediletti passino il turno e che chi più ci sta antipatico o anche solo un po' indifferente finisca in qualche trappola. Non fare la finta buonista con me. Abbiamo sempre fatto così, abbiamo sempre comandato i nostri giochi, in guerra come in pace. Persefone non ha fatto nulla di strano e più che preoccuparti di lei che ha “barato” dovremmo parlare di ciò che è successo tra quelle mura. Le anime sono scomparse, te ne sei resa conto, sì?>>
L'altra dea rimase rigida, fissando con severità la sorellastra.
<< Sarebbe stato impossibile non accorgersene. Alcuni sono scomparsi, altri si sono salvati per miracolo e altri ancora hanno semplicemente lasciato il labirinto.>>
<< Hai visto la tessera d'oro… >>
<< Sai chi era, lo sai perfettamente così come lo so io. Quell'essere… prima andava aggirandosi per le Praterie, poi si intrufola nel labirinto, un posto che tecnicamente sarebbe dovuto esser sorvegliato, si impossessa di tutte le armi che trova- >>
<< Le va a cercare, le ha cercate tutte e ha lasciato solo quelle più vicine ai proprietari. >>
<< E poi le distribuisce a chi più crede. Senza dimenticare le anime che ha fatto scomparire… >>
Vi fu un lungo momento di silenzio in cui nessuna delle due parlò, ciò che avevano detto fino a quel momento aleggiava nella tenda come un fumo pesante e dall'odore pungente, pareva la nuvola indissolubile di un incenso che in egual misura attirava e disgustava chiunque lo sentisse.

<< Quello che dovremmo chiederci, >> iniziò Artemide a voce bassa. << è cosa ci ricava lui in tutto ciò.>>
Atena riportò la sua attenzione su di lei. << Continua.>>
<< Che sia sempre stato contro le guerre dei semidei è cosa risaputa da tutti, così come sappiamo che non ha mai avuto molti in simpatia, non era uno che si faceva dei veri amici, non molti per lo meno.>>
<< Pochi e fidati, gli altri erano tutti conoscenti con cui scambiare quattro chiacchiere e giocare a carte.>>
<< Allora, se non ha grande stima di molte persone, perché aprire la competizione a tutti? Cosa gli giova? Avrebbe potuto fare una selezione mirata e mandare in campo solo i migliori.>>
<< Ma in questo caso sarebbero stati questi “migliori” a cadere fino a quando non ne sarebbe rimasto uno solo.>> le fece notare l'altra. << Ha permesso che migliaia di milioni, miliardi di persone, tutti i morti della Terra, potessero aver l'opportunità di gareggiare. Così sarebbero potuti essere loro gli sfortunati eliminati e non i suoi prediletti.>>
<< Ma così facendo ha generato un caos incredibile.>>
Atena sbuffò una risata divertita. << E cosa c'è di strano? Stiamo parlando di quell'uomo, il caos gli scorre nelle vene.>>
<< Lo so Atena, ma non ti sembra troppo anche per lui? E se questa confusione fosse ciò a cui voleva arrivare?>>
<< Rivoltarci contro tutte le anime dell'inferno? No.>> disse sicura, ma poi si bloccò, aggrottò le sopracciglia e la guardò pensierosa. << Però, quando regna il caos tutti sono attenti agli eventi più grandi e tralasciano o ignorano i più piccoli. Cosa vuole, Giordano il Mortale, che può ottenere solo mentre tutti gli Dèi guardano da un'altra parte?>>
Artemide voltò di poco il capo, lo sguardo fisso su un grande telo su cui si alternavano immagini mute, la riproduzione di un labirinto d'edera, mostrando i momenti più salienti della prima gara. Ma alla dea non interessavano i volti e le lotte, i suoi occhi grigi erano puntati dritti su un gruppo di puntini dalle sfumature cupe, in cui solo una sfera chiara risaltava. Era gialla, di quello stesso colore del grano un attimo e l'attimo dopo come il topazio scheggiato. Brillava di una luce intensa e propria, proveniente dal centro di quella piccola sfera che si accompagnava a molte altre più scure, come quella color terra che gli fluttuava vicino e che l'aveva spinta di punto in bianco dietro ad uno dei muri.
Il puntino color terra si era poi lanciato verso un nutrito gruppo di altri puntini colorati delle più diverse sfumature, ma ad Artemide non interessava neanche quello.
Tenne gli occhi sul puntino giallo, continuò anche se non succedeva niente, anche se se ne rimaneva semplicemente lì, al sicuro. Lo fece finché il video le mostrò di nuovo ciò che le aveva mostrato la prima volta: di punto in bianco da dietro l'angolo, letteralmente pochi passi prima della svolta, comparve una lucida e brillante moneta d'oro, più luminosa delle altre e contornata da centinaia di puntini azzurrognoli e luminosi, così tanti che solo l'occhio di una dea poteva distinguerli.
La sfera d'oro si avvicinò ancora a quella gialla, ed Artemide si immaginò una figura di puro oro piegarsi sopra quell'anima, posarle una mano su una spalla, prendendola completamente di sorpresa, e sussurrarle qualcosa all'orecchio.
Poi scomparvero entrambe. Quando la moneta d'oro ricomparve nel labirinto era di nuovo sola.

<< Temo che la domanda giusta sia: cosa ha già fatto, Giordano il Mortale, proprio sotto il nostro naso?>>

 

 

 

 

*

 

 

 

 

La sala era completamente buia, non vi era un solo filo di luce che vi potesse penetrare.
Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, se quella fosse una cella, una camera, un salone monumentale le cui finestre erano tutte state sprangate affinché il Sole non potesse farvi filtrare neanche il più piccolo dei suoi raggi.
C'era solo il buio ed il freddo.
Il pavimento su cui poggiava era levigato come il marmo, freddo come la pietra nuda di una grotta, i suoi vestiti non fornivano il minimo calore ma ormai non importava più. Da troppi anni non soffriva più il caldo o il gelo, da troppi anni era indifferente a tutto ciò che lo circondava.
C'era il buio, la pietra così fredda da sembrar bagnata ed una curiosa sensazione di umidità sulle sue mani, come se le avesse sfregate contro quel pavimento, come se le avesse infilate nella sabbia della battigia.
Ma non c'erano minuscoli grani sulle sue mani, non vi era luce che potesse permetter di vedere, non vi era altro che quel freddo pungente, che rendeva l'aria quasi satura d'acqua e che non lo sfiorava minimamente.
Era solo.
Tenne gli occhi aperti, l'oscurità era così fitta che non vi sarebbe stata alcuna differenza nel tenerli chiusi, ma i suoi erano spalancati, le pupille dilatate, enormi quasi rispetto all'iride, pronte ad ingoiare anche il più piccolo cambiamento in quel mondo dominato da Nyx e dalle sue spire.
Non si mosse, non respirò, non chiuse gli occhi, nell'immobilità di quel mondo non vi era nulla che potesse far credere che vi fosse anche un solo essere vivente.
Forse, perché era proprio così. Di vivo, lì, non c'era ormai più nulla.
I suoi occhi si spostarono verso il basso, dove sapeva per puro intuito che vi fossero le sue mani.
Percepì qualcosa cambiare, un movimento involontario, qualcosa a cui il suo corpo non sarebbe più dovuto esser abituato e che invece, a quanto pareva, sembrava ancora ricordarsi come si faceva.
Ed il buio si piegò, lentamente, con letizia, come il Sole che cala alla sera, l'oscurità scivolò tra le sue dita, l'acqua di un mare nero che si ritira verso l'oceano e lascia la riva seguendo il volere della Luna e della sua pallida influenza.
Le sue mani si delinearono, i contorni quasi trasparenti, come il corpo di una medusa, al cui interno è possibile veder un sistema di vita ancestrale e perfetto.
Vide le sue ossa, per un folle momento credette di poter vedere anche le vene ed i fasci lisci dei suoi muscoli, poi tutto sfumò in un caldo color rosso, sempre più intenso, sempre più lucido.
Nel buio del nulla le sue mani brillarono fiocamente, tra le dita il sangue scintillò come una pietra intagliata, come i riflessi del sole sul mare, come le stelle nel cielo.
Gli bagnava i palmi, colava sui polsi fini e scendeva in rigagnoli ormai secchi fino al gomito, disegnando delicati reticoli sulla pelle fredda come la pietra su cui sedeva.
Non gli interessava guardarsi attorno, controllare se l'umidità che percepivano le sue gambe fosse data da un'intera pozza di sangue in cui stava a mollo da ore, da giorni, non lo toccava, non gli dava alcun pensiero, non ne era spaventato.
Per tutta la vita aveva avuto le mani sporche di sangue, imbrattate di quel fluido denso, scivoloso e viscoso, che significava tutto e non aveva alcuna importanza. Aveva imparato a conviverci, vi si era bagnato, vi si era immerso ed era riuscito a distinguerne la provenienza.
La sua intera esistenza era stata macchiata dal sangue, ma certo, non il suo.

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Il sentiero da seguire era ornato di fiori che probabilmente non sarebbero mai potuti nascere in quei luoghi.
Jonas aveva guardato con attenzione quelle piante ed i cartelli che, ad intervalli regolari, erano piazzati davanti alle aiuole con il comando ben preciso di non toccarle. La voglia di allungare anche solo una mano e sfiorare un petalo era davvero molta, ma il ragazzo aveva già iniziato a capire come ragionavano gli Déi e, se proprio qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe facilmente ammesso che vedersi tagliare una mano o un braccio perché aveva osato toccare i fiori di Persefone non rientrava tra le dieci cose a cui proprio non poteva rinunciare.
Davanti a lui gli altri parevano tranquilli, Nathan aveva l'espressione di uno che si era già rotto le palle di camminare e che voleva arrivare al più presto alla prossima meta e forse sentire le chiacchiere tranquille e disinteressate di Eliza e Jane, assolutamente inquietante sempre se qualcuno glielo avesse chiesto, non stava aiutando molto, ma pareva comunque una cosa normale.
Chi invece non si stava minimamente attenendo al ruolo che gli era calzato a pennello fino a quel momento, era Cade.
Gettando un'occhiata alle sue spalle Jonas scorse la figura del rosso camminare lentamente dietro di lui: teneva le testa bassa, pensieroso, le mani infilate nelle tasche e non a giocare con il coltellino come aveva fatto fino ad allora.
Forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa, chiedergli come stesse o cose simili, specie visto come si era comportato l'altro con lui, salvandolo e aiutandolo sì a scappare ma anche a far qualcosa da solo. Malgrado l'incidente del lottatore di sumo non fosse proprio una di quelle cose da inserire in una lettera di presentazione, certo.
Gli avrebbe fatto piacere? Dopotutto era un ragazzino di sedici anni che si impicciava dei problemi di un ventenne, anzi, di un ventiseienne. Tra lui e Cade, tralasciando l'epoca in cui erano vissuti, passavano ben dieci anni, magari al giovane avrebbe dato fastidio che un ragazzino si immischiasse nei suoi pensieri. O magari, come sempre, si stava solo facendo una marea di fisime lui e Cade avrebbe gradito la sua “preoccupazione”. E poi, in un qualche modo, erano amici no? Più conoscenti forse, anche se, dopo quello che avevano passato assieme magari poteva definirsi suo amico… dannazione, perché doveva sempre impantanarsi in questi problemi? Erano morti, non c'erano più “adulti” e “bambini”, erano tutti allo stesso livello ora, e lui era una persona matura che, visto un compagno meditabondo, si preoccupava che potesse esserci qualcosa che non andava e gli chiedeva, gentilmente, cosa avesse. Sì. Persona matura che si comporta da persona matura. Ecco, così.
Rincuorato dai suoi stessi pensieri Jonas alzò la testa per prendere un inutile respiro d'incoraggiamento, prima di voltarsi e decidersi a parlare con Cade, quando l'aria sulfurea, stantia e terrosa degli inferi gli si bloccò in gola, come un macigno difficile da mandar giù, la sensazione fu quella dolorosa e soffocante di quando ingoiava un sorso d'acqua e sentiva la carotide esplodergli sotto la pressione del fluido compattato. Si fermò di colpo, i piedi piantati a terra, le spalle rigide ed i muscoli così tesi da fargli male. Se avesse avuto solo un po' di sangue in corpo ancora, probabilmente sarebbe sbiancato, forse sarebbe addirittura svenuto e questa era una cosa da non prendere sotto gamba visto che era già successo. Ma neanche la folle corsa dei suoi pensieri poteva dargli un minimo di sollievo, poteva proteggerlo da ciò che si era parato davanti ai suoi occhi.
Alto decine e decine di metri, così tanto che i contorni sfumavano nel buio della volta rocciosa; imponente e minaccioso, dalle grandi sbarre larghe come tronchi di una quercia, tutte saldate le une alle altre in forme regolari e geometriche, dalla trama grezza e ruvida, ancorato ad una rete infinita sulla cui sommità spiccava un enorme groviglio di fil di ferro, si ergeva un cancello nero come la pece, minaccioso come le porte dell'infermo.
E Jonas le aveva viste bene, vi era entrato una volta e non vi era più uscito.
Senza rendersene conto fece un passo indietro, quello davanti a lui non poteva essere Il Cancello Nero. Non poteva essere la sola ed unica entrata ai Campi di Pena, non poteva. Non vi era una rete metallica a delinearne i confine, ma titaniche mura nere che non permettevano a nessuno di vedere le atrocità che venivano perpetrate al loro interno o di scorgere anche solo un granello di speranza del mondo di soffice foschia e oblio che vi era fuori.
Non poteva essere di nuovo lì, non potevano riportarlo dentro quelle mura, non potevano farlo. Dio santissimo, avrebbe preferito dimenticare tutto, avrebbe preferito essere ingoiato dai muri d'edera ma no, non tornare lì, non poteva, non poteva farlo, non di nuovo.

<< Ehi, va tutto bene, non ti rimanderanno lì dentro, non è ancora finita.>>

Con gli occhi sgranati dal terrore Jonas volse la testa di scatto verso la direzione della voce, un attimo fugace per permettersi di accertarsi che sì, quello che aveva parlato era Cade, per poi riportare di nuovo lo sguardo sulle inferriate. Era sciocco ma aveva la sensazione che se gli avesse voltato le spalle anche solo per un secondo sarebbe potuto uscire qualche mostro a prenderlo e ritrascinarlo dentro.

<< Oh, Jonas? Guardami, non succederà nulla, i Campi di Pena stanno dall'altra parte, ci siamo avvicinati molto di più agli Elisi, capito?>>
A Cade bastò allungare una mano per afferrare saldamente la spalla del ragazzo, sentendo i muscoli tesi come le corde di un argano. Era pallido, no, era cianotico, le labbra fini erano quasi violacee e Cade non ebbe neanche il dubbio che, in altre condizioni, sarebbe svenuto per mancanza d'aria. Il ché era davvero ironico: potevano ferirsi, potevano sanguinare, morire ancora e scomparire nel nulla ma nessuno di loro aveva bisogno davvero di respirare, malgrado tutti continuassero a farlo per pura abitudine… anche nella morte, a quanto pareva, il lupo perdeva il pelo e non il vizio.

Quindi non siamo proprio tornati a com'eravamo prima, un paio di cose da morti ci sono rimaste, tipo il respirare.

Pensò beffardo passando un braccio attorno alle spalle di Jonas e girandogli attorno per guardarlo meglio in faccia. Una faccia davvero cadaverica, con le labbra blu, gli occhi iniettati di sangue e l'aspetto di uno a cui serviva decisamente una boccata d'aria.

No, contro ordine, contro ordine! Ci serve anche respirare, cazzo!

Senza troppe cerimonie gli assestò un pugno dritto alla bocca dello stomaco, un colpo al diaframma che costrinse Jonas a spalancare le labbra e prendere una boccata d'aria.
Il ragazzo si piegò in avanti, sostenuto sempre dalla presa ferrea dell'irlandese che lo incoraggiava a prendere respiri profondi e a calmarsi.
<< Così, bravo, un altro. Respira uccellino, se no mi fai la fine del pettirosso sotto la campana.>> sorrise disegnando ampi cerchi sulla sua schiena. << Ehi!>> chiamò poi a gran voce. << Cade chiama guardie! Ci date un attimo di tempo? Mi è caduto il gattino nell'acqua!>>
Con una smorfia infastidita Jonas menò un rovescio sul braccio del rosso. << Smettila con questi soprannomi del cazzo.>> tossì a fatica, per poi aggrapparsi meglio a lui e chiudere gli occhi.
Seguì il suo consiglio e prese un respiro profondo, diviso tra la debolezza del suo corpo che gli chiedeva di poggiarsi al compagno e riprendere fiato, che gli diceva che poteva farlo, che Cade l'avrebbe sostenuto senza problemi, ed il suo stupidissimo orgoglio che gli gridava di non fare la femminuccia e di alzarsi, che si era già reso abbastanza ridicolo.
Apparentemente, Cade scelse per lui.
Stringendolo anche con l'altro braccio lo accompagnò a terra, facendolo sedere davanti a sé, gli occhi puntanti su di lui ed un orecchio teso alle lamentele di Nathan.
Lamentele che durarono finché Jane non mormorò qualcosa sotto voce facendo voltare di scatto i due soldati e anche se Cade poteva facilmente intuire cosa avesse detto la ragazza delle Praterie, nomignolo per altro molto azzeccato che avrebbe riusato anche in futuro, in quel momento la sua preoccupazione era tutta per quel ragazzino che, non prediamoci in giro, aveva avuto un magnifico attacco di panico.
Jonas se ne stava ancora ad occhi chiusi, la testa riversa verso l'alto, il collo fine disteso forse nell'illusione che così passasse più aria.
Gli occhi verdi di Cade seguirono la forma della mascella ancora non troppo definita, probabilmente una volta cresciuto avrebbe avuto quei classici tratti da tedesco, squadrati e duri, ma non aveva avuto la possibilità di farlo. Dopo il mento ancora morbido, il collo chiaro e privo di macchie, posata con delicatezza sulle clavicole sporgenti, vi era una collana, un girocollo, di scintillante metallo lucido, quasi argenteo, che riproduceva quello che gli pareva un rovo.
Cade non aveva fatto alcuna domanda a Jonas, non quando l'aveva visto per la prima volta, sdraiato a terra, con gli occhi chiusi in attesa della fine, né quando avevano preso un po' più di confidenza e non l'avrebbe fatto neanche ora.
Aveva capito fin da subito che non veniva dagli Elisi, così come aveva capito che non proveniva dalle Praterie e per quando non fosse proprio un genio Cade non era stupido, era furbo invece e la furbizia gli aveva sempre permesso di far collegamenti veloci e diretti.
I suoi vestiti, il suo aspetto, lo sguardo sconcertato che rivolgeva a ciò che gli capitava attorno, ai poteri che lui aveva sfoggiato, alla spiegazione sulle armi semidivine… tutto quanto gli aveva fatto capire che Jonas non aveva la più pallida idea, sia in vita così come nella morte, di quale fosse il mondo a cui appartenesse, che il luogo in cui aveva sostato per tutti quegli anni non gli aveva insegnato nulla se non ad arrendersi ed accettare l'inevitabile.
Quando poi l'aveva sentito mormorare quelle parole, quelle suppliche a non riportarlo oltre i Cancelli Neri, aveva avuto la conferma a tutti i suoi dubbi.
Non gli avrebbe chiesto perché fosse finito lì, Cade aveva visto bambini ben più piccoli di Jonas uccidere, manomettere carrozze, tagliare corde per far sì che qualcuno morisse, spinti ad una commissione di un ricco “benefattore”, così tanti innocenti macchiarsi le mani per qualche moneta che permettesse loro di vivere un giorno di più, che non faticava a credere all'immagine di Jonas che per un motivo qualunque imbracciava un arma e faceva fuoco.
Che fosse l'omicidio quello che pendeva sulla sua testa, che fosse il tradimento, la menzogna, l'inganno o l'adulterio che lo avesse portato dentro ai Campi di Pena a Cade non interessava.

Non siamo chi eravamo quando siamo morti e non saremo mai nulla di diverso da quello che eravamo allora.

Sorridendo a quel pensiero si disse che forse, se non gli fosse andata così bene, si sarebbero potuti incontrare proprio oltre quelle mura, magari avrebbero condiviso lo stesso girone e le stesse torture.

Forse non l'avrebbe mai saputo.
 

<< Ti senti meglio, uccellino?>> chiese dopo un po'.
Il ringhio che gli restituì Jonas gli fece tirare un silenzioso sospiro di sollievo: se gli rispondeva per le rime significava che stava bene.
<< Ti ho appena detto di non usare quei dannati soprannomi!>>
<< E se solo tu aprissi gli occhi potresti vedere quanto me ne frega di ciò che vuoi o non vuoi, ma visto che sono un gentil uomo e tu sei quasi morto soffocato- sì, sì, lo so che siamo già morti! Per l'amor del cielo! Non capisco perché sei amico mio quando saresti il perfetto braccio destro del biondastro!>> proruppe prima che il ragazzo potesse protestare.
Jonas batté un paio di volte le palpebre: amico? Cade… Cade lo reputava suo amico? Ma se si erano conosciuti- Dio! Forse neanche cinque ore prima! E già lo definiva suo amico?
Contro ogni logica, e anche contro la sua volontà, Jonas si ritrovò a sorridere.
<< Te l'ho detto che sono una persona piena di fiducia verso il prossimo.>> iniziò gonfiando il petto e pavoneggiandosi con una vanità che non gli apparteneva davvero. << Sono anche estremamente magnanimo e do una possibilità a tutti, anche ai tipi strambi come te.>>
Cade si portò una mano al cuore, fintamente oltraggiato. << Ah! È così che mi ripaghi? Dopo tutto quello che ho fatto per te? Va bene passerotto, come vuoi tu, ma sappi che sono perfettamente consapevole del fatto che non sei né fiducioso, né magnanimo! Piccola carognetta…. >>
Ancora una volta, senza rendersene conto, Jonas si ritrovò a ridacchiare.
Forse Cade era un po' troppo rumoroso per i suoi gusti, troppo confusionario, si prendeva un po' troppe libertà e pareva non esser in grado di tener la bocca chiusa, ma in quel breve tempo in cui si erano conosciuti ed erano stati assieme Jonas aveva potuto notare come ogni azione dell'irlandese fosse fatta con spontaneità. Forse non si fidava ancora completamente di lui, forse il tempo a loro disposizione non sarebbe stato sufficiente perché questo accadesse, eppure, per quel poco che gli era stato concesso fino ad allora, Jonas poteva dire che essere definito “amico” da Cade il Grifone, non gli dispiaceva più di tanto.
A patto che la smettesse di chiamarlo con quei stupidi soprannomi ridicoli, non poteva prendersi questa libertà solo perché era più grande di lui.
<< Sono una carognetta che ti prenderà a pugni se la chiamerai ancora passerotto.>> lo avvertì alzando un sopracciglio.
Cade replicò la sua stessa espressione. << Ma cosa vuoi fare te? Sei uno scricciolo, sei magrissimo, ma mangiavi da vivo? Non ti è spuntata neanche la barba, cosa potresti farmi? Naaa, lascia stare le minacce e non preoccuparti di nulla scricciolo, c'è qui Cade che ti difenderà e ti aiuterà!>> sorrise drizzando la schiena e battendosi una mano sul petto. Poi gli fece l'occhiolino. << È che ho il cuore tenero io, deformazione da fratello maggiore.>>
Detto ciò saltò in piedi, gli porse la mano – ed il fatto che Jonas non c'avesse dovuto pensare neanche per un attimo prima di afferrarla la diceva più lunga di quanto il biondo pensasse – e lo trascinò in piedi.
<< Forza e coraggio! Abbiamo un'altra prova davanti a noi!>> disse voltandosi verso gli altri ed incamminandosi nella loro direzione.
Jonas però non lo seguì, rimase fermo a fissare il ragazzo quasi saltellare via, domandandosi come sarebbe stato conoscere Cade in vita, chiedendosi cosa sarebbe successo se avesse avuto vicino un amico così, una persona del genere su cui fare affidamento, a cui raccontare i suoi problemi, le sue paure, i suoi scheletri nascosti nell'armadio… chissà se avrebbe fatto le stesse scelte che aveva fatto. Chissà che un Cade non sarebbe entrato in quella stanza proprio al momento giusto, se non avrebbe lottato con lui fino alla fine.
Con una punta di amarezza Jonas si rese conto che il suo comportamento così altalenante, la sua duplice personalità che si mostrava a differenza delle persone con cui doveva rapportarsi, lo aveva spinto in una zona d'ambiguità che spesso aveva allontanato gli altri. Solo una persona era rimasta al suo fianco, aveva visto tutte le sue zone buie e aveva condiviso i suoi timori, i suoi dolori, solo una e nonostante ciò quel sentimento potente che li legava non gli aveva impedito di finire nei Campi di Pena.
Cade era arrivato davanti agli altri, le braccia incrociate dietro alla testa, lo vide spostarsi per evitare lo scappellotto di Eliza e ridere sguaiatamente di qualcosa che non poteva sentire.
Chissà se una persona come Cade lo avrebbe aiutato ad essere migliore, come agognava da tutta la vita, o lo avrebbe trascinato in ancora più guai di quanto già non facesse da solo.
Probabilmente un po' di entrambe, concluse sorridendo mesto.
Alzò lentamente la mano, sforando quello che una volta era stato il suo lucido collare, lo specchio della sua condanna. Una leggera brezza lo sfiorò, l'odore di una camera chiusa, di una piccola stufa accesa, il profumo fresco dei panni appena lavati e quello indefinibile che aveva sempre paragonato a casa, alla salvezza, alla sicurezza, alla pace. Fumosa e quasi invisibile, nulla più di un miraggio estivo, una figura umana gli apparve davanti, morbidi ricci biondi e corpo slanciato, quando si voltò verso di lui un flash verde saettò come le luci delle case viste da un treno in corsa, un alito di vita e di positività identici a quelli che avevano animato quella persona il pomeriggio prima che tutto finisse.
Poi scomparve, solo la scia delle luci rimase nell'aria, nulla di più, svanito come il miraggio che era, come non fece il peso che gli gravava sullo stomaco.
Preferì dare la colpa di tutto al pugno che Cade gli aveva dato e accolse come una manna dal cielo la voce del giovane che lo richiamava.

<< Tutto bene, Jonas?>> chiese da lontano, gli occhi verdi puntati nei suoi.
Jonas sorrise ed annuì. << Sì, scusate, mi ero incantato. >>

Avviandosi a passi svelti verso i suoi compagni d'avventura si ritrovò a pensare che se sul suo cammino era capitato qualcun altro con quell'accecante colore d'occhi, forse non era un caso, forse Cade, quel nuovo, confusionario e rumoroso amico, del tutto diverso dall'unico che aveva avuto in vita, era proprio un regalo di quella sola persona che l'aveva visto davvero e l'aveva amato per ciò che era.

 

 

*

 

 

Il soldato biondo, Nathan, camminava alla testa del gruppo neanche fosse stato un condottiero biblico scelto da Dio in persona. Jane era vagamente consapevole del fatto che, visti soprattutto i suoi natali, avrebbe dovuto smetterla di far paragoni con la religione cristiana e incominciare ad usare dei termini più pagani, ma a voler essere del tutto onesti non le interessava assolutamente nulla di poter recar fastidio agli Déi o mancargli di rispetto. Loro avevano mancato di rispetto a lei e alla sua famiglia, a migliaia di famiglie, senza mai batter ciglio, non meritavano certo il suo rispetto, malgrado ora fosse consapevole di cosa erano in grado di fare.
Jane aveva avuto paura per tutta la fine della sua vita, averne anche nella morte era una cosa ridicola e che le dessero pure della cinica ma lei aveva più pietà di coloro che si affaccendavano per aver una grazia che dei dannati stipati nei Campi di Pena.
A quel pensiero si ritrovò a spiare con la coda dell'occhio il ragazzino che era uscito fuori dal Labirinto con il pazzo rosso. Partendo dal presupposto che una persona con i capelli rossi, chiamiamola superstizione o stupidi preconcetti – Jane non poteva farne comunque a meno – già di per sé portasse guai e sventure, se poi ci si aggiungeva che non stava un attimo zitto, che scherzava un po' troppo, che giocasse con le armi come se fossero innocue… certo non deponeva a suo favore. Così come non lo faceva il fatto che avesse pescato, in tutto il dannatissimo labirinto, proprio l'anima di un dannato e avesse deciso di portarsela dietro, di portarla verso le altre prove, verso la salvezza.
Se era finito nella parte più buia degli Inferi un motivo c'era e Jane non sapeva quanto fosse disposta a dare una seconda possibilità a quel ragazzino.
Da quanto ne sapeva poteva essere un criminale incallito, un assassino, poteva esser uno di quei schifosi soldati che depredavano i villaggi più isolati e violentavano le donne ed uccidevano gli uomini, quel genere di feccia da cui suo padre e altri valorosi avevano sempre protetto la città.
Sembrava innocuo, certo, ma si era fidato di uno sconosciuto con i capelli rossi, non faceva magie come lei, ma Jane aveva imparato che c'erano tanti tipi di streghe al mondo.
Il rosso poi era stranamente silenzioso, mentre da quel poco che le era interessato capire non stava mai zitto ed ignorava la maggior parte delle ben educate norme sociali.
Con un sorriso sinistro Jane abbassò leggermente la testa: parlava lei poi, la figlia di un vigilante e di una semplice casalinga, che marinava le messe e scappava da scuola.
Non che questo, di nuovo, avesse una qualche importanza.
Tornò a guardare avanti a sé, fino a quel momento lei ed Eliza avevano parlato del più e del meno, in particolare la donna le aveva spiegato quello che lei sapeva del mondo divino: alcune cose gliele avevano dette gli altri due, Lea e Úranus se non errava, altre invece le erano del tutto sconosciute, ma in ogni caso saperne il più possibile le sarebbe stato utile nel momento in cui si sarebbe ritrovata ad esser sola a gareggiare e magari anche quando sarebbe tornata sulla terra.
Vagò con lo sguardo, passando dalla mora al biondo e poi alla sagoma scura ed imponente che si ergeva in lontananza.
Aggrottando le sopracciglia Jane cercò di metter a fuoco ciò a cui stavano andando incontro e che, a conti fatti, pareva un cancello, un enorme cancello nero che le fece tornare in mente quello dei Campi di Pena. Non che vi fosse mai stata dentro ovviamente, ma nel suo eterno ed infinito vagare le era capitato di ritrovarsi in prossimità di quelle porte, lì dove persino l'erba nera si diradava, seccata e bruciata dall'orrore che i cancelli e le alte mura arginavano. Se non fosse che i Cancelli Neri erano molto più grandi e che le mura erano ciclopiche e alte quasi fino al cielo, Jane avrebbe seriamente creduto di essersi imbattuta di nuovo nei Campi di Pena. Quelle che costeggiavano quel cancello però, sembravano reti dei pescatori, solo fatte di metallo, grande, resistente, ruvido e grezzo, forse una creazione moderna, in ogni caso piuttosto intelligente, funzionava con i pesci poteva farlo anche con le anime.
Jane studiò con attenzione tutta la struttura, individuando un grande riquadro di pietra grigia su cui pareva esserci scritto qualcosa che non riusciva minimamente a capire da quella distanza.

<< Ehi!>>
Dalle sue spalle arrivò chiara la voce di uno dei ragazzi.
Non riusciva a vedere bene il ragazzino biondo, coperto dalla figura non imponente ma comunque alta e più muscolosa dell'altro, ma poteva immaginare dalla posa protettiva del secondo che forse Jonas non se la stesse passando poi troppo bene.

<< Che cazzo vuole ora? E perché si sono fermati lì?>> con la sua solita grazia Nathan tornò indietro di qualche passo e alzò un sopracciglio in una muta richiesta di spiegazioni.
Come pretendeva che il rosso lo vedesse solo lui lo sapeva.

<< Cade chiama guardie! Ci date un attimo di tempo? Mi è caduto il gattino nell'acqua!>>

Anche Eliza si fece più vicina, mantenendo comunque quella distanza di educazione che spesso, tra Cade e Nathan, veniva invasa di continuo.
<< Preferirei sapere che significa che gli è caduto il gatto in acqua.>> disse lei aggrottando le sopracciglia.
<< Che il moccioso sta male?>> fece ironico il biondo, << Ci mancava solo questa, che cazzo ha? Che gli è preso?>>
Malgrado l'occhiataccia che Eliza gli aveva rifilato ed il cipiglio battagliero che prometteva una nuova e completamente inutile diatriba sul linguaggio che faceva tanto alterare Nathan e provocava un sadico piacere in Jane nel veder il soldato bacchettato in quel modo da una donna, la figlia di Ecate stroncò sul nascere ogni possibile scenata.
<< Il cancello, probabilmente gli ricorda quello dei Campi di Pena, è riuscito ad uscirne non vorrà certo rientrarci così presto.>>
Neanche avesse svelato loro una delle grandi verità della vita, Nathan ed Eliza si voltarono di scatto verso di lei, lo sguardo serio e le espressioni guardinghe.
<< Come?>> chiese lei con voce ferma.
Jane si strinse nelle spalle. << Guardate com'è vestito, i suoi abiti sono sporchi e logori come i miei ma posso assicurarvi che non l'ho mai visto nelle Praterie e credetemi, non sono stata ferma un solo giorno, quelle lande ti costringono a camminare, a farlo in eterno.>> soffiò con voce tetra.
<< Anche i miei abiti erano sporchi, quelli con cui sono morto intendo.>> le fece notare Nathan.
Jane replicò lo stesso gesto di prima. << Ma se provenisse dagli Elisi come voi li avrebbe puliti, li avrebbe rammendati… credo rimanga solo un luogo, vero?>> sogghignò ed inclinò la testa, una ciocca di capelli lucidi e sporchi le scivolò sul volto. << Cosa c'è? Non vi ha minimamente sfiorato l'idea? Vi infastidisce gareggiare con qualcuno che è stato condannato alla dannazione eterna?>>
C'era un che di piacevole nel dire quelle cose ad alta voce, per Jane era come infilzare un insetto con uno spillo e vederlo contorcere incapace di far alcun ché. Per quanto Cade fosse particolare era ovvio che, in un qualche modo, i due soldati si fidassero di lui, ma rendersi conto che aveva portato nella loro compagnia un fuggitivo dei Campi di Pena forse stava facendo loro rivalutare entrambi.
Poteva capirli in fondo, Jonas era piccolo, quindici, sedici anni, veniva ad un'epoca più vicina a Nathan e, per quanto le era stato possibile intendere, con il passare dei secoli il controllo e la cura della prole era aumentato, l'attenzione ai bambini, i compiti che gli adolescenti potevano o non potevano svolgere…nella sua epoca, a sedici anni, Jonas avrebbe già imparato un mestiere e sarebbe andato in cerca di una consorte degna di lui. Molte delle sue compagne erano sposate e avevano avuto figli quando lei era morta, probabilmente se fosse nata negli anni di Jonas invece di dar alla luce il terzo figlio, a ventidue anni, avrebbe preso marito. Quindi era del tutto comprensibile che i due non vedessero un pericolo in quel ragazzino, ma lei… lei non faticava a farlo, anzi, le sembrava del tutto normale e consono.
Più in là Cade aveva fatto sedere Jonas a terra e gli stava parlando, Jane poté finalmente vedere il ragazzo, come si stesse rilassando alle parole dell'altro e come questo, l'espressione di qualcuno che si sente a proprio agio con il suo interlocutore, stesse facendo rilassare anche i soldati.
Nathan lo fissava come se avesse potuto leggergli dentro tutti i segreti che si portava dietro, uno strano sguardo che a Jane parve famigliare ma che non riuscì subito a ricollegare a qualcuno… suo padre forse? Alla fin fine era un vigilante, non era certo un soldato di lavoro, ma sapeva usare un'arma e proteggeva la città dai criminali, era forse lo sguardo indagatore di un garante della legge?

<< Non si va all'inferno solo per colpa della nostra malvagità, alle volte è il concorso di più fattori che ci porta dove siamo effettivamente. >>
Sorpresa da quelle parole, dal tono deciso ma quasi gentile con cui erano state pronunciate, Jane si voltò verso l'uomo senza sapere cosa dire. Credeva di aver capito come ragionasse Nathan, ma forse si era sbagliata.
Di fianco a lei Elizabeth annuì. << Se ha davvero fatto del male questa è la sua occasione per redimersi allora. Per il momento non ha fatto nulla di sospetto, lo terremo d'occhio ma ho come la vaga sensazione che lo stia già facendo Cade.>>
Battendo le palpebre il ragazza fece passare lo sguardo dall'uno all'altra, indecisa se essere colpita dalla loro magnanimità, dalla loro saggezza, o dalla loro stupidità.
Cade non gliela diceva giusta quasi più i Jonas, se quei due si fossero alleati assieme probabilmente avrebbero dato loro filo da torcere. Ma forse era anche meglio così. Jane sapeva che difficilmente un forte legame si instaurava tra più di due persone, figurarsi tra quattro o cinque, e se Nathan ed Eliza avrebbero fatto fronte comune, così come Cade e Jonas, nel momenti in cui si sarebbero visti costretti a combattere gli uni contro gli altri, a decidere se tendere la mano ad uno o all'altro, allora le due coppie si sarebbero scannate a vicenda e lei avrebbe avuto tutto il tempo per andarsene e fare i suoi comodi.
Doveva solo mantenere alta la guardia e cogliere i segni.

<< Ci siamo, il bambino sta bene, c'ha pensato zio Cade.>> disse il rosso camminando ad agio verso di loro, le braccia incrociate dietro la testa in una posa che lo esponeva completamente, qualcosa che dava l'idea di quanto fosse convinto di essere al sicuro tra di loro.
E per il momento sarebbe stato così, anche perché Jane dubitava fortemente che, in uno scontro corpo a corpo, sarebbe riuscita a battere anche uno solo di loro.
<< Cosa gli era successo?>> chiese Nathan tornando al suo solito tono scocciato.
<< Incubi. >> sorrise Cade senza lanciarsi in sproloqui inutili come suo solito. << Ma come ho detto, c'è qui Cade che risolve tutto!>>
<< Sta bene ora?>> s'intromise Eliza.
<< Ovviamente, i miei abbracci sono i migliori, ho le mani magiche io, vuoi provare?>> ammiccò divertito per poi saltare indietro quando la donna provò a colpirlo alla testa.
<< Smettetela di fare i coglioni, voi due!>> ringhiò Nathan prima di allungare il collo verso il ragazzino. << Sei sicuro che sta bene? Sta lì impalato come uno stoccafisso.>>
Cade si voltò verso di lui, per un momento Jane avvertì una brezza fredda sfiorarle il volto, i capelli muoversi e la gonna tendersi lì dove il vento la spingeva.
<< Tutto bene, Jonas?>> chiese il giovane alzando la voce per farsi sentire dall'altro.
Quello imbastì un sorriso un po' tirato ed annuì. << Sì, scusate, mi ero incantato. >> gridò di rimando raggiungendoli.
Eliza gli sorrise e gli fece un cenno con la testa, come a chiedergli se andasse tutto effettivamente bene. Poteva vedere un filo di curiosità nei suoi occhi, una scintilla accesa dalle sue parole probabilmente.
<< Bene, c'è qualcun altro che vuole rimanere a fare lo spaventapasseri per un paio di minuti o pensate di esser tutti abbastanza vigili da intraprendere la prossima prova?>> chiese con sarcasmo Nathan.
Jonas incassò la testa tra le spalle. << Non stavo facendo lo spaventapasseri. >> borbottò.
<< Preferisci “fartela sotto dalla paura”? >> lo incalzò il biondo squadrandolo come farebbe un superiore con il suo sottoposto.
Il ragazzo si morse la lingua, in un palese tentativo di non risponder per le rime all'altro. Cosa che invece non si preoccupò minimamente di fare Cade.
<< I preferisco “andiamo o qualcun altro vuole fare il coglione come Nathan per un paio di minuti?”. Eh? Non suono meglio?>> ammiccò dando di gomito a Jonas.
Lo sguardo riconoscente che gli lanciò il ragazzino non sfuggì a nessuno dei presenti e prima che il figlio di Ares potesse replicare si beccò anche lui una gomitata, molto meno amichevole, da Eliza.
<< Lascialo in pace Nathan, è solo un ragazzo, un cancello del genere farebbe venire i brividi a tutti.>> disse con voce ferma mettendo fine a quella discussione che si sarebbe sicuramente protratta all'infinito. Ne aveva sperimentato un piccolo assaggio nel labirinto e prima che Cade se ne uscisse di nuovo con affermazioni, doleva dirlo, del tutto infamanti ma veritiere sui soldati e sull'America e Nathan partisse in quarta facendo il suo gioco e dimostrando quanto un militare possa essere borioso e pieno di sé, nonché di mentalità ristretta e non propenso alla comunicazione, sapeva che bisognava mettere un fermo ad entrambi.
Ma Jane non era poi così propensa ad aiutarla.
<< Brutti ricordi?>> chiese infatti con voce infantile.
Jonas si irrigidì, i pugni serrati e la testa bassa. Nathan rimase a fissarlo senza dir nulla, così come gli occhi verdi e cupi di Eliza che studiarono la reazione del giovane come un cacciatore studia la sua preda.
Fu di nuovo il freddo di prima, di quel venticello improvviso a farla rabbrividire e non appena spostò lo sguardo compiaciuto dagli altri, incontrò le iridi verdi e accese di Cade.
Un vuoto le si aprì nello stomaco, ricordandole quando da piccola scappava nel boschetto, arrivando sino alla cascata del lago vicino, dove si buttava dalle rocce dentro l'acqua ghiacciata. Era esattamente la stessa sensazione, di un salto nel nulla, in attesa dell'impatto con la superficie cristallina che non arrivava mai. Jane deglutì e ricambiò lo sguardo di Cade, se gli occhi potessero parlare era certa che quelli scintillanti dell'irlandese la stessero mettendo in guardia.
Poi Cade sorrise, un sorriso ampio e luminoso, divertito, che piegava gli occhi ma non intaccava le iridi fredde come il vetro scheggiato.
<< E chi non ne ha! Ci credereste se vi dicessi che quando Elza mi sgrida mi appare mia madre che mi lancia contro gli zoccoli? Eh?>> proruppe con voce esplosiva, con una forza ed una vitalità del tutto inappropriata per il clima teso che si era formato in pochissimo tempo.
Apparentemente Jonas si rese conto che quella stupida messa in scena era tutta per distogliere l'attenzione da lui, allungò timidamente la mano, tentennando e ritraendo l'arto fino a quando non fu troppo vicino per non sfiorare il tessuto della giacca logora di Cade.
Eliza scoppiò con l'ennesima esclamazione infastidita su come, ne era certa, Cade sbagliasse il suo nome di proposito, mentre Nathan si lamentava del fatto che era un soldato lui, mica una balia per mocciosi e che forse, quello zoccolo, non l'aveva preso abbastanza bene.

<< Ma non mi ha mai preso! Sono una scheggia io!>>
<< Il mio scarpone pesa anche più di uno zoccolo di legno, vogliamo provare ora?>>
<< Dov'è finito il “non sono una balia, non perdiamo tempo” e tutta quella storia lì?>>
<< Oh! Elza ha ragione!>>
<< Smettila di chiamarmi così! È Eliza, da Elizabeth! È così difficile da ricordare?>>
<< Eddai, ma mi perdo solo una lettera, che differenza ti fa?>>
<< Magari che non è il mio nome?>>
<< Un nome vale l'altro…. >>
<< UH! Hai sentito cos'ha detto il biondastro? Da ragione a me!>>
<< Non chiamarmi biondastro!>>
<< Beh, ma “un nome vale l'altro”!>> gli fece il verso Eliza.
I due soldati cominciarono a battibeccare, ancora, e Cade rimase indietro con disinvoltura, come se li stesse felicemente lasciando lo spazio per scannarsi a vicenda e si stesse godendo fin troppo lo spettacolo.
Alzando gli occhi al cielo a Jane non rimase che seguirli.



Jonas strinse la presa attorno al bordo della vecchia giacca e Cade, giratosi verso di lui, non pareva minimamente infastidito dalla cosa.
<< Grazie.>> sputò fuori il biondo.
L'altro sorrise. << Se me lo devi dire con questa faccia puoi anche non farlo, eh.>>
<< No. Quando va fatto, va fatto… quindi, tutto qui, grazie, non eri obbligato a farlo.>>
<< Fare cosa? Mettere zizzania tra i due soldatini? Prendere per il culo entrambi? Far capire alla ragazza delle Praterie che in una squadra non ci si comporta così? Sai quella non mi pare una che in vita ha avuto molti amici, non sa minimamente come si sta tra la gente.>> disse facendogli cenno di camminare.
Jonas alzò un sopracciglio. << E tu lo sai bene?>> chiese sarcastico, poi si fece più serio. << Avevi una famiglia numerosa?>>
Era la prima volta che chiedeva a qualcuno qualcosa di così personale e privato, qualcosa della sua vita passata. Cade non aveva mai fatto alcuna domanda sul suo passato, forse non si sarebbe dovuto permettere neanche lui… far ripensare ai tempi felici, a ciò che si era perso.
Sul volto dell'irlandese si aprì un sorriso mesto, un alone di nostalgia che Jonas percepì perfettamente, qualcosa che in tutti quegli anni si era rispecchiato nel suo collare e che ora invece aleggiava attorno a lui come una nube di vapore. Ma non era come la nostalgia dei Campi di Pena, era diverso, era… dolce?
<< Non proprio. La mia famiglia, quella di sangue, era piuttosto piccola. Eravamo io, mia madre e mia sorella. Eh, ad essere onesti, la mia sorellastra… Non avevamo lo stesso padre, per fortuna il mio ha rovinato la vita solo a me.>> cominciò a bassa voce, lo sguardo perso in ricordi passati.
<< Ma in un qualche modo, sì, avevo una famiglia molto numerosa, solo, beh, non c'era nessuna parentela a legarci. Erano i miei amici, quelli di una vita, erano… erano la mia famiglia, in un senso molto più grande e profondo di quanto non si possa pensare, di quanto non si possa capire.>>
Un fruscio richiamò l'attenzione di Jonas, la figura sbiadita di una bambina corse davanti a lui, non poteva vederla in volto, gli dava le spalle ma rideva, ne era sicuro anche se non sentiva nessun suono. Così come afono fu il gruppo indistinto di giovani che seguì la bambina, ragazzi d'età indefinita che correvano gli uni al fianco degli altri, in perfetta sincronia e coordinazione, senza urtarsi tra di loro, come uno stormo di uccelli nel cielo.
<< Non so in che epoca siamo ora, non ne ho la più pallida idea, ma quando tornerò su spero di rivedere qualcuno dei miei amici, mia sorella, o magari i loro figli, la discendenza scalmanata di quel gruppo di folli. Chissà se sono ancora in tempo.>>
Jonas annuì. << Io sono morto nella prima metà del millenovecento, ma se Nathan è più piccolo di me, se è nato dopo la mia morte e ha venticinque anni, forse siamo ancora in questo secolo.>> si fece due conti, non volendo chiedergli anche in che anno era morto.
Cade storse in naso. << Mh, allora, se quel poco di matematica che conosco è giusto, temo di essere leggermente in ritardo per i miei amici, forse anche per i loro figli, magari becco i nipoti.>>
L'altro storse la bocca, i ragazzi in corsa svanirono nel nulla. Jonas non aveva la più pallida idea di come rispondere.
<< Alle brutte sarò un magnifico zio Cade!>> si risolse a dire il rosso dando una sonora pacca sulla schiena a Jonas, assolutamente non pronto, che per poco non volò a terra.
<< Ehi! Ma che modi sono?>> si lamentò il biondo mettendosi ben dritto in piedi.
<< Su, su, non ti ho fatto nulla di ché, te l'ho detto, tu non hai mangiato abbastanza in vita.>>
<< Per tua informazione mangiavo il giusto, la nostra cuoca era bravissima e seguiva un preciso regime alimentare.>> disse stizzito, aggiustandosi i collo della camicia. Poi si rese conto di ciò che aveva detto.
Il fischio d'ammirazione di Cade gli fece chiudere gli occhi.

Cazzo.

<< Uh-uh! La tua cuoca ed un preciso regime alimentare!>> gli fece il verso divertito. << ELZAAAA! Abbiamo trovato qualcuno che ha vissuto con i militari come teeee!>> cantilenò divertito, afferrando Jonas sotto braccio e saltellando verso gli altri.
<< Non tirarmi come se fossi un moccioso!>>
<< Non lo sto facendo, ti sto tirando come se fosse una comare piuttosto!>>
Jonas lo guardò allibito, scostandosi infastidito ed imbronciato e voltandosi verso gli altri per vedere come mai la replica di Eliza e di Nathan si stava facendo attendere.
Tutti e tre gli altri semidei erano con il naso all'aria, Nathan teneva una mano sopra gli occhi, come se così facendo potesse legger meglio le gigantesche iscrizioni sulla pietra grigia.
Cade lasciò il braccio di Jonas e fece una smorfia confusa.

<< Ma che cazzo… ?>>

 


 

*


 

Batté le palpebre, incredula.
<< Ti prego, dimmi che sto leggendo male.>>
Di fianco a lei Úranus sorrise dispiaciuto. << Temo di no.>>
Avevano avvistato da lontano un grande cancello, con quella che pareva essere una rete, sì, come quelle dei pescatori, ai suoi tempi non ce ne erano di quel tipo, e proprio su una delle ante del cancello c'era una grande lapide rettangolare con su scritto in lettere vorticanti:
 

AREA CANI”

 

<< Cosa intendono per “area cani”? È qualcosa di specifico dei tempi moderni o solo una semplice zona in cui vengono riuniti i cani?>> domandò il giovane camminando lentamente verso l'entrata.
Lea annuì. << Beh, non so se si possa definire “una cosa moderna” ma sì, è sostanzialmente un'area chiusa in cui si possono liberare i cani e farli correre con tranquillità. Più che altro mi domando cosa ci faccia qui qualcosa del genere.>>
Così com'era successo per l'imponente portone degli Elisi, anche in una delle ante del cancello era aperta una porta più piccola, attorno a cui le anime si stavano accalcando per entrare, sorvegliate come sempre da scheletrici soldati dalle orbite fisse e vuote.
I due ragazzi si mischiarono alla marea di pretendenti ancora rimasti in gara dall'ultima sfida.
Non vi aveva mai riflettuto in modo approfondito, l'aveva fatto solo con superficialità, le avevano detto che a quella sfida potevano partecipare tutti, tutti i morti dell'Ade e Lea, semplicemente, aveva annuito e pensare che fossero davvero un bel po' di persone. Vederle ora tutte lì, premute le une contro le altre, quando ancora una volta constatò che ehi, erano davvero in molti, che il Labirinto non ne aveva fatti fuori così tanti, solo allora si rese conto fino in fondo del significato di quelle parole, di quel “tutti i morti dell'Ade.
Alla Death Race partecipavano, o comunque ne avevano avuto la possibilità, tutti i morti del mondo, tutti coloro che erano morti dall'inizio dei tempi fino all'ultimo minuto disponibile di iscrizione. Era sicurissima che già i Campi di Pena e gli Elisi fossero popolati da anime che prima non vi erano, che ormai nei Campi Neri non regnava più il silenzio che c'era stato per quella frazione di secondo in cui tutti i suoi demoni ne erano fuoriusciti.
Erano tutti i morti del mondo e Lea aveva stupidamente pensato che tra i viaggio nelle Praterie e il Labirinto almeno la metà fossero scomparsi nel nulla.
Sciocchezze, ovviamente, molti erano svaniti ma molti altri erano ancora in gara.
Tutti i morti del mondo. Tutti quanti, lei compresa.
Se solo pensava che alcuni negli Elisi avevano rinunciato a quell'opportunità, a quanti si erano ritirati al termine della prima prova, quanti si erano persi nelle Praterie… e tutte le anime che vi abitavano di solito! Erano un numero così enorme, coloro che non avevano preso parte alla gara, che Elena non riusciva a quantificare. Troppi quelli in gara, troppi quelli che non vi erano.

Ma quanti siamo? Quanti sono i morti di questo pianeta? E quanti coloro che sono già svaniti nel nulla, disintegrati nei secoli passati?

La triste verità era che mentre la popolazione mondiale cresceva e si decimava, colpa delle guerre, delle epidemie, delle carestie, siccità e catastrofi, la popolazione degli Inferi non diminuiva mai, poteva solo crescere.

<< Non finiremo mai.>> soffiò piano, quasi impercettibilmente.
Úranus la guardò curioso, piegandosi verso il basso per ascoltare meglio le sue parole. << Come?>>
<< Non finiremo mai, Úranus, come possiamo arrivare alla fine di questa competizione? Guarda, siamo ancora così tanti… >>
<< Siamo solo alla seconda sfida, la terza per meglio dire. Credo sia normale la presenza ancora così massiccia di anime, ma più andremo avanti più le prove saranno complicate, diminuiremo.>> disse con sicurezza.
Lea annuì. << Ma ce la caveremo? Cosa abbiamo noi di speciale rispetto a tutte queste anime?>>
<< Molto, dire, davvero molto. Siamo semidei, se c'è qualcuno che può riuscire in questa impresa siamo proprio noi.>> cercò di rincuorarla posandole una mano sulla spalla.
Una scossa percorse tutto il suo braccio irradiandosi nel torace.
Ansia, paura, tristezza, stanchezza.

Di nuovo. Succederà di nuovo. Se non fossi abbastanza? Se non dovesse bastare? Non è bastato la prima volta. Se non dovessi riuscirci?

Deglutendo il ragazzo ritrasse l'arto, sorridendo plastico alla compagna che teneva lo sguardo puntato sui cancelli.
Perché di punto in bianco Lea cominciava a fare certi pensieri? Non doveva assolutamente sentirsi in quel modo, non era un bene per nessuno, né per lei né per lui. Non poteva aver vicino qualcuno che fosse così propenso a pensare ad un fallimento.

Calmati. È normale avere dei dubbi, lei non ha mai combattuto ma hai visto cosa può fare, calmati, respira, fai respiri profondi.
 

Non farti prendere dal panico altrui. Assorbi ciò che ti circonda e manipolalo per ciò che ti serve. Immagazzina i loro sentimenti e sfruttali quando sarà il giusto momento.

La voce lontana di suo padre fu come balsamo su una ferita. Gli ricordò che c'era un modo per arginare il tutto, per sopportare ogni peso, ogni avversità.
Esattamente come aveva pensato Lea, Úranus si disse che non sarebbe finita come la prima volta, che poteva farcela, che ci sarebbe riuscito sicuramente.
Erano ancora moltissimi, su questo non c'era dubbio, ma se il giovane era sicuro di una cosa era che gli Déi erano bravissimi a togliere di mezzo tutti coloro che non gli servivano o che non volevano. Se la Death Race era davvero stata progettata per dar la possibilità a qualcuno di tornare sulla terra, alla sua vera vita, di certo ogni Dio avrebbe voluto che quell'anima fosse quella di un suo figlio o di qualcuno che avrebbe, in ogni caso, potuto sfruttare.
Non la banale anima di un mortale qualunque.
Qualcuno che avrebbe potuto portargli gloria e onore.
C'era la possibilità che a vincere fosse un umano come altri milioni? No, assolutamente no. Anche se era terribile da dire Úranus era convintissimo che alla fine tutti gli altri sarebbero stati eliminati, correttamente o meno, e che la vera battaglia, le vere dolorose, pericolose, cruente e terribili sfide le avrebbero affrontate solo loro, solo la stirpe maledetta degli Déi.
Lea non doveva aver paura di niente, sarebbero rimasti solo loro alla fine, per i giochi veri, per il divertimento di quegli esseri che avevano dato loro la vita ma non avevano mai concesso loro una grazia, uno sguardo magnanimo.

<< Ce la faremo. >> ripeté con più sicurezza. << Ora dobbiamo solo preoccuparci di entrare e ascoltare le regole di questa nuova prova.>>
 

L'enorme spiazzo in cui si riunirono tutte le anime era brullo, con poche piante basse sparse in giro senza un apparente senso logico, pareva che ogni arbusto fosse cresciuto dove più gli era stato congeniale, dove il vento fantasma di quei luoghi avesse depositato i semi, in una terra sterile e fredda, bruciata da fuochi blu e fiumi in fiamme. Nei punti più aridi lo sfrigolare dei sassi era simile a quello delle braci arse, che andavano spegnendosi o ravvivandosi con il cambio di quelle correnti sulfuree che tiravano nella volta rocciosa, scendendo in picchiata verso un suolo ancora più basso di quello calpestato dagli umani.
Ancora una volta un palco era montato qualche chilometro dopo l'entrata, un cordone di scheletri vestiti da guardiacaccia di ogni epoca delineava la zona oltre la quale nessun' anima poteva passare.
A differenza della volta precedente però non vi erano scuri tendaggi a delineare il palco, non era scuro il legno su cui presto sarebbe salito il prossimo giudice e soprattutto non vi erano altri scheletri a presenziare ai lati del rialzo.
Úranus batté le palpebre, conscio che ciò che gli appariva davanti poteva aver un solo ed unico significato ed indeciso se quello fosse un bene od un male.
Allineate ed immobili esattamente come lo erano gli scheletri-guardiacaccia, impeccabili nei loro vestiti decisamente moderni, se ne stavano otto ragazze di un'età compresa tra i quattordici e forse i diciotto anni. Tutte in pantaloni grigi, con una strana trama a macchie, calzavano pesanti scarponi neri che Úranus aveva già visto indosso a qualcuno durante la gara, tra coloro che erano morti più di recente. La giacca che indossavano pareva filata con l'argento, luminosa oltre ogni altra fonte di luce, che prendeva una sfumatura azzurrognola per colpa dei fuochi fatui che circondavano il palco. Erano però di una forma bizzarra, sembravano gonfi, tanti rettangoli gonfi cuciti tra di loro, con una linea di metallo al centro del petto ed il cappuccio appena visibile dietro le spalle dritte.
Ad accomunarle però non era solo il loro vestiario, l'espressione severa e fredda, la postura eretta e rigida, tipica di chi è pronto ad attaccare, tipica di un cacciatore esperto, c'era anche qualcos'altro, una lunga faretra perlacea, dalla cui sommità spuntava il piumaggio di un set di frecce che, Úranus sapeva, raramente non centravano il bersaglio a meno che quello non fosse il vero intento della Cacciatrice.
Nella sua mente era stato chiaro come il sole, semplice come respirare, le giovani, forse fin troppo, ragazze schierate sul palco erano le famigerate Cacciatrici di Artemide, un gruppo selezionato e perfettamente addestrato di ancelle che, fatto voto di castità alla Dea della Luna, ottenevano in cambio un dono tanto grande quanto terribile, un'arma a doppio taglio proprio come lo erano le punte delle loro frecce.
Quanto valeva essere per sempre giovani, vedere ciò che si amava, il proprio mondo, i propri cari, mutare e scomparire sotto i propri occhi, se poi ad attenderti c'era comunque la morte?
Oh, Úranus ricordava perfettamente lo sgomento che aveva provato la prima volta che suo padre gli aveva raccontato di quelle temibili combattenti, seconde a nessuno, neanche alle grandi Amazoni. Ricordava come il Dio gli avesse spiegato che quelle giovani venissero tutte da situazioni terribili, da vite dolorose, da passati infami; pregavano così qualcuno, spesso al buio della loro stanza, nel silenzio della notte, sorvegliate dalla candida e mutevole Luna. Chiedevano una grazia, chiedevano un aiuto, alcune avevano anche implorato la morte… e se molte di loro avevano pregato un Dio che si discostava completamente da ciò che era effettivamente chi poi era giunto loro in soccorso, tutte quante si erano viste apparire la Candida Artemide, la Dea della Luna, la Cacciatrice della Notte, l'Arciera delle Stelle. Artemide Dea bambina che aveva ascoltato le loro preghiere e aveva proposto loro una via di fuga, un modo per salvarsi: Lei le avrebbe portate via da quei luoghi maledetti, in cambio loro le avrebbero giurato fedeltà eterna, accettando di entrare a far parte delle sue ancelle, delle Cacciatrici di Artemide, senza soffrire i morsi della fame, il peso del tempo. Sarebbero rimaste per sempre congelate nel momento esatto in cui avrebbero detto sì e così sarebbe stato finché mano nemica, o il Fato, non avesse tolto loro quella vita infinita ma non eterna che la Dea le aveva donato.
Il prezzo?
Úranus non aveva capito, aveva detto a suo padre “è questo il prezzo, padre, rimanere giovani per sempre, veder la propria famiglia, chi si ama, morire, la propria terra mutare, questo è il prezzo.”. Ma suo padre, il suo saggio e malinconico padre aveva scosso la testa. Era ben più alto il dazio che Artemide pretendeva da coloro che salvava.

A cosa non rinunceresti per tutto l'oro del mondo? Cos'è che non puoi comprare, che puoi dare ma non pretendere in cambio come pagamento? Cos'è che non puoi avere e mai avrai con la forza?

Úranus c'aveva pensato molto, interminabili minuti che per la sua corta vita erano preziosi come l'oro che suo padre aveva appena nominato, mentre per il Dio non erano altro che granelli di sabbia in una spiaggia di cui non riusciva a vedere i confini.
A cosa non avrebbe mai rinunciato? Alla sua famiglia di certo, ma gli era stato appena detto che quelle ragazze vi rinunciavano per principio, per fuggire da una vita opprimente e terribile.
Cos'era che non poteva comprare? Beh, Úranus non poteva comprare molte cose, per questo coltivava la terra con sua madre, l'aiutava a cercare le sue piante, si prendeva cura degli animali, ma c'era qualcosa che non aveva prezzo vero?
Si può dare ma non si può pretendere indietro.
Non si può e mai si potrà ottenere con la forza.
A pensarci in quel momento, a secoli di distanza, ad Ùranus venne quasi da sorridere, gli occhi freddi puntati sui volti altrettanto gelidi di quelle ancelle combattenti.
Tutte quelle ragazze, tutte le Cacciatrici che si erano susseguite negli anni e che così avrebbero fatto fino alla fine dei tempi, rinunciavano per la loro salvezza a ciò per cui lui invece era morto.
Alle volte, la vita era solo un susseguirsi eterno degli stessi errori conditi da una crudele ironia a cui solo il Fato poteva ridere.

 

<< Cosa ci fanno quelle anime lì?>> domandò Lea spingendosi sulle punte per sbirciare sopra la folla.
Ad Ùranus venne quasi voglia di prenderla in braccio e permetterle di veder bene il palco, ma aveva la netta sensazione che sarebbe stata una mossa alquanto sconveniente ed imbarazzante.
Si limitò a scuotere la testa. << Non sono anime, sono persone vive.>>
Lea lo guardò accigliata. << Vive… vive-vive?>> chiese tentennante.
<< Vive- vive.>> gli accennò un sorriso lui, alle volte Lea passava ad un comportamento assolutamente maturo e fermo ad uno infantile e titubante, come se non credesse che i suoi ragionamenti potessero esser corretti.
<< Allora perché sono qui?>> ritentò formulando la stessa domanda in modo diverso. << Se sono vive non dovrebbero essere negli Inferi, a meno che… possono essere Dee? Dee minori magari, come le ninfe?>> azzardò.
Úranus scosse ancora la testa. << No, non sono Dee e non sono ninfe. Sono esseri umani, alle volte semidee o comunque discendenti in qualche modo dagli Olimpici, non posso dirlo con precisione ora. Sono le ancelle personali di quella che, presumo, sia la Dea che ha ideato la prossima prova. Sono come… sì, come delle ancelle, la seguono e l'aiutano in ogni cosa di cui lei abbia bisogno, ma sono anche combattenti, tutte arciere formidabili e da quel che so sanno anche combattere corpo a corpo. Come una scorta privata.>> spiegò stando attento a non dire il nome della Dea, era sicuro che a Lea sarebbe piaciuta e non voleva rovinarle la sorpresa.
La giovane al suo fianco annuì. << Abbiamo affrontato una prova estremamente cruenta eppure faccio ancora fatica ad immaginare delle donne combattenti, come se fossero dei soldati, figuriamoci un corpo di guardia completamente al femminile, composto da- da- ragazzine! Andiamo, sono troppo piccole! Scommetto che se sommassimo le loro età non faremo la mia!>>
Úranus la guardò divertito. << Posso assicurarti che se sommassimo le loro età forse riusciremo ad arrivare se non superare il mio anno di morte.>>
Lea alzò un sopracciglio. << Non per criticare, ma ventidue non mi pare un bel numero.>>
<< Intendevo, approssimativamente in scala con il calendario corrente, milleseicentotrenta.>>
Lo sguardo scioccato della sua compagna lo fece sorridere. << Si dice che la più antica e fedele delle Cacciatrici vivesse nel giardino delle Esperidi e che abbia conosciuto Ercole in persona. Lei da sola supera ampiamente i mille anni, ma mio padre me la descrisse e non credo di riconoscerla tra quelle presenti sul palco. Quelle che vedo sono tutte ragazze, non ci sono ninfe, non ci sono razze miste… >>
<< Avevi detto che erano solo umane e semidee.>> gli fece notare Lea.
Úranus annuì. << Sul palco sì, in generale anche le ninfe possono diventare ancelle. Qualunque essere femminile può diventarlo.>>
<< Non accetta maschi quindi… aspetta, è forse la Dea che trasformò quel cacciatore in una costellazione? Come si chiamava… >> fece lei pensierosa per poi alzare lo sguardo sul suo compagno in cerca di un suggerimento.
Il volto di Úranus si fece un po' più serio. << Orione. Non è una bella storia quella, un altro tragico evento che si sarebbe potuto evitare se solo gli Dei fossero stati più caritatevoli e se smettessero di fingersi immuni a quegli stessi impulsi che soggiogano noi umani. >>
Lea lo guardò con comprensione, posando una mano sul suo braccio e regalandogli un sorriso d'incoraggiamento. << Magari le cose sono cambiate ora.>> provò ad esser positiva.
Il sorriso che il ragazzo le restituì era triste ma in parte grato per quelle parole. << Non credo, ma mi è stato detto di non perdere mai la speranza.>>
<< Dalle mie parti si dice “la speranza è l'ultima a morire”. Credo ci sia una grande verità dietro queste parole.>>

 

Una nuvola grigiastra si spanse lentamente al centro del palco, attirando l'attenzione di tutte le anime e facendo calare il silenzio nell'ampio spazio.
Il teschio con la pettinatura afro e le cuffie alle cavità auricolari, con una telecamera scura poggiata sulla spalla, fece cenno affermativo verso il palcoscenico ed improvvisamente sulla rete esterna dell'area cani, si aprirono degli enormi schermi simili a quelli che erano stati montati nella Casa di Ade.
La nube aleggiava ancora nell'aria ferma quando con uno schiocco ogni schermo si accese mostrando il centro dello spettacolo, mentre una voce ferma e gioviale rimbombava nelle Praterie Nere.

<< Bentornati ad Efesto TV, la sola ed unica rete divina che vi tiene aggiornati costantemente, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni l'anno disastri e fini del mondo comprese. Chi vi parla è il vostro Eolo, Signore dei Venti, pronto a narrarvi in tempo diretto la terza prova dell'evento più atteso e acclamato dell'anno: laaaaaa DEATH RACEEE!>>

Un boato di applausi ed urla uscì dagli invisibili altoparlanti inseriti dietro ai televisori, facendo sussultare e imprecare la anime, specie tutte coloro che non erano nate prima dell'avvento della televisione e delle sitcom con gli applausi registrati.
Eliza si irrigidì di colpo, portando automaticamente la mano alla ricerca di un'arma che non aveva più. Lì accanto, Jane fece un salto verso di lei, avvicinandolesi quasi cercasse protezione.
Nathan si limitò ad una smorfia, non che se lo aspettasse, ma quella grandissima cazzata dei suoni registrati durante i programmi televisivi lui la conosceva più che bene.
Dietro di lui Jonas storse il naso, chiudendo gli occhi per un attimo e piegando la testa come se quel suono, più che sorprenderlo, lo avesse infastidito. I rumori troppo forti non erano mai stati i suoi preferiti. Si voltò poi verso Cade, pronto a godersi la faccia sorpresa dell'irlandese, ma ciò che vide lo lasciò perplesso: Cade fissava il palco, la nuvola grigia presumibilmente, senza muovere un solo muscolo, come se l'esplosione cacofonica lo avesse paralizzato.
Cosa stava succedendo? Che avesse riconosciuto qualcuno? Magari le ragazze allineate sul palco, così fredde e rigide da sembrare soldati scelti. Effettivamente era proprio quella l'impressione che davano e Jonas non si sarebbe minimamente stupito se di punto in bianco avessero estratto tutte un fucile da dietro la schiena.
Cade continuava a rimanere immobile e per un attimo il biondo si chiese se tra quelle ragazze non vi fosse forse una delle sue vecchie amiche, o magari sua sorella… o forse, più di questo, era il Dio o la Dea che presto sarebbe comparso su quel palco a paralizzarlo?
La risposta a quella domanda, con tutta probabilità, non sarebbe mai arrivata. Jonas si sporse un poco verso di lui: non aveva la più pallida idea di cosa gli avrebbe detto, forse gli avrebbe spiegato che quei suoni provenivano da degli altoparlanti dietro gli schermi, o cos'era uno schermo. Quando era vivo lui non c'era nulla del genere, forse solo i proiettori, ma Jonas dubitava fortemente che ve ne fosse uno nascosto da qualche parte o appeso al soffitto.
Sentiva uno strano prurito dalla nuca, un disagio latente nel vedere il rosso con quell'espressione congelata e quasi… arrabbiata?
Mormorii sorpresi si propagarono tra le anime, l'attenzione del giovane si focalizzò su quella nube che aveva lentamente preso corpo.
In piedi sul palco, ritta come un fusto, con l'espressione autoritaria e distante come quella di una statua divina, una ragazzina di forse tredici anni fissava tutti con sguardo fermo.
Non sembrava particolarmente muscolosa, indossava un giacchetto argentato proprio come le altre ragazze sul palco, così come i pantaloni aderenti e scintillanti. Gli stivali le arrivavano sotto al ginocchio, sulla coscia era stretta una cinghia in cui era infilato un coltello a serramanico. La pelle pallida sembrava emanare un luccichio proprio, intensificato dalla lunga e severa treccia ramata che portava sulla spalla sinistra, in opposizione alla bretella metallica che reggeva, Jonas non ne era sicuro, quello che pareva un cilindro bianco e grigio.
Sul volto giovane non vi era alcun segno, né una ruga né un neo o una ferita, le labbra fini erano tirate in una linea dritta, le sopracciglia sottili non erano che un accenno rossiccio sulla fronte distesa. Con sguardo indagatore, quello classico di chi sta soppesando ciò che ha davanti, la ragazza scrutava la folla, le iridi grigie gli ricordavano qualcosa visto tempo addietro, qualcosa che non vedeva più da una vita, come-

La luna?

Jonas batté le palpebre cercando di mettere a fuoco quella situazione.
Che quella fosse la famosa Dea della Luna? Com'era il suo nome? Era sicuro di averlo studiato un tempo a scuola…

 

<< Per questa terza prova, con ideatrice e giudice speciale avremo nientepopodimeno che la Cacciatrice suprema, la Signora della Luna, una dei famigerati Gemelli Arcieri, colei che votò la sua divina esistenza alla cacciagione e alla castità. Un bell'applauso per la DEA ARTEMIDE!>>

 

Artemide… dunque era davvero la dea della luna, ma cos'altro aveva detto? Cacciatrice, luna, gemelli arcieri, castità. Ma certo, era una dea vergine!

<< Che vuol dire che ha votato la sua vita alla castità? Non ha figli?>>
Jonas volse la testa verso Jane, che se ne stava vicino ad Eliza e fissava la dea con più sospetto di quanto non facessero molti altri.
Nathan annuì. << Questo vuol dire castità: niente sesso e niente progenie.>> malgrado la risposta fosse arrivata come sempre in modo un po' rude, Jonas non poté far a meno di notare come il soldato fosse stato sorprendentemente educato per i suoi standard.
<< E le ragazze vicino a lei? >> insistette Jane. << Sembrano sue copie in miniatura, anche se sono di razze diverse, mi pare più che ovvio che gli Dei non si facciano scrupoli di alcun tipo.>>
<< Artemide no.>> disse secco l'uomo.<< Artemide ha giurato di rimanere vergine per tutta la sua esistenza. Ci sono stati moltissimi uomini che hanno cercato il suo favore, ma solo i veri cacciatori lo ricevono e per “favore” intendo solo ed unicamente la sua benedizione.>>
<< Quelle ragazze, sono tutte addestrate, vero?>> chiese Eliza senza staccar gli occhi dal palco.
Il biondo grugnì. << Cacciatrici di Artemide, se lo chiedi a me un vero dito al c- >>
<< Wright!>>
<< Una vera palla al piede!>> grugnì. << Che cazzo. Sono ragazze scelte in persona da Artemide. Tutte in situazioni particolari, vuoi vittime di violenza, di povertà, criminalità o semplicemente che si dimostrano donne forti, pronte a fare la cosa giusta e che, da non sottovalutare, odiano genuinamente gli uomini.>>
<< Come?>> fece Jonas guardando l'altro.
<< Cosa come? Odiare gli uomini? Tsk, non ci vuole molto ad odiare qualcuno.>>
<< È il prezzo da pagare.>>
I quattro si voltarono verso Cade, ancora nella stessa identica posizione di prima. Si sciolse un poco quando avvertì gli occhi dei compagni su di loro e sorrise alle facce interrogative che si trovò davanti.
<< Quando Artemide arriva da loro, quando va a “salvarle”, non lo fa completamente gratis.>> continuò infilandosi le mani in tasca. << Ti dice “va bene, io ti porto via da questa situazione ti prendo con me, ti insegno a combattere e ti dono la vita eterna.” >> disse come se stesse raccontando una storia fantastica.
Jonas batté le palpebre velocemente, sempre più incuriosito. << Ma? È qui che arriva il “ma”, vero?>>
Cade annuì. << Ma se vuoi che tutto questo si realizzi, tu devi rinnegare gli uomini, giurare che non ti innamorerai mai più, che li ripudierai e che non avrai con loro più alcun contatto se non per necessità.>>
Eliza lanciò un'occhiata a Nathan, chiedendogli silenziosamente se il rosso stesse dicendo la verità. Dall'espressione seria dell'altro intuì facilmente che non stava scherzando.
<< E se rifiutano?>> chiese allora Jane dando voce ai pensieri dei suoi compagni.
Cade si strinse nelle spalle. << Allora le molla lì a morire.>>
<< Cosa? Credevo che Artemide fosse una delle Dee più giuste e caritatevoli.>> esclamò Elizabeth confusa.
<< Lo è, ma è anche la Dea della Caccia e sul campo non c'è pietà, non c'è esitazione. Se vuoi fuggire, se vuoi accettare la proposta e diventare anche te una cacciatrice immortale, allora devi rinunciare a tutto. All'amore, alla famiglia, a genitori, fratelli, cugini, parenti, amici, possibili figli. Se accetti Artemide ti salva, ti rende libera, ma se rifiuti… allora lei non ha nulla da offrirti più di quanto non abbia già fatto e se ne va.>> la voce ferma di Nathan aveva una nota stonata, come se ne sapesse fin troppo di quella storia. Per questo non fu strano quando si volse verso Cade per chiedergli come facesse a spare queste cose lui.
<< Non sei stato al Campo e le tue conoscenze delle divinità non sono ampie quanto le mie, però conosci Artemide, la sua proposta e il suo giuramento. Come.>>
Il giovane non ricambiò il suo sguardo, la testa persa in altro, gli occhi puntati sul palco dove Artemide attendeva che Eolo o chi per lui finisse di elencare i metodi per votare la Death Race – che per altro Cade voleva proprio sapere che cazzo c'era da votare, visto che erano loro quelli che entravano volontariamente dentro a labirinti e praterie infernali e chi cadeva lo faceva combattendo e non perché l'aveva espulso un giudice – e altre stupidaggini di poco conto. Fissava la Dea come si fa con qualcuno conosciuto tempo addietro, che si rivede inaspettatamente e, pur non avendolo conosciuto di persona e bene, lo si riconosce ugualmente.
<< Storie di una vita fa.>> disse con tono basso e morbido. << Di amici- amiche, che se la sono vista brutta… alle volte arrivavi in tempo, altre no. Una volta lei era arrivata prima di noi. Artemide la salvò, le fece la sua proposta, la mia amica disse no.>>
Nathan fece un solo cenno del capo, serio, la mascella contratta.
<< E perché disse no?>> domandò Jane, << Se si cacciava spesso nei guai e Artemide le aveva proposto una via di fuga, perché non accettò?>>
Il volto di Cade divenne di nuovo di pietra mentre fulminava la ragazza con lo sguardo. << Lei non “si cacciava nei guai”, era una delle donne più forti che ho avuto l'onore di conoscere.>> sentenziò subito. Poi il suo sguardo si spense. << Aveva un figlio, molto piccolo, maschio ovviamente, una bella beffa. Quando Artemide le disse che avrebbe dovuto rinunciare agli uomini lei le disse di sì. Quando poi capì che con “uomini” non intendeva “rinunciare a trovare marito”, ma proprio a tutto il genere maschile… allora disse di no, che non avrebbe mai abbandonato suo figlio.>>
 

Un'onda morbida sfiorò le caviglie nude di Jonas, come la risacca del mare in una baia.
Il ragazzo abbassò lo sguardo verso i suo piedi, ma ciò che vide non fu acqua quando pietre irregolari che formavano una strada, sporche e bagnate di qualcosa di non ben identificabile.
Le anime davanti a loro sparirono nella nebbia, proprio sotto il palco, ai piedi di Artemide, una giovane di neanche vent'anni era seduta a terra, le spalle premute contro il muro scorticato di un'abitazione, la veste sporca e strappata le lasciava il braccio destro nudo e lei se lo stringeva al petto come se le dolesse particolarmente. C'era una macchia grande ed indefinita a qualche metro da lei ma Jonas non se ne curò, la sua attenzione era focalizzata tutta sulla ragazzina che se ne stava ritta come un inquisitore a fissare la giovane. Vestita di pantaloni di pelle bianchi e con una casacca del medesimo colore, ricamata d'argento, calzava lunghi stivali dalle fibbie metalliche che parevano immuni alla sporcizia che contaminava quel vicolo.
L'unica macchia di colore violento nella sua figura era la treccia che le circondava il capo, dello stesso tono del rame levigato.
Era senza ombra di dubbio Artemide, proveniente da un altro passato, da un'altra epoca non ben chiara. Era un ricordo, il frammento di una vita persa e non sua, qualcosa che Jonas aveva l'impressione neanche Cade avesse vissuto.
Poi la Dea si voltò, fissando i suoi occhi d'argento dritti in quelli chiari del giovane che, colto alla sprovvista, fece un passo indietro incespicando nei suoi stessi piedi.
La scena svanì in un attimo, Jonas sentì la mano di Cade stringersi attorno al suo braccio per reggerlo in equilibrio ma non sentì minimamente le parole che disse. Tutta la sua attenzione, quel sesto senso, quello spirito di sopravvivenza o autoconservazione che fosse, era per quegli stessi occhi visti una vita fa che ora lo fissavano di rimando con la stessa intensità di un tempo.
Artemide lo guardava impassibile ma curiosa, esattamente come ciò che era: una cacciatrice.
Gli scrutò l'anima, squadrò il suo vestiario e soppesò la sua figura per poi far scivolare lo sguardo sulla sua collana lucida e scintillante come le iridi della Dea.
Fu solo un secondo ma Jonas avrebbe potuto giurare che Artemide avesse capito perfettamente chi lui fosse, cosa aveva fatto per finire all'Inferno, per arrivare a quella terza prova, cosa significasse quel collare e anche tutto ciò che ne sarebbe derivato.

Jonas aveva la netta sensazione che il responso della Dea della Luna fosse completamente negativo.

<< Non la fissare.>> soffiò Cade al suo orecchio. << Ai miei tempi si fissava solo chi si voleva provocare, non farlo con lei, non ora.>>
Jonas scosse la testa, non era certo quella la sua intenzione, disse balbettando qualche frase incomprensibile.
 

Eliza espirò profondamente e riportò la sua attenzione sulla Dea, che ancora teneva il viso voltato verso di loro.
Era sorprendentemente giovane, Artemide, e anche se Eliza sapeva perfettamente che quella gioventù era solo apparente, che volendo avrebbe potuto prendere decine di milione di sembianze diverse, non riuscì a non concordare che quella, con tutta probabilità, fosse la forma che più le si addiceva. Minuta, piccola, scattante, leggera e flessibile. Aveva in sé la forza devastante di una divinità e mostrava al mondo quella dirompente della fanciullezza. Artemide era candida e contraddittoria come il suo astro, che illuminava le notti più buie e ti voltava le spalle quando tutto ciò che desideravi era una lama di luce per poter vedere il tuo nemico.
Forse era un pensiero stupido, arrogante, egoistico ed infantile, ma Elizabeth si ritrovò a domandarsi perché, se la dea cercava giovani forti, pronte a tutto per la cosa giusta, non avesse mai posato il suo sguardo su di lei.
Dalle parole di Cade e Nathan lei sarebbe rientrata nel modello ideale, dubitava infatti che una divinità potesse essersi bevuta il suo trucchetto, quindi, si chiedeva… che fosse stata la mano di sua madre, tesa su di lei, a spingere Artemide a non guardarla? Che la protezione di un Dio sul proprio figlio fosse ciò che impediva alla Cacciatrice di scegliere le sue ancelle?
Ma ancora più importante: quanto un Dio poteva per i suoi figli e quanto gli altri non potevano chiedere a quegli stessi ragazzi?
Questo significava che anche durante le prove tutti loro erano stati “salvati” in un modo o nell'altro dai loro divini genitori? Significava che un dio più forte di sua madre avrebbe potuto decidere che lei non doveva più gareggiare e quindi eliminarla?
Lanciò di sottecchi uno sguardo a Jane: erano arrivati in tempo per salvarla? O era stata sua madre a spingerli da lei?
Era un atteggiamento decisamente paranoico e questo era principalmente il motivo per cui stava tenendo tutti quei pensieri per sé, ma trovava del tutto lecito domandarsi se fino ad ora chi aveva “vinto” c'era riuscito grazie alle sue capacità o solo ed unicamente per volere divino.
Dopotutto la voce maschile, quel tipo, Eolo, stava ancora ciarlando su come votarli…

 

 

<< E ora, la parola alla divina Artemide, che spiegherà le regole della gara e l'obiettivo di questa terza prova!>>

 

La bambina vestita d'argento alzò gli occhi al cielo, infastidita come poche volte nella sua onorevole ed eterna vita.
C'era stato un tempo in cui Eolo era stato un vero e proprio dio, giorni in cui solcava i cieli, in cui lui e i suoi fratelli trainavano una biga d'oro su cui Zeus si ergeva fiero ed intoccabile. Come c'erano arrivati a quel punto?
Efesto avrebbe potuto dire tranquillamente, ed infatti lo faceva di continuo, che la loro famiglia era imbattibile nel prendere le cose buone e trasformarle in cattive. Ripeteva di continuo che la sua tecnologia, la sua meccanica, le invenzioni sue e dei suoi figli erano tutte nate per migliorare la vita delle persone, per dare servizi, per essere ciò che gli uomini non riuscivano ad essere, per aiutare tanto chi stava sulla terra quanto chi dimorava nei cieli. E invece cosa era successo? Si erano adagiati sugli allori, tutti loro: gli uomini creavano ogni giorno macchine che facessero cose che loro sarebbero stati più che capaci a fare, impigrendosi sempre di più, mentre loro, gradi e potenti divinità, erano diventati quasi dipendenti da quei nuovi giocattoli scintillanti.
La connessione rete divina era una cosa magnifica, lo ammetteva anche lei, ma quando, di preciso, si erano tutti trasformati in esseri dipendenti a questi “divertimenti”? Quando un dio dei venti, Il dio dei venti, era diventato null'altro che un presentatore sempre e costantemente in ansia per l'inizio della prossima diretta?
Con una smorfia la Dea fece un passo avanti, le sue cacciatrici perfettamente immobili attorno a lei.

Prima finiamo questa farsa e prima potrò osservare come andrà la gara.

Sì, perché alla fine lei ed Atena avevano deciso di fare così, di aspettare e vedere come sarebbero andate le cose, se Giordano avrebbe fatto qualcosa o avrebbe lasciato che il gioco proseguisse per affari suoi. Conoscendolo sapeva che si sarebbero potuti aspettare di tutto, dal ritrovarselo seduto vicino a mangiare popcorn, al vagare nella zona limitata, al chiacchierare con le anime ( Ade diceva sempre che gli importunava gli scheletri) al non vederlo minimamente.
Cosa che, per altro, l'avrebbe messa in allarme più del vederlo entrare in diretto contatto con un'anima.
Accantonando in un anglo della sua mente questi pensieri, Artemide si schiarì la voce e iniziò a parlare con tono deciso.

 

<< Benvenuti a questa terza prova della Death Race.
Finora avete affrontato due missioni di “spedizione”: vi è stato chiesto di capire da voi come raggiungere la Casa di Ade, di pensare con la vostra testa e di non affidarvi alla massa, al flusso di anime che scioccamente si sono perse per le Praterie degli Asfodeli.>>


 

Lea rabbrividì. << Quindi si sono davvero perse, non è andato nessuno a recuperarle, a riportarle dove meritavano di essere… >>
Úranus piegò le labbra in una smorfia dispiaciuta. << Credo di no. Sono abbastanza sicuro che le anime dei dannati siano state recuperate e riportate nei Campi di pena.>>
<< Ma sarebbe del tutto inutile, ormai non ricorderanno più nulla, non saprebbero neanche chi sono. Come si può torturare per l'eternità qualcuno che non ricorda neanche ciò per cui lo stanno punendo? È - >>
<< Crudele?>> chiese il ragazzo spostando gli occhi chiari su di lei. << Credi che sia crudele che un assassino venga torturato per sempre perché non ricorda di aver commesso il crimine?>>
Lea rimase immobile, lo credeva davvero? No, certo che no, è giusto che chi abbia commesso gesti del genere venga punito ma… se la sua mete fosse stata una tabula rasa? Se neanche ricordasse il suo nome?
Da una parte era giusto, dall'altra era semplicemente… crudele, si.
<< Sarebbe una punizione ulteriore, comunque.>> continuò il ragazzo. << Non solo soffri per la tua pena ma anche perché non la ricordi. In ogni caso non credo che la tua pietà dovrebbe andare a loro quanto a tutte le anime che si erano meritate i Campi Elisi e ora sono perduti nelle Praterie, dimentichi di tutto.>>
A quelle parole amare la ragazza si sentì gelare il sangue nelle vene, il ché era assurdo visto che non ve ne era più neanche una stilla. << Cosa? >>

 

 

<< Chi di voi è riuscito a giungere alla meta è stato sottoposto ad un'altra prova ugualmente dura. Visto che non vi è stato detto prima sarò io ad informarvi: la prova del Labirinto è stata diretta dalla divina Persefone ed era incentrata su qualcosa di indispensabile per un essere vivente, ovvero la capacità di districarvi in situazioni di stallo, di trovare la via giusta, l'uscita in un dedalo di strade non dissimili da ciò che è ora il mondo moderno. Chi si trova qui, congratulazioni, sapete prendere decisioni che vanno contro la massa, sapete muovervi in luoghi estranei e pericolosi, sapete tenere una direzione e trovare l'uscita.>> La dea stette zitta per qualche secondo, osservando con volto impassibile le anime lì riunite. << All'atto prati sapete fare ciò che sa fare un cane.>>

 

 

<< Oh, questa era stronza però.>> ringhiò Cade guardando male Artemide.
Nathan si morse la lingua pur di non sparar qualcosa di cui poi si sarebbe potuto pentire, ma la verità era che non l'avrebbe fatto: ciò che detestava terribilmente degli Dei era quella loro stramaledettisima idea di poter dire e fare di tutto con loro con la certezza che non si sarebbero ribellati o offesi in nessun modo. O forse non gliene fregava un cazzo e basta.
<< Probabilmente è come ci vede lei, se è vero che odia gli uomini poi… >> disse Jonas facendo un passo avanti.
Era il più piccolo tra di loro, ma Nathan aveva la vaga impressione che nel momento in cui si sarebbe abituato, quando si sarebbe ambientato, avrebbe tirato fuori le palle. Di certo non era uno che ti mandava a dire le cose, anzi, se non fosse stato per un'educazione più che buona il soldato avrebbe scommesso tutto quello che aveva che il ragazzino gli avrebbe risposto per le rime fin dall'inizio.
Non sapeva ancora che pensare di lui, Nathan aveva capito che era molto più di ciò che appariva e la cosa che lo infastidiva maggiormente era che Cade – Cade per gli Dei!– se ne era reso conto prima di lui ed era anche riuscito ad avvicinarglisi.
Il comportamento del rosso era protettivo e un po' infantile, a Nathan ricordò fin troppo le coppie di fratelli, veri fratelli, presenti al campo, che si spalleggiavano e si prendevano in giro a vicenda. Probabilmente quel comportamento così gioviale e amichevole aveva fatto breccia nel moccioso più di quanto non lo avessero fatto il placido e tranquillo senso di sicurezza che emanava Elizabeth o il forte e dirompente magnetismo che lui stesso era sempre riuscito ad esercitare su tutti quelli che gli si avvicinavano.
A conti fatti doveva averlo perso con la morte, quel magnetismo, perché anche se aveva diretto lui la maggior parte delle loro azioni né Eliza né Cade lo avevano mai trattato come il leader nato che era e come sempre lo trattavano e guardavano i ragazzi del campo.

Questo perché mi sono capitati due stronzi e purtroppo non so neanche quanto questo sia negativo.

Con un grugnito infastidito Nathan si domandò quanto quella situazione, quell'assurda e completamente sbilanciata combriccola che si era formata da quanto la Guardia Imperiale gli aveva affibbiato quei due, sarebbe durata.
Se avessero continuato ad aggiungere membri a caso probabilmente la risposta sarebbe stata “a breve”.

 

 

<< Non è un caso il luogo in cui ci troviamo.>> sogghignò Artemide. << Quella che vedete è “ L'Area Cani” degli Inferi, ovvero il luogo in cui vengono riuniti ed addestrati i famosi mastini infernali di Ade. La vostra prova è proprio su di loro.>>
Moltissime anime a quell'affermazione si erano guardate attorno come se si aspettassero di veder spuntare fuori dei cani da un momento all'altro: non vedeva l'ora di assistere allo sgomento generale quando si sarebbero resi conto di “cosa” fossero davvero i mastini infernali.

 

<< Cazzo.>> disse il soldato a denti stretti.
Eliza lo guardò seria. << Sono molto pericolosi, vero?>>
<< Sono molto incazzati di solito.>> rispose quello.
<< E scommetto che sono anche brutti e grossi.>> gli fece eco Cade.
<< Sono pur sempre cani, non ci vuole un genio per sopraffarli.>> considerò invece Jane, per poi guardare le facce dei suoi compagni e alzare gli occhi al cielo. << Fatemi indovinare: non sono cani normali e non sono neanche semplicemente cani morti.>>
Nathan annuì secco. << Cominciate a mettere in conto che di certo ne uscirete con qualche uscitone.>>
Jonas aggrottò le sopracciglia, fiutando l'aria proprio come un segugio, forse in cerca di tratte di fumo. << Dimmi che non sputano fuoco.>>

 

<< Ne sono avvolti?>> domandò Lea con gli occhi sgranati. << Beh, almeno so come curare delle bruciature… >>
<< Forse non ce ne sarà bisogno.>> le sorrise Úranus. << I mastini non sono esseri naturalmente amichevoli, ma come ogni animale la sua fiducia la si può conquistare.>>
La ragazza gli sorrise di rimando. << Questo è il momento in cui mi dici che sei bravo con gli animali?>>
Úranus non riuscì a trattenersi dal ridere sotto voce. << Mi sono sempre piaciuti gli animali.>> affermò con tono vago.
<< E… ?>>
<< E sono bravo con gli animali.>>

 

 

<< Liberi in quest'area ci sono tutti i mastini infernali di Ade. Tutti. Migliaia di colossi che normalmente corrono e cacciano nelle Praterie, dei Campi di Pena e anche nel Tartaro.
Ognuno di questi mastini porta un collare al quale è stato attaccato un ciondolo, il vostro compito è semplice: dovrete trovarne uno, riuscire a catturarlo e prendere il monile al suo collo.
Nel momento in cui lo farete avrete passato la terza prova e sarete liberi di attraversare il tutta sicurezza l'Area Cani e dirigervi verso la tappa successiva.>>
Detto in questo modo sembrava davvero semplice, ma Artemide sapeva per esperienza personale quanto quei dannati mastini potessero essere forti, testardi, violenti e crudeli. Certo, aveva visto anche ragazzini piccoli giocare con il loro mastino come se fosse un innocuo cucciolo, ma ciò non toglieva che fossero sempre bestie degli Inferi.

 

<< Prendere un cane… dov'è la fregatura?>>
<< Il fatto che siano grossi e avvolti dalle fiamme non ti sembra una sufficiente fregatura?>> gracchiò Cade guardando male Nathan.
Il figlio di Ares, per tutta risposta, alzò un sopracciglio con fare curioso: << Hai problemi con i cani o con il fuoco?>>
<< Ho problemi con i cani giganteschi, di Ade, che vanno a fuoco e a cui dovrò avvicinarmi pericolosamente per prendere una medaglietta. Dovrò avvicinarmi ai suoi denti. Già il morso di un cane fa un male- >> Cade si bloccò, l'espressione concentrata.
<< Cane?>>
<< Bestia?>>
<< Del diavolo?>>
<< Dell'inferno?>>
L'irlandese guardò i suoi compagni con una smorfia schifata da tutti quei luoghi comuni e stupidi giochi di parole. << Fa male da morire.>> sentenziò infine, per poi rendersi conto di quello che aveva appena detto.
Jane gli sorrise lugubre. << E che ti importa? Tanto sei già morto.>>
Fissandola con disappunto Cade le puntò il dito contro. << E tu sei inquietante, ora te l'ho detto.>>
<< Finitela voi due e fatemi sentire quello che dice Artemide.>> l'interruppe bruscamente Eliza.
<< Cosa vuoi che dica? Che ci dia consigli su come fare? Basterà dare una botta in testa al cane e quello cadrà stramazzato al suolo.>> sbuffò la figlia di Ecate.

 

<< Le regole.>> disse con voce forte la dea. << Primo: non potete uccidere il mastino. Se ciò dovesse accedere verrete immediatamente squalificati.>>

 

<< Temo ci sia una falla nel tuo piano, ragazza delle praterie.>>
<< Taci rosso!>>

 

<< Secondo: potere catturare il mastino assieme ma ogni ciondolo è un lasciapassare per una sola persona.>>

 

<< Mi pare giusto.>>
<< Non preoccuparti, ne prenderemo prima uno per te, così se chi avesse il ciondolo non fosse più autorizzato ad aiutare chi è ancora in gara potresti andare nel mentre e io potrei prenderne uno da me.>> la rassicurò Úranus.
Ma Lea scosse la testa. << Non dire sciocchezze, anche se non potessi aiutarti materialmente rimarrei comunque con te per darti tutto il supporto possibile.>>

 

<< Terzo: il primo che toglierà il ciondolo dal collare del mastino ne diverrà proprietario, quindi, punto quarto, non si possono rubare i ciondoli degli altri.>> ghignò cattiva. << Questa è la mia prova e nessuno può barare, se volete vincere ed uscire di qui lo dovrete fare come dico io e senza sotterfugi.
Detto ciò: Che la prova abbia inizio!>>

 

Un suono sinistro fece voltare tutte le anime verso le loro spalle: i cancelli si erano appena chiusi.

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Il divano su cui era seduto era morbido e comodo, pieno di cuscini dalle forme più disparate ed i colori più improbabili. Non c'era dubbio alcuno che fosse stato Ipnos a portare lì tutti quei guanciali, era sempre stata una sua fissazione la comodità, l'idea di rendere più confortevole possibile il luogo o l'oggetto su cui si decideva di riposare.
C'era un ché di ironico in tutto ciò, perché decine di centinaia di volte Gio aveva potuto constatare che il posto più comodo dove dormire era quello in cui ti fermavi quando eri più stanco e che non importava che ci fosse un materasso, una morbida coperta o un buon cuscino, troppo spesso si era sdraiato su un terreno brullo, raggomitolato nell'angolo di una grotta, steso su di una spiaggia ed aveva dormito il sonno più rilassante e rigenerante della sua vita.
Sorridendo mesto si domandò se tutte quelle volte avesse potuto riposare così bene grazie a quel curioso individuo nascosto nella sua cappa nera che ora se ne stava seduto sul divano, con le gambe al petto, il naso sprofondato nel bavero alto e la testa coperta dal cappello dalle larghe falde.
Non si muoveva da molto, forse dormiva, forse era solo in viaggio nei meandri di quella dimensione onirica che solo a pochi di loro era concesso visitare a proprio piacimento.
Qualche metro più in là Efesto grugniva insulti e maledizioni a questo, quello o l'altro dio che aveva avuto la bell'idea di fare qualche domanda o richiesta che aveva scatenato l'entusiasmo di troppi. Vicino a lui Thanatos sospirava scocciato con una cornetta schiacciata tra spalle e orecchio.
Vedere il Dio della morte, il più bell essere di quella terra, aspettare in attesa che qualcuno rispondesse dall'altro lato della linea aveva un ché di ironico e di divertente. Non che si sarebbe mai azzardato a dirglielo.
Non che se lo avesse fatto sarebbe successo qualcosa.
Gio sospirò e lasciò cadere la testa contro la spalliera del divano, domandandosi quando si sarebbe potuto alzare per andare a fare due passi. Non c'era nulla che gli impedisse in farlo in quel preciso momento se non la presenza di Artemide negli Inferi. Sapeva per certo che se si fosse azzardato anche solo a metter piede nella tenuta del vecchio musone la piccola cacciatrice sarebbe apparsa immediatamente, carica di sguardi indagatori e domande fin troppo fastidiose. E forse si sarebbe aggiudicato anche la visita di quella rompicoglioni di Atena, Dio non voglia, pronta a rincarare la dose.
A quanto pareva però, non era lui l'unico che doveva preoccuparsi di domande inopportune: anche se non poteva vedere il volto sicuramente scocciato e contrariato di Efesto, Gio poté perfettamente immaginarlo dalla sua voce.
C'erano dei problemi con Eolo, o meglio, come al solito era il Dio dei venti che se ne stava facendo fin troppi di problemi, cose del tutto inutili che avrebbe tranquillamente potuto ignorare senza che nessuno se ne accorgesse. Ma no, ovviamente quella piaga divina doveva assolutamente interrogarsi su una questione più che delicata: bisogna parlare della anime che sono scomparse?
Gio sorrise ad occhi chiusi, quella situazione lo divertiva e annoiava in egual misura, il ché era preoccupante, ma la verità, come sempre, stava nel mezzo.
Era noioso ciò che la gente stava costruendo attorno a quello che sarebbe potuto essere un evento divertente.
Per secoli gli Dei si erano completamente disinteressati dei loro figli, ignorandoli e ordinandogli malamente di fare il loro volere solo ed unicamente quando gli era utile. Li avevano abbandonati, li avevano sfruttati, li avevano mandati a morire per nulla, nulla che loro stessi non avrebbero potuto fare con uno schiocco di dita.
Erano scoppiate guerre, erano caduti a centinai e gli Dei se ne erano interessati solo ed unicamente quando erano stati coinvolti anche loro. Certo, Ares ci sguazzava nelle guerre, era felicissimo, ma Zeus? Poseidone? Quante volte avevano alzato lo sguardo sui mortali di loro spontanea volontà e non perché vi era un loro figlio a far danni? Quante volte Atena aveva spinto i suoi figli alla guerra più cruenta, alla vittoria più schiacciante, invece di consigliar loro di usare quell'intelletto che gli aveva donato e far firmare una pace, un accordo, un armistizio? Quante volte Apollo aveva mandato pestilenze nei campi nemici a quelli che lo osannavano, quante volte Artemide aveva voltato la pallida faccia lontano da quegli uomini agonizzanti solo perché, appunto, uomini?
Oh, avrebbe potuto continuare così per l'eternità, parlando di Era che si divideva tra il voler le famiglie felici ed unite e l'odiare quei figli altrui che avevano distrutto la sua, accanendosi su di loro perché non poteva farlo su quel fratello così potente e crudele. Quante volte Afrodite aveva scatenato disastrosi eventi solo per divertimento, quante volte i cuori erano stati votati “alla più bella” e non “all'amata”? Quante delle armi di Efesto si erano rivoltate contro gli uomini, quante vite aveva sacrificato perché non comprendeva fino in fondo l'essere umano. Ed Ermes? Quanti aveva ingannato? Quanti aveva derubato, mandato sulla via sbagliata, portato messaggi fraudolenti, impedito di portar messaggi salvifici. Quanti avevano perso la testa dietro all'ebrezza di Dioniso, quanti erano morti per le carestie di Demetra?
Gio non si mosse ma dentro di sé covava il tumulto di una vita di ribellione e ingiustizia.
Quanti erano caduti? Troppi, spesso solo per il divertimento passeggero ed effimero di un essere così potente da aver tutto ma non aver nulla.
Parlare delle anime scomparse era un insulto a tutte coloro che erano perse per le Praterie, tutte coloro che non ricordavano. Al tempo stesso, parlare di quelle sparizioni sarebbe stato giusto, ma non per questa volta.
 

<< A cosa pensi?>>

La voce pacata di Ipnos non lo sorprese. Il dio del sonno aveva questa innata capacità di fiutare i pensieri più profondi, gli arrovellamenti più terribili.
Gio quasi sorrise, Ipnos riusciva ad essere dolce e comprensivo con chiunque per poi negare il sonno ad un individuo per mesi fino a farlo morire di stenti e di pazzia.

<< All'ipocrisia della gente.>> rispose piano, senza aprire gli occhi.
Lo sentì annuire. << È per questo che lo fai? Per contrastare l'ipocrisia degli Dei?>> disse lui vago.
<< Ti stai dando dell'ipocrita, amico mio.>>
Un risolino indistinto. << Chi non lo è? >>
<< Qualcuno deve pur esserci, non credi?>>
<< Non sai farmi neanche un nome?>> gli sorrise Ipnos volandosi verso di lui.
Gio rimase fermo nella sua posizione però, senza dar l'impressione di voler ricambiare il suo sguardo.
<< Clara… Al… >> sussurrò. << Clara e Al.>>
Quella risposta era forse l'ultima che il dio si sarebbe aspettato da lui. Ipnos si volse completamente verso l'uomo, impuntando i piedi nudi e freddi contro la gamba dell'altro. Sciolse l'abbraccio attorno alle proprie ginocchia e alzò il bordo del cappello, osservando con serietà quel viso così famigliare da esser quasi unico nel suo genere.

 

Clara e Al.

 

<< È per loro che l'hai fatto? Che hai ideato la Death Race?>> provò a chiedergli mantenendo la voce bassa.
Un brivido gli aveva fiorato le spalle coperte dalla pensante cappa. Se tutto questo pandemonio, deliziosamente divertente ed inopportuno, era stato davvero messo su per loro… Dei dell'Olimpo, quale sarebbe mai potuta esser la conclusione?
Ripercorse velocemente tutti gli eventi, da quando Gio era apparso sulla porta della sua dimora chiedendogli una buona tazza di tea ed una chiacchierata amichevole, a quando si era conclusa la seconda prova. Cosa gli era sfuggito? Dove stava la fregatura?
Una scintilla brillò fievole: la tessera del mosaico d'oro.
Aggrottando le sopracciglia, preso da dei dubbi che, in quanto dio, di solito non aveva mai, s'arrischiò a domandare:

<< Perché hai legato quelle due anime?>>
Gio, per tutta risposta, sorrise. << Perché tu e tuo fratello vi divertite a fare gioielli con le catene. Vi divertite a rendere una costrizione, una pena, un lucido monile. Siete stati voi a legare quei due, non io.>> e dopo un attimo di silenzio. << Sono molto più simili di quanto non sembri, speravo potessero aiutarsi a vicenda, ma tant'è .>> concluse stringendosi nelle spalle.
Già, tant'è. Una quantità impressionante di anime erano scomparse, altre erano state salvate in extremis da qualcuno che non sarebbe dovuto essere lì, una tessera d'oro che si incastrava alla perfezione con fin troppi puzzle.
 

Anime che scomparivano per una frazione di secondo per poi ricomparire sane e salve. Anime condannate a morte rimaste illese da attacchi frontali e devastanti. Anime incastrate nella morsa mortifera dell'edera e poi fuoriuscite dal labirinto come se nulla fosse. Anime in vantaggio misteriosamente sconfitte.
A che gioco stai giocando? Sei solo in questa partita?

 

<< Che piani hai? Seriamente Gio, cos'hai in mente?>> gli chiese tirandogli leggermente la manica della camicia, per convincerlo a guardarlo negli occhi, per costringerlo a non mentire o a farlo davvero bene.

L'uomo sospirò e si tirò su, aprendo lentamente le palpebre e puntando lo sguardo in quello del dio.
Il riverbero della luce della sala comandi brillò sulle sue iridi lucide, coprendole di un riflesso bianco che per un attimo lo accecò come uno specchio al sole.

<< Di fare la cosa giusta.>> disse con voce ferma.
Ed era ovvio, era la cosa più ovvia che Giordano delle Vie avrebbe mai potuto dire, avrebbe mai potuto fare. Ma ugualmente Ipnos si sentiva inquieto, come un marinaio inesperto che sottovaluta un vento di ponente, come un viandante che sottovaluta le prime gocce di pioggia o un bambino che banalizza il pericolo che sa correndo arrampicandosi su quell'albero. Il suo sesto senso, i suoi potei divini, l'essere il dio del Sonno, tutto gli gridava che c'era comunque qualcosa che non stava capendo, che gli stava sfuggendo proprio sotto il naso.
Con gli occhi tondi fissi in quelli accecanti dell'altro si azzardò a fare una domanda, forse la prima, forse l'ennesima, di cui probabilmente si sarebbe pentito.
<< Sì, ma per chi?>>

 

La luce nella stanza sfarfallò per un momento, un attimo di cui né Thanato né Efesto si preoccuparono, un attimo che fece congelare Ipnos ma non gli impedì comunque di sentirsi al sicuro.
Sul volto dell'uomo si tirò un sorriso predatorio, il baluginio delle zanne di un drago di cui tutti hanno dimenticato il nome ma che non è mai stato veramente sopito, qualcuno che i grandi eroi avevano combattuto e temuto a suo tempo e di cui invece i comuni mortali ignoravano anche l'esistenza.
Una volta Giordano stesso gli disse che le vie del Signore erano infinite e che questo era il motivo per cui si chiamava così, perché ogni cosa aveva molteplici volti, significati, direzioni. Ogni cosa brillava come oro al sole ed era mortifera come il bacio di suo fratello.
In quel momento, quelle parole, quel “fare la cosa giusta”, sapeva tanto di gloria e libertà quanto di catene e dolore.
Il sorriso di quell'essere si tramutò in un inquietante ghigno da iena.


 

<< Per me.>>


 

 

 

E non c'era nulla di più pericoloso al mondo del sentirsi al sicuro sotto lo sguardo di un mostro.











   
 
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