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Autore: Saelde_und_Ehre    11/09/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XIV.
... bis Du mich aus meiner Sehnsucht erlöst
(parte seconda)



Il gradevole tepore emanato dal camino aveva convinto Friedrich a invitare Konrad direttamente nel suo appartamento di Potsdam, rimandando l’uscita serale che avevano programmato qualche giorno prima. Si erano seduti sul divano in compagnia di una bottiglia di vino e il tempo era passato in fretta, scandito da chiacchiere amene e partite a scacchi.
“Stasera mio fratello voleva andare a teatro insieme a nostro cugino Paul e al principe Schwerin… mi ha chiesto se per caso volessimo andarci anche noi,” disse, con scarso interesse.
“Andavano a vedere il Lohengrin?”
“No, credo… uno spettacolo di quella cantante che non mi ricordo neanche più come si chiama.”
“Clara Morgenstern?”
“Sì, sì, quella.” Friedrich ridacchiò divertito. “Mio cugino Paul si è preso un’infatuazione per lei… tutte le volte che la va a vedere le offre rose rosse e cioccolatini, sperando di fare breccia nel suo cuore…”
Konrad scrollò le spalle, senza alzare lo sguardo dalla rivista militare che stava sfogliando. “È indubbiamente una bella donna… o almeno, così dicono i suoi ammiratori.”
“Ha una bella voce, davvero molto espressiva.” Friedrich l’aveva vista solo una volta; ricordava tuttavia la sua figura snella, avvolta in un tubino blu notte tempestato di brillanti, i vaporosi capelli biondi e le lunghe braccia fasciate dai guanti intonati all’abito, mentre cantava Du bist mein allerschönster Traum 1. Una canzone che lo aveva toccato nel profondo, più di quanto avrebbe mai osato ammettere. “Però mi pare troppo… artefatta. Decisamente non il mio genere.”
Le donne non sono il tuo genere, vorrai dire,” osservò l’amico, col tono che avrebbe potuto usare per fargli notare che due più due faceva quattro e non cinque.
Von Kleist ignorò la frecciata e indicò la copia della rivista che l’altro aveva poggiato sul tavolino: in copertina c’era un gruppo di soldati in parata che reggevano orgogliosamente lo stendardo della Ostpreußen. “Cos’è che diceva quell’articolo che hai letto prima? Quello sugli ufficiali della nostra Divisione.”
“Non mi stavi ascoltando?”
Gli occhi del giovane si fissarono in un punto indefinito; incassò la testa tra le spalle, ma non disse nulla.
“Tutto bene, Friedrich?” chiese Bentheim a bassa voce.
“Sì, sì. È solo che… mi è tornata in mente una cosa che ha detto il capitano Bühler… l’altro giorno.”
“Non mi hai più parlato di lui. È successo qualcosa?”
Friedrich sospirò, sprofondando contro lo schienale del divano. “Eri con Reinhardt, era giusto che ti godessi il tuo tempo insieme a lui. So quanto ci tieni e l’ultima cosa che volevo era venire a rovinartelo con…”
“Beh, adesso puoi parlare liberamente. Qual è il problema?”
La risposta, pronunciata a mezza bocca, fu preceduta da un altro, titubante attimo di silenzio. “L’altro giorno, al maneggio… siamo andati fuori pista, se capisci cosa intendo.”
Konrad sgranò gli occhi. “Avete… varcato la soglia di sicurezza?”
“Non quella, ma… quasi.”
Lo aveva sentito. La tensione irradiata dal suo corpo, le mani, le labbra avide. Aveva percepito nei suoi gesti un reale desiderio e non un istinto fugace. Se quel rumore non lo avesse allarmato…
“E…? Suppongo che ci sia altro.”
“E… niente. Adesso ci parliamo a malapena,” sibilò Friedrich tra i denti, omettendo il disastroso dettaglio della simulazione. “Se avessi saputo che in birreria c’era anche lui, probabilmente non sarei venuto.”
“Nessuno sapeva che ci sarebbe stato anche lui.” Konrad aggrottò le sopracciglia. “Capisco quello che vuoi… e credo che sia la stessa cosa che vuole lui.”
“Io non credo che lo voglia davvero, sai?”
“Ci hai forse parlato per saperlo?”
“Me lo ha fatto capire.”
“Ripeto: ci hai forse parlato? Vi siete visti, avete chiarito la situazione faccia a faccia? Ti ha detto che non voleva più saperne di te?”
Di fronte al tono duro dell’amico, quello di Friedrich da tagliente divenne glaciale. “No, non ci ho parlato e non intendo andare a elemosinare la sua carità.”
“Non lo conoscerò bene quanto te, Fritz… ma io credo che lui sia uno di quelli che, se decide di fare una cosa, la fa solo perché deve o perché la vuole davvero.”
“Non lo so, Konrad. Io invece penso che abbia deciso di metterci una pietra sopra.”
“Lui è il tuo comandante di compagnia: se si è comportato in quel modo, non l’ha certo fatto per umiliarti. Ma non credo che farà mai la prima mossa, se da te non avrà la garanzia che può fidarsi. Parlatene con calma, magari da qualche parte lontano da sguardi indiscreti. Se deve succedere qualcosa, succederà… e se non succederà, vi sarete comunque tolti un peso.”
Friedrich, con sguardo vacuo, si voltò verso di lui. “Che cosa ti suggerisce che sia davvero così?”
“Sono solo realista”, disse Konrad, con un’alzata di spalle. “Io non so se sia davvero così, però questa è l’idea che mi sono fatto di lui. Sei libero di scegliere se fidarti o meno.” Lasciò cadere una breve pausa e lo indusse a guardarlo negli occhi. “Ti fidi di me?”
“Sei l’unica persona di cui io mi fidi.” Erano venuti a conoscenza del reciproco segreto quasi per caso – si erano guardati e avevano capito, attraverso le rispettive allusioni, di star parlando della stessa cosa – e la loro amicizia, anziché risentirne, si era rafforzata. “Così come tu ti fidasti di me.”
“Anche io avevo i miei dubbi. Pensavo che mi avrebbe riso in faccia, che si sarebbe allontanato… e la paura di perdere la sua amicizia o i gradi era perfino peggiore del timore di non poter avere con lui un certo tipo di rapporto.”
“E invece non è andata così… vi siete fortificati anche nella vita militare.” Dopo tutto quel tempo, Konrad e Reinhardt avevano trovato l’equilibrio giusto e a occhi esterni riuscivano a mostrarsi come due semplicissimi amici. Solo Friedrich sapeva che tra loro c’era ben più di quello. “Come me e lui, prima di quel giorno…”
“Per questo ti dico,” ribadì l’altro, “non potete continuare a distrarvi dal servizio perché continuate a rimuginarci su. Immagina se una cosa del genere succedesse in guerra: o ci mettete una toppa, lasciate perdere e dimenticate, oppure mettete le cose in chiaro e trovate una soluzione praticabile. Le vicende private non dovrebbero interferire sul funzionamento di un reparto.”

Il vecchio grammofono trasmetteva canzoni sentimentali del Dopoguerra, che facevano da sottofondo al sommesso brusio delle chiacchiere degli avventori, alle risate e al tintinnio dei bicchieri.
“Holger è un vecchio nostalgico,” osservò il capitano Schwieger, mentre le note di Ich hab’ mein Herz in Heidelberg verloren si diffondevano per la sala dalle luci soffuse.
Hans non rispose: cercava di non concentrarsi sulle parole della canzone, che per lui rappresentavano le macerie del simbolico ponte che aveva demolito quasi tre anni prima, per lasciare quel passato scomodo dall’altra parte del fiume. Bevve un lungo sorso di birra, poi spostò lo sguardo dall’entrata all’albero di Natale che torreggiava alle spalle del robusto locandiere. Le fiammelle delle candele guizzavano, proiettando i loro mutevoli riflessi sul legno lucido del bancone e delle pareti: sembravano fuochi fatui ma, a differenza di essi, continuavano ad ardere…
“C’è qualcosa che non va?” lo richiamò all’attenzione la voce dell’altro.
“No,” rispose bruscamente il giovane, appoggiando la schiena alla parete. “Stavo soltanto… pensando.”
L’ultima volta che erano stati in quella birreria, Friedrich era comparso all’improvviso e si era unito a loro. Erano rimasti in silenzio per quasi tutta la sera, scambiandosi soltanto qualche breve frase di cortesia, ma una parte di lui continuava – in un modo del tutto slegato dalla sua razionalità – a sperare di vederlo varcare la porta da un momento all’altro.
“Hans.”
Il tono insolitamente severo dell’amico lo fece sobbalzare.
“Hans,” ripeté Schwieger, “ti ricordi quando sei arrivato qui a Potsdam, più di un anno fa? Quella volta… durante l’esercitazione sul campo.”
Bühler annuì, anche se non gli faceva piacere rievocare certe cose: per schivare una sventagliata di proiettili, mentre il fumo delle esplosioni simulate gli annebbiava gli occhi, era inciampato in una buca particolarmente profonda ed era caduto slogandosi una caviglia. Alla fine della giornata, il piede gli faceva così male che l’altro – all’epoca tenente come lui – aveva dovuto accompagnarlo fino al posto di medicazione.
“Bene. Io non so praticamente niente di ciò che fai fuori dalla caserma, neanche te lo chiedo, ma dopo tutto ciò che abbiamo passato insieme credo di poterti considerare un mio camerata.” Forte della complicità instauratasi tra loro, Schwieger gli poggiò una mano sulla spalla. Quel gesto inaspettato fece scattare Hans leggermente sulla difensiva, ma subito dopo emise un sospiro e si rilassò, senza tuttavia voltarsi verso di lui. “Se posso darti un consiglio, penso che cambiare aria potrà solo giovarti. Vieni ad Amburgo per qualche giorno, ti ospiterò volentieri.”
“Non lo so, Günther… non vorrei essere di disturbo. Tu hai una moglie, una figlia…”
“Ma scherzi? Impossibile che tu dia fastidio. Anzi… mia madre fa del buonissimo filetto di salmone con le patate, dovresti provarlo!”
“Sei molto gentile, davvero, ma…”
Ma cosa?” Di fronte alla sua espressione imbarazzata, Günther scoppiò a ridere. “Scommetto che non hai mai visto il mare!”
“Direi… non proprio.”
“Quadri e cartoline non contano.”
“Allora no.”
“Come immaginavo… ma credimi, c’è sempre tempo per rimediare e vedere posti nuovi.” Schwieger gli rivolse un’occhiata sorniona. “Anche se sei uno svevo e, come tutti quelli delle tue parti, sei tirchio e chiuso di mente.”
Hans aprì la bocca per replicare, ma l’altro lo prevenne in tempo: “E non inventarti scuse! Non ti ho consigliato una lussuosa vacanza in crociera, ma solo qualche giorno di tranquillità. Mio padre ha una barchetta, potremmo andare a pescare al largo…”
“Ecco cos’era quell’odore…”
A quelle parole, velate di sarcasmo, Schwieger inarcò un sopracciglio e gli rivolse uno sguardo interrogativo.
“Pesce”, disse Bühler, con un ghigno, “se noi svevi siamo tirchi, voi anseatici puzzate di pesce.”
“E tu puzzi di selvatico. Ma se fossi in te prenderei in considerazione la proposta: si respira una bell’aria, la gente è ospitale e il cibo buono. Sono sicuro che ti piacerà!”

Il tenente von Kleist si fece consegnare una pistola da uno dei gestori dell’armeria e, prima di prendere posto di fronte a uno dei banchi di tiro, fece scorrere uno sguardo disinteressato attraverso l’intero ambiente: le corsie all’aperto che li separavano dai bersagli erano inondate dalla luce naturale del sole, mentre le tinte calde delle pareti in legno davano l’illusione di smorzare leggermente il freddo proveniente dall’alto.
Friedrich esaminò prima le postazioni interne, dove per la maggior parte scorse allievi assistiti da sottufficiali più anziani, poi si affacciò a una delle uscite che davano sulle linee di tiro esterne, quasi del tutto deserte. La neve era stata accuratamente spalata per consentire libero accesso ai soldati, ma solo due uomini, imperterriti nonostante il gelo che intirizziva le membra, si erano armati di fucile e si stavano esercitando sulle lunghe distanze.
Si esercitò per un po’ con la pistola, poi, colto da un’ispirazione improvvisa che lo sciolse dalla sua apatia, la restituì e si incamminò verso le postazioni esterne con un Mauser 98k in spalla, lasciandosi scivolare addosso le occhiate incuriosite di alcuni soldati del suo plotone.

Il terreno duro e l’erba ricoperta di brina, unitamente alla bassa temperatura, costituivano una sfida stimolante per lui: la battuta di caccia lo aveva ritemprato e gli aveva dato la carica giusta per affrontare al meglio non soltanto la durezza dell’addestramento, ma anche i piccoli dilemmi personali che prima gli erano parsi molto più ardui. Scelse la postazione più remota e la massima distanza di tiro, fece il vuoto nella testa e imbracciò il fucile.
Quell’attività lo assorbì in maniera tale che, quando abbassò l’arma per concedersi qualche minuto di riposo, notò che i due uomini se ne erano andati e che ne era arrivato un altro. Trasalì interiormente quando si accorse che quel giovane asciutto e slanciato era il capitano Bühler. Non poteva vederlo in faccia, ma era sicuro che fosse lui: lo riconosceva dal portamento marziale e dal modo in cui gli stivali alti, il cinturone della pistola e i pantaloni a sbuffo accentuavano la sua figura, facendolo sembrare ancora più alto.
Per un attimo fu tentato di andarsene senza dare nell’occhio, onde evitare di dare un seguito a certi pensieri, ma non poté fare comunque a meno di notare che il capitano aveva assunto la sua solita postura naturale, che gli permetteva di rimanere immobile nonostante il rinculo del fucile, ricaricare e sparare in rapida successione, con una scioltezza che si poteva dire frutto di abitudine consolidata e non di un insegnamento acquisito.
Strinse i denti, ripensando a tutte le volte che erano venuti a esercitarsi insieme e si erano poi trattenuti a chiacchierare all’ombra della vecchia quercia, senza neanche far caso al tempo che passava. Esitò qualche istante prima di muovere un paio di passi incerti verso di lui: non aveva dimenticato il consiglio di Konrad, e aveva deciso di provare a sondare il terreno, con cautela, tentando almeno di recuperare l’amicizia di un tempo.
Accortosi della sua presenza, Bühler si voltò e i suoi occhi nocciola si posarono su di lui. “Tenente von Kleist.”
“Signor capitano,” scandì Friedrich, mantenendosi su toni neutri. “Non mi aspettavo di trovarla qui.”
“Nemmeno io,” ammise l’altro. Abbassò il fucile e si passò la cinghia intorno alla spalla, senza però accennare a congedarsi. Ancora sulla difensiva, von Kleist rilevò che, dietro l’apparente imperturbabilità, nell’atteggiamento del capitano non c’era alcuna traccia della sua calcolata freddezza. “Di solito vengo qui quando so che non c’è nessuno.”
“Capisco.”
“Non gliel’ho mai detto prima d’ora, ma sa sparare bene, tenente. Da quella distanza… non è facile centrare il bersaglio.”
Friedrich, a quella rivelazione, dovette trattenersi dall’aggrottare le sopracciglia. “Potrei dire lo stesso di lei, capitano.”
“Vado a caccia con mio nonno da quando avevo undici anni, è una tradizione di famiglia,” disse Bühler con un’alzata di spalle. “E a tredici ho avuto il battesimo di Sant’Uberto, abbattendo il mio primo cervo… diciamo pure che maneggio il fucile da prima ancora di sapere che mi sarei arruolato nell’esercito.”
“Anche mio padre mi portava… anche io andavo a caccia, da ragazzino.” Von Kleist abbassò la voce. Non sapeva ancora cosa lo trattenesse dal parlare esplicitamente di sé, della sua famiglia e del suo passato: forse era ancora il timore che l’altro lo giudicasse per le sue origini aristocratiche. “In verità, ci vado tuttora, quando mi si presenta l’occasione.”
“Io non ci vado più da molti anni, purtroppo.” Per un istante, sul volto del capitano passò un’ombra fugace. “Ecco perché vengo spesso ad esercitarmi qui al poligono: è meglio non perdere l’abitudine.” Gettò uno sguardo al cielo che imbiancava, poi col capo accennò alla porta che dava sui corridoi interni. “Ma penso che tra poco riprenderà a nevicare: è meglio se rientriamo.”

Hans precedeva il tenente in silenzio, le mani dietro la schiena, lasciando vagare lo sguardo distratto attraverso i corridoi illuminati di luce naturale. Gli davano una sensazione di ordine, di pulito, di luogo in cui ci si potesse sentire al sicuro. Non aveva mai avuto problemi con la disciplina militare né con la gerarchia: sentirsi parte di una comunità di uomini uniti dagli stessi intenti e dagli stessi ideali, combattere per un obiettivo condiviso, essere un punto di riferimento per i suoi soldati e valorizzare le loro attitudini, in modo che ciascuno di loro potesse dare il proprio meglio nelle attività in cui eccelleva, erano le cose che da sole bastavano ad appagarlo.
Ma al di là dei rapporti camerateschi, stava bene da solo, lontano dai divertimenti mondani e dalle preoccupazioni effimere. Gli tornarono in mente i discorsi di Schwieger, quella sera alla birreria, e il suo atteggiamento protettivo da fratello maggiore: avevano legato quasi per caso, pur essendo praticamente opposti di carattere, e l’espansività dell’altro non gli aveva mai impedito di prendersi quella confidenza che il rigido capitano Bühler, tutto d’un pezzo e maniaco del regolamento, non avrebbe mai concesso di sua spontanea volontà.
Ironico, pensò, credono di conoscermi, ma non sanno nulla di me… e forse, è meglio così.
Paradossalmente, era proprio von Kleist l’unico a saperlo, l’unico ad aver squarciato il sottile velo che separava le cose che potevano essere dette e mostrate da quelle che sarebbe stato meglio nascondere. Lo aveva visto vacillare, cedere a una tentazione che si era severamente imposto di domare. A quel punto, non aveva più senso continuare a vivere di sotterfugi, nascondendosi dietro un muro di silenzio: doveva affrontare le sue debolezze e superarle, anche se l’idea di mettere a tacere i suoi sentimenti continuava a fargli male.
Accompagnato da tali riflessioni, risalì l’imponente scalinata di marmo e si fermò sul pianerottolo, affacciandosi alla finestra che dava su un cortile interno. Era uno dei suoi punti d’osservazione preferiti, dove spesso si recava per meditare. Un’imponente quercia gli donava un senso di raccoglimento, e sotto la sua chioma v’erano due panchine in pietra con le zampe di leone – le stesse panchine su cui lui e Friedrich solevano sedersi durante le pause, anche solo per rimirare il cielo o ascoltare lo stormire delle fronde, paghi della reciproca compagnia.
Al di là del vetro aveva iniziato a nevicare, e i candidi fiocchi sospinti dal vento turbinavano nell’aria senza una meta precisa, incastrandosi tra i rami del maestoso albero.
Friedrich, accanto a lui, era immobile come una statua, i gomiti appoggiati al davanzale. “Signor capitano… stavo ripensando al discorso di poco fa,” esordì.
“Adesso possiamo parlare, tenente.”
“A me piace andare a caccia: è un modo per entrare a contatto con la natura, per imparare a conoscerla e onorarla. È una tradizione che i nostri padri, e i padri dei nostri padri, ci tramandano fin dall’alba dei tempi, ed è nostro dovere portarla avanti affinché non venga contaminata dai vizi e dai veleni della modernità.” A quelle parole, si volse appena verso di lui e i suoi occhi si illuminarono della consueta trasparenza cristallina. “Non crede, capitano?”
Bühler annuì. “È uno dei fondamenti della nostra civiltà: come un edificio privo della sua struttura portante finisce per crollare su se stesso, anche un popolo senza radici è destinato al collasso.” Fece una breve pausa, indugiando sulla quercia nodosa che, stando ai racconti dei soldati più vecchi, era lì dal 1796, anno in cui la caserma fu edificata. “È per questo che combattiamo: per garantire un futuro migliore a quelli che verranno dopo di noi, senza recidere del tutto i legami col passato.”
Von Kleist rimase a lungo in silenzio, immerso in meditazioni troppo remote per essere afferrate. “Mio padre era comandante di un reggimento di dragoni,” disse infine. “La sconfitta ha privato il nostro popolo di ogni cosa, ha cercato di strapparci l’orgoglio e la dignità, ma non è riuscita a toglierci la consapevolezza di ciò che eravamo. Io non ricordo la guerra, ero troppo piccolo… ma mio padre ci parlava spesso dei tempi passati: era un mondo diverso, forse non migliore, ma neanche inquinato dal senso d’impotenza e dalla disillusione che vennero dopo. E ne sono convinto: anche se lui e mia madre rimasero devoti al Kaiser fino alla fine, in parte è anche grazie ai loro racconti se adesso sono qui.”
Hans si stupì di quell’inaspettata confidenza: il tenente non parlava mai di sé, tranne per qualche vaga allusione che gli era capitato di cogliere, e quelle poche parole ebbero come il potere di scrollargli di dosso il disagio che lo attanagliava. “Forse non è la stessa cosa,” disse poi, rilassando appena le spalle, “i miei erano molto religiosi e non condividevano le mie idee, però – forse indirettamente – sono stati loro a farmi maturare la convinzione di quello che sto dicendo. Avevo cinque anni quando mio padre tornò a casa mutilato e perse il lavoro. Finita la guerra, furono anni duri per tutti e io andai a vivere nella fattoria dei miei nonni, in campagna: è lì che imparai ad amare la mia terra, a rispettarla, a onorare le mie radici…”
“Non basta recidere i rami di una quercia per farla morire”, osservò von Kleist in tono ispirato. “Ecco perché, finché le sue radici resteranno saldamente ancorate al suolo, essa continuerà a trarre dalla terra la forza di crescere e fortificarsi, beandosi della luce del sole.”
“È così, tenente,” convenne il capitano, lasciando che le sue labbra si piegassero in un leggero sorriso. Preferì tuttavia non voltarsi verso di lui: percepiva la sua presenza e la sua comprensione, e quello, per il momento, bastò ad alleggerire il suo animo dalle preoccupazioni che insidiavano i suoi sonni.

Mentre la luce del crepuscolo tingeva di cobalto la neve che ricopriva i tetti delle case, avvolgendo la città in un’atmosfera di fiaba, i primi lampioni si accendevano spargendo aloni giallastri sui marciapiedi ghiacciati. Alle porte delle abitazioni erano appese ghirlande di pungitopo coi loro frutti rossi; il fumo dei comignoli si levava verso il cielo.
Il capitano Bühler affrettò il passo, tirò su il bavero del lungo cappotto militare a doppiopetto e infilò le mani nelle tasche, sfidando le raffiche di vento gelido. Non c’era quasi nessuno per strada; solo ogni tanto qualche automobile o una vettura del tram proiettava sulla strada due fasci di luce e poi passava oltre.
“Signor capitano.”
Hans si voltò di scatto e si trovò a pochi passi dal tenente von Kleist, che accennò un saluto sfiorando la visiera del berretto con la mano guantata.
“Tenente.”
“Pare che oggi von Eltz sia rimasto soddisfatto dai risultati della simulazione,” esordì l’altro, continuando a camminare al suo fianco.
Bühler annuì pacato: da quando avevano ricominciato a parlarsi normalmente, anche l’alleanza instauratasi tra loro aveva ripreso vigore. Quel giorno, in particolare, si erano trovati così in sintonia che il maggiore, parlando col colonnello Wolff, si era lasciato scappare lodi che raramente riservava a dei subalterni. “Abbiamo fatto quello che dovevamo,” minimizzò. “Questo è ciò che ci si aspetta da noi, no?”
Mentre parlavano, si accorse che erano arrivati al parco che attraversava sempre per tagliare la strada che separava la caserma da casa sua: il sentiero centrale era ridotto a una semplice fossa scavata in una spanna di neve, che recava orme recenti; perfino le panchine in ferro battuto sembravano letteralmente affondarvi con tutte le gambe. “Sta iniziando a nevicare”, osservò, raccogliendo nel palmo della mano un fiocco di neve che si sciolse quasi subito a contatto con la pelle. “È meglio se ci affrettiamo a tornare a casa.”
Friedrich non rispose subito: si era fermato, e i suoi occhi stavano esplorando l’ambiente con aria circospetta. “Lo senti?” chiese poi, tendendo l’orecchio.
“Cosa?”
“Ascolta. C’è qualcosa…” Levò una mano e tacque, inducendolo a fare lo stesso: nel silenzio ovattato si udiva un uggiolio sommesso, come il pianto di un cane. Prima ancora che Hans potesse aprire bocca per dire qualcosa, il tenente aveva già deviato il proprio percorso e, affondando gli stivali nella neve alta, si stava avvicinando a una panchina che affiorava dal mare bianco come il relitto di una barca incagliata.
Sbalordito, il capitano lo seguì.
Nel frattempo, Friedrich si era chinato su quella che sembrava una scatola, dentro la quale era ficcato alla rinfusa un viluppo di coperte logore e bucherellate. I lamenti cessarono, l’involto si mosse facendo sporgere una coda e da esso provenne un basso ringhio.
“Buono, piccolo,” sussurrò il tenente, protendendo le mani verso di lui. “Non aver paura.”
Hans si sporse in avanti al di sopra della sua spalla. “Chissà di chi è…”
“Bisogna essere degli infami per abbandonare un cane così piccolo con questo tempo,” sibilò l’altro a denti stretti. “Non possiamo lasciarlo qui, morirà di fame o di freddo.”
“Purtroppo con me non ho niente da dargli da mangiare… tu hai qualcosa?”
Von Kleist scosse la testa. “Non possiamo lasciarlo qui,” ripeté, incurante dei fiocchi di neve che continuavano a posarglisi sul berretto e sul cappotto. “Vieni, piccolo… Hubert.”
“Come Sant’Uberto?”
“È un cane da caccia,” rispose il tenente con un’alzata di spalle, come per sottolineare l’ovvietà di quell’associazione.
Scostò un lembo di stoffa e dalle coperte spuntò prima un naso umido, poi la testa di un cucciolo con le orecchie pendenti e il pelo raso di un grigio quasi argentato. Si scrollò leggermente e fissò i due giovani coi suoi grandi occhi azzurri, che da spaventati si fecero attenti e curiosi.
“Guardalo, ha un musetto simpatico.” Friedrich allungò una mano e, seppur con qualche reticenza, il cagnolino si lasciò accarezzare. Fu questione di pochi istanti prima che gli saltasse letteralmente al collo, scodinzolando e facendogli le feste, mentre i suoi occhi rimanevano puntati su Hans.
“Sei riuscito a convincerlo,” osservò il capitano.
Von Kleist si alzò in piedi sorreggendo il cucciolo che, ormai arrampicato sulla sua spalla, si sporgeva per ricevere una grattata tra le orecchie anche da lui. “Anche tu gli piaci”, disse, il volto illuminato da un mezzo sorriso.
“Potremmo portarlo in caserma, domani,” propose Hans. “Ci sarà posto per lui, no?”
“Certo che c’è posto. In realtà, però… io pensavo di tenerlo.”
Bühler esitò. “Avevo proposto la caserma perché così avremmo potuto fargli visita entrambi.”
Forse intuendo i suoi pensieri, l’altro lo precedette: “Vuoi tenerlo tu?”
“Facciamo così: lasciamo decidere a lui.”
Mentre Hans parlava, il cagnolino diede un colpetto col muso sulla spalla del tenente e lo insinuò nella stoffa calda del pastrano militare, rannicchiandoglisi contro il petto. Stava ancora tremando e il giovane lo avvolse tra le braccia senza dire una parola, un gesto istintivo che suggeriva calore e protezione.
“Intanto vediamo di uscire da questo parco prima di impantanarci nella neve,” riprese, distogliendo lo sguardo da quella scena per levarlo verso il cielo ormai nero: i fiocchi avevano preso a scendere più fitti, turbinando nell’aria in gelidi mulinelli. “Se non ci sbrighiamo, qui ci toccherà camminare nella tormenta. Tu dove devi arrivare?”
“Abito dall’altra parte del fiume, vicino al palazzo di Sanssouci.”
Hans sollevò un sopracciglio. “Ma sono più di cinque chilometri!”
“Ci sono abituato,” disse Friedrich, riprendendo a camminare con quel fagottino caldo e peloso stretto contro il petto. “Tu dove stai?”
“Non così lontano. Sarà circa un quarto d’ora da qui.”
“Siamo di strada, allora. Ti accompagno.”
“Allora sbrighiamoci.” Ancora una volta, Hans sbirciò il cucciolo raggomitolato contro il petto del tenente. “Questa povera bestiola avrà fame…”

I due ufficiali proseguirono per un pezzo in silenzio, il passo celere, mantenendosi rasenti ai muri delle case e sfruttando la protezione dei cornicioni. Giunsero infine di fronte a un edificio dalla facciata spoglia e un portone in legno di rovere, al quale si accedeva salendo tre scalini sbreccati.
“Io sono arrivato, allora,” disse il capitano, armeggiando con un mazzo di chiavi. “C’è una fermata del tram qui vicino, dovrebbe passare tra una ventina di minuti… ma se nel frattempo vuoi entrare, posso darti una coperta e del cibo per il cane.”
Friedrich alzò la testa: illuminati dalla luce dei lampioni, i fiocchi erano fragili petali dorati contro l’indaco del cielo. Hubert aveva smesso di tremare e sembrava essersi assopito, col muso appoggiato nell’incavo del suo braccio e le orecchie che gli ricadevano sugli occhi.
“Hansi!” cinguettò una donna di mezza età dal piano di sopra, affacciatasi alla finestra.
“Buonasera, signora”, la salutò Friedrich, per poi rivolgere all’altro uno sguardo interrogativo.
“Signorina,” lo corresse Hans, a bassa voce. “È mia zia.”
“Buonasera a lei, signor…”
“Tenente.”
“Il tenente von Kleist è un ufficiale della mia compagnia,” aggiunse il capitano. “Lo faccio accomodare un attimo nell’atrio e…”
“Signor tenente!” La donna sembrò ignorare la precisazione del nipote, e la sua voce dal forte accento svevo sovrastò il cigolio del portone che si apriva. “Mi permetta di invitarla di sopra: ho preparato il tè…”
Hans alzò gli occhi al cielo, poi si immise nell’androne buio e gli fece strada su per le scale, fino alla porta dell’appartamento dove trovarono la signorina Bühler già ad accoglierli sulla soglia.
“Benvenuto, signor tenente!” esclamò stringendogli la mano, con un largo sorriso e i modi schietti della gente di campagna. Sulle spalle portava uno scialle ricamato con fiori rossi e blu, fatto a maglia, e un lungo grembiule era stretto intorno alla vita. “Si accomodi pure.”
Una volta dentro, Friedrich non poté fare a meno di dilatare le narici, lasciandosi inebriare dalla frugalità domestica: dalla cucina proveniva un profumo invitante, di dolci di mandorle e frutta candita, e biscotti al pan di zenzero appena sfornati.

Il sonno non era riuscito ad avere ragione del piccolo Hubert: rinvigorito dal calore che regnava tra le quattro mura dell’appartamento, aveva mangiato e bevuto a sazietà, poi aveva preso una palla fatta di stracci e si era messo a giocare, mordendola e trascinandola da un angolo all’altro della cucina mentre la sua coda si muoveva giocosa.
Hans lo guardava sorseggiando il suo tè caldo, incapace di togliersi dalla testa l’immagine di Friedrich che lo stringeva contro il petto, tremante e infreddolito: il cagnolino si era fidato di lui istintivamente, cosa che lui, preso dai suoi scrupoli, non era mai riuscito a fare…
“Tra poco è Natale, signori miei,” disse all’improvviso la zia Hedwig, che fino ad allora era rimasta in rispettoso silenzio, appoggiata contro il piano cottura.
Ghignando a fior di labbra, il capitano prese un biscotto dal vassoio. “Un giorno come un altro.” Riuscì quasi a sentire l’occhiata accigliata della donna pungolargli la schiena, ma finse di ignorarla fissando le travi di legno del soffitto.
Friedrich concordò silenziosamente con lui, ma si astenne dal mancare di rispetto alla signorina Bühler esprimendo ad alta voce le sue opinioni. “È un’occasione per trascorrere del tempo con gli amici o con la famiglia,” si limitò a dire, in tono diplomatico.
Aveva un vago ricordo delle feste, i balli e i ricevimenti che i suoi genitori, il conte Johann Gottfried von Kleist e la baronessa Louise Viktoria von Seydlitz, organizzavano alla villa quando era bambino – usanza che si era interrotta quando, quasi dieci anni prima, i due erano partiti per un viaggio e non erano più tornati: incidente d’auto, schianto mortale; non si era salvato neanche l’autista. Da allora, lui e i suoi fratelli riuscivano a riunirsi soltanto durante le feste: quell’anno suo fratello Jürgen, che prestava servizio in una nave-scuola al largo dell’isola di Rügen, aveva approfittato della licenza per invitarli nella sua casa di Berlino.
Vide Hans che giocava con Hubert e la sua immaginazione beffarda trasportò entrambi nel suo salotto, sul suo divano: l’albero era illuminato, la neve che turbinava fuori li isolava dal resto del mondo, ma il fuoco nel camino li faceva sentire al sicuro entro quelle quattro mura. Seduto accanto a lui, Friedrich appoggiava la testa sulla sua spalla e l’altro gli sfiorava i capelli, concretizzando quella vicinanza che vibrava nell’aria ma continuava a sfuggirgli.
Sbatté le palpebre per cancellare quelle fantasie e guardò l’orologio, fingendo indifferenza: mancava poco all’ora di cena. “Ma adesso è meglio se vado. Vi ringrazio per l’ospitalità, ma… si sta facendo tardi.” Si alzò in maniera fin troppo brusca, salutò la signorina Bühler e si rimise il berretto. “Vieni, Hubert.”
Ubbidiente, il cagnolino scattò drizzando la coda e gli trotterellò dietro, gli occhi celesti che lo fissavano con aspettativa.
“Ti accompagno giù”, si offrì il capitano. In realtà, dovette ammettere a se stesso, non sapeva neanche spiegarsi perché lo avesse fatto: sentiva solo il bisogno di trascorrere qualche momento da solo insieme a lui prima di lasciarlo andare.
Gli fece cenno di precederlo lungo le scale e, giunti di fronte alla porta, rimasero per un istante interminabile a guardarsi negli occhi senza dire nulla. Quelle iridi azzurre e limpide sembravano volergli leggere l’anima; stranamente, però, anziché provare disagio, Hans realizzò di sentirsi compreso a un livello più viscerale.
Fu un mugolio di Hubert a interromperli. “Alla fine ha scelto te,” disse, chinandosi per elargire una carezza al cane, che gli diede un colpetto col muso e glielo strusciò contro il palmo della mano. “Ti segue ovunque, come un soldatino sull’attenti.”
“Qualche volta lo porterò in caserma, così potrai rivederlo,” promise il tenente.
Egli si sciolse in un tiepido sorriso. “Ci conto, allora.”
Friedrich raccolse il cucciolo e lo avvolse nella coperta, poi sfiorò la visiera del berretto in un informale saluto militare. “Arrivederci, capitano.”
Aveva smesso di nevicare e la quiete avvolgeva la città illuminata d’oro e d’argento in una sorta di torpore estatico. Hans rimase sulla soglia dell’abitazione fino a quando la figura del giovane, ormai un puntino nero contro la strada imbiancata, non fu scomparsa dietro l’angolo.

Le feste di Natale erano andate e venute, salutando la venuta del nuovo anno. La neve continuava a imbiancare i tetti e il freddo a stritolare i campi nella sua gelida morsa, ma le attività militari erano riprese a pieno regime, segno di un’instancabile operosità.
Il bosco era lambito dai raggi obliqui del sole morente, che allungavano le ombre e creavano giochi di luce tra le gemme di ghiaccio che adornavano i rami.
Il tenente von Kleist si diede un ultimo slancio, si arrampicò su una balza di terreno in pendenza e lì si fermò, respirando a fondo l’aria gelida e il vago sentore di resina emanato dai tronchi.
Il capitano Bühler lo seguì a qualche passo di distanza. “Non vorrai dirmi che sei già stanco?”
Friedrich non rispose, ma levò lo sguardo verso il cielo perlato, che andava via via striandosi di violetto: la luce del sole era ormai una macchia gialla che indorava le nuvole basse, mentre l’indaco dominava le regioni più alte. “Guarda che bellezza…” Appoggiò la schiena al tronco di un albero e socchiuse leggermente gli occhi, come se volesse assaporare più a fondo quella sensazione di beatitudine. “E che pace.”
L’altro non disse niente, né accennò a raggiungerlo; ma poteva percepire la sua presenza come un’aura familiare. Tutt’intorno era quiete, i tronchi screziati delle betulle erano colonne sottili che si protendevano verso il cielo scuro.
A Friedrich venne da pensare che stava bene con lui, anche quando si allenavano in silenzio; anche quando trascorrevano ore insieme senza neanche sentire il bisogno di guardarsi, forti della consapevolezza che l’altro era lì e che non se ne sarebbe andato. Ma quelle erano le cose che non avrebbe mai potuto dirgli, perché non era nel suo carattere e perché il solo provare a tradurle in parole le avrebbe private di ogni significato. “Da quanto tempo è che ci alleniamo insieme, Hans?” chiese invece, retorico.
“Settimane, forse mesi,” rispose il capitano. “Chi se lo ricorda più.” Si ravviò i capelli con un gesto distratto e si avvicinò, volgendosi poi verso il percorso che si erano lasciati alle spalle. “Ne abbiamo fatta, di strada”, osservò, con un leggero sorriso.
“È questo l’allenamento migliore: il bosco con tutti i suoi ostacoli, invece che qualche giro di pista battuta.”
Hans si accorse che erano completamente da soli, ettari ed ettari di bosco a separarli dalla civiltà; gli alberi immobili erano gli unici testimoni della loro presenza. Un leggero refolo di vento scompigliò i capelli biondi del tenente, che parvero rifulgere degli ultimi raggi di sole.
D’istinto, si strinse le braccia al petto, senza sapere che cosa gli avesse insinuato quel brivido involontario lungo la spina dorsale. “È quasi ora di rientrare. Che ne dici di tornare indietro?”
“Hai freddo?” gli chiese Friedrich.
Dalla vibrazione nella sua voce non traspariva alcun segno di sfida, solo una sincera premura; tuttavia Hans assottigliò gli occhi e si schermì. “No.”
“Già, tu non mostri mai di sentire freddo, caldo, fatica… o qualunque altra cosa, vero?” Si staccò dal tronco e mosse un passo verso di lui, con insolita baldanza. “Io so che non è così.”
Spiazzato da quell’osservazione, il capitano aggrottò le sopracciglia e ripeté, in tono impersonale: “Non ho freddo.”
Friedrich sorrise con indulgenza. “Certo, e io sono il Kaiser.” Era ormai a un passo da lui, gli occhi accesi da un guizzo divertito e il corpo snello avvolto nella tenuta sportiva, nera con l’aquila del Reich sul petto. Così vicino…
Hans arretrò, più per istinto che per una qualche decisione ragionata, ma una radice gli sbarrò il passo, e il tenente, afferratolo per le spalle, lo sostenne prima che perdesse l’equilibrio. La bocca gli si fece d’improvviso secca quando si ritrovò con la schiena contro il tronco di un albero, le mani strette intorno ai polsi di Friedrich. Ormai il buio era pressoché totale, e gli ultimi barbagli di luce dorata riverberavano amplificati dal candore del paesaggio, mentre l’umidità della sera iniziava a salire, portando con sé un venticello pungente. “Hai le mani gelate,” osservò il tenente.
“Non è vero”, protestò lui. Sulle prime, non seppe dire cosa lo trattenesse dall’impulso di spingerlo via, ma fu la stessa vicinanza del giovane a suggerirgli la risposta: se all’inizio non riusciva ad accettare di aver perso il controllo, in quel momento si rese conto di non aver mai desiderato altro; ma – e lì risiedeva la fonte del paradosso più grande – per tutto quel tempo aveva cercato di porre un freno alla sua stessa volontà.
Dopo qualche istante a fissarsi in silenzio, Friedrich, i polsi ancora imbrigliati nella sua presa, sussurrò: “Adesso dimmi anche che vuoi andartene…”
I loro volti erano ormai vicinissimi, tanto che i loro respiri si confondevano l’uno nell’altro. Nessuno dei due si mosse di un millimetro, la stretta di Hans si rafforzò e si tradusse in uno strattone, che attirò il tenente verso di sé. Le difese che avevano eretto crollarono come un muro troppo fragile sotto i colpi di una batteria di obici pesanti, e le distanze tra loro si ridussero fino a fondersi in un bacio da entrambi a lungo desiderato.
Si levò un vento sempre più freddo, che scosse le fronde scheletriche degli alberi. Nella luce infuocata del tramonto, le loro ombre avvinte sembravano una sola.


  1. Tu sei il mio sogno più bello↩︎

  
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