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Autore: Adeia Di Elferas    14/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La Sforza non aveva voglia di farsi notare, ma, nel momento stesso in cui varcò l'ingresso secondario della cittadella – ovvero quello che dava verso Ravaldino – capì subito che la sua sarebbe stata una missione impossibile.

Tutti i soldati che la incontrarono la riconobbero e, i più arditi, le chiesero che cosa ci facesse al Paradiso. Trovando che fosse la spiegazione migliore e meno compromettente, la donna rispondeva a tutti dicendo che era lì per controllare che fosse tutto in ordine, dato che le ultime notizie davano i francesi pronti a marciare in loro direzione.

La prospettiva dello scontro che si avvicinava bastava a tacitare ogni altro quesito e permetteva alla Contessa di proseguire nella sua ricerca. Avrebbe tanto voluto mandare qualcuno a prendere Pirovano, per evitarsi tutta quella scarpinata, ma temeva che una richiesta tanto esplicita avrebbe solo alimentato di più i pettegolezzi.

Pur essendo conscia del fatto che a Forlì praticamente tutti sapeva che Giovanni da Casale era il suo amante favorito, trovava che sarebbe stato lesivo dell'autorevolezza del giovane, se avessero ostentato troppo quel legame davanti ai soldati.

In passato, quando Giacomo era stato creato Governatore Generale delle truppe e delle rocche del suo Stato, oltre alla manifesta incapacità del Feo di ricoprire un simile ruolo, era pesata moltissimo la sensazione che avesse ottenuto quel posto solo ed esclusivamente per quello che nottetempo faceva con la Tigre in camera da letto. Anche se l'atmosfera e il soggetto erano molto diversi, quella volta, la Sforza non voleva rischiare di fare di nuovo il medesimo errore.

Caterina stava ormai perdendo la speranza, quando, girato in fretta l'angolo di uno degli stretti corridoi che costeggiavano gli alloggiamenti dei graduati, vide Pirovano, di schiena, che parlava serratamente con un soldato.

Fu proprio quest'ultimo ad accorgersi per primo di lei e, raddrizzando la schiena, salutandola con la rigida formalità dedicata di solito ai comandanti, disse prontamente: “Perdonatemi.” e si defilò subito.

Colpito da quella reazione tanto repentina, Giovanni da Casale finalmente si voltò e, vedendo la sua amante, non trattenne un sorriso ampio e sincero, che, però, si spense subito, mentre chiedeva, un po' teso: “Come mai sei qui? È successo qualcosa..?”

“Devo chiedere un consiglio a qualcuno, e non so a chi...” fece lei, suonando smarrita, malgrado volesse apparire sicura di sé come sempre.

“Se si tratta di politica, lo sai che uomini come Numai o l'Oliva sapranno consigliarti molto meglio di me.” si schermì Pirovano, memore delle rare volte in cui la Leonessa aveva cercato il suo parere per finire solo ad abbaiargli addosso: “E se si tratta dei tuoi figlio io proprio non...”

“Si tratta di guerra. Di guerra e soldati.” lo interruppe Caterina, innervosita da quell'atteggiamento pavido, che stonava troppo con l'aspetto forte del suo amante: “Di questo ne sai abbastanza, direi.”

Giovanni colse la stoccata sottesa nel finale e, rilassando un po' le spalle, sospirò: “Non so se potrò aiutarti, ma ti ascolto.”

A quel punto la Sforza gli chiese se non ci fosse un angolo tranquillo in cui discutere e l'uomo, non avendo voglia di raggiungere il suo alloggio, che distava un bel po' da dove si trovavano, le indicò una delle poche salette che erano state ricavate negli ambienti stretti e grigi della cittadella. Era una di quelle camere che sarebbero servite, durante l'assedio che si preparavano a fronteggiare, per discutere la tattica e la strategia. Nel cuore della fortificazione, abbastanza riparate da non essere un obiettivo sensibile ai colpi di cannone, avrebbero dato una discreta tranquillità ai comandanti incaricati di prendere decisioni.

Si trattava di una stanzetta molto scarna, con un tavolo nel centro, un paio di sedie, due ganci per le torce e una finestrella lunga e stretta da cui si intravedeva il cielo grigio di quel giorno. I muri erano spogli e poco rifiniti. Lasciarli tanto ruvidi non era stata una scelta stilistica, quanto una necessità legata al voler finire in fretta i lavori.

“Hai i capelli bagnati.” notò il milanese, guardandola appena, mentre chiudeva la porta alle sue spalle.

“Mentre venivo qui ha cominciato a piovere.” spiegò lei, sollevando un po' le spalle, accorgendosi solo in quel momento di quanto in effetti la sua chioma si fosse inumidita.

Anche i suoi vestiti portavano addosso l'odore della pioggia e dell'autunno che stava incalzando.

Pirovano fece un suono gutturale di assenso e poi, incrociando le braccia sul petto le chiese: “E dunque? Che consiglio ti serve?”

Prendendo dal tascone del suo abito da lavoro la lettera di Gianotto, Caterina cominciò a spiegargli tutto quanto, arrivando a elencargli le sue perplessità che andavano a smorzare un po' la fame di soldati che aveva. Se da un lato, insomma, non riusciva a fidarsi di un francese rinnegato, dall'altro dei fanti tedeschi – più ancora di quelli guasconi – le facevano molta gola.

“E non vorrebbe proprio nulla, in cambio?” chiese Giovanni, quando la donna finì il suo lungo discorso.

“Così dice.” annuì lei: “Solo la promessa di una fine onorevole per sé e per i suoi uomini.”

“Ah, quella l'avrebbero di certo.” commentò a denti stretti l'uomo, che, durante alcuni momenti di debolezza, si era chiesto se davvero ne valesse la pena, di morire a quel modo.

Il tono sprezzante usato dall'amante fece accigliare la Contessa, che, pungente, ribatté: “Non ti obbligo a restare.”

“Non fraintendermi... Io volevo dire...” cominciò a scusarsi Pirovano, per poi agitare una mano in aria, per convincerla a lasciar perdere: “Il punto è: ti fidi di questo Gianotto?”

“Non lo conosco nemmeno.” soffiò la Tigre, con ancora la lettera in mano.

“Non conoscevi nemmeno Paolo Riario – le fece notare Giovanni, usando per il ragazzo arrivato da Roma il cognome del defunto Conte Girolamo, come facevano ormai tutti, benché non fosse mai stato riconosciuto legalmente – eppure l'hai preso subito al tuo servizio.”

“Dici che dovrei accettare?” la Leonessa non voleva scambi di battute secche, né sciarade.

Cercava un appoggio, qualcuno che, una volta tanto, le dicesse cosa fare. Aveva sempre dovuto prendere le sue decisioni da sola, sapendo che la vita dei suoi sudditi, oltre che dei suoi figli, dipendeva da quello che lei sceglieva. Era stanca di sentire quel peso addosso.

“Non lo so.” fu la risposta, poco utile, del suo amante.

“Quattrocento fanti non sono pochi.” constatò lei, come se ritenesse necessario ribadire al milanese i punti salienti di quella proposta al fine da farlo propendere da una parte o dall'altra: “Ma alcuni sono guasconi, e i guasconi sono naturali alleati di re Luigi...”

“Tanto hai già deciso che li vuoi.” fece Giovanni, con una punta di freddezza: “Aspetti che sia io a dirti di accettare, per poter dare la colpa a qualcuno, nel caso fosse un errore.”

“Perché dici così?” in tutta onestà, la Contessa non capiva l'atteggiamento astioso di Pirovano.

Da tempo si era accorta che quel giovane aveva una mente molto meno solida di quella di tanti altri. Si nascondeva dietro i suoi muscoli e la calma apparente, ma nel suo petto ribolliva un vero inferno. Doveva riuscire a incanalarla nella giusta direzione, o quella forza distruttiva avrebbe finito per travolgere non solo lui, ma anche tutti quelli che lo circondavano.

“Lascia stare.” rispose lui, rabbuiandosi.

“Allora accetterò.” concluse lei, infilando di nuovo la lettera tra le pieghe dell'abito: “E se fosse una trappola, di quei quattrocento uomini non ne resterà vivo nemmeno uno.”

“Li uccideresti uno per uno con le tue mani, immagino.” la voce di Giovanni aveva un che di inquietante, alle orecchie della sua amante.

Voleva far finta di niente, ma non ci riuscì. Si avvicinò un po' a lui, sfiorandogli il braccio e gli chiese che avesse. Quando l'uomo rispose che non c'era assolutamente nulla che non andasse, la Tigre tentò un avvicinamento più deciso.

In un certo senso, conosceva quel muro di aggressività dietro cui il milanese si stava trincerando, e non le piaceva saperlo intrappolato in quella gabbia. Con lentezza, studiandone con cura le reazioni, la donna si sporse un po' verso di lui e lo baciò.

Dapprima Pirovano fece il sostenuto, ma poi, accogliendola finalmente tra le sue braccia, rispose a quel silenzioso invito con trasporto. La Contessa sentiva crescere dentro di sé il desiderio di farlo suo, era lo stesso tormento che non la lasciava dormire la notte e che la rendeva nervosa di giorno.

Mentre le sue labbra cercavano ancora quelle di lui, le sue mani si infilarono tra loro, cominciando ad armeggiare con i lacci delle brache del suo amante. Aveva aspettato anche troppo e ormai non le importava altro. La decisione che doveva prendere su Gianotto ormai l'aveva presa e se alla rocca si fossero chiesti come mai stava via più a lungo del previsto... Ebbene, non era un problema suo.

Nel capire quanto decisa fosse la sua donna, Giovanni venne travolto da un'euforia che non provava ormai da giorni. Pensò subito, però, ai risvolti più pratici di quella situazione. Lo aspettavano nei baraccamenti. Aveva promesso di arrivare nel giro di pochi minuti e temeva che qualcuno si sarebbe preso la libertà di andarlo a cercare. Non aveva nemmeno chiuso a chiave la porta...

Fu sul punto si smettere di baciare la sua amante per chiederle almeno di andare a serrare l'uscio in modo più sicuro, ma la voce gli morì in gola quando lei lo spinse con irruenza verso il muro.

Impegnato a sollevarle le gonne, Pirovano quasi non si accorse delle campane che suonavano l'ora, in lontananza. Solo all'ultimo rintocco, mentre lei gli passava la mano tra i capelli, l'uomo ebbe un attimo di esitazione.

“Io... Forse dovrei... Mi stanno aspettando...” farfugliò, senza, comunque, liberarsi dalle spire della Tigre.

“Se non mi accontenti tu – ribatté con voce roca e minacciosa la donna – allora vado a cercarmi qualcun altro.”

“Come se non l'avessi già fatto...” insinuò lui, accantonando però subito l'idea di farsi rimpiazzare, afferrando una coscia dell'amante, portandosela al fianco, e facendola girare in modo che fosse lei a restare premuta contro il muro.

Con la parete ruvida che le graffiava appena la parte di schiena che l'abito di raso tanè lasciava scoperta, Caterina disse: “Per ora no, ma sono sempre in tempo a farlo.”

Come se quell'ultimo avvertimento l'avesse convinto in via definitiva, Giovanni non pensò più a nulla, ben disposto perfino a farsi cogliere sul fatto da uno dei suoi sottoposti, e le diede ciò che voleva.

Placata in parte la fame della Tigre, stemperata la tensione che si era creata tra loro in quei giorni di distacco, il milanese e la Contessa si trovarono ancora stretti l'uno all'altra, a riprendere fiato.

Caterina, dando un ultimo bacio al suo amante, gli posò una mano sul petto, facendolo allontanare un po'. Mentre lui si riallacciava le brache, la Sforza si sistemò in fretta l'abito. Quel modo sbrigativo di rimettersi in ordine le ricordò molto da vicino la prima volta che si erano amati, nella sala della armi. Le sembrava passata una vita.

Mentre si metteva a posto il vestito, la Leonessa si rese conto che nella furia di poco prima, si era aperto uno strappo sulla spalla, in un punto in cui la sua cameriera aveva già dovuto intervenire un paio di volte.

“Dannazione...” sussurrò, constatando l'entità del danno.

“Che c'è?” chiese subito Pirovano, convinto di aver fatto qualcosa che la sua amante non volesse.

“Niente...” rispose lei, coprendo lo strappo con i capelli, decidendo che, appena rientrata a Ravaldino, avrebbe subito sottoposto il problema ad Argentina: “Adesso devo andare. Ho ancora un sacco di cose da fare, prima di sera...”

Giovanni, asciugandosi distrattamente il sudore dalla fronte, annuì, ma prima che potesse dirle qualcosa per salutarla o anche solo stringerla a sé ancora un istante, la Sforza era già sgusciata fuori dalla stanza.

Il milanese si sentiva un po' usato. In fondo, però, gli andava bene anche così. L'aveva avuta, l'aveva sentita sua, l'aveva stretta a sé, sentendo il suo respiro sul collo, e aveva capito che il desiderio che lei provava nei suoi confronti non era indistinto e indiscriminato, ma mirato proprio a lui. Caterina poteva dire quel che voleva, ma Pirovano era più sicuro che mai che lui fosse speciale, per lei. Non era vero che le andava bene un uomo qualsiasi: se poteva, voleva avere lui, e nessun altro.

O, perlomeno, a Giovanni piaceva pensarla così.

 

Troilo si tolse i guanti e li appoggiò sulla scrivania, aspettando che Gian Giacomo da Trivulzio gli chiedesse com'era andato il suo colloquio con il re di Francia.

Il nuovo Governatore di Milano, però, sembrava non volergli dare troppo peso. Era immerso nella lettura di una lettera e i suoi occhi piccoli, resi ancora più incavati dalle pesanti borse che vi sottostavano, non si staccavano dalla pagina.

Solo dopo qualche minuto, mentre il trentasettenne iniziava a manifestare una certa impazienza, grattandosi il mento coperto di barba rossiccia, l'amico parlò: “Meleagro da Forlì è stato mandato dal Doge a Sacile.”

“Per contrastare i turchi?” chiese subito il Rossi, immaginando che quello fosse l'argomento della missiva che il Trivulzio teneva ancora davanti a sé.

L'altro, infatti, annuì appena e, picchiettando sulla pagina, commentò: “Se è questo l'appoggio che vuole darci Venezia..! Disloca i suoi migliori comandati per tenere a bada i turchi... Una perdita di tempo, ora come ora.”

“Ma se i turchi...” provò a dire Troilo, ma l'amico lo zittì con un semplice cenno del capo.

“Con quel fantoccio di Cesare Borja che ci porta via quindicimila uomini per il suo diletto, ci è indispensabile sapere che Venezia ci guarda le spalle. Ma dall'Imperatore e dai fedeli dello Sforza, non dal sultano!” sbottò Gian Giacomo, scuotendo la testa e sbuffando: “I veneziani! Gli stessi che hanno protestato così tanto e così a lungo solo perché il re ha regalato un gioiello a Francesco Gonzaga in cambio di qualche cavallo... Se sono alleati, questi, che minacciano di aumentare al Marchese il prezzo del sale..!”

Mentre il più vecchio si abbandonava contro lo schienale del proprio scranno, il Rossi passava il peso da un piede all'altro, pensieroso, ma non per la questione turca. A premergli, in quei giorni, era ben altro, e il Trivulzio lo sapeva bene.

“Avanti...” soffiò alla fine il nuovo Governatore di Milano: “Dimmi com'è andata con Luigi.”

“Direi bene.” fu l'immediata risposta: “Gli ho detto che sono lietissimo di sapere che sua moglie ha dato alla luce una bambina in salute, e che la piccola Claudia sarà un onore e un ornamento, per la Francia intera.”

“Molto retorico.” commentò Gian Giacomo, senza enfasi, notando come in quel momento il suo compare sembrasse un ragazzino ansioso di ricevere una lode da un maestro e non un uomo nella piena maturità intento a parlare di diplomazia e politica: “Ma credo che a Luigi piacciano, elogi di questo genere. Ti ha fatto intendere nulla?”

“Mi ha solo ringraziato e mi ha detto che si augura che mio padre Giovanni possa trarre qualche gioia, da questa guerra.” riferì Troilo, il più fedelmente possibile.

Il milanese parve ben impressionato da quell'affermazione, tanto che fece eco: “Qualche gioia eccome. Siamo sulla buona strada.”

“E per Felino?” chiese a quel punto il Rossi, arrivando a ciò che più lo tormentava.

Il Trivulzio aveva avuto ufficiosamente Felino e Torrechiara dal re di Francia. Sarebbero stati due ottimi avamposti per riconquistare San Secondo e tutte le terre vicine. Tuttavia secondo il condottiero era ancora troppo presto per fare un passaggio effettivo a Troilo. Luigi XII non aveva ancora dato il suo chiaro assenso e prima avrebbe dovuto nominare formalmente Giovanni de Rossi signore di quelle terre.

“Stai sicuro – disse il Governatore, alzandosi dalla scrivania con lentezza e ripiegando la lettera per mettersela nella tasca del giubbetto – che entro il mese prossimo almeno Felino riuscirò a fartelo concedere.”

“Non voglio che mio padre muoia da esule.” rimarcò Troilo, arrivando perfino ad appoggiare una mano sul braccio dell'amico, a sottolineare la fermezza della sua dichiarazione.

“Lo so.” fece Gian Giacomo, con un debole sorriso: “E vedrai che non succederà.”

 

Argentina stava guardando con occhio critico l'abito che la Tigre si era appena levata. L'aveva passato in rassegna con l'attenzione con cui un cerusico avrebbe controllato una ferita.

Solo dopo un lungo momento di silenzio, mentre la sua signora cercava nella cassapanca qualcos'altro da infilarsi, aveva scosso il capo con gravità e aveva decretato: “Non credo che riusciremo ad aggiustarlo ancora...”

“Che diamine...” borbottò Caterina, scegliendo un vestito che non metteva da tantissimo tempo, scoprendo, non appena l'ebbe indosso, che non le stava più come una volta.

“In fondo l'abbiamo rattoppato già centinaia di volte...” provò a blandirla la domestica: “Sia io, sia vostra figlia, sia chi mi ha preceduta... E poi, mia signora, è tutto rovinato anche qui...” siccome la serva stava indicando i punti in cui la stoffa si era graffiata proprio quel giorno, durante il brevissimo, ma intenso incontro con Pirovano, la Sforza si sentì arrossire, ricordando la ruvidità della parete contro la pelle e non solo contro il suo abito di raso tané.

“Quindi dite che è irrecuperabile?” chiese, in un ultimo slancio di speranza, la Leonessa.

Argentina stava ancora passando le dita sulle ultime sfilacciature e la sua espressione non lasciava presagire nulla di buono: “Io non saprei più come sistemarlo. Fossi in voi, me ne farei fare uno nuovo... Dopo tanti anni, non sarebbe un dramma, se vi faceste confezionare un abito.”

“Non è il momento di spender soldi.” ribatté aspra la Contessa, togliendosi intanto ciò che si era messa addosso e cominciando a cercare qualcosa che le andasse ancora bene.

Mentre la domestica ancora propugnava la sua causa, spiegando come far preparare un altro abito da lavoro non avrebbe comportato nessuna spesa particolare, la Sforza si era messa a ragionare molto in fretta. Non stava pensando solo a quell'incidente di percorso in sé e per sé, ma a un modo per sfruttarlo a suo favore. Forse era stato un segno, e non doveva ignorarlo.

“Siamo in guerra.” disse a un certo punto, andando a sedersi sul letto e incrociando le braccia sul petto, coperto appena dalla leggerissima sottoveste: “E io sono a capo del mio esercito. Così come non è tempo di collane e bracciali d'oro, così non è tempo di sottane e scollature. Se voglio essere un comandante fino in fondo, è tempo che cominci a vestirmi come tale.”

“Che intendete dire?” l'allarme di Argentina era palpabile e la Tigre lo trovò quasi ridicolo.

Quella stessa donna che, intuendo le sue intenzioni, stava impallidendo, aveva reagito in modo molto meno scandalizzato nel saperla capace di fare a pezzi un uomo per ucciderlo in modo lento e doloroso.

“Che devi cercarmi delle brache da uomo. E una camicia che mi stia. Se mi trovi anche un giubbone, dato che comincia a far freddo e piove, te ne sarò altrettanto grata.” spiegò la Leonessa, che aveva inizialmente pensato di usare gli abiti di Giovanni, rendendosi subito conto che le sarebbero stati tutti tanto stretti da non riuscire nemmeno a provarli.

“Brache da uomo, mia signora..?” chiese titubante Argentina, come se fosse certissima di aver capito male.

“Sì, da uomo, certo.” rispose Caterina, non trattenendo un sorriso nel ricordare come in un lampo quella stessa domanda, posta dal comandante dell'artiglieria, molti anni prima, quando era al campo degli Orsini e gli aveva fatto quella medesima richiesta in vista della sua prima vera discesa in campo aperto: “Esistono forse brache da donna?!”

La serva la fissò, stolida, senza capire se quella fosse una battuta o meno, e così la Contessa dovette ridestarla con qualche parola un po' sgrezza.

“Avanti – la incoraggiò alla fine, mentre la vedeva tornare in sé – cerca quello che ti ho chiesto e portamelo. In mezzo agli abiti che dismettono i nuovi soldati ce ne sarà qualcuno di adatto a me. Li voglio comodi, gli abiti, mi raccomando. Che non stringano.”

Non sapendo come fare per far desistere la sua signora, alla fine Argentina cedette. Lasciò la stanza, ancora molto perplessa, e ci mise qualche minuto, prima di riordinare le idee e andare a cercare gli abiti giusti.

“Ma a che vi servono?” chiese Bianca che, da un bel po', usava i vestiti del guardaroba comune della rocca per fare esercizio di rammendo e di cucito, e che, quindi, conosceva abbastanza bene il loro arsenale.

Quell'insieme caotico di brache, camice, giacconi e scarpe era il risultato di anni di cumulo. Le reclute che arrivavano a Ravaldino avevano diritto a vestiti in ordine e puliti e così, il più delle volte, venivano spogliati di ciò che si erano portati da casa, e riforniti di quel che serviva loro. I vestiti che venivano loro tolti venivano controllati, lavati e rammendati se necessario, fino a essere abbastanza rigenerati da passare ad altri soldati, o così malmessi da essere usati ad altri scopi.

“Vostra madre...” disse piano Argentina, guardando la figlia della Tigre di sottinsu: “Vuole vestirsi da uomo, perché, dice, che siamo in guerra e che quindi è giusto così.”

Le mani della Riario, che si stavano affaccendando per trovare un paio di brache più o meno della misura indicata dalla domestica, esitarono. I suoi profondi occhi blu scuro vibrarono. Ma fu solo un istante.

“Allora queste dovrebbero andare.” fece Bianca, scegliendo un paio di brache e porgendole alla serva: “E ora vi do anche una camicia che le stia...”

La donna fissava attonita la figlia della sua signora, stupendosi di come la ragazza avesse preso la notizia, quasi con leggerezza, come se quello non fosse un atto di sfida non tanto all'etichetta, ma alla morale cristiana e, di conseguenza, al papa stesso.

“Ma la Chiesa...” cominciò a dire Argentina, afferrando comunque ogni capo di vestiario che le veniva passato.

“La Chiesa ci ha dichiarato guerra.” ribatté la Riario, con un tono fermo che, come non mai, ricordava quello della madre: “È bene che anche noi facciamo altrettanto.”

La domestica, a quel punto, non si prese la libertà di dire altro e, sforzandosi di capire come quel gesto irrispettoso – e pericoloso, dato che alle donne era vietato e basta indossare abiti da uomo, specie se in pubblico – potesse avere un peso nella guerra che il papa aveva indetto contro di loro, prese quanto le era stato dato e tornò dalla sua signora.

 

Semiramide stava leggendo un libro davanti al camino. Si poteva dire che fosse la prima sera in cui era stato necessario accenderlo. Fuori pioveva a dirotto e un vento freddo spazzava tutta Firenze rendendo quell'acquazzone molto simile a una tempesta.

Era già abbastanza tardi e la donna aveva messo a dormire i figli da un bel po'. Il più difficile da convincere era stato Pierfrancesco, che, quel giorno, aveva ricevuto una lode particolare dal suo precettore e fremeva dalla voglia di riferirlo al padre.

Siccome, però, Lorenzo non si era visto a cena e nemmeno dopo, l'Appiani aveva convinto il dodicenne a rimandare ogni discorso al giorno dopo.

Pur non volendo dare a vedere la sua preoccupazione per quel ritardo del marito, la donna, sistemati i figli, aveva poi scelto un volume a caso nella biblioteca e si era messa ad aspettare. Non era tanto l'orario in sé a metterla in ansia, quanto la nottataccia di pioggia. Era abbastanza sicura che il Medici fosse stato trattenuto per motivi politici, o, al massimo, per complottare contro la cognata.

Non pensava nemmeno lontanamente che potesse essere con un'altra donna. Di tutti i crucci che Lorenzo le dava, almeno quello non c'era mai stato.

Semiramide voltò pagina con un sospiro. Con quel tempaccio c'era il rischio che venisse travolto da qualcuno a cavallo, o che scivolasse e si rompesse l'osso del collo. Poteva anche bagnarsi tanto da prendersi una polmonite. Insomma, ovunque fosse e qualsiasi cosa stesse facendo, la donna desiderava solo vederlo tornare a casa.

Ormai le parole che leggeva non avevano più alcun senso. Le frasi si rincorrevano sconnesse nella sua mente e il loro significato andava a perdersi nei suoi pensieri, che oscuravano tutto il resto.

Stava quasi per desistere e ritirarsi per la notte, quando sentì dei rumori appena fuori dal salottino.

Erano dei passi e poi – nel sentirla l'Appiani tirò un sospiro di sollievo così profondo da farle quasi mancare il fiato – la voce di Lorenzo borbottò qualcosa a uno dei servi.

L'uomo, poi, varcò la soglia. Aveva i capelli fradici di pioggia e le suole delle scarpe stavano macchiando di fango i tappeti, ma alla moglie non interessava. Ciò che contava era averlo lì sano e salvo.

Il Medici aveva lasciato il mantello al domestico, ma non sembrava intenzionato ad andare subito a cambiarsi.

Ancora gocciolante, senza guardare la sua donna, si andò a mettere nella poltrona accanto alla sua e protese le mani verso il camino. Semiramide fece finta di niente, sorpresa da quell'atteggiamento.

Lorenzo teneva gli occhi fissi al fuoco, apparentemente incurante delle gocce che dai morbidi ricci castani scivolavano sul suo volto. I suoi occhi tondi erano lontani e immobili, e le sue labbra imbronciate erano ancora più arcuate del solito. Tuttavia, non sembrava preoccupato o teso. Forse era solo stanco.

“Ho visto Sandro, questa mattina, uscendo da San Lorenzo...” fece l'Appiani, cercando di intraprendere un discorso che non fosse troppo impegnativo, ma che potesse indurre il marito a parlarle: “Mi è sembrato un po' più agitato del solito... Ho provato a nominargli la cappella del Vespucci, ma ha cominciato a farfugliare scuse e se n'è andato.”

Il Medici fece un mezzo sbuffo. Era dal 23 marzo che a Botticelli era stata commissionata quella cappella, per volere di Giorgio Antonio Vespucci, ma Sandro non aveva mai nemmeno preso in considerazione quel lavoro. Avrebbe dovuto affrescare l'intero ambiente con le storia di San Dionigi Aeropagita, ma nello stato mentale in cui ancora si trovava, era come se il pittore temesse di essere blasfemo anche nel rappresentare vicende sacre.

“L'ultima volta che mi ha scritto Amerigo – fece il Popolano, ricordando la lettera che il Vespucci gli aveva spedito a metà maggio, appena prima di imbarcarsi di nuovo alla volta del Nuovo Mondo al seguito di Alonso de Ojeda – mi ha pregato di convincere Sandro ad accontentare Giorgio... Ma non voglio immischiarmi in queste sciocchezze.”

La donna annuì, dandogli in parte ragione. Nella situazione drammatica in cui si trovavano, con la guerra che presto avrebbe potuto lambire anche Firenze, non era certo il caso di perdere tempo dietro una cappella da affrescare.

“Com'è andata oggi?” chiese l'Appiani, con cautela, quando vide il marito rintanarsi di nuovo nella propria mente.

Il marito, con una lentezza esasperante distolse lo sguardo dalle fiamme e lo puntò verso la sua donna: “Pier Soderini e Cosimo Pazzi hanno stipulato i capitoli con re Luigi, qualche giorno fa. Ne ho avuto conferma solo oggi.”

Quella era una notizia che Semiramide aspettava e temeva in egual misura: “Che cosa si è deciso?”

Lorenzo parve stranito da quella domanda. Anche se, da sempre, sua moglie era stata al corrente di tutto, appoggiandolo e consigliandolo quando necessario, negli ultimi tempi si erano allontanati così tanto che l'uomo aveva perso dimestichezza con la sua partecipazione tanto attiva ad affari che l'etichetta riservava solo agli uomini.

“Firenze si obbliga a difendere gli Stati francesi in Italia con quattrocento armigeri e trecento fanti, e in cambio la Francia difenderà Firenze con quattromila fanti e seicento lance contro chiunque dovesse attaccarci. E ci ridaranno Pisa e tutte le terre che Carlo VIII ci aveva tolto.” spiegò il Medici, passandosi una mano dalle dita tozze tra i capelli bagnati.

Cominciavano a dargli fastidio, gli abiti fradici, ma non aveva voglia di alzarsi. Era stata una giornata così caotica e difficile, che sarebbe stato pronto ad addormentarsi lì dov'era, davanti al chiarore del camino, con sua moglie accanto a lui che, una volta tanto, non lo guardava come fosse stato un mostro.

“Tutto qui?” chiese la donna, poco convinta: “Come mai la Francia accetta un patto tanto sbilanciato?”

“Perché Firenze darà loro cinquecento uomini e cinquantamila fiorini per andare alla conquista di Napoli.” vuotò il sacco il Popolano, vedendo come l'espressione sul volto della moglie cambiava di netto: “E non ci opporremo in alcun modo alla conquista della Romagna per mano del Borja, anzi...”

“Anzi..?” lo incalzò lei, iniziando a sudare freddo: “Anzi isoleremo la Sforza. Non le risponderemo più. Aumenteremo i dazi nei suoi confronti e non le concederemo alcuna condotta per il figlio.”

“Ma è cittadina di Firenze. Aveva un patto con la Signor...” cominciò a dire Semiramide, ma il marito la interruppe bruscamente.

Alzandosi dalla poltrona e puntandola contro l'indice, Lorenzo le intimò: “Devi smetterla di prendere le sue parti! Quella donna è stata la nostra rovina! E ora noi saremo la sua!”

Anche l'Appiani si alzò e, fronteggiando il Medici, ribatté: “Fai quello che vuoi. Vendi pure Firenze al re di Francia solo per avere la tua rivincita. Prega solo che non se ne accorga nessuno.”

L'uomo aprì di nuovo la bocca, per aggiungere qualcosa, ma Semiramide si era già allontanata, lasciando il libro sulla poltrona e raggiungendo la porta.

Rimasto solo, Lorenzo si appoggiò alla cornice del camino e si premette una mano sulla fronte. Si sentiva scoppiare la testa per quanto gli faceva male. Si allargò un po' le lattughine della camicia e diede un colpo di tosse. Doveva andarsi a cambiare, o si sarebbe ammalato.

Respirando ancora a fatica, per il nervosismo e la rabbia, l'uomo lasciò il salottino e andò verso la propria camera. Passando davanti a quella della moglie fu tentato di bussare e cercare di aggiustare almeno in parte quello che lui per primo aveva cominciato a rompere. Però alla fine gliene mancò il coraggio.

Quando si trovò finalmente asciutto e a letto, con lo stomaco che borbottava un po' per via della cena saltata, si chiese se Semiramide sarebbe comunque andata a cercarlo quella notte. Solo arrivata l'alba si arrese all'evidenza: sua moglie non era arrivata e, forse, dopo quello che era successo quella sera, non l'avrebbe fatto più.

 

 
 
   
 
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