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Autore: Carme93    12/09/2019    5 recensioni
Questa è la storia di una profonda amicizia.
Questa è la storia di due adolescenti alle prese con le angherie dei compagni e la disattenzione degli insegnanti.
Questa è la storia di Bernardo e Amil che finalmente trovano la forza di ribellarsi.
[Questa storia si è classificata prima al "Playlist Contest" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP]
Genere: Angst, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il volto di Mr. Hyde
 
 



 
5 dicembre
 
Ansimava. Non aveva mai sofferto d’asma, ma in quel frangente gli sovvenne il dubbio. Percepiva la presenza degli altri ragazzi – il brusio concitato giungeva ovattato, forse a causa delle urla precedenti, alle sue orecchie -, ma non vedeva altro che un ammasso indistinto di ombre.
Aveva urlato anche lui? Non se n’era reso conto, eppure la gola gli bruciava.
Tenne le braccia tese in avanti. Non voleva vedere le sue mani, ma non fissava altro che quelle, non fissava altro che il sangue che le macchiava. Quello lo vedeva. Quel rosso andava al di là della sua miopia. Ma erano veramente i suoi occhi a vederlo o l’immagine gli si era conficcata nel cervello?
«Bernardo Valeri? Seguici».
Il brusio aumentò e le ombre si mossero sullo sfondo. Sì sfondo, perché il suo campo visivo era stato occupato da due ombre più grosse. Bernardo alzò gli occhi su quella più vicina e meno indistinta.
A quel punto si levò, dietro le due ombre, una voce maschile adirata, stavolta ben nota: «Andate in classe! Non vi era già stato detto?». Matteo De Luca, vicepreside e temuto professore di Economia Aziendale del corso B.
«Alzati, ragazzo».
Bernardo deglutì e tentò di calmare il respiro affannoso.
«Ho detto alzati» sbottò l’Ombra che lo afferrò per un braccio costringendolo a sollevarsi dal gradino su cui si era accasciato. Stordito, Bernardo non si divincolò. La mano dell’altro stringeva con forza il suo polso - nemmeno l’Ombra voleva sporcarsi di sangue.
«Valeri, cerca di collaborare». La voce del vicepreside era bassa e flebile, ben lontana da quella rigida e severa alla quale era abituato, ma risuonò nel corridoio e Bernardo si rese conto che era vuoto: erano rimasti solo lui, De Luca e le due ombre. Si raddrizzò nel poco spazio tra l’Ombra e il gradino. L’Ombra, forse vedendolo effettivamente collaborativo, allentò la presa.
«Dovrebbe seguirci in commissariato». L’Ombra non si rivolgeva a lui, ma probabilmente a De Luca. «E dovremmo interrogare anche gli altri studenti che erano presenti».
«Il ragazzo è minorenne» replicò De Luca con una voce più pratica e più vicina a quella consueta. «Stiamo tentando di contattare i genitori. Nel frattempo potete parlare in Presidenza».
«Bene» disse l’Ombra. «Ti lascio, ragazzo, ma seguici».
Bernardo ne fu sollevato, ma, quando fece per seguire l’Ombra, inciampò in una pianta e si appoggiò al muro per non cadere. Distintamente vide la chiazza rossa a forma di mano sul muro. La sua mano. Ancora una volta si chiese se era vera o solo nella sua testa.
«Valeri» la voce ora stridula di De Luca risuonò nuovamente nel corridoio.
Il ragazzo percepì una stretta allo stomaco, ma tenne le mani rigorosamente lontane dal corpo. Indietreggiò e appoggiò le spalle alla parete più vicina. Il cuore gli batteva all’impazzata e il respirò accelerò di nuovo.
«Forse avremmo dovuto farlo visitare dai medici del pronto soccorso» borbottò allora De Luca.
«Bernardo Valeri è gravemente miope» intervenne una nuova voce.
Il ragazzo chiuse gli occhi, rendendosi conto che l’odio e la rabbia erano svaniti ed era rimasto solo un gran vuoto dentro di lui. Fu per la prima volta cosciente di aver pianto e di avere le guance bagnate, ma soprattutto di voler piangere ancora - alla faccia di chi diceva che i veri uomini non piangono – scappare da lì, correre lontano, scoprire che era tutto un incubo. Strinse gli occhi quando qualcuno gli sfiorò la guancia e gli sistemò quelli che immediatamente riconobbe come i propri occhiali. Aprì gli occhi e il volto, incorniciato d’argento e leggermente rugoso, della sua professoressa occupò la sua visuale.
Il mondo si era ricolorato, ma per una volta avrebbe preferito rimanesse indistinto. Come se con la vista, fosse tornata anche la ragione.
Dietro la professoressa c’erano tre uomini: De Luca e due poliziotti.
Non era un incubo.
De Luca era pallido e si asciugava il sudore sulla fronte tamponandolo con un fazzoletto di stoffa, mancando visibilmente della consueta compostezza. I due poliziotti avevano un’aria grave.
«Maria, perché non sei in classe con i ragazzi?» domandò De Luca alla collega, probabilmente tentando di riprendere il controllo.
«Perché sono la coordinatrice della III B. È mio dovere comprendere che cos’è accaduto, visto che sono coinvolti i miei allievi» replicò la donna imperturbabile. «Valeri, vieni a lavarti».
Il ragazzo sussultò e si chiese come facesse la donna a mantenere i nervi tanto saldi: sembrava che gli stesse ordinando di andare alla lavagna ad analizzare una frase o di leggere un verso di Dante, come un milione di altre volte. Quella situazione stava divenendo sempre più surreale.
La professoressa lo prese per il polso e lo guidò nel primo bagno disponibile.
Era quello delle ragazze, ma Bernardo era troppo stordito per polemizzare. Non c’era mai entrato, non tanto per le regole quanto per una forma di rispetto nei confronti delle ragazze stesse. Seguì docilmente l’insegnante, ma una volta lì rimase a fissare il lavandino senza sapere cosa fare.
Per essere il bagno delle ragazze era combinato proprio male, poi dicevano che erano i ragazzi quelli disordinati: cicche di sigarette – alcune sembravano spinelli -, carta igienica, segni di rossetto e trucco sul lavandino, addirittura quelli che sembravano assorbenti sul pavimento e scritte oscene sui muri.
La professoressa, per nulla turbata da quella vista, aprì il rubinetto e gli prese la mano, questa volta sporcandosi le mani di sangue.
Non l’aveva evitato. Quel gesto lo risvegliò più dell’acqua fresca e, spinto dal pudore e dall’imbarazzo, allontanò delicatamente le mani di lei facendole comprendere che si sarebbe lavato da solo. Riempì d’acqua le mani aperte a coppa e se la buttò sul viso. Il sapore del sale s’insinuò tra le labbra, che arricciò. Fu comunque più consapevole di sé: tremava e provava uno strano senso di spossatezza.
«Tieni» disse pazientemente la professoressa, porgendogli un fazzoletto di stoffa.
Il ragazzo sospirò e si fissò le mani ora pulite.
Il ricordo di un corpo riverso nel sangue gli ritornò prepotentemente alla memoria. «Amil sta bene?». La sua voce risultò rauca e poco più di un sussurro come se si spaventasse di parlare o di farsi sentire. Forse prima aveva urlato e molto più di quanto ricordasse. Fortunatamente la professoressa lo sentì o comunque comprese la domanda.
«Lo spero» rispose laconica. «Vieni».
Bernardo deglutì e annuì: era in un bel guaio. Fece per aprire bocca per giustificarsi, ma, quando furono fuori e rivide i due poliziotti, tacque.
De Luca senza una parola li guidò in Presidenza.
Il preside li attendeva agitato sulla soglia. Era tarchiato e non arrivava neanche alle spalle dei due poliziotti - il che sarebbe stato divertente in un frangente diverso - quando andò loro incontro con il viso arrossato per l’agitazione e il pancione che lo sbilanciava preoccupantemente.
«Increscioso… increscioso… ma prenderemo provvedimenti».
«Parliamo in privato» replicò asciutto il poliziotto indicando l’ufficio alle spalle dell’uomo. Parlava sempre lui, perciò doveva essere di grado superiore rispetto al collega.
«Certo, certo, accomodatevi» replicò in fretta il Preside.
L’altro poliziotto sospinse Bernardo verso una delle sedie imbottite di fronte alla scrivania. Il ragazzo si guardò intorno non essendovi mai stato, ma l’ambiente rifletteva la personalità sciatta del dirigente: le coppe messe in bella vista nella libreria, ma con parecchie ditate di polvere, pochi libri, un’enorme fotografia del Presidente della Repubblica, le solite bandiere in un angolo e un divano liso.
Il preside sedette al proprio posto e De Luca lo affiancò. La professoressa di Lettere, Maria Agresti, rimase in piedi in modo da poter osservare Bernardo in volto.
Il poliziotto di grado più elevato sedette accanto a Bernardo, l’altro chiuse la porta e vi si mise davanti. Bernardo si costrinse a guardare negli occhi quello vicino a lui.
«Allora, Valeri, io sono l’ispettore Sandri. Ci spieghi cos’è successo?» si presentò quest’ultimo andando subito al punto e sporgendosi verso di lui.
«Le assicuro che prenderemo provvedimenti. Il ragazzo sarà espulso» intervenne il Preside.
«Espulso?» Bernardo sobbalzò. Parlava di lui. Tutti gli adulti lo fissarono.
«Non ritieni gravi le tue azioni?» gli chiese l’ispettore Sandri.
«Non ci sta con la testa, non ci sta. Non capisco a che pro questo colloquio» sbottò il preside.
«La prego di non interrompere ancora o dovrò chiederle di uscire» ribatté l’ispettore con fermezza.
La bocca del preside si richiuse offesa. In un altro momento Bernardo ne avrebbe goduto e ne avrebbe riso con Amil per ore, ma Amil non c’era.
«Come sta Amil?» chiese d’impulso ricordandosi dai film che i poliziotti sapevano sempre tutto.
«Lo stanno operando in questo momento. Ci tengono informati» rispose l’ispettore. «Ora, rispondi, non ritieni grave il tuo comportamento?».
Bernardo sapeva di dover scegliere con cura le parole, in fondo era circondato da adulti. «Conosco il regolamento della Scuola: le risse sono vietate e sono stato io a iniziarla. Ma di solito per la prima infrazione c’è la sospensione, non l’espulsione. E poi Riccardo e i suoi amici se lo meritavano».
L’ispettore fece segno al preside di tacere.
«Intendi Riccardo Arenaldi?».
«Sì, lui».
«Ma non è stata una semplice rissa. Hai accoltellato un tuo compagno, che ora è grave».
Bernardo sgranò gli occhi. «No, non sono stato io!» quasi gridò alzandosi di scatto.
«Siediti» esclamò l’ispettore.
Il preside sbuffò e stavolta il ragazzo si voltò lanciandogli un’occhiataccia. «Amil è il mio migliore amico» sbottò e la sua voce risuonò forte e chiara nell’ufficio.
«Testimoni oculari hanno riferito che a un certo punto hai estratto il coltello e colpito Amil Ghali».
«E chi sarebbero i testimoni?» sbuffò il ragazzo infastidito e anche spaventato.
«Bravi studenti» intervenne il Preside che proprio non riusciva a tacere. «Silvia Abate, Federica Ferrulli, Alessandro Leone…».
«E mi faccia indovinare» lo interruppe Bernardo. «Anche Marco Ermanis, Emma Maffeo, magari? Se loro sono bravi ragazzi, io sono in lista per succedere al re di Spagna!».
«Come ti permetti, razza d’insolente?».
«Per favore» intervenne l’ispettore.
«Posso confermare che Bernardo Valeri e Amil Ghali sono molto amici fin dal primo anno» dichiarò l’Agresti.
«Bene, allora, Valeri, raccontaci la tua versione dei fatti» ordinò Sandri.
Bernardo annuì e iniziò a raccontare: era il momento che la verità venisse finalmente alla luce.
 





15 settembre


 
 
3° B di un ITC Una classe di classici figli di. Ho dubbi amletici tipici dei 16: essere o non essere patetici. Eh, sì, ho gli occhiali spessi, vedessi…. Amici che spesso mi chiamano Nessy, indefessi mi pressano come uno stencil… Bud Spencer e Terence Hill repressi, con grossi limiti ma imbottiti di bicipiti da divi che invidi, ma vengono i brividi se per fare i fighi lasciano lividi.
Non vivo di pallone, non parlo di figone, non indosso vesti buone, quindi sono fuori da ogni discussione. No, non mi conoscono ma tirano le loro nocche sul mio profilo da Cyrano, se sei violento qua dentro ti stimano, se sei mite di te ridono…
 
 
 


 
«Scendo qui» annunciò Bernardo alla madre.
La donna si accigliò e si voltò verso di lui. «Qui? Se ti vergogni di farti accompagnare da me, puoi sempre prenderti l’autobus».
Bernardo gemette al pensiero. «No, grazie. Voglio scendere qui perché c’è una fila infinita».
«Non l’avevo vista» sbuffò sua madre tornando a fissare l’auto davanti.
«Ti conviene girare a destra o dovrai continuare dritto per un bel pezzo ti ricordo e più avanti vai e peggio sarà».
«Mmm va bene. Scendi allora. Non ho proprio voglia di stare in fila».
«Vorrei ben vedere» borbottò Bernardo, sporgendosi e scoccandole un bacio sulla guancia. «Ci vediamo all’una. Non fare tardi mi raccomando, fa troppo caldo».
«Ai suoi ordini» replicò ironica sua madre. «Vedi di comportarti bene».
«È il primo giorno di scuola» sbuffò Bernardo.
«E quindi?».
«E mi comporto sempre bene».
«Sì, certo e io sono in lista per diventare la prossima Miss Italia. Ci vediamo dopo».
«Se sapessi che gente frequenta questa scuola, saresti felicissima del figlio che ti è capitato» ribatté Bernardo per nulla divertito. «Ciao» soggiunse scendendo e sbattendosi lo sportello alle spalle.
Salì sul marciapiede e la salutò con la mano finché non svoltò come le aveva suggerito.
Ma che radiosa mattina di settembre! Una fila di macchine di cui non si vedeva la fine e smog a profusione. Ok, va bene era il primo a non voler prendere l’autobus, ma che colpa ne aveva se il servizio era scadente? Tutte le volte che l’aveva preso era arrivato puntualmente in ritardo.
«Svegliaaa!».
«Accidenti!». Bernardo si tirò indietro e fissò inorridito il punto che occupava fino a qualche secondo prima: ora c’era un motorino.
«Buongiorno anche a te!» trillò una voce ben nota.
«Mafalda, mi volevi uccidere per caso?».
«Beh, sarebbe stato un modo per movimentare la giornata. Mi hanno detto che quest’anno avremo il vicepreside per Economia Aziendale».
«Era prevedibile» commentò Bernardo. «E comunque trovati un altro modo per movimentare la giornata. E soprattutto a chi l’hai rubato questo motorino?».
La ragazza ghignò mentre si toglieva il casco e glielo porgeva. «Non l’ho rubato» rispose mettendo le chiavi nello zainetto. «Me l’hanno regalato i miei».
«Sul serio?» replicò Bernardo incredulo. «Li hai drogati o ubriacati, ammettilo».
Mafalda alzò gli occhi al cielo. «Ma quanto sei melodrammatico. No, me l’hanno comprato di loro spontanea volontà».
«Non ci credo».
«Credici» sospirò Mafalda, mentre salivano i gradini che portavano all’ingresso già affollato. «Mi sa che la madre di Lucrezia ha scoperto il nostro segreto e ha cantato con i miei».
Bernardo si bloccò di scatto e la fissò: «Quel segreto?».
«Già. I miei erano troppo contenti, ma non hanno fiatato. Mia sorella è stata brava e ne ha approfittato per farmi ottenere il motorino».
«E ora che pensi di fare?».
«Nulla, finché loro tacciono. Se vogliono farmi regali, non ho intenzione di dissuaderli».
Fu il turno di Bernardo di alzare gli occhi al cielo: Mafalda Ragonesi era la ragazza più folle della scuola. Era figlia di un ingegnere e di un’insegnante universitaria, ma aveva sempre avuto il puntiglio di contraddire i genitori in tutto e per tutto, tanto che era diventata una vera ossessione per lei fino al punto d’iscriversi all’Istituto Tecnico Commerciale e, di nascosto con la sua amica Lucrezia, studiare le materie dello Scientifico in modo da potersi iscrivere in Ingegneria Aereospaziale dopo il diploma.
«C’è Amil» lo riscosse Mafalda.
Un sorriso spontaneo si aprì sul volto di Bernardo e quasi saltò addosso al suo migliore amico abbracciandolo. «Sempre puntuale, eh?».
Amil scrollò le spalle e salutò Mafalda.
Lei mise le braccia intorno alle spalle dei due ragazzi e quasi li trascinò verso l’entrata affollata di ragazzi intenti ad ascoltare la musica e con gli occhi puntati sugli smartphone. Uno dei ragazzi fischiò vedendola.
«Magnifico» sbuffò Mafalda. «Bentornati all’Inferno!».
I due ragazzi ridacchiarono.
«Chi te li ha dati quei cenci? La Caritas?» strillò una voce prima di dare uno spintone ad Amil e costringere i tre a separarsi.
«Ma che cavolo vuoi Arenaldi?» sbottò Mafalda stringendo i pugni e guardando male il ragazzo.
«Il tuo apparecchio è sempre più disgustoso, lo sai, Ragonesi?» ribatté il ragazzo.
«Andiamocene» disse Bernardo agli amici non volendo avvelenarsi già dal primo giorno. «Vediamo dove si trova la nostra classe».
«Mi chiedo quanti soldi abbia sborsato tuo padre per farti promuovere» gridò però Mafalda attirando l’attenzione di molti ragazzi, dei bidelli e di qualche insegnante che ancora non si era rifugiato in sala professori.
«Dovevi proprio provocarlo?» mormorò Amil.
«È lui che se la cerca».
Bernardo li ignorò e, sfruttando la sua altezza notevolmente aumentata quell’estate, tentò di vedere oltre le spalle di un gruppo di ragazzine la propria classe sulla mappa appesa alla bacheca. «Ahi, ragazzi» borbottò appena la trovò e voltandosi verso gli amici che battibeccavano.
«Cosa?» chiese Mafalda.
«La nostra classe si trova al terzo piano in fondo».
«Che schifo» sbottò la ragazza. «Così Arenaldi e i suoi amici spadroneggeranno».
«Già» sospirò Bernardo. «Gli adulti non capiscono nulla».
«Beh, ce la caveremo come ce la siamo sempre cavata».
Bernardo annuì seccato: la loro era la classe peggiore della scuola, a rigor di logica avrebbero dovuto tenerla il più possibile sotto controllo.
«Dovrebbero mettere un ascensore» borbottò Mafalda.
Bernardo emise un gemito indistinto. «Ma se a volte non funziona manco il distributore automatico».
«Arenaldi l’ha fatto saltare in aria. Ricordami com’è finita».
Il ragazzo la ignorò: era brava a polemizzare e tendeva a essere anche rancorosa. Non che avesse torto, visto che il padre di Arenaldi aveva convinto il Preside che era solo una bravata da ragazzini.
Dopo qualche minuto raggiunsero il terzo piano, quasi vuoto: la maggior parte degli studenti si attardava fuori fino al suono della campanella.
«Ottimo, non c’è ancora nessuno» esclamò Mafalda tutta felice e si fiondò nella loro nuova aula, appropriandosi di un banco in ultima fila.
«Non mi pare il caso» borbottò Amil. «I posti dietro li vogliono sempre Arenaldi e i suoi amici».
«Col cavolo» replicò la ragazza. «Sono arrivata prima, sei d’accordo Bernardo?».
«Uhm, sì» mormorò Bernardo appoggiando lo zaino accanto a quello della ragazza. Per essere d’accordo, era d’accordo, ma sarebbe finita male e su questo non c’era alcun dubbio.
In quel momento suonò la campanella.
Bernardo sedette accanto all’amica, mentre, come d’abitudine, Amil prese posto al primo banco: non voleva rogne, preferiva essere invisibile. Bernardo sapeva che quella era la scelta più saggia, ma aveva ragione Mafalda: non potevano sempre subire.
«Eccoli» gli sussurrò lei. Bernardo strinse i denti e fece finta di guardarsi le dita, mentre i compagni entravano in classe.
«Oh, oh, abbiamo dei problemi qui. Ricky mi sembra che l’estate abbia fatto dimenticare le gerarchie a qualcuno». Marco Ermanis. Suo padre era un dirigente di banca, ma lui era infinitamente stupido ed eseguiva alla lettera gli ordini di Arenaldi.
«Siamo arrivati prima, questi posti ci toccano» dichiarò Mafalda. Bernardo alzò gli occhi su di loro.
Riccardo Arenaldi si avvicinò a loro con un ghigno cattivo dipinto in volto. Marco Ermanis e Alessandro Leone, l’altro fedelissimo, lo spalleggiarono come sempre.
«Nessy, ti ho visto di sfuggita all’entrata… hai preso un paio di fondi di bottiglia nuovi?».
Bernardo non reagì: era stato soprannominato Nessy fin dal primo anno. Che cosa c’entrasse poi il povero mostro di Loch Ness con lui, vai un po’ a capirlo.
«No, sempre i soliti» replicò asciutto con i nervi tesi in attesa di quello che sarebbe accaduto. Se il professore della prima ora fosse arrivato in tempo, sarebbe stato meglio.
«Già, i tuoi non possono permetterselo vero?» continuò Riccardo sventolando i suoi Ray-Ban con falsa noncuranza.
Ancora una volta Bernardo scelse di non replicare.
«Allora, Nessy, spostati che mi devo sedere».
Bernardo sentì lo sguardo di Mafalda fisso su di lui ma non si voltò. «Siediti da un’altra parte».
«Gli diamo una lezione?» chiese Alessandro scroccando le dita.
«Ale! Mi fai venire la pelle d’oca» si lamentò Federica Ferrulli.
Riccardo prese Bernardo per i capelli e glieli tirò. «Non hai capito?» sibilò. «Levati».
Per quanto Bernardo fosse cresciuto quell’estate era sempre più basso e più magro di Riccardo, che sembrava aver vissuto per tre mesi in una palestra. Cercò di opporsi e scrollarselo di dosso. «Mollami!».
«Mollamiii» li fecero il verso Alessandro e Marco.
«Ora ti ricorderò chi comanda».
Nel giro di pochi secondi si ritrovò sul pavimento dell’aula e i tre lo accerchiarono. Bernardo non riusciva ad alzarsi perché Riccardo lo teneva ancora stretto per i capelli e neanche a difendersi mentre Marco e Alessandro lo prendevano a calci.
«Smettetela» sbottò Mafalda dando uno spintone a Riccardo.
«Ma smettila tu che ti comporti sempre come un maschiaccio» intervenne Federica Ferrulli.
Bernardo poteva vedere lei e le sue amiche, Emma Maffeo e Silvia Abate, ridacchiare e commentare quanto i tre bulli fossero diventati più carini durante l’estate.
«Giulio, tienila buona» gridò Riccardo lanciando un’occhiataccia a Mafalda che gli aveva dato un pugno sul braccio.
Giulio Falconi. La più grande e costante delusione di Bernardo. Era un bravo ragazzo, ma non riusciva mai a opporsi a quei tre. Come d’altronde anche Paola Sinigallia e Giorgia Cacciani che stavano giocando con i cellulari come se nulla stesse accadendo.
«Riccardo, ti conviene smetterla» borbottò Giulio. «A momenti arriverà il prof della prima ora. Ho saputo che quest’anno avremo De Luca, quello ci mette tre secondi a sospendervi…».
«E fai il palo no?» ribatté Marco Ermanis.
Giulio si avvicinò alla porta per obbedire e subito diede l’allarme: «Lasciatelo perdere».
Riccardo lo mollò e lo scavalcò sedendosi all’ultimo banco come se nulla fosse. E anche Mafalda, decisamente furiosa, fu costretta a cedere.
Bernardo si passò il braccio sul labbro spaccato e prese posto accanto ad Amil, che evitò il suo sguardo: neanche lui era intervenuto, ma Bernardo non gli servava rancore. Che Giulio non fosse cattivo Bernardo ne ebbe l’ennesima prova quando dalla porta entrò il loro anziano professore di religione.
 
 

5 dicembre
 
«Che c’entra questa storia?» sbottò il Preside interrompendolo.
«Così non ci aiuti» sospirò il poliziotto. «Rispondi alla domanda che ti ho fatto».
«Lo sto facendo!» ribatté Bernardo. «È come la storia delle guerre» soggiunse lanciando un’occhiata all’Agresti. «Quell’espressione latina… caso carino… caso…».
«Casus belli» sbuffò la donna.
«Eh, quello» annuì Bernardo. «Una guerra ha radici lontane, quella di oggi è stata solo la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso».
«Quello che è successo oggi non è stato un incidente?» domandò l’ispettore accigliandosi. «Il ferimento di Amil Ghali è stato premeditato?».
«No» si affrettò a replicare Bernardo. «O almeno non credo… non lo so… Non sono mica nella testa di Riccardo…».
«La colpevolezza di Arenaldi è ancora da appurare» s’intromise il preside.
«Sto solo dicendo che voglio spiegarvi come sia arrivati a questo punto» sbuffò Bernardo. «Anche se so che non v’interessa! A voi adulti basta fare le conferenze sul bullismo, sulla mafia… tutte parole, tanto per fare bella figura… tanto per dire che la nostra scuola ha partecipato a questo e a quello… ma a che serve? Lo diceva anche Gandhi che le parole non servono a nulla senza le azioni» s’infervorò.
«Come ti permetti!» sbottò il preside. «Ragazzino, ti conviene moderare i toni, se non vuoi essere espulso seduta stante!».
«Certo, funziona così!» sibilò Bernardo stanco e seccato, man mano che ripercorreva lucidamente nella sua mente quanto era accaduto, più si convinceva che non avevano fatto nulla per evitarlo proprio coloro che ne avevano la responsabilità. «Ci dite di dire la verità, ma per voi è scomoda e siete contenti quando mentiamo e vi diciamo quello che volete sentirvi dire, in caso contrario ci punite».
«Basta, Valeri, stai esagerando» intervenne De Luca, mentre il preside diventava sempre più rosso in viso.
«No, perché è colpa vostra se Amil rischia di morire! Colpa vostra!».
«BASTA» urlò il Preside. «Stai zitto!».
«Sto dicendo la verità! Nessuno ha mosso un dito in questi mesi. Nessuno ha mosso un dito in questi anni! Non ve ne frega niente di noi, buttate lì qualche perla di saggezza, vi prendete il vostro stipendio e ve ne andate a casa lasciandoci a noi stessi! Non sapete nulla di noi».
«Ispettore, credo che questa conversazione debba concludersi qui» sentenziò il preside.
«Invece credo che abbiamo appena iniziato».
«Non vorrà ascoltare le illazioni di questo ragazzo? Questa scuola è attentissima al benessere degli studenti».
«Lasciatelo continuare». Bernardo sollevò gli occhi sull’Agresti: aveva gli occhi lucidi e sembrava più vecchia e stanca. «Non sono d’accordo su tutto quello che ha detto, ma è vero che abbiamo la nostra parte di responsabilità: se un ragazzo di sedici anni è arrivato ad accoltellare un coetaneo vuol dire che non gli abbiamo insegnato nulla».
Le sue parole furono accolte dal un silenzio teso e mesto.
«Va bene» assentì l’ispettore riprendendo il controllo della situazione. «Racconta».
«Grazie» disse Bernardo. «Cercherò di soffermarmi solo sugli episodi più importanti».
 
 



Settembre- novembre
 


 
Cari professori miei, io vorrei che in giro ci fossero meno bulli del cazzo e più gay,
più dreadlock e meno monclair, più Stratocaster e meno DJ
 
 




 
I lunedì per antonomasia erano tutti un po’ difficili, vuoi perché il weekend aveva suscitato l’illusione che sarebbe durato in eterno e invece era trascorso, vuoi perché i ragazzi della terza B avevano Economia Aziendale alla seconda ora e il professore De Luca adorava i compiti in classe. Quel lunedì però si prospettava decisamente pessimo: diluviava da ore e non dava segni di voler smettere.
«Bernaraah».
Bernardo si voltò proprio mentre Amil, scivolato sul pavimento bagnato, lo artigliò al braccio pur di tenersi in piedi ma il risultato fu che rovinarono sul pavimento entrambi suscitando fragorose risate dei presenti nell’atrio.
«Non sapevo che foste pure froci» sghignazzò Riccardo.
«Oh, non mollarmi amore mio» strillò Alessandro facendo finta di abbracciare Marco Ermanis.
«Idioti» bofonchiò rialzandosi e lanciando un’occhiata seccata ad Amil.
«Scusa» borbottò quest’ultimo. «Non mi ero accorto che era bagnato. In più pensavo che sarei arrivato in ritardo. Far incavolare De Luca il giorno del compito non è proprio la migliore delle idee».
«No, decisamente» ribatté Bernardo tirando l’amico verso le scale, visto che i cretini dei loro compagni continuavano a ridere e additarli. «Non ti ha accompagnato Amelia?».
«No, non poteva. Aveva un incontro al Comune».
«Se il buongiorno si vede dal mattino…» borbottò entrando in classe e lanciando lo zaino sul banco prima di imprecare a bassa voce: qualcuno aveva lasciato la finestra aperta il giorno prima e lui aveva appena inzuppato lo zaino gettandocelo sopra.
«Fazzoletti?».
«Grazie, Mafalda» replicò Bernardo impadronendosi del pacchetto.
«Oh, eccoli» arrivò in aula strillando Marco Ermanis. «Quindi vi siete già divisi i compiti? Valeri è la mogliettina?».
«Che è questa storia?» sbottò Mafalda.
«I soliti scemi» borbottò Bernardo, mentre Amil le raccontava che cos’era accaduto poco prima.
«Aspetta, Ghali» disse Riccardo avvicinandosi. «Con tutta questa pioggia mi sono sporcato le scarpe con il fango».
«Bastardo, ma che fai?» sbottò Bernardo lasciando perdere il banco e lanciandogli addosso una palla di fazzoletti di carta bagnati quando lo vide pulirsi le scarpe sulla felpa di Amil.
«Avevo bisogno di una pezza per pulirmi. Questa roba è… cosa quarta mano? D’altronde è roba di beneficenza, no?».
«Smettila» sibilò Bernardo dandogli uno spintone. I due si fronteggiarono sotto gli occhi attenti dei compagni.
«Buongiorno, ragazzi. Prendete posto, per cortesia».
Riccardo fece una smorfia e lanciò un’occhiata di sfida a Bernardo prima di sedersi e iniziare a rollarsi con ostentata sicumera una sigaretta. Tanto don Dario era mezzo cieco e avrebbero pure potuto fumargli uno spinello sotto il naso e farlo passare per una bic mordicchiata per nervosismo.
«Amil».
Bernardo aveva appoggiato la testa sul banco, perciò ignorò la conversazione tra l’amico e Paola Sinigallia e non fiatò quando lo vide passare i propri appunti alla ragazza. Era troppo buono.
L’ora si protrasse lenta e noiosa come sempre nonostante i tentativi infruttuosi di don Dario di farsi sentire al di sopra del rombo dei tuoni, degli schiamazzi di Marco e Alessandro e al chiacchiericcio di Emma Maffeo, Federica Ferrulli e Silvia Abate.
Alle suono della campanella l’ansia per il compito di De Luca si riversò anche su quegli che erano apparsi più spensierati.
«Allora, Ghali, facciamo un accordo» esclamò Riccardo.
«E rieccolo» sbuffò Bernardo.
«Che genere di accordo?» bofonchiò Amil a malapena guardando in volto l’altro.
«Ci passi il compito di De Luca».
«Ma sei pazzo? Se se ne accorge, mi uccide. E se ne accorge» esclamò angosciato Amil.
«O ci passi il compito o i tuoi preziosi appunti di Economia finiscono fuori dalla finestra».
«Restituiscigli gli appunti» sibilò Bernardo chiedendosi perché in quella classe bisognasse sempre combattere.
«Passami quel compito».
«No. De Luca ti annienta» sbuffò Bernardo.
«Prendete posto! Avete sedici anni per la miseria. Mi sembra di aver a che fare con bambini di quinta elementare!» sbottò il professor De Luca entrando in classe. «Sapete che c’è compito, perché non avete spostato i banchi? Abbiamo un’ora e non vi darò neanche un secondo di più».
Spostarono i banchi per non farlo irritare maggiormente.
«Arenaldi, vuoi prendere posto? O hai intenzione di contemplare ancora a lungo il paesaggio fuori dalla finestra?».
Amil e Bernardo si voltarono di scatto appena in tempo per vedere un block-notes svolazzare davanti ai vetri chiusi finché non fu trascinato via con violenza dalla tempesta.
Bernardo si voltò a denti stretti verso Paola Sinigallia. «Mi dispiace non potevo dirgli di no» sussurrò lei intuendo la tacita domanda.
Bernardo strinse i pugni chiedendosi per quanto tempo ancora avrebbe sopportato tutte quelle angherie, quell’indifferenza, quel continuo sopraffarsi a vicenda.
 
 
 
«Patatine?» chiese Mafalda mentre sfogliava un manuale di goniometria.
«Sì, grazie. Come fai a leggere quella roba durante l’intervallo?».
«Meglio matematica di economia aziendale» ribatté lei.
«Se continui così, De Luca te la lascia».
«Sai che mi frega» replicò cerchiando una formula. «Piuttosto dov’è Amil?».
«Mi ha detto che andava in bagno».
Mafalda sollevò gli occhi su di lui. «E quanto ci mette?».
«Vado a controllare».
Com’era prevedibile, Amil era in compagnia di Arenaldi, Ermanis e Leone.
«Avete rotto le scatole» sbottò Bernardo andandogli incontro a pugni serrati, ma Marco e Alessandro lo caricarono e lo sbatterono contro il muro.
«Sta’ buono Valeri, vogliamo solo provare che cosa ci trovano di divertente gli Americani a mettere la testa dei secchioni nel gabinetto».
«Non ci provare» sibilò Bernardo tentando nuovamente di farsi avanti per aiutare Amil al quale Riccardo teneva le braccia ben strette dietro la schiena.
Amil tentò di divincolarsi, ma Riccardo era decisamente più forte e non ebbe difficoltà a spingerlo in un cubicolo. Bernardo non vide quello che accadeva dalla sua posizione, tenuto ben stretto da Ermanis sul pavimento, mentre Leone si affrettò a documentare la bravata.
«Tutta la scuola ti sarà grata per aver collaborato a questo piccolo esperimento» sghignazzò Riccardo pochi minuti dopo.
Bernardo lo ignorò vedendo l’espressione di Amil. «Prima o poi la pagheranno» gli disse, ma parlava più a se stesso.
 
 
 
«Ehi, Amil, non sai quante persone hanno gradito il tuo video».
«Maledetto, bastardo» strillò Mafalda.
«Diamo un bis ai tuoi fan?».
«C’è la prof. di francese» sospirò sollevato Bernardo, non sapeva se questa volta sarebbe riuscito a trattenersi.
La professoressa era una donna anziana e raffinata, aveva i capelli bianchi e impeccabili e le unghie appuntite perfettamente laccate; però era terribilmente intrattabile. «Oggi interroghiamo» annunciò.
«Mmm» mugolò Bernardo passando una mano tra i capelli disordinati e lamentandosi mentalmente del fatto che in letteratura italiana se la cavasse abbastanza bene, ma in francese non capisse un’acca.
«Ghali».
Bernardo sollevato diede una pacca d’incoraggiamento all’amico, che si alzò e si avviò verso la cattedra. Solo in quel momento si accorse che Riccardo aveva cambiato posto con Giorgia Cacciani e lui non si sedeva mai al primo banco senza un buon motivo.
Fu un attimo, un baluginio e Bernardo vide un coltellino scattare verso la cintura di Amil. I jeans che indossava quel giorno erano fin troppo larghi e, appena la cintura fu tagliata, Amil rimase in mutande.
«Ghali, ti sembra un comportamento consono?» strillò la professoressa che tanto per cambiare non si era accorta di nulla.
Bernardo gridò: «È stato Arenaldi, ha un coltello!».
«Valeri, non dire fesserie. Nessuno porta i coltelli a scuola» replicò l’insegnante.
Il ragazzo la fissò basito chiedendosi se si fosse accorta in che scuola insegnasse.
 
 
 
 


 
5 dicembre
 

 
«Maledizione! Il coltello! Avrei dovuto insistere quel giorno! Maledizione! Maledizione!» sbottò Bernardo.
«Tu stai mentendo» sbottò il preside. «La professoressa Astri avrebbe visto quel coltello e non l’ha visto. Infatti Ghali ha avuto una nota per quella pagliacciata».
«Voi insegnanti non volete vedere le cose come stanno» ribatté Bernardo. «È più facile punire Amil che non ha una famiglia dietro le spalle piuttosto che dire al giudice Arenaldi che suo figlio è un delinquente!».
«Mi vuoi dire che non avete mai denunciato questi atti di bullismo?» domandò l’ispettore. «Amil Ghali avrà senz’altro un tutore, qualcuno che si occupa di lui. La legge parla chiara per quanto riguarda i minori non accompagnati che arrivano nel nostro paese».
«Sì, ce l’ha. Amelia Ristarchi è la direttrice della casa famiglia dove sta Amil e lei si prende cura di lui, gli si è affezionata anche più di quello che richiede il suo lavoro. Ed è venuta qui, ma il Preside era troppo occupato per riceverla».
«Ragazzo, non osare» sbottò il preside fuori di sé.
«I video girati da Riccardo Arenaldi dove possiamo trovarli?».
«Su youtube» rispose Bernardo.
«Costa, avvertì la polizia postale e dì loro di dare un’occhiata».
Il poliziotto annuì e uscì dall’ufficio.
A quel punto l’ispettore si rivolse al preside e ai professori presenti con una serie di domande quanto mai chiare e dirette.
«È possibile che non vi siate mai accorti di niente?».
Il preside balbettò frasi senza senso probabilmente con l’intento di giustificarsi, ma Bernardo notò le espressioni degli altri due insegnanti: si sentivano in colpa.
«Durante i colloqui la signora Ristarchi ha fatto più volte cenno a questa situazione, ma durante le mie lezioni non ho notato comportamenti di questo genere» ammise la professoressa Agresti.
«Naturalmente, questo genere di cose non accadono di fronte all’insegnante di solito. Dovrebbe esserci maggior controllo nei bagni e nei corridoi. Compiete controlli antidroga periodicamente?» domandò l’ispettore Sandri.
Il preside sembrava sul punto di svenire e bevve un bicchiere d’acqua.
«Allora, Bernardo, tu e i tuoi amici avete tollerato fino a oggi, quando tu hai iniziato la rissa con Arenaldi e Arenaldi nello scontro ha tirato fuori un coltello e ha ferito Amil. Come siete arrivati a questo punto? Qual è stato il casus belli, come lo vuoi chiamare tu?».
Bernardo sospirò e si passò una mano tra i capelli. «È uno scherzo fatto da Riccardo ad Amil una settimana fa».
«Una settimana fa? E perché vi siete scontrati solo oggi?».
 «Perché pensavo che fosse solo uno scherzo come gli altri… non pensavo che Amil fosse al limite…».
«Al limite?».
«Sì, sono il suo migliore amico ma non ho capito quanto stava soffrendo… io esco da qui e me ne dimentico, è una battaglia legata alla scuola, poi ognuno per la sua strada… ho sempre pensato che fosse così anche per lui…». La sua voce si abbassò e Bernardo sentì gli occhi inumidirsi.
«Fai un ultimo sforzo e concludi il racconto» lo sollecitò l’ispettore.
«Era mercoledì e avevamo ed. fisica…»
 
 
 
29 novembre
 




 
A 16 anni le opzioni sono due visto che o diventi pugile o diventi come me che sono debole, che non ho regole, che ho roba demodé, che detesto il cliché dell’uomo che non deve chiedere mai dato che se non chiedi non sai, dato che adoro Wharol e Wilde.
 Si sente più spesso che sono un pazzo depresso. Meglio depressi che stronzi del tipo? Me ne fotto?, perché non dicono Io mi interesso?
 
 
 
«Ma questo secondo voi è un abbigliamento adatto?».
Bernardo si accigliò, ma non replicò. Fabio Corsi, il loro insegnante di ed. fisica, era fatto così: il suo passatempo preferito era prendere in giro e umiliare gli alunni per cui non nutriva simpatia. Ragazze come Silvia Abate avevano il dieci assicurato fino al diploma con lui, nonostante lei si presentasse a lezione con i tacchi o gli stivaletti eleganti, con gonne e vestitini striminziti; mentre Giorgia Cacciani, rea di essere grassottella, non avrebbe mai preso più di sei, ma abbassava gli occhi e non replicava mai quando lui le diceva: «Cacciani, ancora questa tuta non è esplosa?» oppure «Abbiamo messo su qualche altro chiletto?».
«Lo so, Cacciani, che aspetti con ansia le mie lezioni nella speranza di perdere qualche chilo». Bernardo strinse i pugni, ma tenne a freno la lingua. «Perché non corri? Avanti, forza!».
Tutti risero quando lei obbedì e cominciò a correre lentamente. Arenaldi e i suoi amici fischiarono e fecero battutine stupide.
«Dateci un taglio» sibilò Bernardo non potendone più.
«Hai qualcosa da dire, Valeri?».
«Lei è veramente uno stronzo» sbottò nel silenzio sorpreso dei compagni. «Come altro si dovrebbe definire un uomo maturo che gode nell’umiliare una ragazzina?».
Corsi ghignò: «Ah, sì? Perché non lo spieghi a tua madre quando vedrà quanto si è abbassato il tuo voto in condotta?» esclamò tirando fuori la penna. «Riccardo, prendi il pallone e cominciate a giocare… Valeri, visto che sono buono, non ti manderò dal preside ma mi limiterò a farti una nota… Se non vuoi che cambi idea ti conviene iniziare a correre, tu e il tuo amico, che oggi indossa un sacco di patate al posto della tuta…».
Bernardo sospirò: la felpa e i pantaloni di tuta di Amil non avevano nulla di male quel giorno, anzi erano nuovi e della taglia giusta. Amelia, la sua tutrice, aveva provveduto sperando forse che avrebbero smesso di dargli fastidio, Purtroppo si era sbagliata.
Cosa gli dava fastidio di Amil? Non era solo il colore della pelle, Bernardo ne era certo: aveva visto più volte Arenaldi interagire con ragazzi stranieri. No, il problema di Riccardo e di Corsi, era l’intelligenza di Amil, che s’impegnava molto a scuola sperando di riscattarsi socialmente e Bernardo confidava che ce l’avrebbe fatta.
Bernardo credeva fermamente nella giustizia: ognuno di loro avrebbe ciò che meritava in futuro. I suoi genitori dicevano che era troppo idealista e che doveva svegliarsi o sarebbe stata una delusione troppo grande scoprire che nella loro società erano quelli come Arenaldi a vincere. In realtà era più disilluso di quanto i suoi pensassero, ma riteneva che i sogni si potessero realizzare: se non lì, in un’altra città; se non in un’altra città, allora in un’altra regione; se non in un’altra regione allora fuori dal loro paese. Un angolo di mondo, lontano da tutti quei pregiudizi e dalla profonda ignoranza dove stavano crescendo, doveva pur esistere. E l’avrebbe trovato indipendentemente dai sacrifici da affrontare.
Bernardo sapeva che se solo il comportamento di Corsi fosse venuto alla luce, sarebbe stato licenziato.
Un giorno la Giustizia, quella con la G maiuscola, sarebbe tornata a camminare sulla terra – l’Agresti aveva detto che secondo la mitologia la Dike aveva lasciato la terra alla fine dell’età dell’oro, troppo disgustata dagli uomini – e avrebbe trionfato.
Sulle pareti della sua stanza non svettavano i volti di Cristiano Ronaldo o Gianluigi Buffon, ma vi aveva dipinto le frasi più importanti pronunciate da Falcone e Borsellino, dal generale Dalla Chiesa e da tutti coloro che avevano sacrificato la vita pur di perseguire la Giustizia. Fin dalle medie aveva pensato di voler entrare nell’Arma, ma, da quando aveva iniziato a studiare diritto e a subire le angherie di Arenaldi e compagni, avrebbe voluto diventare come il giudice di De André, ma non l’aveva confidato neanche a Mafalda e Amil, temendo che i sogni prendessero veramente il sopravvento sulla realtà.
L’ora trascorse come al solito: anziché giocare al calcio, Riccardo e gli altri si misero in mostra davanti alle ragazze e usarono Amil come bersaglio mobile lanciando certe pallonate che facevano tremare la palestra suscitando più volte i rimproveri della professoressa di un’altra sezione, visto che il loro insegnante, come al solito, si era dileguato.
«Seeenti» trillò tutta contenta Mafalda raggiungendo Bernardo negli spogliatoi maschili alla fine della lezione.
«No» disse subito Bernardo. Era già abbastanza incazzato e soprattutto nei guai, avrebbe già dovuto sorbirsi sua madre a casa, senza farsi coinvolgere nelle sue idee geniali.
«Dai, non ti ho manco detto cosa voglio» si lamentò lei.
«Sono sicuro che non mi piacerà, quindi non dirmelo».
«Voglio solo che tu vada volontario in storia».
Bernardo gemette. «Non…».
«Che c’è, hai paura Ghali?» la voce di Arenaldi risuonò nello spogliatoio e costrinse i due amici a voltarsi.
A Bernardo per poco non prese un colpo: Arenaldi puntava una pistola contro Amil che, pietrificato, lo fissava a occhi sgranati.
«Ma che cazzo fa?» sibilò Mafalda.
«Professore, gli dica di non fare il cretino» sbottò Bernardo appena scorse Corsi intento a osservare la scena dalla soglia della porta con le ragazze.
«Hai paura per il tuo amichetto?» chiese Arenaldi calcando sull’ultima parola e suscitando varie risatine.  
«Posala» sbottò facendo un passo avanti, ma Arenaldi si avvicinò di più ad Amil.
«Sta’ buono, Valeri» replicò Arenaldi. «Allora, Ghali, quanto pensi che faccia male? Me lo sono sempre chiesto guardando i film in tv».
Amil respirava a fatica, terrorizzato.
Arenaldi premette il grilletto e una pallina minuscola gialla volò a pochi centimetri dalla guancia di Amil e rimbalzò contro il finestrone in fondo.
«Oh, guardate» strillò Marco Ermanis. «Se l’è fatta sotto».
Il silenzio che aveva regnato fino a quel momento fu spezzato da una fragorosa risata.
«Io lo ammazzo» gridò nel putiferio Bernardo. «Era una pistola a piombini!».
«Fermati!» lo trattenne Mafalda. «Non è il caso, Corsi se la prenderà solo con te».
«Non m’interessa» ringhiò il ragazzo tentando di scrollarla via.
«No, pensa ad Amil».
Bernardo osservò il suo migliore amico e vide che era scioccato. Promise a Mafalda che non avrebbe fatto nulla e, libero, facendosi strada trai i compagni a spintoni, raggiunse Amil al centro di quel delirio di teste sghignazzanti. Lo prese per un braccio e lo trascinò via.
 
Naturalmente i loro compagni provvidero a diffondere il video dello scherzo su internet e il giorno dopo sembrò che tutta la scuola l’avesse visto. Amil fu oggetto di battutine e attenzioni indesiderate per giorni e Bernardo notò che diveniva sempre più taciturno e introverso, ma pensava che fosse solo un momento e che lo scherzo - per quanto fosse stato piuttosto grave - sarebbe stato certamente dimenticato al ritorno delle vacanze natalizie. Lo disse più volte all’amico per consolarlo, ma quando una mattina non lo vide fuori dalla scuola, un senso d’inquietudine s’impadronì di lui. Provò inutilmente a chiamarlo. All’uscita lui e Mafalda andarono a trovarlo: la signora Amelia gli comunicò che Amil non si sentiva bene o almeno così aveva detto, sebbene ella stessa apparisse scettica. L’amico non volle vederli.
 



 
5 dicembre
 
Quando Bernardo non trovò Amil fuori dalla scuola per l’ennesima volta e, visto che continuava a ignorare i suoi messaggi e le sue chiamate, chiamò direttamente la signora Amelia.
«Lo so che sta male» borbottò dopo aver frettolosamente salutato. «Ma potrebbe parlarmi un attimo». L’idea che lo scherzo fosse andato oltre cominciava a turbarlo così come le possibili conseguenze.
Ci fu un attimo di silenzio dall’altra parte e si chiese se fosse stato troppo maleducato. «Bernardo, Amil è uscito. Non aveva un bel niente, nemmeno un filo di febbre e stamattina l’ho spedito a scuola. Non è venuto?».
«Ah, non lo so. Non sono arrivato, mi scusi se l’ho disturbata» bofonchiò e chiuse il telefono. E ora dov’era andato?
«Ehilà, che faccia! E dire che tu sei già stato interrogato da De Luca».
«Mafalda!» gridò.
La ragazza indietreggiò sorpresa. «Va bene, non iniziare» sbottò «Ho una collezione infinita di due per essere a malapena a novembre e…».
«Prestami il motorino».
«Che cosa? Ma sei impazzito? Non hai nemmeno la patente!».
«Lo so guidare» ribatté Bernardo. «Avanti, devo cercare Amil».
«Dov’è andato?».
«Non lo so» sbottò esasperato.
«Forse è già in classe. Siamo rimasti io e lui da interrogare. Lo conosci starà ripetendo».
Bernardo scosse la testa: Amil l’aveva sempre atteso, De Luca non c’entrava un bel nulla. «Facciamo così» disse perché lei non gli credeva. «Dammi le chiavi, sali in classe e controlla».
Mafalda sospirò. «Sai che se ti fermano, mio padre mi uccide?».
«Dirò che ti ho rubato le chiavi».
«Sì, vabbè, così finisci al riformatorio» sbuffò lei. «Tieni» soggiunse lanciandogli le chiavi. «Aspetta la mia chiamata però».
Bernardo annuì e raggiunse il motorino. Si appoggiò al sedile e attese ansiosamente. Sicuramente aveva ragione lei, cercò di scrollarsi quella strana sensazione che l’aveva artigliato alla bocca dello stomaco.
Il telefono vibrò e Bernardo sobbalzò. Si alzò pronto ad avviarsi verso l’ingresso della scuola.
«Sì, sì avevi ragione tu ora arrivo» borbottò.
«Bernardo, Amil non è in classe».
Quello poche parole lo gelarono.
«Cazzo, è arrivato De Luca. Tienimi informata».
Bernardo con il cuore in gola tornò al motorino e indossò il casco.
Non aveva la minima idea di dove potesse trovasse Amil. Non era un tipo che usciva molto. Sebbene vivesse lì da più di dieci anni, vi erano zone che non conosceva. In più era a piedi, a meno che non avesse deciso di prendere un autobus, ma si sarebbe sentito intrappolato là sopra. Se si era mosso a piedi, sarebbe stato più semplice trovarlo.
Dove poteva essere andato? Sul corso sembrava improbabile: era alto il rischio di essere beccato da qualche insegnante o dalla sua tutrice. E quindi?
Bernardo lasciò correre lo sguardo, che gli cadde sull’orizzonte, laddove l’azzurro intenso del mare si congiungeva con quello più chiaro del cielo. Il mare. Più volte Amil gli aveva confidato che, quando si sentiva triste, si rifugiava in spiaggia, ma non aveva mai voluto compagnia. Non aveva mai capito perché, ma non l’avrebbe lasciato solo. Avrebbero potuto escogitare un piano insieme per rendere pan per focaccia ad Arenaldi e ai suoi amici almeno per una volta.
Accelerò e raggiunse i parcheggi, lì mollò il motorino alla ben in meglio e corse lungo la via Marina, finché non scorse un puntino in lontananza. Amil.
«Amil, che cavolo fai?» sbottò, una volta raggiuntolo, piegandosi in due per lo sforzo: l’amico era entrato in acqua fino al ginocchio e senza togliersi le scarpe, ma non si voltò e non diede segno di averlo sentito. Allora Bernardo lo raggiunse e notò che fissava un punto indistinto con le guance bagnate di lacrime.
«Amil?» lo chiamò stringendogli il braccio.
«V-volevo r-raggiungerli. Sarebbe stato più facile, credevo… Ho paura, aiutami».
Amil non aveva distolto lo sguardo, ma l’aveva riconosciuto.
Bernardo era spaventato e non sapeva che cosa dire. «Raggiungere chi?».
«La mia famiglia. Non so perché ma sono l’unico che si è salvato quella notte. Il mare non mi ha voluto e io ora ne ho troppa paura».
Bernardo deglutì: l’amico non gli aveva mai parlato del suo passato. Sapeva che era arrivato in Italia come migliaia di altri migranti che vedeva ogni giorno in tv e gli faceva una rabbia pensare che il suo amico avesse subito tutto quello ad a malapena sei anni, ma non aveva mai osato chiedergli nulla.
«Di cosa hai paura?» mormorò.
«Del mare» confessò Amil. «Pensavo di ricongiungermi alla mia famiglia, ma non riesco a muovermi… Non ce la faccio…».
Bernardo finalmente capì perché in estate si rifiutasse sempre di andare a mare con lui e perché, nonostante la paura, si sentisse attratto da quel posto. «Allora usciamo, l’acqua è congelata» borbottò fiocamente.
Si sedettero sulla sabbia umida e Bernardo lo lasciò sfogare. Quando si fu calmato gli chiese: «Che facciamo? Un giro?».
«No, andiamo a scuola» rispose Amil.
«Eh, ma sei matto?».
«Siamo in tempo per entrare la seconda ora».
«Sì, ma De Luca ci ucciderà».
«Non fa niente» borbottò Amil alzandosi.
«Non sono d’accordo» borbottò Bernardo.
«Se Amelia scopre che non sono entrato, si preoccuperà».
«Chiamala e dille che sei con me».
«No, si arrabbierà».
Quella conversazione stava diventando insensata. «No, se le spiegherai tutto».
«Ma io non voglio spiegarle tutto».
«Ma c’è la possibilità che Arenaldi non la faccia franca questa volta».
«No» tagliò corto Amil. «Amelia ci starebbe male».
«Va bene» capitolò Bernardo.
A passo svelto raggiunsero il motorino e si avviarono verso la scuola. Come previsto si beccarono una ramanzina da De Luca, poi finalmente poterono dirigersi in classe. Fuori dalla porta, però, Arenaldi fumava tranquillamente insieme ai suoi due compari.
 
 




 
 
“… ma seppi che se mi provocherai sono guai, Dottor Jekyll diventa Mr. Hyde e ti ammazza stecchito col Raide”.
 
 

 

Bernardo si fermò.
«Oh, guarda i due piccioncini!».
Strinse i pugni e si gettò su di lui: non gli interessava se erano a scuola, non gli interessava se era molto più forte: sarebbe stato contento anche solo a tirargli un pugno in faccia e a fargli sparire quel ghigno.
Ciò che lo soprese fu che Amil si unì alla rissa, quando Ermanis e Leone intervennero in aiuto del loro capo.
 
 


5 dicembre
 
«Non sapevo che sarebbe finita così» concluse Bernardo con un filo di voce.
«Non sono cose che si possono prevedere» replicò l’ispettore Sandri. «Va bene, senti, per ora puoi andare, parleremo di nuovo in presenza dei tuoi genitori».
Bernardo annuì contento di potersene andare. La professoressa Agresti lo seguì, perciò l’attese.
Lei gli appoggiò la mano sulla spalla. «Andiamo a trovare Amil».
«Sul serio?» boccheggiò.
«Sì, sbrigati».
Il tragitto in macchina fu silenzioso, un silenzio imbarazzato e mesto.
A Bernardo non piacevano gli ospedali e fu con il cuore in gola che la seguì per quei corridoi bianchi e asettici. Amelia Ristarchi era lì: aveva gli occhi rossi ed era pallida, ma sorrise riconoscendoli.
«Come sta?».
«Bene» rispose Amelia. «Sta ancora dormendo. L’operazione è finita da poco».
 


 
 
“Alle bestie regalerò i miei sorrisi come Francesco d’Assisi e Pippi Calzelunghe”
 
 


 
Bernardo si rese conto di poter finalmente respirare: il suo migliore amico si sarebbe ripreso. Mal sopportando l’odore di disinfettante uscì fuori a prendere una boccata d’aria e si sedette sul bordo di un’aiuola. All’improvviso si avvicinò un cagnolino randagio, Bernardo gli sorrise e lo accarezzò.
«Hai fame?». Tirò fuori dallo zaino un panino al prosciutto e tolse il companatico porgendoglielo.
Mentre lo guardava mangiare tirò fuori il cellulare dalla tasca. Sembrava un’altra vita quando Mafalda aveva chiesto di essere informata e in tutto quel casino l’unico messaggio che le aveva inviato era stato un misero “Stiamo venendo a scuola” quando erano partiti dalla via Marina. Le scrisse che Amil stava meglio e ripose il telefonino. Sorrise più largamente al cagnolino che scodinzolava e lo fissava forse sperando che gli avrebbe dato altro cibo.
Lo accarezzò di nuovo e finalmente si rilassò.
 



 
Trovo molto interessante la mia parte intollerante che mi rende rivoltante tutta questa bella gente”
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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