Capitolo
13
Salvami
“Mi sentivo sì
innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una
giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i
peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.”
Primo Levi, I
sommersi e i salvati
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
Napoli,
luglio 1946
L’abbraccio
di Matteo racchiudeva in sé il profumo della brezza marina, che, leggerissima,
soffiava sulle pagine della vita di Sarah, nel tentativo di voltarne il tormentato
capitolo di Fossoli, che ancora sanguinava nell’incoerente intreccio tra dolore
e rimpianto.
Con
la guancia premuta sul petto di Matteo, Sarah guardava il mare calmo della sera
e sentiva ancora il dolore per la perdita di suo fratello, di sua madre, di suo
padre, di don Franco e dei bambini, suoi compagni di sventurato viaggio, e la
nostalgia degli occhi verdi di Hermann, crudelmente belli.
Strizzando
un po’ gli occhi per trattenere le lacrime, strinse di più le mani attorno ai
fianchi di Matteo. Quell’abbraccio poteva essere per Sarah la morbida culla
della sua salvezza o la recinzione spinata di una nuova prigione e poteva
uscirne come da grembo verso la rinascita o come da precipizio verso
un’esistenza spaccata a metà tra il ricordo agrodolce di Hermann e l’amore acerbo
del giovane pescatore.
Fu
pervasa da un improvviso senso di colpa, questa volta non verso i suoi cari,
per essere indegnamente sopravvissuta, ma verso Hermann, per quelle braccia che
la stringevano e che non erano le sue.
Strizzò
ancora gli occhi: forse, quando li avrebbe riaperti, alzando lo sguardo verso
il volto di Matteo, avrebbe rivisto gli occhi verdi, d’insondabile oceano, di
Hermann e il suo viso cereo e severo, di celata dolcezza; la spiaggia si
sarebbe trasformata nel terreno fangoso di Fossoli e l’infinito orizzonte del
mare sarebbe mutato nei suoi confini spinati, di un inferno che, di notte,
diventava per lei un illusorio paradiso. Ma sapeva che tutto ciò fosse una
pazzia, una distruttiva fantasia della sua piccola mente fuorviata dagli eventi
passati e adesso ammalata.
Quando
alzò lo sguardo, vide due occhi marroni, che la guardavano attraverso un velo
di tenerezza e commozione e, in un sussulto, spinse il suo cuore ad aprirsi a
quell’amore puro e acerbo, che la sua adolescenza non aveva mai conosciuto.
Matteo
era la sua cura, la sua salvezza.
“Mi
aiuterai a guarire?” gli chiese, con voce flebile e spezzata, guardandolo
profondamente negli occhi.
In precedenza, il giovane pescatore si era precluso la possibilità di conoscere l’intera verità e, credendo che Sarah si riferisse alle ferite di un passato che accomunava tanti dei sopravvissuti ai campi di concentramento, lasciò che le lacrime inondassero la terra dei suoi occhi e scivolassero lungo le sue guance scurite dal sole.
“Sì,
io mi prenderò cura di te”, le disse, prendendole il viso tra le mani e
avvicinando, ancora una volta, le labbra alle sue.
Sarah
sapeva che Matteo non avrebbe mai compreso pienamente il dolore che
l’affliggeva, ma s’innamorò delle sue lacrime, delle sue parole, e accolse il
suo tenero bacio. Una lacrima le rigò il viso e lasciò che Hermann morisse per
quelle labbra che avevano il sapore del mare e che lei baciò con passione tra i
bagliori color indaco del cielo al crepuscolo della sera, alba della sua nuova
vita.
Berlino
Hermann
aprì la valigia sul letto e, afferrando dall’armadio un mucchio di vestiti a
caso, li gettò nervosamente al suo interno, appiattendoli. Solo pochi gesti e
già sentì le forze venir meno. Per un attimo, si fermò a guardare le proprie mani,
sprofondate tra i vestiti nella valigia, un po’ tremanti, ancora troppo deboli,
ed esitò. Forse non era ancora fisicamente pronto per affrontare il viaggio
verso l’Italia, gli inevitabili controlli delle autorità militari delle potenze
occupanti in Germania, l’estenuante ricerca della sua amata tra le città
italiane.
Ma
il pensiero di Sarah era la sua forza e le braccia che lo attendevano sarebbero
state la sua cura.
In
fretta, tolse il pigiama e si vestì, per poi chiudere la valigia, con uno
scatto deciso, rumoroso.
“Hermann!”
lo chiamò suo padre, stupito e sconvolto. “Cosa stai facendo?!”
“Torno
in Italia”, rispose con tono di sufficienza, senza rivolgergli lo sguardo e
rovistando freneticamente nei cassetti del comodino, alla ricerca dei suoi documenti.
“Sei
impazzito?! Nelle tue condizioni?!” continuò suo padre, avvicinandosi. “E poi,
per quale motivo?! Per rincorrere una sottana ebrea?!”
Il
tono della sua voce era diventato più severo, più pungente ed Hermann strinse
le mani a pugno, accartocciando nel cassetto due mucchietti di fogli inutili.
Rivolse
a suo padre uno sguardo infuocato, accorgendosi anche della silenziosa presenza
di sua madre sull’uscio della camera, e replicò: “Non capisci?! Il nazismo è
finito, definitivamente! Non esistono più differenze tra ebrei e non ebrei,
anzi non sono mai esistite!”
“è per colpa di quelli come te che
abbiamo perso la guerra. Avrei dovuto lasciarti marcire a Sachsenhausen”,
ribatté suo padre, tra biasimo e disprezzo, mentre sua madre accostò il
fazzoletto alla bocca per trattenere le lacrime.
A
quelle parole, Hermann non si lasciò ferire e, afferrata dal letto la valigia,
sfidò suo padre con sguardo altrettanto sprezzante, dicendo: “Meglio nelle mani
dei russi che in casa di borghesi che giocano ancora a fare i nazisti.”
Fece
per andarsene, ma suo padre lo fermò, mettendosi davanti e prendendogli le
braccia.
“Tu
non uscirai da questa casa”, affermò perentorio e, allo svincolarsi di Hermann,
iniziò fra i due una colluttazione.
La
valigia cadde per terra, aprendosi e sparpagliando il contenuto, mentre Birgit,
ferma sull’uscio, tratteneva a stento i singhiozzi nel fazzoletto. Volarono
indumenti, effetti personali, fogli e volò anche qualche schiaffo, ma Hermann
non se ne accorse nemmeno, abituato ormai al trattamento di Sachsenhausen.
Vedeva solo Sarah davanti agli occhi, immaginando il momento in cui l’avrebbe
riabbracciata e si faceva forza, pur sapendo di essere ancora troppo debole e
di non riuscire a tenere testa neanche a suo padre. Infatti, l’ex SS-Obersturmführer
ruzzolò sul pavimento.
“Va
bene.” Karl sembrò arrendersi alla tenacia di suo figlio. “Va’ pure. Ritorna
dalla tua ragazzetta ebrea. Ma prima devi vedere una cosa”, disse, sollevandolo
bruscamente per un braccio, per poi trascinarlo verso il comò.
Lo
costrinse a sedersi davanti allo specchio e, alla violenza di questo movimento,
Hermann avvertì un dolore alla schiena e pensò che forse non ce l’avrebbe mai
fatta a mettersi in viaggio.
“Guardati”,
lo esortò suo padre, stavolta con tono più calmo, più persuasivo, mentre lo
specchio rifletteva l’immagine deforme di un viso e di un corpo smagriti,
lividi, “cosa vedi?”
Sconvolto,
gli occhi di Hermann si velarono di lacrime: no, non poteva essere lui quel
mucchio di ossa, senza capelli, con espressione triste e smarrita da reduce, da
sopravvissuto.
“Credi che lei ti riconoscerà? Cosa penserà di te?” continuò suo padre e, pensando che il tempo avrebbe curato la sua ossessione, rincarò la dose mostrandogli una sua foto in divisa. “Di chi credi si sia innamorata? Del comandante di Fossoli? O di ciò che ne resta?”
Quelle
parole sembravano essere l’eco dei suoi pensieri e, intanto, si fece vivo,
quasi percepibile sulla pelle, il ricordo delle dita di Sarah che affondavano
nelle sue spalle, larghe e forti; dei suoi piedi che, nell’intreccio
appassionato dei loro corpi, gli sfioravano le gambe, ancora coperte dai
pantaloni dell’uniforme.
“Rimettiti
in sesto e poi, se è questa la tua decisione, potrai partire”, concluse suo
padre con tono fermo e, rimasto solo davanti allo specchio, Hermann cercò nel
verde dei propri occhi un po’ di sé.
Ma,
attraverso il velo di lacrime, trovò soltanto il ricordo di due occhi color
miele che lo guardavano, mendichi di protezione e di sicurezza, ciò che a Sarah
non avrebbe potuto più dare in quelle condizioni.
Non
era ancora tempo di tornare da lei.
“Ti salverò da
ogni malinconia.
Perché sei un
essere speciale.
Ed io avrò cura
di te.
Io sì, che avrò
cura di te.”
Franco Battiato,
La Cura