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Autore: DianaSpensierata    13/09/2019    0 recensioni
"Mi mancava non sapere che cosa dire, mi mancava essere spiazzata dal suo irresistibile modo di fare, mi mancava il suo sguardo che sapeva e il suo sorriso che non necessitava parole, mi mancava avere qualcuno con cui poter parlare a quel modo. Mi mancava lui, in tutto il suo complicato e affascinante essere, a volte così forte che non riuscivo nemmeno a darmi della stupida."
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jackson Family, Martin Bashir, Michael Jackson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 9. Living with Michael Jackson
 


 
Era una sera di febbraio. Ronan era andato a dormire da un’oretta e stavo aspettando di prendere sonno a mia volta facendo pigramente zapping sul piccolo televisore del salotto. Un documentario, un talk show, un film horror, una televendita, Michael Jackson, una vecchia serie tv, un…
Michael Jackson?!
Tornai rapidamente a quel canale, convinta che fosse uno scherzo della mia mente (mi era capitato piuttosto di frequente in quelle settimane di vederlo un po’ dovunque), ma questa volta non mi sbagliavo.
Così, per la prima volta vidi il documentario “Living with Michael Jackson”. Fu anche l'ultima volta in assoluto... perché era la cosa più sbagliata e sconvolgente che avessi mai visto.
Non me ne accorsi subito. Mi fecero sorridere i racconti di come componeva la sua musica, mi commossi nel vederlo ballare e Martin mi sembrò davvero carino, mentre tentava di imparare in moonwalk e rideva con Michael. Rimasi un po’ perplessa nel vedere quest’ultimo fare shopping, sempre tallonato dalle telecamere come nulla fosse, e raccontare cose della sua infanzia che mai nessuno avrebbe dovuto sentire, tanto quanto lui non avrebbe dovuto viverle.
Iniziai a intuire che qualcosa non andava quando Martin introdusse l’argomento delle accuse per molestie. C’era qualcosa di… strano. Il dialogo non filava in modo naturale, le domande stonavano, sembravano chiedere una cosa ma intenderne cento altre, come architettate per deviare la tua opinione in una direzione sola, non c’era niente del Michael che conoscevo io, la sua voglia di vivere, il suo talento, la sua dolcezza, non c’era niente di tutto ciò. Quel documentario non parlava di lui. Parlava di quello che la massa voleva sentirsi dire di lui, la sua chirurgia, le sue vicende legali, i suoi traumi. Come se non fosse un uomo ma un insieme di scartoffie di avvocati, dottori e manager. Una figura che nasceva e moriva nell’opinione altrui, a tratti un fantasma, a tratti un idolo, a tratti un mostro…
Scoppiai a piangere nel vedere come, ancora una volta, Michael Jackson era stato incastrato, violentato dall’ “assetato di verità” di turno, nel vedere un mare di merda che solo io e purtroppo pochi altri avevamo il privilegio di sapere con certezza che era falso, totalmente falso; nell’immaginare lui che in quello stesso momento si guardava in quell’orribile specchio distorto senza sapere come tornare indietro, come salvare la sua immagine, o perlomeno, la sua anima.
Non ci pensai un minuto di più. Preparai una borsa con un piccolo kit di sopravvivenza, dopodiché andai in camera da letto.
– Ron, tesoro –  lo chiamai, piano ma con decisione.
– Mmm… –
Intenerita, lo accarezzai dolcemente. – Ron, per piacere, ho bisogno che tu venga con me –.
– Perché? – domandò con la voce indebolita dal silenzio di quelle ultime ore.
– Dobbiamo andare a trovare un amico –.
 
Sapevo che la silenziosa obbedienza di mio figlio sarebbe stata solo momentanea. Dopo che lo ebbi caricato in macchina si riprese del tutto e iniziò a fare domande. Come potevo spiegargli la cosa meno sensata ma più sentita che avessi mai fatto?
– Credo che Michael abbia bisogno di un po’ di compagnia – tentai maldestramente.
– Stiamo andando a Neverland? – esclamò, tutto eccitato.
– Sì, tesoro. Anzi, dovrai aiutarmi a ricordare dove si trova – “al buio, dopo tre mesi, sarà una passeggiata” mi dissi, sconcertata.
– Sono contento! Ma come mai a quest’ora? –
“Già, Claire, come mai? Non ti faranno nemmeno entrare. Chiameranno la polizia. Sempre se riuscirai ad arrivarci.” Sbuffai, odiavo quando riuscivo a autosabotare le mie buone intenzioni. Così, più a me stessa che a mio figlio, risposi: – Credo di non essere stata una buona amica per Michael ultimamente, ma penso che ora sia il momento di esserlo. E i buoni amici, se hanno anche solo il minimo sospetto che ne hai bisogno, si precipitano da te all’istante –.
– Mamma? –
– Sì? –
– Credi che Michael avrà ancora i biscotti al cioccolato che c’erano l’ultima volta? –
Scoppiai a ridere. – Vedremo –.
               Dovevano essere più o meno le due di notte, quando guidata da mio figlio e una buona dose di fortuna giunsi davanti ai cancelli di Neverland. Una telecamera mi fissava, muta come tutto quanto intorno a noi. Non c’erano guardie, luci accese, voci, niente. Effettivamente era piuttosto tardi…ma dovevo provare, avevo la sensazione, contradditoria rispetto a ciò che mi circondava, che fosse quello il momento giusto per essere lì. Con un sospiro mi armai di coraggio, indossai la mia bella faccia di bronzo e a voce alta (anche se piuttosto tremolante) chiesi: – C’è nessuno? –
No.
Dopo un minuto di angosciante e imbarazzante attesa, sentii dei passi dirigersi verso di me. – Chi sei? – domandò una figura scura, non troppo gentilmente.
– Scusami, non volevo disturbare… so che è tardi… sono Claire Morgan, una…–
– Vieni dentro – mi interruppe l’uomo, aprendo i pesanti cancelli. Quel gesto mi stupì, mi aspettavo di dover fornire eterne spiegazioni su chi ero, sul perché ero lì, di essere magari perquisita e dio solo sa cosa, sì, forse effettivamente vedevo troppi film ma… forse quella guardia qualcosina di me la sapeva. Non riconobbi se fosse una di quelle incontrate al parco mesi prima.
– C’è anche mio figlio…– aggiunsi titubante, stringendo la mano a Ronan.
– Non c’è problema, entrate, non è sicuro parlare qui fuori –.
– Grazie – lo seguimmo lungo il viale che anche al buio lasciava intuire la sua maestosità. – Michael è sveglio? –
– Credo lo rimarrà ancora per molto – rispose lui, lasciando a intendere quello che temevo. Non sarebbe stata una notte facile per Michael Jackson.
A mano a mano che ci avvicinavamo alla villa, sentivo delle urla intervallate da fragorosi rumori, come di vetro in frantumi. Guardai l’uomo con aria preoccupata. – Sta distruggendo la casa – fece lui con aria grave. – Non riusciamo a calmarlo. So che non vorrebbe essere visto così, ma potresti essere d’aiuto –.
Accelerai il passo per stargli dietro, estraniandomi per un attimo dalla situazione e rimirando quel quadretto bizzarro dall’esterno. Improvvisamente mi sentivo quasi essenziale per un uomo che fino a pochi mesi prima era una figura avvolta dal mistero, impeccabile sul suo piedistallo; con cui avevo condiviso soltanto una manciata di ore; che era anni luce distante da me, in ogni senso possibile; e che, ciliegina sulla torta, l’ultima volta avevo cacciato da casa mia.
Era surreale e quasi ridicolo, eppure sentivo l’urgenza di quella situazione fino nelle ossa, e allo stesso tempo la sensazione di essere nel posto giusto, complice anche l’accoglienza che mi aveva riservato la guardia.
Mi fece entrare nella villa. Sentii Michael dalla stanza immediatamente adiacente urlare forte come non avevo mai sentito fare nessuno prima, con la voce carica di una rabbia e un dolore che mi tagliò il respiro con una forza inaudita. D’istinto portai le mani sulle orecchie di Ronan, allo stesso tempo però costringendo le mie a sentire tutto.
L’uomo di fronte alla mia espressione sicuramente terrorizzata mi fece segno di aspettare lì e andò da Michael. Lo sentii sovrastare (non so ancora come) la sua voce e ordinargli di calmarsi, per poi, più piano, probabilmente annunciargli che ero lì. Una donna dall’aria vagamente familiare mi venne incontro e con un sorriso e qualche parola che non ricordo portò Ronan con sé, glielo affidai volentieri, mi ci sarei affidata anche io, non meno volentieri.
Ritornò anche la guardia del corpo. – Preferisce essere lasciato da solo –.
– Oh, d’accordo, allora aspetto qui… –
– No, intendevo solo con te – mi interruppe, con un sorriso un po’ stanco, un po’ speranzoso, credo. Mi diede una leggera spinta in avanti, al che mi armai di tutta la determinazione rimasta e andai incontro a Michael.
Lo trovai seduto su una poltrona, la testa fra le mani, incurvata sotto pesi invisibili; a terra un macello, frammenti degli oggetti più vari. Camminai incerta, stando attenta a non pestarli, fino a distanziarlo di meno di un metro. – Michael? – azzardai.
– Claire…– sospirò, con una voce irriconoscibile. Ancora peggio di quella piena di rabbia che avevo appena sentito: era una voce spenta, stanca, arresa.
Mi inginocchiai incerta davanti a lui. – Non vorrei essere la tua donna delle pulizie domani mattina… – commentai per riempire il silenzio. Non replicò. – Posso sperare che stessi testando la validità di questi oggetti domestici come percussioni per un futuro brano? Perché devo ammettere che…–
Rise, solo per un attimo, senza una reale gioia. – Non ci sarà un futuro brano, mai più. Non ci sarà niente. – mi guardò per la prima volta. Desiderai che non l’avesse mai fatto…faceva, letteralmente, paura. Aveva il viso stravolto, irriconoscibile, scavato. –Avevi ragione, Claire. Non sai quanto. E non sai quanto vorrei che fossero tutti come te, che mi sbattessero fuori di casa, perché lo credono, piuttosto che… – le emozioni gli strozzarono la voce in gola.
Lo avvolsi in un abbraccio, commossa da quella scena. – Stai un po’ zitto. Mi è andata bene che qualcuno l’abbia combinata più grossa di me, ma non puoi dimenticare che sono stata veramente un’amica terribile… quindi non provare neanche a giustificarmi –.
– Però sei qui…– replicò, stringendomi piano.
Mi rannicchiai sulla poltrona accanto a lui e lo costrinsi a guardarmi. Volevo cavargli fuori quel po’ di anima che gli era rimasta, o meglio, che gli avevano lasciato. – Ora sì…ma basta parlare di me. Ti va di dirmi come stai? –
– Non saprei da dove cominciare…–
– Fai come se dovessi scrivere una canzone. Non dai un ordine alle idee, segui quello che hai dentro e lo porti fuori…magari senza distruggere altri vasi, ma prendilo solo come un suggerimento, nulla di più…–.
Accennò un sorriso, e mi sembrò di vedere centomila albe tutte insieme. – Non so più cosa fare, Claire. Sono stanco. Stanco di essere usato, derubato della mia anima e venduto. Non è giusto. Io vorrei, dovrei, reagire con amore, non prendermela, lasciar correre ma a volte… ho solo voglia di rompere qualcosa…–
– Lo credo bene! Reagire con amore un paio di palle. Sei umano anche tu. –
– Non mi vogliono umano loro… a loro non importa…–
– Importa a noi. Saremo in pochi ma sappiamo cosa c’è qui dentro – gli poggiai una mano sul petto, che batteva all’impazzata. – Non dovresti lasciar correre e non dovresti neppure lasciarti andare. Sarebbe solo un favore che fai a quella manica di bastardi, e non meritano neanche un briciolo del tuo perdono. –
Michael appariva terribilmente stanco. Cercai di scervellarmi nel tentativo di trovare qualcosa che lo tirasse fuori da quello stato, o che perlomeno lo sollevasse da quella poltrona, affinchè tornasse a respirare normalmente nonostante quel macigno non più invisibile che portava addosso. – Facciamo così…ora sua maestà farà una cosa che non ha mai fatto in vita sua…– trafficai nei vari mobili lì intorno finchè non trovai qualche sacco, dei guanti, una scopa e una paletta. –…cioè metterà ben due guanti – proseguii – e farà un po’ di lavoro manuale. Mai sentito parlarne? – lo sorpresi a sorridere più apertamente di prima. – Guarda che non sto scherzando. Adesso rimediamo insieme a questo piccolo disastro. Non vorrai che qualcuno si faccia male e ti metta su un’altra causa in tribunale. Dài. –
Mi squadrò con un’espressione indecifrabile. – Non so come fai a scherzare su cose così orribili e non farmi nemmeno arrabbiare –.
Gli sorrisi. – Ogni Cenerentola ha i suoi poteri. Adesso smetti di parlare e lavora –.
Passammo quindi le due ore successive a ripulire il pavimento di tutti i cocci. Non parlammo, ma accadde, un paio di volte, di sentirlo canticchiare. Michael stava tonando. L’avevo fatto tornare.
Alle prime luci dell’alba crollammo addormentati l’uno sull’altra accasciati sulla poltrona, senza la forza -né, ammettiamolo, la voglia- di trovare una sistemazione migliore.
 
La luce del giorno mi ferì la vista e la già poca voglia di risvegliarmi. Mi stiracchiai con un piccolo brontolio, cercando di dare un ordine ai miei arti, scomposti e aggrovigliati come non mai. Quando trovai il coraggio di riaprire gli occhi, ne trovai circa altre sei paia a fissarmi, più di quanto chiunque credo avrebbe potuto sopportare. Cercai quelli a me più familiari, e sorrisi nel ritrovarli.
– Ciao mamma! – esclamò mio figlio, allegro ma non completamente sereno. Comprensibile, lo avevo messo in una situazione non splendida quella notte.
– Ciao Claire – sorrise Michael, avvicinandosi con un piatto. Scossi la testa ricambiando il sorriso. – Il tuo stomaco dorme ancora, vero? – annuii. Lui rise. – Scusa, non me la sentivo di svegliarti… –
Scossi la testa, facendogli capire che non erano le sue scuse ad interessarmi. Lo osservai meglio. Aveva ancora l’aria stravolta ma sorrideva, un po’ anche con gli occhi, e tanto mi bastò. Mi accorsi a malapena dell’arrivo della domestica che si era presa cura di Ronan la sera precedente mentre, su richiesta di Michael, portava i bambini nell’altra stanza. – Non era necessario, sono io l’intrusa – feci, un po’ imbarazzata. – Tanto per cambiare, potresti cacciare me così come io…–
– Smettila – mi ammonì, sedendosi sul bracciolo della poltrona su cui avevo (avevamo) dormito. – Non voglio sentirti rimproverare te stessa un solo attimo di più. Hai fatto una cosa splendida ieri sera. – lo guardai senza saper cosa rispondere. – E mi dispiace per come mi sono comportato – aggiunse.
– I complimenti te li lascio passare, fanno sempre bene di prima mattina. Ma non servono neanche le tue di scuse. Sono venuta qui per starti vicino...a qualunque costo – scosse la testa sorridendo, senza replicare. – Come stanno i bambini? –
– Ronan ha dormito con i miei figli stanotte. Non ha fatto domande, è stato tranquillo per tutto il tempo. I miei… non è la prima volta che capita una cosa del genere, purtroppo –  sospirò.
– Sanno cos’è successo? –
– Non saprei come spiegarglielo… non so nemmeno come spiegarlo a me stesso – scosse la testa, questa volta con indignazione.
Mi sentii impotente, ancora una volta, di fronte a quel concentrato di sofferenza. – Michael, io sono una frana con le parole e tutto il resto, però… dimmi cosa vuoi che faccia, qualunque cosa, e d’ora in poi sarà l’unica cosa che farò. –
Mi guardò intensamente. – Sii Claire. –
 
– Non me ne frega niente, Michael. –
– Non ti credo. Per favore! Hai detto che avresti fatto tutto quello che volevo –.
– Sei un imbroglione! La tua risposta è già stata che volevi che fossi me stessa. Io sono me stessa a casa mia... hai visto dove vivo? È inutile che pesti i piedi come i bambini. Non mi trasferisco qui neanche se mi implori in ginocchio. –
– Non ti ho chiesto di trasferirti, solo di fermarti con Ron per qualche giorno… – replicò. Era ormai da mezz’ora che discutevamo, io non ne volevo sapere di fermarmi lì, sempre per la solita storia di non abituarmi troppo bene, di ricordarmi che ero una persona normale, di scappare dagli uomini, bla bla bla.
– Ho bisogno di lavorare, Michael… –
– Lavora per me. –
– Sebbene sia lusingata, non prenderò soldi per farti sostegno psicologico. Non sono abbastanza qualificata. –
– Sto parlando del tuo lavoro. Puoi farlo qui. C’è sempre bisogno di una mano in più, sono sicura che anche le domestiche lo apprezzerebbero…–
– Soprattutto se continui a distruggere la casa – replicai con un sorriso innocente.
– Lo continuerei a fare solo per farti rimanere –.
Scoppiai a ridere. – Vuoi che diventi la tua Cenerentola? Cenerentola a Neverland…cominciano a mescolarsi le fiabe e io mi confondo. Forse dovrei rimanere in quella cosa chiamata mondo reale…–.
– Cos’ha di così bello? –
– E’ normale. –
– Beh…tu sei la cosa più normale della mia vita in questo momento. –
Lui per me non lo era, non c’era assolutamente nulla di normale nella sua presenza attorno a me, nel suo desiderio di avermi vicina, io, io con i miei jeans strappati, io che vivevo in affitto in un appartamento che lui avrebbe quasi potuto mettersi in tasca, io che non avevo talenti. Avevo paura, paura di credere che quella potesse diventare la mia vita, paura di un giardino più grande della mia immaginazione, paura di un uomo colmo di dolore ma anche di amore…
– Michael…–
– Ti voglio qui con me, Claire –.
   
 
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