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Autore: Roscoe24    14/09/2019    10 recensioni
"Magnus si chiese se il fatto che nel giro di nemmeno un’ora, quella fosse la seconda volta che rimanevano incantati a fissarsi, potesse avere un significato. Forse poteva sperare. Ma in cosa?"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il Ringraziamento era sempre stata una festa importante, per Magnus. Quando era un bambino, Madelaine passava la giornata a cucinare. Si alzava la mattina presto e cominciava a preparare il ripieno per il tacchino, l’insalata di patate e le frittelle di grano, faceva rosolare piccoli spiedini di verdure grigliate e quando tutto era pronto, metteva il tacchino in forno e cominciava a preparare un dolce alla zucca.
Magnus aveva un bellissimo ricordo dei suoi Ringraziamenti, soprattutto perché coinvolgevano anche Clary e la sua famiglia. Magnus ancora ricorda i muffin alla mela che portava sempre Jocelyn – e il fatto che non appena metteva piede in casa sua, dopo aver salutato tutti, si dirigeva automaticamente in cucina per aiutare Madelaine.
Magnus era convinto che Jocelyn fosse la sorella che sua madre non aveva mai avuto. Era sempre stata sola, avendo perso i genitori quando era molto giovane, di conseguenza, quando aveva incontrato Asmodeus, a diciassette anni, lui doveva sembrarle quell’ancora di salvezza in grado di liberarla dalla solitudine. La sua giovane età e l’ingenuità che viene con essa, l’aveva spinta a fidarsi di un uomo che sapeva come manipolarla. Per questo, forse, Madelaine si era accorta di che stoffa fosse fatta Camille prima che Magnus se ne rendesse conto: la sua ex fidanzata non era poi tanto diversa da suo padre. Non era manesca, o violenta, ma era una subdola manipolatrice, che sapeva esattamente cosa dire e come dirlo per fare in modo che Magnus la assecondasse sempre, anche quando lui, inizialmente, era contrario.
Dopo anni passati con Asmodeus, Madelaine sapeva riconoscere una personalità simile. Magnus, invece… lui era solo un bambino la cui madre aveva cercato il più possibile di fargli da scudo contro le angherie del padre, di conseguenza non si era reso pienamente conto di che razza di uomo fosse. E questo l’aveva spinto a non capire nemmeno che tipo di donna fosse Camille. Aveva dovuto batterci di naso per conoscerla. Aveva dovuto finire con il cuore fatto a pezzi per capire che Madelaine aveva pienamente ragione a metterlo in guardia.
Sua madre, quindi, era sempre stata scettica riguardo a Camille e al suo modo di essere; Alexander, invece, sembrava le piacesse.
Non poteva darle torto, dopotutto piaceva anche a lui. Moltissimo.
Magnus sorrise, pensando ad Alec e al fatto che dopo il suo ritorno sarebbero usciti insieme. Un appuntamento vero. Magnus era emozionato al solo pensiero. Avrebbe organizzato qualcosa di speciale, perché Alexander era speciale. Si sentiva quasi come un ragazzino che scopre per la prima volta cosa si prova ad avere una cotta per qualcuno. Ogni volta che Magnus pensava ad Alec, il suo stomaco faceva una capriola ed il suo cuore accelerava in una quantità di battiti che non riusciva nemmeno a contare.
Per questo voleva passare più tempo possibile con lui, prima che partisse. E proprio per questo, aveva deciso di organizzare il Ringraziamento a casa sua. Non era stato facile convincere tutti, soprattutto perché Maryse Lightwood aveva già organizzato una cena a casa propria, ma con le giuste parole i suoi figli erano riusciti a convincerla.
Il loft di Magnus sarebbe stato pieno di persone a cui voleva bene. Sarebbe stato un Ringraziamento in pieno stile Madelaine Bane: con tante persone, tanto cibo, un sacco di chiacchiere e, soprattutto, tranquillità e armonia. Magnus ne avrebbe approfittato anche per informare gli altri del suo temporaneo soggiorno a LA.
Per ora a saperlo erano in tre, se si escludeva lui stesso: Alec, sua madre ed Erin. La piccola all’inizio non l’aveva presa molto bene, ma con l’aiuto di Madelaine e Alexander erano riusciti a farla ragionare.
“Non voglio stare senza te! Perché vai via?” Erin aveva alzato la vocetta, mentre i suoi occhi a mandorla si facevano lucidi di lacrime. Alec aveva guardato Magnus, preoccupato che una reazione simile portasse a galla le sue paure. Temeva che la figlia si sentisse abbandonata e infatti, quando le sue iridi cervone si posarono sul viso di Magnus, notò i suoi bei lineamenti tirati dalla preoccupazione. Alec ci avrebbe scommesso la testa: in quell’istante, Magnus Bane si sentiva l’uomo più egoista della Terra. Ma siccome non era così, decise di intervenire. E non gli importava se nel suo ruolo non rientravano comportamenti simili – erano ancora solo due amici, dopotutto. Ma Alec sapeva bene che non era così. Ad occhi esterni, e sotto un punto di vista prettamente pratico, non erano ancora usciti insieme, né avevano  varcato la soglia che separa l’amicizia da quel ‘qualcosa di più’, ma lui sapeva bene cosa provava per Magnus e di certo non era solo amicizia. Di conseguenza, decise di comportarsi come avrebbe fatto se fossero ufficialmente usciti insieme. Aspettò inizialmente che Magnus e Madelaine gestissero la cosa – perché erano una famiglia e fino ad ora avevano vissuto secondo le loro regole – ma quando Erin si era messa a singhiozzare e gli era corsa in contro, di certo Alec non si era tirato indietro, o aveva fatto finta di niente. Si era chinato alla sua altezza e aveva abbracciato la bambina, che aveva nascosto il viso nel suo petto, e le aveva gentilmente accarezzato la schiena, nel tentativo di calmarla.
“Dillo anche tu a papà, Alec! Digli che non deve partire!”
Fare ragionare una bambina di quattro anni non è semplice, soprattutto se è coinvolta l’assenza momentanea – presente o futura – di un genitore.
Alec, piegato sulle ginocchia, aveva alzato gli occhi su Magnus, che aveva ancora quell’espressione triste in viso. Avrebbe fatto di tutto per far si che quell’espressione venisse cancellata dai suoi lineamenti.
“So che papà ti mancherà…” Cominciò, scostandola con delicatezza da sé per fare in modo di guardarla in viso. Erin si strofinò un occhietto ancora umido, mentre lacrime ormai scese le rigavano le guance. Alec gliele asciugò, piano. “Mancherà anche a me…” Sussurrò come se fosse un segreto, ma allo stesso tempo fosse qualcosa che sentiva il bisogno di dire – se non altro per farlo sapere a Magnus. Per questo spostò lo sguardo su di lui per una frazione di secondo, dopo quelle parole, prima di riportarlo sulla bambina e continuare. “Ma tornerà. Andrà via solo per qualche settimana… sai cosa andrà a fare?”
La bambina negò con il capo. Il discorso di Magnus si era fermato poco dopo che le aveva comunicato che doveva andare via per qualche settimana. Non aveva fatto in tempo a spiegarle cosa andava a fare perché Erin si era messa a piangere e, di conseguenza, Magnus aveva subito provato a calmarla – accantonando, così, momentaneamente il discorso.
“Andrà a ballare in tivù, come i ballerini famosi.”
Erin accennò un sorriso, sebbene la sua vocina suonasse ancora rotta dal pianto. “Sarà il più bravo di tutti, secondo me.”
Alec sorrise. “Anche secondo me.”
La bambina si avvicinò a lui per riuscire ad abbracciarlo di nuovo. Le sue piccole braccia gli circondarono il collo. “Lo guarderai con me, quando sarà alla tivù?”
Alec sapeva che quella sarebbe sempre stata una sua scelta. Non spettava a nessun altro decidere, se non a lui. Per questo non alzò nemmeno lo sguardo su Magnus, prima di rispondere, perché non era il momento di chiedergli il permesso. Quello era il momento per dimostrargli che ci sarebbe sempre stato, indipendentemente da tutto, e che avrebbe sempre fatto tutto ciò che era nelle sue piene capacità per aiutarlo. Alec voleva dimostrargli che sarebbe stato presente sia per lui che per Erin, perché sapeva quanto fosse importante per Magnus che la figlia facesse parte di qualsiasi equazione. Non poteva esserci nessun Alec + Magnus, se il primo non accettava Erin. E dal momento che Alec aveva già accettato la bambina e che si era già affezionato a lei, voleva che Magnus lo sapesse.
“Ma certo. Verrò a trovare te e la nonna e guarderemo papà ballare, insieme.”
Alec si alzò, tornando in posizione eretta e prendendo Erin in braccio. La piccola si sistemò, circondandogli il busto con le gambine e il collo con le braccia.
“Dov’è la scimmietta, Alec?” domandò Erin, più serena.
Alec sorrise, mentre si avvicinava a Magnus e a sua madre con la bambina ancora in braccio. “È qui,” rispose, circondandola con un braccio, mentre usava l’altro per farle il solletico.  
“Grazie.” Gli disse Magnus, non appena furono abbastanza vicini. Allungò una mano per accarezzargli il viso e Alec, istintivamente, sorrise. I motivi di quel sorriso erano essenzialmente due: il contatto con Magnus e l’espressione che adesso abitava il suo viso. Non c’era più tristezza, o preoccupazione, o angoscia. Magnus sembrava più sereno e Alec non poteva esserne che felice. La mano di Magnus, successivamente, si spostò dal viso di Alec alla schiena della figlia. Erin non appena riconobbe il tocco del padre si voltò verso di lui.
“Sei arrabbiato, papà?”
“No, amore, non sono arrabbiato.”
Erin, allora, si staccò da Alec per buttarsi verso il padre. Lo strinse in un abbraccio che Magnus ricambiò. “Tu sei arrabbiata?” Le domandò l’uomo, un velo di preoccupazione nella voce.
La bambina negò con il capo. “Io e Alec pensiamo che sarai il più bravo.”
Magnus sorrise, sereno e decisamente più tranquillo. “Ho sentito. E ho sentito anche che verrà a trovarti.”
Erin annuì e poi si voltò verso Madelaine. “Può, nonna?”
La donna si avvicinò al figlio e alla nipote, baciando quest’ultima su una guancia. “Ma certo, mio tesoro. Alec può venire a trovarci ogni volta che vuole.”
Madelaine guardò il diretto interessato dritto negli occhi. Alec sotto quello sguardo arrossì inevitabilmente, se non altro perché gli venne in mente che aveva detto, solo qualche istante prima, che anche lui avrebbe sentito la mancanza di Magnus proprio davanti a sua madre. Come se una frase simile non fosse una dichiarazione di per sé. Madelaine, però, non sembrava infastidita né dal comportamento che aveva avuto Alec, né dalle sue parole.
“Grazie.” Le rispose e la donna gli fece un cenno d’assenso con il capo.

Alexander si era comportato in un modo così dolce che aveva scaldato il cuore di Magnus. Ma l’uomo era sicuro che quel gesto avesse colpito anche sua madre perché quella sera, dopo che aveva riaccompagnato Alec a casa e lui ed Erin erano tornati a casa loro, Madelaine l’aveva chiamato, dicendo che Alec le piaceva.
Era stata diretta e sincera – come sempre – e non si era fatta nessuna remora a dire che le aveva fatto una buona impressione. È bravo con i bambini, Erin si fida di lui e ti guarda come se fossi tu la ragione per cui l’universo esiste.
Queste erano state le parole di Madelaine, al telefono, e Magnus… Magnus inevitabilmente si era trovato a sorridere – e forse, dopo anni, persino ad arrossire. Non capitava mai, ma Alec aveva un potere particolare su di lui.
Magnus sorrise a quel pensiero. Era passata una settimana da quella sera e lui adesso si ritrovava a sistemare la sua casa per il Ringraziamento, in attesa che i suoi ospiti arrivassero. Erano riusciti persino a convincere Simon, che nonostante fosse ebreo, non era stato in grado di resistere a del buon cibo. Niente tacchino, aveva detto, perché era vegetariano, ma Clary gli aveva promesso una quantità spropositata di dolcetti alla mela e Magnus un’infinità di spiedini di verdura a cui il ragazzo non aveva saputo dire di no.
Era stato un accordo strano, quello che aveva fatto sì che tutti accettassero l’invito di Magnus a solo pochi giorni dal Ringraziamento: chiunque avrebbe portato qualcosa da mangiare, onde evitare che tutto il menu gravasse sul padrone di casa. Di conseguenza, avevano stillato una lista di primi, secondi e dolci, che la combriccola aveva fatto in modo di dividersi.  Magnus aveva insistito per preparare il tacchino – Madelaine l’avrebbe aiutato – mentre gli altri avevano insistito affinché Isabelle pensasse solo alle bevande.
A Magnus veniva ancora da ridere al solo pensiero del tono risentito del messaggio vocale che la ragazza aveva invitato nella chat di gruppo creata appositamente per l’occasione.
Prenderò da bere. Ma consideratemi offesa, brutti traditori!!
Da lì poi il discorso era degenerato, soprattutto perché Jace aveva iniziato a fare una serie di battute solo per stuzzicare la sorella e il suo lato permaloso.
Magnus stava ancora sorridendo, quando i suoi pensieri vennero interrotti dal suono del campanello. Smise di sbucciare le patate per il purè e si pulì le mani sopra al grembiule che stava indossando e che serviva a proteggere i suoi pantaloni. Vista l’ora, doveva sicuramente essere sua madre, che veniva ad aiutarlo per preparare il tacchino.
Uscì dalla cucina, diede un’occhiata ad Erin in salotto – ancora seduta sul divano a guardare un cartone animato – e si diresse verso la porta d’ingresso. Aprì senza nemmeno guardare chi fosse dallo spioncino, ormai convinto che avrebbe trovato Madelaine al di là della porta. Si sbagliava. Perché chi aveva suonato non poteva essere più diverso dalla donna che l’aveva concepito. Primo: era un uomo; secondo: era molto più alto di lei; terzo: era Alexander – bellissimo, come sempre, ovviamente. Il giorno in cui Magnus avrebbe smesso di trovarlo tale, probabilmente avrebbero dovuto internarlo.
Indossava un maglione verde scuro di lana intrecciata, la sua solita giacca di pelle, pantaloni neri e anfibi.
Magnus si prese più tempo del necessario per studiarlo e osservarlo, quasi non avesse voluto perdersi nessun dettaglio. C’era qualcosa nello stile di Alec che lo attirava particolarmente. Per quanto fosse semplice e decisamente poco colorato, a Magnus piaceva… se non altro perché metteva in risalto la mascolinità di Alec. C’era qualcosa nel modo in cui tendeva ad usare sempre il nero, o colori scuri, che lo rendevano ombroso e affascinante. Tall, Dark and Handsome era un detto che sicuramente era stato inventato dopo che Dio aveva messo al mondo Alexander Gideon Lightwood, le sue lunghissime gambe e le sue ampie spalle.
“Ciao, tesoro.” Gli sorrise, dopo la sua attenta analisi. Fosse stato per lui, avrebbe continuato a guardarlo per tutta la giornata. Improvvisamente, l’idea di chiamare tutti e annullare la cena per restare a fissare ogni singolo dettaglio di Alec per tutta la sera non gli sembrava poi tanto una pazzia, quanto più un suo diritto. A breve, avrebbe passato tre settimane lontano da lui, il minimo che poteva fare era guardarlo finché ancora poteva.
“Ciao, Magnus.” Ricambiò quel sorriso e Magnus sentì le gambe diventare di gelatina. Quando sorrideva era ancora più bello. Il suo viso si apriva, assecondando i movimenti della sua bocca, quasi ogni centimetro del suo volto avesse voluto favorire lo sbocciare di quel sorriso, come se i suoi muscoli facciali fossero consapevoli dell’opera d’arte che sarebbe venuta fuori e volessero partecipare al meglio per rendere quello spettacolo meraviglioso. Ed era così, in effetti. Ogni volta che Alexander sorrideva a Magnus mancava il fiato, proprio come succede davanti ai miracoli.  
“Sono un po’ in anticipo…” si scusò, “Spero non ti dispiaccia.”
“Assolutamente no, fagiolino.” Magnus si fece da parte per far entrare Alec, che dal canto suo alzò gli occhi al cielo per quel soprannome.
“Magnus,” Disse, in tono grave, “Fagiolino? Davvero? Avevamo già detto di non usarlo.”
“Hai ragione. Preferisci patatino?”
Alec aggrottò lo sopracciglia. “NO!” Esclamò, facendo ridere Magnus.
“D’accordo,” Gli appoggiò una mano sul petto – senza un apparente motivo che non fosse, ovviamente, il fatto che volesse farlo – e gli diede una leggera pacca. “Niente verdura.”
“Grazie.”
“Prego, cioccolatino.” Magnus spostò la mano dal petto al suo viso, per accarezzargli una guancia. “Ora, vuoi toglierti la giacca e venire di là con me?”
Alec annuì – evitando di ribattere su quel nuovo soprannome, perché se doveva scegliere preferiva essere associato ad un pezzo di cioccolata piuttosto che ad una patata – e si tolse la giacca.
Solo quando appoggiò due sacchetti a terra, Magnus si rese conto che aveva qualcosa in mano.
“Cosa sono quelli?”
Alec si sfilò la giacca e l’appoggiò all’attaccapanni, poi si chinò per sollevare nuovamente i due sacchetti che aveva poggiato a terra. “Qui ci sono i bignè per la cena di stasera,” sollevò uno dei sacchetti con la mano sinistra, “E qui c’è una cosa per Erin,” sollevò l’altro sacchetto con la mano destra.
“Per Erin?”
Alec annuì. “Un regalino per il Ringraziamento. È una specie di tradizione… compro sempre qualcosa a Diana per il Ringraziamento e quest’anno ho pensato di prendere la stessa cosa anche ad Erin…” Alec titubò un attimo, quasi come se il pensiero che Magnus potesse non gradire quel gesto gli balenasse solo ora nella mente. “Se ti da fastidio posso non darglielo…” Tentennò, insicuro.
Magnus gli prese il viso tra le mani e lo guardò, ammorbidendosi davanti a tanta dolcezza. “Non mi da fastidio. Mi stupisce il fatto che hai pensato a lei… nessuno l’aveva mai fatto…”
Alec sorrise. “Mi hai scoperto. In realtà lo faccio solo per entrare nelle tue grazie.”
Magnus spostò una delle mani dal viso di Alec per dargli uno schiaffetto sulla spalla. “Scemo!”
Dopo una breve risata, Alec si fece serio. Piantò i suoi occhi in quelli di Magnus, quasi avesse voluto lasciarli nei suoi per sempre. “Lei è importante per te, com’è giusto che sia. Voglio solo che non mi veda come una minaccia, in futuro.”
“Con futuro intendi quando usciremo insieme?”
Alec arrossì. “Sì. Quando tu, super star, tornerai tra i comuni mortali e uscirai con me.”
Magnus sorrise al solo pensiero. Non vedeva davvero l’ora che quel giorno arrivasse. E ora, con le parole di Alec nelle orecchie, più che mai. Nessuno aveva mai pensato anche ad Erin. Le persone con cui era uscito vedevano solo Magnus, senza prendere davvero in considerazione il suo passato, o la sua storia, o il fatto che avesse una figlia. Alexander era diverso: lui vedeva Magnus, ma anche ciò che era stato, vedeva i passi che aveva compiuto per essere l’uomo che era diventato e, soprattutto, vedeva Erin – la vedeva come la piccola persona reale che era e come la priorità di Magnus. Non pretendeva di mettersi tra di loro, né che Magnus smettesse di darle attenzioni per rivolgerle tutte a lui. Alec si era inserito nella vita di Magnus in punta di piedi, senza avanzare pretese e senza cambiare nulla della sua routine. Per questo Erin gli voleva bene, perché Alec aveva sempre rispettato sia lei che Magnus.
“Erin ti adora, Alexander. Non ti vedrà mai come una minaccia, o come qualcuno che vuole portarle via il suo papà.”
“Non vorrei mai una cosa simile.”
“Lo so. E lo sa anche lei.”
Alec sorrise, tranquillo. Sentirsi dire certe cose era davvero un sollievo. “Posso andare a darle il suo regalo, quindi?”
“Puoi.” Magnus ridacchiò, il cuore che si allargava di almeno una taglia. “Finirai davvero per viziarla!”
“Forse, chi lo sa!” Alec fece spallucce e si inoltrò in casa. E mentre raggiungeva il salotto, Magnus notò con quanta naturalezza ormai Alec si muovesse in casa sua. Per questo motivo, il suo cuore accelerò – o forse accelerò al pensiero di Alec che si impegna per farsi volere bene da Erin, o del fatto che avesse parlato del loro primo appuntamento come se lo aspettasse con la stessa euforia con la quale lo aspettava Magnus. O forse, il suo cuore accelerò perché semplicemente la presenza di Alec gli faceva quell’effetto. Bastava uno sguardo, un sorriso, e Magnus si dimenticava di qualsiasi cosa non fosse Alexander.
Forse, dopo anni, Magnus Bane si stava innamorando di nuovo.


Erin era una bambina molto attratta dalle storie, come tutte le bambine. In particolare, amava i draghi e le sirene – per questo, aveva adorato il regalo di Alec: una coperta a forma di coda di sirena, viola e con i ricami rosa.
Quando Alec era comparso in salotto, Erin si era immediatamente alzata dal divano per andargli in contro. Quando, poi, lui le aveva detto che aveva un regalo per lei, il viso della bambina si era illuminato ancora di più. A quel punto, Alec le aveva passato il sacchetto ed Erin ci aveva messo le manine dentro, curiosa come non mai di scoprire cosa fosse quel regalo. Quando aveva visto la coda da sirena, i suoi occhietti si erano illuminati e poi si era lasciata andare ad un gridolino euforico.
“È bellissima, Alec!” Erin saltellò per tutto il salotto stringendo la sua nuova copertina. Alec la seguì con lo sguardo, mentre un grosso sorriso albergava sul suo viso.
“Sono felice ti piaccia, monyet.”
Ecco quello fu il momento che contribuì a far sciogliere Magnus. Non solo Alec aveva fatto un regalo a sua figlia, ma stava pure imparando l’indonesiano? Cos’era, un altro modo che aveva l’universo per dirgli che Alec, in pratica, era perfetto?
“Cosa hai detto?” chiese, stupito.
Alec a quel punto si voltò verso di lui, le guance rosse e l’espressione titubante in viso. “L’ho detto male? O non dovevo dirlo?”
Magnus si avvicinò a lui, mettendosi al suo fianco. Erano entrambi in piedi e rivolti verso Erin, che adesso era tornata sul divano e stava mettendo le gambine dentro alla sua coperta-coda.
“Nessuna delle due, tesoro. L’hai detto benissimo, solo che…” Magnus spostò lo sguardo dalla figlia e lo alzò su di lui, “Continui a sorprendermi, Alexander.”
Alec accennò un sorriso storto, alzando solo un angolo della bocca. “In positivo, spero.”
Magnus annuì, continuando a guardare Alec come se fosse la galassia in cui fluttua il pianeta e tutto ciò che esiste al mondo dipendesse da lui, o fosse stato direttamente creato da lui. Quel pensiero che aveva avuto poco prima si fece ancora più strada in lui e, soprattutto, non lo spaventò. Magnus si stava innamorando dell’uomo che aveva vicino e la cosa non lo terrorizzava. Non provava più l’impulso di nascondersi dietro a una qualche maschera che serviva a non mostrare il suo cuore al primo, o alla prima, che gli capitava. Alexander era diverso da tutti, con lui non servivano maschere perché riusciva a vedere Magnus esattamente per quello che era. E al ballerino questa cosa piaceva, lo faceva sentire bene come non gli capitava da parecchio tempo.
Terima kasih atas hadiahnya, Alec!”
La voce di Erin distrasse Magnus dai suoi pensieri. La bambina aveva parlato dal divano sul quale si era riaccomodata, rimanendo ben al caldo dentro alla sua nuova coperta-coda.
L’espressione confusa di Alec, tuttavia, gli fece capire che non aveva capito una sola parola di ciò che aveva detto Erin.
“Ha detto: grazie per il regalo, Alec.” Tradusse Magnus e Alec annuì.
“Prego, Erin!” rispose, rivolto alla bambina, che sorrise e si rimise a guardare la televisione. Dopo qualche istante, Alec si rivolse di nuovo a Magnus. “La mia conoscenza dell’indonesiano si riduce a pochissime parole: ho cercato bintang e sayang perché spesso ci chiami Erin; ibu e anakku perché ho sentito tu e tua madre l’altro giorno ed ero curioso di sapere cosa significassero tutte queste parole.”
“E hai cercato come si dice scimmietta perché chiami Erin così.”
Alec annuì.
Altra cosa che nessuno aveva mai fatto per Magnus: cercare di imparare la sua lingua d’origine. Era importante per lui mantenere le sue radici vive, così nello stesso modo in cui sua madre aveva insegnato l’indonesiano a lui, lui l’aveva insegnato a sua figlia.  Ma nessuno al di fuori di loro tre si era mai interessato alla sua lingua madre. Alexander sì. E Magnus inevitabilmente si trovò a sorridere.  
“Sei stato dolcissimo, tesoro, ma potevi chiedere. Ti avrei detto i significati di quelle parole.”
“Ma, se l’avessi fatto, adesso non ti avrei sorpreso.”
“Volevi sorprendermi?”
“Volevo fare qualcosa di carino per te. Ci sono riuscito?”
Magnus annuì, sentendo il cuore che si gonfiava per l’ennesima volta nel giro di pochissimo tempo. “Sì.”
Alec sorrise, felice. “Mi insegnerai la tua lingua, Magnus?”
“Certo, cioccolatino.” Gli accarezzò una guancia e Alec inclinò il capo verso il palmo della sua mano. “Ti va di aiutarmi a preparare la cena?” domandò Magnus, perché se fossero stati ancora per qualche istante in silenzio era certo che avrebbe finito per baciarlo.
Alec annuì. “Sono qui per questo, no?”
Magnus ridacchiò e gli fece cenno di andare verso la cucina. Dopo un’ultima occhiata ad Erin, che muoveva le gambine per far muovere di conseguenza la sua coda, seguì Alec.



I suoi ospiti arrivarono uno dopo l’altro e nel giro di poco tempo, il loft si riempì di persone. Voci che andavano a mescolarsi tra di loro echeggiavano tra le pareti, trasformandosi in risate o in gridolini nel caso si trattasse di Erin e di Diana, che correvano euforiche per casa. Più di una volta Clary aveva intimato alla figlia di non correre, ma Magnus le aveva detto di lasciarle stare. Si stavano divertendo e se per una volta facevano le scalmanate non succedeva nulla.
Magnus, dalla cucina, riusciva distintamente a riconoscere chi stesse parlando e chi no. Sentiva Simon discutere con Jace su quale squadra di basket fosse la migliore, o Isabelle, Clary e Maia organizzarsi per trovare il giorno perfetto per riuscire ad andare da un fioraio per il matrimonio; sentì chiaramente la voce di sua madre che chiedeva un consiglio a Maryse riguardante un libro da leggere – Madelaine sapeva che la donna era la proprietaria di una libreria e che si teneva sempre aggiornata sui libri usciti di recente, quindi aveva pensato che nessuno meglio di lei sarebbe stato in grado di consigliarle cosa leggere nel suo tempo libero.
Era certo che tutto questo gli sarebbe mancato, nel suo soggiorno lontano da NY. Avrebbe sentito nostalgia di casa, di quelle persone che adesso erano nel suo salotto ed erano entrate a far parte della sua famiglia. L’idea di partire lo elettrizzava perché avrebbe fatto qualcosa che amava fare, ma anche l’idea di tornare era piacevole. Magnus era un uomo diverso, adesso… non bramava più le attenzioni del mondo intero, bramava solo quelle delle persone che erano importanti per lui.
Non era sempre stato così, però, e di questo Magnus ne era pienamente consapevole.
Rientrò nella sua stanza d’hotel a Parigi. La serata era andata alla grande e lo spettacolo era piaciuto a tutti, tanto che ogni singola persona dentro al teatro si era alzata in piedi per applaudire. Magnus aveva il cuore che traboccava di gioia e di entusiasmo. Stava vivendo il suo sogno – anzi, poteva quasi dire con esattezza che la realtà che adesso si trovava a vivere aveva superato ogni suo sogno, ogni sua aspettativa. E la cosa migliore era che stava vivendo tutto con lei, Camille. Si erano incontrati tre anni prima, durante il suo primo giorno all’Accademia. Era così nervoso, ma lei con un solo sorriso era riuscita a far sciogliere tutta la sua tensione.
Era bellissima, la sua Camille. Aveva i capelli biondi, lunghi e ondulati, come la più preziosa cascata d’oro. I suoi occhi erano due zaffiri rari e ogni volta che si posavano su Magnus lui sentiva il respiro venirgli meno.
La amava così tanto. Era certo che avrebbero passato la loro vita insieme. Si sarebbero sposati, un giorno, e avrebbero avuto una famiglia. Contava solo lei, per Magnus. Le gravitava attorno come un satellite. Lei si muoveva in una stanza e Magnus, automaticamente, sentiva l’impulso di seguirla – indipendentemente da quello che stava facendo, interrompeva qualsiasi cosa per andarle dietro. Perché se lei non era in quella stanza, nulla contava e tutto perdeva d’importanza.
“È stato elettrizzante, non è vero?” le chiese, quando anche lei entrò nella camera che condividevano e si chiuse la porta alle spalle. Camille gli si avvicinò, circondandogli il collo con le braccia. Avvicinò il naso al suo, sfiorandogli la punta prima di posare le sue labbra su quelle di Magnus.
“Lo è stato, amore mio. E sai cosa c’è di ancora più elettrizzante? Le feste. Ne hanno organizzata una solo per noi della compagnia, ci saranno esponenti di ogni giornale francese! Dobbiamo andarci, mio dolce tesoro. Immagina la pubblicità!”
Magnus sospirò. “Dobbiamo proprio? Non possiamo stare tranquilli io e te, qui?”
Camille sciolse l’abbraccio, con una freddezza tale che avrebbe congelato il sole. “Mi vuoi infelice, Magnus? Vuoi che io sia triste? O magari vuoi tenermi lontana dagli occhi di tutti perché sei geloso? Non vuoi condividermi?”
“No, non è questo, è che io…”
“Tu, cosa? Vuoi diventare possessivo come tuo padre? Hai i suoi geni, dopotutto… Ma ricordati che il comportamento di tuo padre ha fatto fuggire tua madre. Vuoi che fugga anche io?”
Era una cosa che Magnus non avrebbe mai sopportato. Perdere Camille, vivere senza di lei. Voleva dimostrarle che lui era diverso da suo padre, che mai sarebbe stato come Asmodeus e che mai,
mai, l’avrebbe costretta a sentirsi in trappola nello stesso modo in cui si era sentita sua madre.
“Andremo a questa festa, se ti rende felice.”
Camille emise un gridolino euforico e la freddezza di poco prima scomparve. Era una donna particolare, questo Magnus lo sapeva. Forse era un tantino volubile, ma ne valeva la pena. Ogni suo sbalzo d’umore negativo era sopportabile perché quando Camille era di buon umore lo faceva stare bene.
Camille lo baciò di slancio. “E poi immagina, amore mio, i fotografi, i giornalisti… tutti che parlano di noi! Non vuoi che parlino del nostro talento?”
Magnus annuì. Voleva che parlassero di lui. La fama è una signora affascinante che sussurra parole dolci e che riesce a far pendere chiunque dalle proprie labbra. La fama riesce a donare quella luce che tutti agognano, ti fa sentire speciale, quasi diverso dagli altri, quasi dipendessi da ciò che pensano gli altri – e più parlano di te, più la tua figura diventa grande e impossibile da non notare.
Magnus voleva essere famoso. E mai lo sarebbe diventato se avesse passato le sue notti rinchiuso in una camera d’hotel.
“Andiamo,” Disse quindi. “Facciamo parlare di noi.”

All’epoca, Magnus aveva ventiquattro anni. Non era più un bambino, certo, ma si portava ancora dietro l’ingenuità della giovane età, dove tutto ciò che luccica sembra necessariamente oro. Niente poteva essere più lontano da questa convinzione – questo Magnus l’aveva capito maturando, vivendo la sua vita e facendo determinate esperienze. Non aveva mai visto quanto Camille lo manipolasse, pensava solo che avesse un carattere particolare. Non si era mai sbagliato così tanto su qualcuno come aveva fatto con lei. Ci erano voluti giusto dieci anni e la possibilità di perdere la sua futura bambina per capirlo.
Camille tirava fuori la sua parte peggiore. E quel ricordo che fino a poco prima abitava la sua mente ne era la prova. Era una tentatrice, qualcuno in grado di far sembrare irresistibile o indispensabile qualsiasi cosa, anche la più frivola. E Magnus era stato sciocco e cieco a credere che ciò che contasse davvero nella vita fosse un branco di sconosciuti che parla di te, giudica la tua vita, e costruisce una versione di te che è lontanissima dalla verità. I media dell’epoca dipingevano Camille come una donna buona, energica e capace di amare il prossimo. Era una ballerina eccezionale con il cuore di una santa, sempre dedita ai suoi fan e a qualsiasi ente di beneficenza.
Nessun quadro poteva essere più lontano dalla verità di questo. Camille era egoista, meschina e trattava male ogni suo dipendente, credendosi superiore a tutti. Qualcuno potrebbe dire che fosse stata la fama a ridurla così, a corromperla a tal punto da trasformarla in una grottesca parodia di quello che era stata prima che la dea alata la toccasse. Ma non era così. Quella era la sua vera natura. La fama, in questo caso, non aveva peggiorato niente. Per questo la cosa migliore che aveva potuto fare Magnus per se stesso – ed Erin –  era stata allontanarsi da una persona simile.
“Sei pensieroso, chef.”
Una voce distolse Magnus dai suoi pensieri. Si voltò verso l’ingresso della cucina, trovando Alexander che si avvicinava a lui. Si appoggiò al piano cottura e incrociò le braccia al petto, guardando Magnus in viso quasi volesse studiarlo.
“Sto bene.” Si affrettò a tranquillizzarlo.
“Non ho detto che stai male, ho solo evidenziato che sei pensieroso.”
Magnus mescolò la pastella delle frittelle di grano per un po’, prima di rispondere. “Sai, Max ha ragione: sei puntiglioso.”
Alec tirò indietro la testa e ridacchiò, poi tornò a guardare Magnus. “Allora, mi dici che hai? Sei preoccupato?”
“No.” Sospirò Magnus, “Sono solo… ricordi.”
“Brutti?”
“Diciamo poco piacevoli. Pensare di andare via per tre settimane mi ha fatto capire che sono in uno stato emotivo diverso rispetto a quando ero più giovane. Da qui, ho iniziato a pensare a cosa volevo quando ero giovane e che davo importanza a cose che, in realtà, non ce l’hanno… ero molto più stupido.”
“Più giovani siamo, più stupidi siamo, Magnus. È la natura umana. La saggezza viene con l’avanzare dell’età, ma non possiamo diventare saggi, se prima non abbiamo fatto degli errori da cui imparare. Non trovi?”
Magnus sorrise. “Ti diverti a darmi sempre prova di non essere solo un bel faccino, non è vero?”
Alec guardò verso il basso, le guance che si arrossavano e le labbra che venivano ritirate all’interno della bocca.
Era bello e intelligente, ma non riusciva a reggere i complimenti. Magnus non aveva ancora capito se ciò derivasse da una profonda insicurezza o da una discreta umiltà. Alexander, talvolta, era difficile da decifrare, ma a Magnus andava bene così. Le cose interessanti richiedono sempre tempo per essere capite a pieno, altrimenti non sarebbero interessanti.
Alec alzò di nuovo gli occhi su di lui, un leggero rossore ancora colorava le sue guance. Il suo sguardo, però, si fece più attento e profondo, quasi indagatore.  “Allora, vuoi dirmi a cosa stavi pensando?”
Magnus mescolò l’impasto delle frittelle e poi usò un mestolo per versare cinque cerchietti in una padella che stava sul fuoco. Il tutto sfrigolò all’istante. Magnus osservò la pastella friggere per qualche secondo, prima di parlare.
“Pensavo ad una versione di me più giovane e…a Camille. Lei mi manipolava e coltivava le mie insicurezze, sfruttandole a suo piacimento, ma io ero così stupido da lasciarglielo fare, da non capire chi avessi vicino e lasciarmi abbindolare dalle sue parole.” Girò le frittelle per far cuocere l’altro lato. “Ciò che ho provato per lei era autentico, ma è come se ad amarla fosse stata un’altra versione di me. C’è stato un tempo in cui pensavo che tutto ciò che contasse fosse la fama che avevo acquistato, il fatto che se passavo in una strada affollata almeno metà delle persone sapeva il mio nome. Mi sentivo una specie di divinità pagana solo perché una manciata di sconosciuti mi dava importanza per qualche istante. In quel tempo, viveva quella versione di me che era innamorata di Camille – e solo adesso capisco che era così perché lei altro non era che la personificazione fisica di tutti quei desideri. Lei stessa si nutriva di fama, la preferiva addirittura all’ossigeno. Le dava così importanza che era impossibile non venire contagiati dalla sua idea di come andava vissuta la vita e io mi sono lasciato affascinare da tutto questo.” Fece una pausa. “Non fraintendermi, apprezzo ancora le persone che mi hanno seguito, in passato. Se non avessi avuto dei fan non avrei raggiunto il successo, ma… era il mio modo di vederli che era sbagliato. Mi sentivo…” Una punta di imbarazzo impregnò la sua voce, “…Quasi superiore a loro, come se fossi costantemente su quel palco che calcavo ogni sera, durante ogni spettacolo.” Guardò Alec, quasi avesse timore che potesse cambiare idea su di lui, sentendogli dire certe cose. Ma Alec si limitò a guardarlo, senza giudizio alcuno negli occhi.
“Chi siamo stati ha contribuito a forgiare chi siamo adesso. Commettere degli errori o avere determinati comportamenti ci aiutano a capire chi vogliamo essere. Se tu non avessi passato quel periodo della tua vita non avresti mai capito che in realtà non vuoi essere qualcuno che si sente in qualche modo superiore agli altri, né avresti capito che non vuoi qualcuno come Camille vicino.” Alec gli sorrise, dolce come solo lui sapeva essere. “Ciò che sei stato, Magnus, ha fatto sì che diventassi l’uomo che sei ora. E se devo essere onesto a me piace parecchio ciò che sei.”
Magnus gli sorrise. Lo guardò con un’espressione soffice, quasi i suoi sentimenti stessero salendo dal suo cuore e si volessero manifestare attraverso i lineamenti del suo viso. Quasi volesse, solo attraverso uno sguardo, fargli capire ciò che stava capendo a sua volta: mi sto innamorando di te. Magnus forse non era ancora pronto a dirlo ad alta voce, ma a quanto pare i suoi occhi lo erano. Altrimenti non avrebbe guardato Alexander come se fosse il suo personale miracolo.
“Quanto sei dolce, tesoro.”
Alec arrossì di nuovo. “Ho detto solo ciò che penso, Magnus.”
Magnus si avvicinò a lui quel tanto necessario a ridurre la già poca distanza che li separava e si sporse per lasciargli un bacio sulla guancia – Alec si era fatto la barba e Magnus non sapeva decidere se gli piacesse di più con o senza. Nel dubbio, decise che gli piaceva in entrambi i casi.
Tornò alla sua postazione per togliere le frittelle dal fuoco e metterle sopra ad un piatto coperto di carta assorbente. Successivamente, sistemò altra pastella nella padella per fare altre frittelle. L’unico rumore in cucina, adesso, era lo sfrigolio dell’impasto che friggeva.
“Sai,” Cominciò Alec, dopo istanti di silenzio, “Non riesco ad immaginarti insicuro.”
“Eppure… lo sono stato. Sotto certi punti di vista, lo sono ancora, ma cerco di mascherarlo.”
“Perché?”
“Perché se gli altri non vedono i tuoi punti deboli, non possono usarli contro di te.”
“Non è sbagliato avere punti deboli, Magnus. È sbagliato che ci siano persone che li usano contro di te.”
“Lo so, ciò non toglie che incontrare persone simili fa nascere grandi problemi di fiducia verso il prossimo… tu dovresti capirmi, Alexander.”
“E ti capisco, infatti…”
Magnus fece vagare lo sguardo per la stanza, un’improvvisa consapevolezza albergò il suo sorriso amaro. “Siamo stati fregati per bene, io e te.”
“In modi diversi, ma sì.”
“Ci è servito a capire cosa non vogliamo?” Domandò, riprendendo il discorso che Alec aveva fatto poco prima.
“Penso di sì. Sono certo di non volere qualcuno al mio fianco incapace di darmi sicurezze o di dirmi la verità.”
“E io sono certo di non volere qualcuno che mi manipola o… usa la storia di mio padre contro di me.” Magnus aggiunse l’ultima parte quasi con timore. Parlare di suo padre non era mai facile… l’aveva fatto con Camille perché era stato così ingenuo da fidarsi di lei, ma una parte di sé voleva che Alexander sapesse affinché avesse una piena conoscenza del suo passato. E, cosa da non sottovalutare, si fidava di lui. Non come pensava di potersi fidare di Camille… quella fiducia era nata dall’ingenuità, dal fatto che fosse così acciecato dai suoi sentimenti da aver perso completamente il raziocinio. Con Alec la razionalità c’era e sia il suo cuore sia il suo cervello erano concordi sul fatto che l’uomo che aveva vicino adesso fosse meritevole di tutta la sua fiducia. Alec non l’avrebbe mai manipolato, non avrebbe mai usato la storia di suo padre contro di lui – e questo perché era buono, gentile, premuroso. Tutte qualità che Camille non aveva mai posseduto.
Alec chinò leggermente la testa, quel tanto che gli permettesse da entrare nel campo visivo di Magnus, che adesso stava guardando le sue frittelle. Le tolse dalla padella, mettendole insieme alle prime e poi versò dell’impasto per prepararne altre. Solo allora alzò lo sguardo su Alec.
“Non è una bella storia.” Lo informò.
“Non devi raccontarmela, se non vuoi.”
“Ma io vorrei farlo.”
“Allora fallo.” Lo guardò con un’intensità che fece tremare Magnus dentro e gli provocò i brividi su tutto il corpo. La consapevolezza che Alec fosse una persona in grado di trasmettere un’elevata dose di sicurezza gli riempì il cuore. Alexander era una specie di colonna portante, difficile da abbattere e su cui veniva quasi istintivo fare affidamento. Si chiese, per un breve attimo, se questa sua caratteristica non derivasse dal fatto che suo padre gli avesse lasciati quando ancora lui era un ragazzino. Probabilmente, in quanto figlio maggiore si era sentito quasi in dovere di aiutare sua madre ad occuparsi dei suoi fratelli. Magnus aveva l’impressione – per non dire la certezza – che Alec tendesse a mettere gli altri al primo posto, se queste persone rientravano nella categoria di coloro che amava. Tendeva a dare tutto se stesso, a cercare di aiutare nel miglior modo possibile, a proteggere coloro che erano stati così fortunati da riuscire ad entrare nel suo cuore – persone che, probabilmente, addirittura possedevano quel cuore. Alec non aveva mezze misure, questo Magnus l’aveva capito. Era un tipo da tutto o niente, di conseguenza o amava con tutto se stesso, o non amava affatto. L’aveva visto come si comportava con i suoi amici, con i suoi fratelli – come era dolce con loro e disponibile,  sebbene battibeccassero, come in ogni rapporto fraterno che si rispetti. Ma l’aveva visto anche come si era comportato con Imasu, con il quale era stato distaccato e un tantino freddo, solo perché aveva avuto un comportamento che aveva fatto sentire a disagio Magnus. E questo dimostrava anche quanta lealtà abitasse il suo cuore. Alec non conosceva Imasu così bene da poter esprimere un giudizio su di lui, ma gli era bastato vedere che Magnus in sua compagnia non si sentisse propriamente a suo agio per decidere di prendere le sue parti, schierarsi con lui e fare in modo che quell’uomo capisse l’antifona e lo lasciasse stare.
Una parte di lui sapeva che forse, l’unica mezza misura di Alec, per adesso, era Magnus stesso. E questo, probabilmente, perché non avevano ancora dato un nome a ciò che erano. Non sapeva se anche Alexander si stesse già innamorando di lui nello stesso modo in cui lo stava facendo Magnus, ma era certo che fosse sulla buona strada per entrare completamente nel suo cuore. Altrimenti non si sarebbe comportato in modo così dolce con lui; altrimenti non avrebbe fatto dei regali ad Erin e avrebbe cercato di istaurare un rapporto con lei solo perché sapeva quanto questo fosse importante per Magnus.
 Alexander in greco significa protettore degli uomini… visto il nome che portava, era quasi profetico che diventasse un uomo simile.
“Se è quello che vuoi, io sono qui per ascoltarti.” Aggiunse, distogliendo Magnus dal filo dei suoi pensieri. L’uomo fece un profondo respiro, chiuse gli occhi e sulle palpebre abbassate riuscì a vedere immagini della sua infanzia che pensava avrebbero smesso di fargli paura, crescendo. Non fu così ovviamente. Rivide suo padre, in tutta la sua estrema altezza, rincorrere sua madre, afferrarla per i capelli e sbatterla a terra. Lo rivide darle un calcio in pieno stomaco e rivide sua madre che si racchiudeva in posizione fetale cercando la posizione giusta per parare i colpi e tentare almeno un po’ di ammortizzare il dolore. Magnus ricordava bene quel giorno perché era stata l’ultima volta che aveva visto suo padre. Infatti, dopo quell’ultimo brutale atto di violenza, la notte stessa se n’erano andati.
“Mio padre, Asmodeus, picchiava mia madre…” Cominciò, la voce ridotta ad un sussurro, un groppo improvvisamente troppo grosso da mandare giù gli otturava le vie respiratorie e gli rendeva difficile parlare. Era sempre brutto ricordare quegli episodi di violenza a cui aveva assistito – perché se Madelaine aveva fatto di tutto per fare in modo che Magnus non venisse mai coinvolto, Asmodeus non aveva mai avuto la stessa premura. Non l’aveva mai toccato, ma non si era mai interessato a non mostrarsi violento nei confronti di Madelaine davanti al figlio.
Lo faccio perché tua madre si è comportata male, figlio mio. Tu capisci, vero?
Ma Magnus non capiva, perché lui lo sapeva che la mamma non si comportava male. La mamma era buona e gli cantava le canzoni prima di dormire, giocava con lui e gli accarezzava sempre i capelli. Lo abbracciava durante i temporali, quando lui aveva paura perché i tuoni erano così forti che facevano rimbombare i vetri delle finestre.
La mamma non si meritava quelle cose, Magnus riusciva a capirlo già a cinque anni.
“Diceva che lo faceva perché mia madre si comportava male… ma io sapevo che non era vero. Non so cosa scatenasse una tale violenza, perché a volte bastava una parola di troppo, altre volte ancora bastava solo uno sguardo storto da parte di mia madre e lui la schiaffeggiava. Era geloso e possessivo con lei in un modo tossico e prepotente. La vedeva come una sua proprietà… nessuno doveva guardarla, al di fuori di lui – e lei non doveva guardare nessun altro, altrimenti… la picchiava. Cronometrava il tempo che impiegava per fare la spesa, o portarmi all’asilo, e se ci metteva più del previsto… la picchiava. ” Magnus fece una pausa, il groppo alla gola era diventato così grosso adesso che aveva l’impressione di soffocare – era quasi come se riuscisse a sentire le dita di suo padre che gli stringevano la trachea per farlo tacere, per fargli smettere di raccontare quella verità scomoda che nessuno aveva mai conosciuto, se non sua moglie e suo figlio. Perché ovviamente nessuno sapeva che razza di uomo abominevole fosse in realtà. Si mostrava per il mostro che era solo in casa.
“Cercava di annullarla in ogni modo possibile, faceva di tutto per sminuire la sua persona e per azzerare la sua autostima. Non voleva che lavorasse, perché per lui era inaccettabile che avesse un minimo di indipendenza economica… Ma mia madre lavorava di nascosto, sai? Quando lui usciva per andare a fare il suo lavoro, lei faceva arrivare le sue clienti. Faceva la sarta in casa: rammendava orli, metteva le toppe, allargava o stringeva i vestiti a seconda delle taglie che le chiedevano. Tutto di nascosto e solo per le donne. Sapeva che gli uomini avrebbero parlato e sapeva che se mio padre avesse scoperto che gli disubbidiva l’avrebbe… uccisa.” Pronunciò l’ultima parola con paura, quasi avesse il timore che potesse capitare anche adesso, a distanza di anni. “È così che è riuscita a racimolare i soldi sufficienti per riuscire ad andarcene.” Sospirò, “Siamo partiti una notte, lasciandoci quella prigionia alle spalle, e abbiamo cambiato cognome, in modo che lui potesse avere più difficoltà a rintracciarci…” Deglutì, sentendo la gola che adesso cominciava ad aprirsi un po’, quasi il ricordo della libertà cominciasse a permettergli di respirare correttamente. “Mia madre mi ha salvato.”  
Guardò di nuovo Alec, che era rimasto in rispettoso silenzio ad ascoltare. Non c’era giudizio nel suo sguardo, solo una profonda comprensione e, probabilmente, una giustificata rabbia provocata dall’ascoltare una tale tirannia. Non disse niente per qualche istante, limitandosi in un primo momento a ridurre la poca distanza che c’era tra di loro e a circondarlo con le braccia. Lo strinse a sé con forza, quasi avesse voluto proteggerlo da quei ricordi che gli facevano tanto male.
“Tua madre è stata coraggiosa.” Gli sussurrò, prima di appoggiargli le labbra sulla fronte. Gli lasciò un bacio dolce e premuroso. “E tu non hai niente a che fare con un uomo come tuo padre. Non sei come lui e mai lo sarai. Se assomigli ad uno dei tuoi genitori, puoi star certo che è Madelaine.” Gli diede un altro bacio sulla fronte, più prolungato questa volta.  Quando ebbe finito, gli afferrò il viso tra le mani e si scostò da lui quel tanto necessario a guardarlo dritto negli occhi, con tutta la convinzione di cui era capace – perché voleva che quelle parole gli entrassero bene in mente. “E chi insinua il contrario, mente. Mente, Magnus, mi hai capito?”
Magnus annuì e incatenò gli occhi ai suoi. Lo guardò come se fosse la cosa più vicina al divino che potesse essere stata mandata sulla Terra, una specie di angelo. Lo guardò sempre più convinto del fatto che si stesse innamorando di lui. Era una strada di non ritorno. Inevitabilmente, quel percorso avrebbe portato ad un’unica tappa finale: Magnus che si innamora irrimediabilmente, perdutamente, di Alexander Lightwood.
“Perché non ti ho incontrato prima?” Domandò, più al destino o a qualsiasi entità superiore che ad Alec.
Alec lo abbracciò di nuovo, inglobandolo completamente. Magnus appoggiò la guancia all’altezza del suo cuore, mentre gli circondava la vita con le braccia.
“Me lo sono chiesto anche io.” Gli lasciò un bacio sui capelli. “E sono arrivato a due conclusioni: la prima, il destino voleva che tu diventassi il padre di una bambina adorabile; la seconda, invece, è che dovevo conoscere altri, prima, per capire che nessuno è come te.”
Magnus sciolse l’abbraccio e guardò di nuovo Alec. Era sempre di poche parole, ma quando parlava diceva cose che gli partivano dal cuore ed erano pregne di una sincerità quasi disarmante. Non diceva le cose per fare colpo, le diceva perché le pensava davvero. Ed era una delle qualità che Magnus più apprezzava in lui – senza contare che questo suo comportamento riusciva sempre a sorprenderlo.
“Dici sempre le cose giuste al momento giusto.”
“Ah sì?”
Magnus annuì. “Mi fai stare bene.”
“Anche tu.” Alec si chinò leggermente, quel tanto che bastasse a far sì che sfiorasse il naso di Magnus con il proprio – l’accenno di un bacio all’eschimese.
Magnus avrebbe tanto voluto baciarlo, fare proprie le sue labbra e togliersi ogni curiosità su di esse. Capire, finalmente, se fossero morbide come si immaginava che fossero e che sapore avessero. Voleva sapere che tipo di baciatore fosse Alexander e come gli piacesse essere baciato. Voleva rischiare l’apnea a forza di baci, voleva toccarlo ovunque ed essere toccato, perché le mani di Alec gli piacevano da morire ed era certo che sentirle su di sé gli sarebbe piaciuto ancora di più.
“Magnus?”
Il ballerino si stava già sollevando sulle punte. L’avrebbe fatto, questa volta l’avrebbe baciato. “Sì?” domandò, forse un po’ più lascivo del necessario.
“Le tue frittelle. Stanno bruciando.”
“Merda!” esclamò e solo in quel momento sentì l’odore di bruciato che ormai aveva impregnato la cucina da un pezzo. Si era distratto troppo e quello era il risultato. Bella fregatura, pensò. Non solo aveva bruciato le frittelle, ma aveva anche perso l’attimo perfetto per riuscire finalmente a baciare Alexander.
Sai, karma, il tuo tempismo fa veramente schifo! Pensò, con una punta di sarcasmo.
Si affrettò a togliere la padella dal fuoco e a buttare le frittelle ormai carbonizzate. In tutto questo, Alec rideva. E Magnus, inevitabilmente, si trovò a ridere con lui. Perché tra le altre cose, anche la sua risata gli piaceva incredibilmente.




Alec guardava Magnus. Era una cosa che faceva spesso da quando l’aveva conosciuto. Si rendeva conto di non poterne fare a meno – e non solo perché lo trovava di una bellezza disarmante. Magnus era, certo, bello da togliergli il fiato, ma aveva un qualcosa che spingeva Alec a non staccargli gli occhi di dosso. C’era qualcosa nel modo in cui si esprimeva, o muoveva le mani mentre spiegava un concetto particolarmente elaborato, che lo affascinava. Alec si trovava inevitabilmente a seguire con lo sguardo le dita di Magnus, anellate e con le unghie rigorosamente smaltate, e a sentirsene ipnotizzato. Magnus aveva delle mani bellissime.
Ma c’era altro, ancora.
C’era qualcosa nel suo sguardo, una luce particolare, che lo rendevano splendente. C’era qualcosa nel suo cuore, nella sua intera personalità, così sfaccettata ed elaborata, che lo rendevano sempre piacevole da scoprire. Passare del tempo con Magnus era come imparare a risolvere uno dei misteri più avvincenti della storia. E ad ogni indizio scoperto, conoscere il prossimo diventava sempre più intrigante, eccitante. Alec non vedeva l’ora di conoscere, giorno dopo giorno, un altro lato di Magnus, un altro tassello della sua persona, delle sue esperienza passate che avevano contribuito a renderlo l’uomo che era… l’uomo di cui si stava innamorando. Alec doveva ammetterlo almeno a se stesso. Le cose stavano così, ormai, ed era inutile negarlo. Si stava innamorando di nuovo e sebbene la situazione lo terrorizzasse, al tempo stesso sembrava… estremamente giusta. Era così che doveva andare. Alec era destinato ad innamorarsi di colui che adesso stava seduto di fronte a lui, a tavola, insieme a tutta la sua famiglia – anche se, in un certo senso, si poteva dire che fosse la famiglia di entrambi. A quel tavolo c’erano sì sua madre e i suoi fratelli, ma c’erano anche Madelaine, Luke, Clary e Maia – persone con le quali Magnus aveva passato la sua infanzia e l’adolescenza. Per ciò sì, era giusto dire che fosse la famiglia di entrambi.
Lo guardò alzare il proprio bicchiere, portarselo alle labbra e bere un sorso di vino. Alec non si perse nemmeno il minimo movimento, mentre Magnus riappoggiava il bicchiere sul tavolo e riprendeva il discorso che aveva interrotto per bere. E ognuno, ogni singola persona a quel tavolo, pendeva dalle sue labbra desiderosa di ascoltare la fine di quel racconto.
Tutti erano rapiti da Magnus e dal suo modo di splendere anche quando raccontava degli aneddoti riguardanti quella volta in cui, ad Amsterdam, aveva rischiato di essere preso a borsate da una signora solo perché era entrato nel bagno delle donne anziché in quello degli uomini.
“A mia discolpa, posso dire che quelle porte erano prive di qualsiasi segno di riconoscimento! ”
Dal tavolo si alzarono varie risate e Alec sorrise, sentendo le guance che si sollevavano per fare in modo che il suo sorriso si allargasse il più possibile.
Magnus era magnetico e Alec si sentiva attratto da lui inevitabilmente, sotto ogni punto di vista, come se una forza esterna e potentissima lo spingesse verso di lui, come se non avesse altra scelta, come se non ci fosse una vera alternativa. Alec nemmeno l’avrebbe voluta un’altra scelta, o un’altra alternativa, dal momento che gli andava benissimo così. Gli sarebbe sempre andato bene, finché le cose l’avrebbero condotto in direzione di Magnus.
“Avrei pagato per vederti preso a borsate da una vecchietta!” Max rise, appoggiandosi allo schienale della sedia per mettersi una mano sulla pancia.
Li aveva raggiunti da qualche ora, dopo aver passato del tempo da Robert. In realtà, tutti i suoi fratelli erano prima passati da Robert, tranne Alec. Lui aveva speso quel tempo con Magnus. E di certo non poteva dire di essersene pentito perché in quel modo, prima dell’arrivo degli altri, aveva potuto stare un po’ da solo con lui. E dal momento che mancava poco alla sua partenza, Alec voleva spendere con lui più tempo possibile, per fare scorta dei momenti insieme che avrebbero alleggerito il peso della sua lontananza.
Magnus si voltò verso il ragazzo e lo indicò con l’indice. “Sei crudele, Maxie!” scherzò.
Max sbatté le palpebre più volte, come se non si aspettasse che un simile nome venisse pronunciato da qualcuno che non fosse uno dei suoi fratelli.
Alec ritirò le labbra all’interno della bocca per resistere alla tentazione di ridere. Al minore dei suoi fratelli, tuttavia, quel gesto non sfuggì.
“Gliel’hai detto tu, non è vero?” L’espressione sul suo viso trasudava un profondo senso di tradimento e imbarazzo – dal momento che Max, ritenendosi ormai un adulto, trovava imbarazzante quel soprannome, che gli era stato affibbiato quando aveva due anni.
“Tecnicamente non gli ho detto niente. È capitato che fossimo insieme e che mi sentisse chiamarti in quel modo mentre io e te eravamo al telefono, qualche giorno fa.”
Max si voltò di nuovo verso Magnus. “Ti prego, non cominciare a chiamarmi in quel modo anche tu. È imbarazzante.”
Magnus emise una piccola risata. “Non lo farò. Ci pensa già Alexander a metterti in imbarazzo!” A quel punto cercò Alec con lo sguardo – e ovviamente i loro occhi si incrociarono subito perché lui lo stava già guardando, dal momento che non aveva fatto altro da quando aveva messo piede nel loft.
“Da che parte stai?” gli domandò e il sorriso di Magnus si allargò e addolcì allo stesso tempo.
“Dalla tua, mi pare ovvio!” Ammiccò e il cuore di Alec accelerò.
“Non mi sembra, invece!”
Magnus ridacchiò. “Non fare quella faccia corrucciata, tesoro, non ti si addice!”
Alec avrebbe voluto chiedergli cosa mi si addice, allora? ma a differenza di Magnus non riusciva ad essere troppo spigliato, se a tavola con loro c’era tutta la sua famiglia.  In più, i suoi fratelli erano dotati di un istinto naturale che gli spingeva ad impicciarsi, sempre.
“Non gli si addice? Stai scherzando?” Rise Jace, voltandosi verso Isabelle, come se cercasse conferma alle sue parole. La ragazza annuì con vigore.
“Non so se l’hai notato, ma Alec non è decisamente un tipo espansivo. Corrucciato è il suo secondo nome.”
“Pensavo fosse Gideon!” tentò Magnus, fingendo ingenuità e cercando di attuare un piano di salvataggio in pieno stile principe azzurro che salva la principessa (o un altro principe, in questo caso) dalla torre più alta del castello, alla guardia della quale ci sta un drago sputa fiamme. Purtroppo, il suo tentativo di sviare l’attenzione da Alec a qualcos’altro non funzionò.
“Dai Magnus!” Esclamò Jace, “Sai cosa vogliamo dire!”
“Lo so, ma non concordo con voi.”
“Ah no?” Isabelle alzò un sopracciglio, curiosa. Fece vagare lo sguardo da Magnus al fratello e viceversa.
“No,” rispose il padrone di casa, “E ho i miei buoni motivi per discordare con voi.”
“E quali sarebbero?” incalzò Max, perché lui di certo non poteva essere da meno! Sul serio, non c’era nessuno a quel tavolo con un minimo di pudore? Dovevano necessariamente sbandierare tutto ciò che accadeva nella vita di Alec di fronte a Maryse, Madelaine e Luke?
Era imbarazzante. Ancora di più se si teneva conto del fatto che tutti e tre tenevano le orecchie bene aperte per captare quante più informazioni possibili e non pronunciavano nemmeno una sillaba per non rischiare di interrompere quella specie di teatrino.
“Non sono affaracci vostri!” Esclamò quindi Alec, “Potete smetterla di parlare di me come se non ci fossi, per cortesia?”
“Vedi?” disse Isabelle, “Corrucciato e scontroso!”
Alec alzò gli occhi al cielo, arrendendosi all’inevitabile consapevolezza che i suoi fratelli erano cocciuti, e optò per il piano B: cambiare argomento, spostando l’attenzione su qualcosa che non fosse se stesso.
“Vado a prendere un’altra bottiglia di vino,” indicò quella vuota al centro del tavolo, “Bianco o rosso?”
“Prendili entrambi.” Rispose Magnus, “Sai dove sono, vero?”
Alec annuì. Aveva imparato a conoscere quella casa come stava imparando a conoscere Magnus. Sapeva dove si trovava il bagno, sapeva dove trovare le cose negli scompartimenti della cucina e sapeva dove teneva l’alcol. I super alcolici erano in salotto, chiusi sotto chiave in un mobiletto di legno pregiato e sportelli di vetro, mentre il vino si trovava in cucina, in una mensola sopraelevata che si trovava subito sulla sinistra, appena varcata la soglia della stanza.
“So dove sono.” Annuì, mentre si alzava da tavola. Magnus gli sorrise e lo lasciò fare, come se fosse completamente a suo agio con l’idea che qualcun altro, in casa sua, si comportasse come se la conoscesse quasi quanto lui. La verità era che a Magnus piaceva guardare Alec muoversi nella propria casa. Gli altri, a differenza sua, erano più impacciati, come capita spesso quando si va a casa di qualcuno – per quanto amico possa essere c’è sempre una sorta di reverenza in ogni movimento, quasi come se si volesse continuamente rispettare quegli spazi che non appartengono agli ospiti. Alexander, invece, sebbene a sua volta fosse pieno di rispetto ed educazione, sembrava a proprio agio. Gli veniva naturale stare in ogni ambiente, quasi come se si fosse adattato perfettamente alla situazione.
Magnus sorrise e lo seguì con lo sguardo, mentre lasciava il salotto e si dirigeva verso la cucina.
Era sicuro che quell’anno, tra le cose per cui avrebbe ringraziato, c’era anche Alexander.



*


Jace si stava asciugando i capelli. Erano più lunghi al centro e rasati ai lati, un taglio che ormai era diventato parte integrante di se stesso. Se non altro perché sapeva quanto piacesse a Clary. Lei passava le dita tra i suoi capelli, accarezzandoli con dolcezza, e ogni volta gli diceva quanto fossero belli e morbidi. Di solito succedeva quando erano a letto e li descriveva sempre come una cascata dorata. Lui ogni volta rideva e Clary reagiva mettendo il broncio perché non prendermi in giro solo perché amo i tuoi capelli.
Erano in quei momenti che l’abbracciava, stringendola forte a sé, affondava il viso nell’incavo del suo collo e, dopo aver respirato l’odore naturale della sua pelle, la riempiva di baci.
A quel particolare rito, ne seguiva un altro perché ogni volta, inevitabilmente, Clary si sistemava sopra di lui e finivano per fare l’amore, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare Diana nell’altra stanza.
Jace non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe finito così. Non si immaginava con una famiglia. Non avrebbe mai pensato di riuscire a trovare qualcuno che lo amasse nello stesso modo intenso in cui lo amava Clary e ancora meno avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato padre, un giorno.
I primi anni della sua vita erano stati un disastro. Non aveva mai conosciuto le vere identità dei suoi genitori biologici, sapeva solo che suo padre era un soldato che era morto in guerra (non si sapeva in quale dal momento che era un’informazione riservata) e sua madre era morta di parto a causa di una malformazione cardiaca: il suo cuore non aveva retto lo sforzo del parto – e lo stress per aver perso il marito che tanto amava non aveva giovato alla situazione. Così Jace, un bambino sano di tre chili e due grammi, si era ritrovato solo al mondo dopo appena un minuto dalla sua nascita. E se era certo di non conoscere l’identità dei suoi genitori biologici, non poteva dire altrettanto per quanto riguardava quella dell’uomo che l’aveva tenuto con sé fino agli otto anni: Valentine Morgenstern, un uomo che non gli aveva mai mostrato un briciolo di affetto e che l’aveva preso con sé con l’unico scopo di farlo entrare nel suo progetto segreto. Valentine, infatti, era un trafficante d’armi a capo di un proprio esercito formato da ex militari che erano passati dalla sua parte perché corrotti dall’idea di fare una vagonata di soldi.
Quando il suo giro era stato smascherato dall’FBI, Jace aveva appena compiuto otto anni e, durante tutta la durata del processo, aveva scoperto tutta la verità sul suo passato: suo padre era stato costretto da Valentine a partecipare ad ogni sua operazione, altrimenti diceva che si sarebbe vendicato sulla sua bella moglie – e le cose si erano aggravate quando aveva scoperto che la donna era incinta – così suo padre l’aveva assecondato. Ma Valentine vedeva dei principi troppo solidi in quel ragazzo che lo contestava davanti agli altri membri della sua organizzazione e, temendo che con il tempo avrebbe fatto in modo di alzare una ribellione, o peggio ancora l’avrebbe venduto ai federali, aveva estirpato il problema alla radice e aveva deciso di ucciderlo. 
Quando poi era venuto a conoscenza del fatto che la madre di Jace era morta, aveva deciso di prendere il bimbo con sé per crescerlo con i suoi ideali e fare in modo che qualcuno, un giorno, avrebbe continuato quel business anche dopo che Valentine fosse stato troppo vecchio per continuare.
Quel mostro voleva un erede e aveva trovato quasi profetico che quel ruolo spettasse al figlio di colui che aveva provato a contrastarlo – quasi avesse voluto vendicarsi in pieno, come se aver tolto la vita ad un giovane uomo non fosse abbastanza. Valentine voleva infierire crescendo Jace nel modo in cui sapeva che suo padre non avrebbe mai voluto venisse educato.
Ma poi l’FBI aveva trovato prove schiaccianti, aveva arrestato Valentine e tutti i suoi complici e aveva fatto in modo che Jace andasse in un orfanotrofio.
Era stata dura all’inizio, fino a quando Maryse non aveva varcato la soglia.
Jace ricorda ancora come lo sguardo della donna l’avesse colpito. Non lo guardava con pietà, come tutti gli adulti che aveva conosciuto dopo che era stato separato da Valentine, e non lo guardava nemmeno con la freddezza glaciale con cui lo guardava Valentine. Maryse semplicemente lo guardava e vedeva un bambino. Un bambino con un passato turbolento e traumatico, certo, ma lei sembrava andasse al di là del trauma. Non voleva concentrarsi solo sul passato di Jace, ma sul suo futuro.
A quell’epoca, Robert e Maryse erano ancora sposati e Robert, in quanto giudice affidato a quel caso, aveva parlato di Jace alla moglie. Il primo pensiero di Maryse era stato che quel bambino aveva più o meno l’età dei suoi figli e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era passare da un ambiente ostile come lo può essere il covo di un trafficante d’armi ad una struttura che, per quanto qualificata, non può garantire l’affetto che da una famiglia. Così era andata a trovarlo. E Jace ancora ricorda la prima volta che la vide, con i capelli neri e lunghi che le ricadevano sulle spalle e le incorniciavano un viso gentile; come fosse dolce la sua voce, come l’avesse fatto immediatamente sentire al sicuro, sebbene fosse un po’ restio a fidarsi di lei. Avendo vissuto con Valentine, che l’unica cosa che faceva era fargli lezioni storiche e di strategia, che l’aveva istruito alla conoscenza dettagliata di ogni arma e ogni sua caratteristica, non sapeva cosa volesse dire avere un rapporto normale, e in ogni rapporto sano ci sono fiducia, stabilità, affetto – tutte cose che il piccolo Jace non conosceva.
Aveva impiegato circa cinque mesi per parlarle, ma a Maryse non sembrava importasse che lui fosse taciturno e un tantino scontroso. Per quei cinque mesi, necessari a completare le pratiche di adozione, Maryse si era presentata ogni giorno all’orfanotrofio per parlare con Jace. A volte, gli portava anche dei regali – per lo più giocattoli di piccola statura, come animali di gomma o macchinine. Non gli aveva mai portato una pistola giocattolo o un fucile, nemmeno una fionda. Mai un’arma per il bambino che ne era stato traumatizzato – e lui adesso, da adulto, lo apprezza più di quanto potrebbe aver fatto da piccolo, se non altro perché ora capisce l’importanza di quel gesto: guardare al futuro, rispettando il passato. E non si poteva fare di certo finta che le armi non fossero un tasto dolente per Jace.
Ad ogni modo, con il passare dei mesi, Jace si era reso conto che aspettava Maryse. Si svegliava, si preparava, mangiava la sua colazione e poi rimaneva in trepida attesa della signora gentile che gli sorrideva e gli raccontava delle storie, leggendogli dei libri pieni di figure colorate.
“Jonathan, tesoro, ti piacerebbe venire a casa con me?” Gli aveva chiesto un giorno, dopo aver chiuso il libro di Pinocchio che aveva appena finito di leggergli.  E il piccolo Jace – che all’epoca veniva ancora chiamato Jonathan –  aveva appena imparato che le bugie non si dicono, quindi gli venne naturale dire la verità.
“Sì.”
Furono le prime parole che disse a Maryse. In realtà fu una parola, ma alla donna bastò per sentire la commozione gonfiarsi nel cuore e salirle fino agli occhi, dove prese la forma di lacrime di gioia che si sforzò di trattenere davanti al bambino. Non voleva piangere davanti a lui perché temeva che quel gesto sarebbe stato frainteso. I bambini fanno fatica a capire che le lacrime possono anche essere legate alla gioia, dal momento che quando piangono, lo fanno perché soffrono.
Così Maryse si era impegnata per non piangere e aveva sfoderato il sorriso più genuino che Jace avesse mai visto.
“A casa c’è il bambino?”
Il sorriso di Maryse si era fatto più ampio, Jace lo ricorda bene, e gli aveva accarezzato una guancia. La prima volta che Jace aveva visto Maryse, la donna era incinta di quattro mesi. Gli unici giorni in cui non era andato a trovarlo, infatti, erano stati quelli in cui Maryse aveva dato alla luce il piccolo Max e quelli successivi al parto, necessari a fare tutti i controlli al bambino e a lasciare che la mamma si riprendesse totalmente.
In quei giorni, Maryse aveva temuto che Jace potesse sentirsi abbandonato, così aveva fatto in modo di fargli sapere che era in ospedale e che non appena le fosse stato possibile, sarebbe tornata da lui.
“Sì, c’è. Si chiama Max e ha due settimane.”
“Non è più un cocomero nella tua pancia…”
Jace aveva ridacchiato, e quella risatina aveva illuminato persino i suoi vispi occhi bicromatici.
“No, non lo è più…” Maryse aveva ricambiato quel sorriso. “Ti piacerebbe vederlo?”
Jace aveva annuito.
“E…Alec ed Izzy? Ti piacerebbe vedere anche loro?”
Maryse era sempre stata sincera, con lui. Questa era una delle cose che l’aveva spinto a fidarsi e a sentirsi al sicuro. Lei non mentiva per manipolarlo e convincerlo a fare cose che inizialmente non voleva fare, ma che alla fine faceva perché si sentiva sotto pressione, come aveva sempre fatto Valentine. Maryse gli aveva sempre parlato della sua famiglia, dei suoi figli. E solo adesso Jace sa che lo faceva perché voleva abituarlo alla famiglia in cui avrebbe vissuto, alla realtà che sarebbe diventata anche la sua realtà.
“Sì, ma…” Jace aveva titubato, i suoi occhi avevano vagato per la stanza qualche istante, prima di tornare su quelli di Maryse, “…a loro piacerò?”
La donna, seduta su un divanetto insieme a lui, nella zona dell’orfanotrofio riservata alle visite, si era sporta verso Jace, riducendo la distanza che li separava e l’aveva stretto in un abbraccio – il primo da quando veniva a trovarlo perché aveva notato che Jace era restio ai contatti. Questo perché nessuno l’aveva mai abbracciato, prima di Maryse. E al piccolo Jace piaceva la sensazione che si provava a venire inglobati da due braccia che ti fanno sentire protetto e… amato. Per questo aveva ricambiato quell’abbraccio quasi aggrappandosi a lei, stringendola così stretta che era persino riuscito a percepire il suo battito cardiaco. Era un suono calmo, tranquillo, qualcosa che gli infuse un senso di appartenenza. Quella donna sarebbe diventata la sua mamma, anche se sapeva che non era nella stessa situazione di Max-cocomero, dal momento che lui non era stato nella sua pancia, ma… ma sentiva chiaramente i loro cuori battere allo stesso ritmo e a lui quel suono bastava per sentirsi legato a lei.
Maryse gli aveva lasciato un bacio sulla testa, prima di rispondergli. “Certo che gli piacerai, loro ti stanno già aspettando.” E stringendolo ancora a sé, gli aveva detto le parole che lo accompagnano da tutta la vita: “Sono i tuoi fratelli, loro e il piccolo Max, e io… io sono la tua mamma, Jonathan. Voglio che tu lo sappia, questo. Ma voglio anche che tu sappia che non devi avere fretta, hai tutto il diritto di abituarti a noi e a questa nuova situazione con calma. Rispetterò i tuoi tempi, tesoro.”
Jace non aveva saputo cosa rispondere, per questo si era limitato a stringerla ancora di più e Maryse aveva risposto abbracciandolo ancora più forte.
Jonathan, che con il tempo era diventato Jace, aveva impiegato tre mesi a chiamare Maryse Lightwood mamma e non aveva smesso da allora.
Jace si guardò alla specchio, mentre quei ricordi ancora vorticavano nella sua mente. Ogni anno, dopo il Ringraziamento, viveva quel periodo. Questo perché ogni anno ringraziava sempre per la stessa cosa: Maryse che era venuta a trovarlo e l’aveva portato via, regalandogli una famiglia che lo amava e che gli aveva dato l’opportunità di conoscere Clary e avere una figlia con lei. Se Maryse non avesse mai varcato la soglia di quell’orfanotrofio, chissà cosa sarebbe successo al piccolo Jonathan. Probabilmente sarebbe rimasto lì fino alla maggiore età e poi sarebbe stato trasferito in una di quelle case famiglie troppo affollate e piene di adolescenti problematici. Jonathan sarebbe stato uno di loro, Jace invece ha avuto un’altra vita, un’altra occasione, un’altra possibilità. E tutto questo grazie a Maryse, che ogni giorno andava a trovarlo, anche quando il suo pancione la faceva sembrare un’astronave e avrebbe dovuto stare a riposo.
Sono stata a riposo, Jace. Stavamo seduti su quel divano per ore intere. Gli aveva detto una volta, quando lui gliel’aveva fatto notare. E rifarei tutto daccapo, se servisse ad averti con noi, tesoro. Gli aveva accarezzato una guancia e lui l’aveva abbracciata.
Era consapevole che Maryse l’avesse salvato e che continuava a farlo ogni volta che lo chiamava figlio mio – e che l’avevano fatto i suoi fratelli, ogni volta che lo definivano parte integrante della famiglia, fratello tanto quanto lo erano loro. Non avevano mai dato importanza al sangue. Jace non aveva mai sentito differenza tra lui e Alec, o Izzy o Max perché a nessuno dei tre era mai importato che non avessero lo stesso DNA.
Era bello sentirsi parte integrante di qualcosa. Era bello sapere di poter contare su di loro, sempre e comunque.
Jace sorrise a quell’ultimo pensiero. Ricordò una volta in particolare. Jace aveva fatto da poco nove anni, Isabelle ne aveva otto e Alec dieci. Erano in un parchetto a giocare a pallone  e Jace aveva tirato un calcio così forte che la palla era finita verso un altro gruppo di bambini. Loro tre si erano immediatamente avvicinati per recuperare la palla, ma uno dei bambini dell’altro gruppo voleva tenersela.
“L’avete tirata nella nostra direzione. E avete preso mio fratello su una mano con quel tiro, quindi ci teniamo la palla.” Il bulletto aveva incrociato le braccia al petto, mentre il bambino che era stato accidentalmente colpito teneva la palla stretta al petto.
“Mi dispiace se ti ho  fatto male…” aveva cominciato Jace, guardando il bimbo con la sua palla.
“…Ma quella è nostra e dovete ridarcela,”
Aveva concluso Alec, risoluto, dandogli manforte e indicando l’oggetto in questione con l’indice.
“No,” aveva risposto il fratello più grande, “Le scuse non bastano, quindi ci prendiamo anche il pallone!”
Jace ricorda perfettamente l’espressione che comparve sul volto di Izzy. Quel bambino era più grande e più alto di lei, ma Isabelle aveva alzato il mento e l’aveva guardato dritto negli occhi, senza lasciarsi intimorire.
“I miei fratelli sono stati gentili, a differenza tua, che altro non sei che un grandissimo maleducato! Quindi se non vuoi che ti dia un pugno sul naso, ridacci la nostra palla!”
Capendo quanto Izzy fosse seria, e volendo evitare di beccarsi un pugno, il bambino più grande fece cenno al fratellino di restituire il pallone. Isabelle lo afferrò con decisione e si voltò tenendo il pallone ben saldo a sé. Alec e Jace la seguirono, sorridendo felici di aver riavuto ciò che gli apparteneva.
I miei fratelli… Isabelle non aveva esitato un attimo a definirli così, a mettere entrambi sullo stesso piano. E Jace ancora ricorda come gli aveva fatto piacere, come apprezzasse che episodi del genere mostrassero la naturalezza con cui Isabelle e Alec si erano affezionati a lui.
“Papà?”
La voce di Diana lo riportò alla realtà. Si voltò e la trovò sulla soglia della porta del bagno aperta. Aveva già il pigiamino – rosa con un mucchio di pecorelle stampate sopra – e i capelli biondi sciolti.
“Dimmi, principessa.”
“Mamma vuole sapere se sei pronto per la favola della buonanotte.”
Jace sorrise. Era una tradizione che i Lightwood tramandavano da un po’ –  Maryse l’aveva fatto con loro quando erano piccoli e Jace lo faceva con Diana: ogni sera, prima di dormire, sceglievano una favola da un libro grosso come un mattone e la leggevano.
Jace fissò un’ultima volta il suo riflesso allo specchio, i capelli asciutti e la combinazione t-shirt grigia sopra ad un paio di pantaloni di una vecchia tuta come pigiama. Osservò se stesso e gli parve quasi di riuscire a vedere la gratitudine che usciva dai suoi pori facciali.
Era felice, sereno. E non faceva più incubi. Non vedeva più la faccia di Valentine che lo guardava con i suoi penetranti occhi neri. Non vedeva più le sue mani che si allungavano verso di lui per portarlo via, per strapparlo alla sua famiglia e nasconderlo di nuovo in uno dei suoi covi segreti.
Valentine era ormai solo un ricordo lontano, un incubo che apparteneva al passato.
Non c’erano più loschi signori del crimine e armi illegali nella vita di Jace. E da un pezzo, anche.
Adesso per lui c’erano solo amore e famiglia e favole della buonanotte.
“Certo che sono pronto, tesoro mio. Cosa vuoi leggere, stasera?”
Diana arricciò il labbro superiore, come se stesse pensando a fondo. “Vorrei Alice nel Paese delle Meraviglie… possiamo leggerla?”
Jace sorrise e uscì definitivamente dal bagno, sollevando Diana per prenderla in braccio. La bambina gli circondò immediatamente il collo con le sue piccole braccia.
“Ma certo che possiamo, principessa!” Le riempì le guance di baci e la bambina ridacchiò per tutto il tragitto che separava il bagno dalla sua cameretta, dove Jace trovò già Clary seduta sul letto – i capelli rossi raccolti in una treccia morbida – avvolta in un pigiama di cotone verde-azzurro. Era sbalorditivo che la trovasse perfetta anche quando era così semplice. La trovava bellissima sempre, in un modo che gli faceva mancare il respiro ogni volta.
“Pensavo ti fossi addormentato sotto la doccia!” Lo prese in giro, mentre faceva spazio al fidanzato e alla figlia sul letto. Diana si sistemò sotto le coperte, nel mezzo tra la sua mamma e il suo papà, mentre Clary porgeva il libro della favole a Jace. Lui approfittò di quel gesto per afferrarle il polso e tirarla delicatamente a sé. Le lasciò un bacio sulle labbra, un contatto a bocca chiusa che tuttavia lui prolungò.
“Mami e papi si danno i baci!” ridacchiò Diana, coprendosi la bocca con le manine paffute.
Jace e Clary si separarono e si guardarono, come se riuscissero a vedere di cosa fosse esattamente fatta la felicità l’uno negli occhi dell’altra. Erano anime gemelle e di questo nessuno dei due aveva mai dubitato. Erano stati creati per trovarsi ed amarsi.
Fu Jace a interrompere quel contatto visivo, sporgendosi verso la figlia. “Perché mami e papi si amano tanto. E si danno i baci speciali.” Le lasciò un bacetto sulla fronte e Diana ridacchiò.
“Cosa sono i baci speciali?” Chiese, poi.
“Sono i baci che si danno i grandi,” Le spiegò, “Quando due persone grandi si amano tanto tanto, si danno i baci speciali.”
“Sulla bocca?”
Jace annuì.
“Quando sono grande voglio dare anche io i baci speciali.”
Clary trattenne una risata a quell’affermazione e guardò Jace, estremamente protettivo per natura. La ragazza riusciva quasi a vedere i pensieri che si formavano nel cervello del fidanzato: Diana adolescente che torna a casa in lacrime perché qualcuno le ha spezzato il cuore dopo un periodo passato a scambiarsi baci speciali. Clary riusciva quasi a percepire le preoccupazioni di Jace, per non dire le ansie. I padri sono esageratamente protettivi con le figlie – lei in primis lo sapeva bene. La prima volta che aveva presentato Jace a Luke, quest’ultimo aveva fatto uscire il detective che era in lui e aveva quasi torchiato Jace.
Era stato imbarazzante. E un tantino traumatico per Jace, che pensava di non avere più uno straccio di chance di piacere al padre di Clary.
Con il tempo – e dopo un’esaustiva chiacchierata su come comportarsi con i ragazzi che le piacciono davvero moltissimo, citando la Clary del passato – Luke aveva capito che il suo comportamento, quella sera, era stato un tantino esagerato. Ma, aveva detto lui giustificandosi, voleva essere certo che Jace avesse buone intenzioni e provasse le stesse cose che provava lei per lui, e che non avrebbe finito per spezzarle il cuore, altrimenti poi Luke sarebbe stato costretto a spezzargli le dita.
Clary non se la sentiva di negare che un giorno anche Jace avrebbe fatto un discorso simile.
“E li darai, tesoro.” Intervenne Clary, abbracciando la figlia. “Quando incontrerai qualcuno di molto speciale che ti farà sentire bene, vorrai dargli tanti baci speciali.”
Diana annuì, soddisfatta di quella risposta. “Ora possiamo leggere?” domandò, facendo ridere entrambi i suoi genitori.
“Ma certo!” Rispose Clary, “Papà, vuoi cominciare?”
Jace per tutta risposta aprì il libro alla pagina di Alice nel Paese delle Meraviglie e cominciò a leggere, dando l’intonazione giusta per ogni frase che veniva pronunciata.
Amava quei momenti. E, soprattutto, amava la sua famiglia.



*


Dicembre aveva sempre avuto un unico significato, per Alec: Natale.
E un’invasione di febbri e raffreddori in ambulatorio.
D’accordo, quindi forse i significati che fino ad ora aveva avuto dicembre erano stati due: ambulatorio pieno di pazienti febbricitanti e Natale.
Alec decise di concentrarsi soprattutto sul Natale, dove tutto girava intorno a due cose in particolare:  la preparazione della cena, che si sarebbe tenuta come da tradizione a casa di sua madre, e trovare i regali adeguati per tutti.
Quell’anno, tuttavia, dicembre avrebbe assunto anche un terzo significato: il compleanno di Magnus, a cui mancavano sette giorni.
In parte era felice di festeggiare il suo compleanno – l’idea di trovargli un regalo lo emozionava persino – ma in parte non voleva che quel giorno arrivasse perché significava che da lì a poco Magnus sarebbe partito. E sarebbe stato via tre lunghissime settimane.
Non voleva fare la figura dell’egoista, quindi non l’aveva detto a nessuno, ma almeno con se stesso poteva ammettere che Magnus gli sarebbe mancato. Tantissimo. L’idea di stare così tanto senza di lui lo rattristava parecchio, ma poi pensava quanto Magnus amasse ballare e quella tristezza si affievoliva.
Magnus sarebbe andato a ballare. In televisione. Era una cosa grossa, importante. E al solo pensiero il cuore di Alec sfarfallava, quindi in fondo, forse, non era così egoista come si sentiva. O almeno lo sperava.
Guardò l’ora: erano le 13.15. La sua pausa pranzo sarebbe finita tra quarantacinque minuti, quindi aveva un po’ di tempo. Accantonò il suo secondo involtino primavera lasciato a metà, rimettendolo nella sua confezione di cibo da asporto, e, dopo essersi pulito le mani con un fazzoletto, avviò una ricerca sul computer.
Tutto quel pensare a Magnus in versione ballerino professionista aveva fatto nascere in lui una curiosità che ormai non riusciva più a frenare, di conseguenza picchiettò sulla tastiera del pc le parole Magnus Bane e premette invio. In quel secondo che il motore di ricerca impiegò per mostrargli una lista di risultati, Alec pensò a quella volta che Isabelle l’aveva definito più disadattato di quanto lei pensasse perché non sapeva chi fosse Magnus Bane.
E forse Alec non conosceva la stella di Broadway che era stato, ma conosceva l’uomo che era adesso. E a lui era bastato vedere quel lato di Magnus per innamorarsene.
Innamorarsene.
Alec era innamorato.
Si ripeteva quella parola in testa, aspettando di sentire il cuore gonfiarsi del solito, familiare, panico al solo pensiero di riavvicinarsi a qualcuno in modo intimo come può fare l’amore, ma… non c’era traccia di panico nel suo cuore, solo… amore. E quella voglia formicolante di vedere Magnus, di passare del tempo con lui.
Era un buon segno, pensò Alec.
Era finalmente guarito. Will non faceva più male, non aveva più nessun tipo di potere su di lui. Adesso era soltanto un ricordo spiacevole, una tappa nella sua vita che l’Alec venticinquenne aveva dovuto affrontare per far sì che l’Alec trentenne capisse cosa, chi, volesse davvero nella sua vita.
E Alec sapeva che era Magnus che voleva.
O meglio, Magnus Bane, la promessa del balletto, che incanta ogni platea con il suo talento e la sua grazia, stando al primo articolo della lista di link offertagli da Google.
Alec aprì l’articolo, a cui era allegata una foto di Magnus in calzamaglia mentre stava sulle punte. I muscoli delle gambe erano tesi, contratti, e trasmettevano una sensazione di stabilità, di forza – come se avessero voluto rassicurare chiunque guardasse che Magnus non avrebbe sbagliato nessun passo. Le sue  muscolose braccia erano sollevate sulla testa, i medi delle mani che si congiungevano dando un aspetto delicato a quel movimento, che era in netto contrasto con la forza che Alec aveva percepito prima.
Ma Magnus era questo: forza e delicatezza che andavano a mischiarsi alla perfezione. Era grazia e irruenza allo stesso tempo. Era eccitazione e sicurezza. Alec non sapeva come potesse essere possibile, ma era così.
Sentì chiaramente il suo cuore accelerare a quel pensiero e un calore che invase tutto il suo petto.
Guardò ancora quella foto e ci passò un dito sopra, quasi come se potesse davvero accarezzare Magnus. Se solo qualcuno l’avesse visto, l’avrebbe preso per un pazzo, ma non gli importava granché. Anzi, se non avesse compiuto quel gesto, non avrebbe avuto l’illuminazione sul regalo perfetto da fare a Magnus.
Sorrise e, dopo aver recuperato il suo involtino primavera lasciato a metà, continuò a leggere l’articolo.



Quella sera stessa, Alec si trovava nella cucina di casa sua e mentre estraeva dalla busta della spesa le sue provviste, si trovò a sorridere, pensando al regalo che aveva fatto a Magnus.
Erano anni che non faceva un regalo ad un ragazzo che gli piaceva. Will non era il tipo da regali. Non gli piaceva riceverli perché poi si sentiva obbligato a restituire il favore e lui odiava fare regali – così Alec, anzi che vedere la sua espressione contrita ogni volta che gli porgeva anche un minuscolo pacchettino, aveva rinunciato. Niente regali. Nemmeno per Natale, o il compleanno.
Una tristezza infinita. Soprattutto perché ad Alec piaceva fare regali. Niente di plateale, ovviamente, ma… Alec pensava ci fosse qualcosa di estremamente dolce nel fare regali. Per lui era uno dei tanti modi che le persone possono adottare per prendersi cura di coloro a cui tengono. Qualcosa che dica ho pensato a te – e Alec ultimamente aveva pensato parecchio a Magnus. Sperava solo che il suo regalo di compleanno gli piacesse.
Sospirò. Solo in quel momento gli venne in mente che non potesse piacergli e uno spiraglio d’ansia gli abbracciò il cuore, ma prima che potesse anche solo formulare dei pensieri negativi, una voce riempì l’ingresso di casa.
“Alec!! Sono arrivata!”
Izzy aveva smesso di bussare da un pezzo. Non si scomodava più nemmeno di mandargli un messaggio per informarlo che era alla porta. Semplicemente, usava la sua copia delle chiavi dell’appartamento di Alec ed entrava.
“Sono in cucina!” Le rispose, continuando a togliere cibarie dalla busta e accantonando i suoi pensieri ansiogeni.
Isabelle lo raggiunse in un attimo – i suoi tacchi che picchiettavano sul pavimento annunciarono il suo arrivo in quella stanza.
“Hai fatto la spesa?”
Alec annuì. “Di solito è così che funziona, se vuoi mangiare.”
Izzy gli fece una linguaccia. “Non sei per niente simpatico!”
Alec fece spallucce e continuò a togliere la spesa dalle buste. Izzy si sedette al tavolo e osservò in silenzio il fratello che sistemava le cose al proprio posto. E questo comportamento insospettì il maggiore, dal momento che sua sorella di solito non stava mai in silenzio. Non appena si vedevano, cominciava ad inondarlo di parole riguardanti la sua giornata. In quell’istante, invece, Isabelle fissava il vuoto con espressione assente.
“Iz, che hai?”
“Nulla… io…” Isabelle alzò lo sguardo sul fratello e sospirò. “Ho litigato con Mark e sono arrabbiata con lui.”
La mascella di Alec si irrigidì all’istante. “Cosa ti ha fatto?”
“Vacci piano con la modalità fratello maggiore iperprotettivo, Alec. Non mi ha fatto niente, ha solo detto delle cose che mi hanno infastidita.”
Alec afferrò il cartone del latte e lo infilò nel frigo con un po’ troppo impeto. Avrebbe deciso da solo se andarci piano o meno con la modalità fratello iperprotettivo. “Del tipo?”
“Dice che non vuole che passi troppo tempo con Simon, perché la gente potrebbe farsi strane idee. Si è persino arrabbiato per l’ultima foto che ho pubblicato su Instagram.” Isabelle tirò fuori il cellulare dalla tasca dei suoi jeans aderentissimi e picchiettò sullo schermo per qualche istante, prima di porgere il telefono al fratello. Gli stava mostrando la suddetta foto: erano in palestra, Simon era senza maglietta e teneva Izzy – in tenuta sportiva composta da top e leggins –  a cavalluccio, le sue mani tenevano saldamente il retro delle cosce della ragazza, mentre lei gli circondava il collo con le braccia. Sorridevano entrambi, come se fossero le uniche persone su questo pianeta ad essere felici di venire massacrate da un allenamento sfiancante.
Il migliore, recitava la didascalia.
“Il migliore?” Domandò Alec, alzando il sopracciglio solcato dalla cicatrice.
“Beh, sì. Simon è il mio migliore amico e il migliore cliente che io abbia in assoluto. Non si lamenta mai e non contesta i miei metodi solo perché sono una ragazza e, a differenza di molti altri uomini, non crede di saperne di più solo perché, appunto, è un uomo. Si fida della mia opinione, professionale e non.”
“Capisco.” Alec, che ormai aveva sistemato tutta la spesa, si sedette di fronte a lei. Per qualche motivo si trovò a pensare a lui e Magnus. Prima di incontrarlo non aveva mai messo in dubbio le parole di Izzy riguardanti la sua amicizia con Simon perché non aveva un metro di paragone che gli facesse pensare il contrario. Se sua sorella diceva così, lui dava per scontato che fosse così. Ma poi aveva incontrato Magnus, con il quale aveva instaurato un rapporto che stava a metà tra l’amicizia e l’amore e aveva capito che spesso le persone tendono ad etichettare quel tipo di rapporto amicizia perché hanno paura di varcare la linea.
Alec ne aveva avuta parecchio all’inizio, e ne aveva tutt’ora. Lo spaventava varcare quella soglia, ma al tempo stesso sapeva di essere pronto a farlo – e il fatto che al ritorno di Magnus sarebbero usciti per un appuntamento vero ne era la conferma.
Pensò a cosa avrebbe provato se avesse visto una foto di Magnus con qualcun altro in quella stessa posizione e immediatamente realizzò che avrebbe sicuramente pensato che ci fosse dell’altro oltre all’amicizia. E poi pensò all’effettiva possibilità che ci fosse qualcosa che legasse Isabelle e Simon – e a quel punto, inevitabilmente, la sua mente ripercorse il loro rapporto negli ultimi dieci anni. La prima cosa che gli venne in mente fu il modo in cui Simon era stato vicino ad Izzy quando Max aveva avuto una ricaduta. Alec era stato troppo preso dal suo dolore e dalla sua preoccupazione per accorgersene subito, ma adesso la situazione gli balenò alla mente chiara e nitida: Simon non aveva mai, mai, lasciato Isabelle da sola. Nonostante conoscesse a sua volta Max, davanti a lei non aveva mai versato una lacrima, mostrandosi forte per lei. La abbracciava ogni volta che lei si sporgeva verso di lui, le accarezzava la schiena con movimenti circolatori e rassicuranti. Le sussurrava che tutto si sarebbe risolto perché Max era forte. Tornava sempre a casa con lei, talvolta rimanendo a dormire, o a volte semplicemente ascoltando le paure di Izzy e asciugando le sue lacrime.
Simon si era comportato più come un fidanzato che come un amico e improvvisamente si chiese se non provasse qualcosa per sua sorella da anni. E poi si domandò se anche Isabelle provasse qualcosa per lui e non se ne fosse mai accorta.
“Non sto giustificando Mark, perché certi comportamenti non mi piacciono, ma… forse è geloso.” Cominciò, cauto. Di certo lui lo sarebbe stato, se avesse visto Magnus postare una foto simile – ma non si parlava di lui, adesso. Adesso si parlava di Izzy e Simon.
Isabelle aggrottò le sopracciglia. “E perché dovrebbe essere gelo-” Si interruppe all’improvviso. Un lampo di realizzazione attraversò il suo viso, mentre la sua bocca rimaneva aperta in una O nella quale era ancora sospesa la frase che aveva interrotto bruscamente. “Tu pensi che mi piaccia Simon?”
Alec non era bravo in queste cose. E si vedeva, dannazione.
“Non ho detto questo!” Esclamò, “Ho supposto che, forse, Mark lo pensa.”
“È ridicolo! Io e Simon siamo amici.
Anche io e Magnus, ma la maggior parte delle volte vorrei baciarlo. Ah, e al suo ritorno usciremo insieme, quindi… amici un corno!
Ma questo Alec se lo tenne per sé.
“Io lo so. Tu lo sai. E probabilmente anche Simon lo sa. L’unico che non lo sa, a quanto pare, è il tuo ragazzo. Parlargli, tranquillizzalo, e già che ci sei ricordagli che non siamo nel Medioevo e che una ragazza può avere tutti gli amici maschi che vuole. O posso sempre spiegarglielo io, questo concetto.”
Isabelle ridacchiò. “Vacci piano fratellone. Ci penso io, ma grazie.” Si alzò dal tavolo per andare ad abbracciare il suo protettivo fratellone, che riusciva a prendersi cura di lei da sempre. Lo strinse così forte che ad Alec mancò il respiro per un attimo, ma ricambiò quella stretta. Conosceva sua sorella, sapeva bene che dirle cose che non si sentiva pronta a sentire l’avrebbe solo agitata. Alec sospettava che ci fosse di più tra lei e Simon – e c’era voluto il suo incontro con Magnus e la conseguente situazione che si era creata tra di loro per fargli aprire gli occhi su una cosa che stava sotto il suo naso da dieci anni e lui non aveva mai notato –  ma sapeva anche che Isabelle questo non l’aveva ancora realizzato e non voleva affrettare niente. Se i suoi sospetti erano fondati, il tempo gli avrebbe dato ragione. Ma fino ad allora voleva dare ad Izzy tutto il tempo di capire i suoi sentimenti da sola, se eventualmente ci fossero dei sentimenti diversi dall’amicizia.
“Ordiniamo la pizza?” domandò Isabelle, dopo aver sciolto l’abbraccio.
“Certo.” Alec le sorrise e poi estrasse il telefono dalla tasca dei pantaloni per ordinare la loro cena.
Passarono il resto della serata sdraiati sul divano, mangiando pizza e guardando un film.


*


Isabelle era concentrata a seguire un nuovo cliente. Avevano da poco fatto la sua tabella e la ragazza si stava impegnando per mostrare correttamente tutti gli esercizi al nuovo arrivato, un ragazzo sulla ventina che aveva deciso di mettere su più massa muscolare. Isabelle per questo aveva studiato una tabella che avrebbe aiutato il ragazzo a raggiungere risultati nel modo più sano possibile. Un lavoro lungo ma dettagliato che l’avrebbe aiutato ad ottenere ciò che voleva senza mettere a rischio la sua salute o la sua mobilità.
“Hai capito tutto?” gli domandò, dopo avergli mostrato i vari esercizi.
Il ragazzo annuì.
“Perfetto, se hai bisogno chiamami. Sono qua per questo.” Isabelle sorrise gentile e cordiale. Stava giusto per voltarsi e allontanarsi dal ragazzo, quando due braccia le circondarono la vita da dietro.
“O la borsa o la vita, signorina!” Esclamò Simon, tra le risate.
Ma Izzy non riuscì a ridere subito: era troppo concentrata sull’improvvisa sensazione alla bocca dello stomaco che il contatto tra la pelle degli avambracci di lui e quella della sua pancia nuda le aveva provocato. Uno strano calore che le rimase addosso anche quando Simon sciolse l’abbraccio.
“Non ho una borsa, Simon! Questa cosa non ha senso!”
“Stai dicendo che non apprezzi il mio umorismo?” Le sorrise e sulle sua guance si formarono due fossette adorabili.
Adorabili???
Ma che stava dicendo? Era diventata matta, per caso?
Conosceva Simon da dieci anni, sapeva benissimo che quando sorrideva gli venivano le fossette e mai prima di adesso le aveva reputate adorabili. Mai.
Alec.
Era di Alec la colpa di questi improvvisi pensieri.
Alec e le sue dannatissime insinuazioni!
“Lo apprezzo, ma lo apprezzo di più quando ha senso!”
Simon rise. “Potresti avere ragione. Ad ogni modo, cosa facciamo oggi, coach?”
“Non sono un coach,” Isabelle scosse la testa, un sorriso, adesso, le tendeva le labbra e non accennava ad andarsene. Simon le faceva quell’effetto. La metteva di buon umore semplicemente con la sua sola presenza. “Ma abbiamo del lavoro da fare.”
“Lo so, capo!” Simon mimò una posa militare, come se fosse sull’attenti.
Isabelle ridacchiò. “Allora vatti a cambiare!”
“Sissignora!”
Simon si allontanò verso gli spogliatoi ed Isabelle rimase a guardarlo. Qualche istante dopo si rese conto che non era l’unica a farlo. Il ragazzo nuovo, infatti, seguì Simon con lo sguardo fino agli spogliatoi e quando si accorse che Isabelle lo aveva notato, arrossì violentemente e si rimise a fare i propri esercizi.
Izzy non poté fare a meno di sorridere e, in seguito, di domandarsi se Alec non avesse ragione.


La risposta alla sua domanda arrivò un’ora dopo, quando Isabelle dal fondo della sua palestra, osservò Simon alla chest press, mentre si allenava privo di maglietta. Senza effettivamente volerlo si trovò a guardare le sue braccia, i suoi muscoli che si contraevano e distendevano ad ogni sforzo. I suoi bicipiti si gonfiavano e sgonfiavano al ritmo del cuore di Isabelle, che improvvisamente accelerò.
Era una cosa sciocca, giusto?
Lei e Simon erano amici da sempre! Non poteva davvero provare qualcosa per il suo migliore amico. Eppure… eppure una parte di lei, qualcosa che proveniva da un angolo remoto del suo cervello, le disse che in fondo l’aveva sempre saputo.
Aveva sempre saputo di provare qualcosa per il ragazzo che l’aveva sempre fatta sentire in pace. Simon non l’aveva mai giudicata. Aveva sempre accettato il fatto che fosse estroversa ed un tantino esuberante. Aveva accettato che fosse testarda e poco propensa a lasciare che un uomo facesse ciò che lei era perfettamente in grado di fare da sola, senza mai sentirsi minacciato da questo suo lato emancipato. E al tempo stesso, c’era sempre stato quando lei si rendeva conto che certe cose, da sola, non poteva affrontarle e chiedeva il suo aiuto.
Sia che fossero topi-criceti invasori di cucine, sia che fossero cose più serie come la malattia di Max.
Simon c’era. Da sempre.
E lei si era così ancorata a questo rapporto, al volerlo nella sua vita a tutti i costi che non si era mai azzardata a pensare a lui come a qualcosa di più di un amico, perché era perfettamente consapevole che fosse una frana nei rapporti amorosi. Quelli avuti fino ad ora non erano finiti bene e questo perché Isabelle non aveva fiducia nell’amore.
Da bambina era convinta che i suoi genitori si amassero, che sarebbero stati insieme per sempre e poi… poi aveva scoperto che suo padre aveva tradito sua madre per anni, vivendo una vita parallela con un’altra donna, prima di lasciare Maryse. Questa cosa l’aveva segnata più di quanto le piacesse ammettere. Ed era questa, forse, la ragione per cui non si era mai permessa, prima d’ora, di mettere Simon sotto una luce diversa da quella dell’amico. Perché se avesse permesso a se stessa, anche solo per un attimo, di vederlo come qualcosa di più, il terrore di rovinare tutto e perderlo per sempre le avrebbe attanagliato le viscere.
Quindi sì, probabilmente negli anni aveva represso i suoi sentimenti a tal punto da convincersi che ciò che legava lei e Simon fosse solo amicizia.
Ma adesso… adesso era come se quella voce che aveva ignorato per tutti questi anni bussasse insistentemente alla porta del suo cervello, pretendendo di essere ascoltata.
Ti piace Simon. Lo sai che ti piace. Smetti di negarlo.
Forse Alec non era l’unico ad avere ragione.
Parla con Mark. Sai che ciò che provi per lui non è abbastanza.
Già. Perché lui non è Simon – si trovò a pensare Isabelle, ormai preda di quella consapevolezza che non riusciva più a negare.
Isabelle si allontanò dalla sala, distogliendo lo sguardo da Simon, e andò dritta nel suo ufficio, dove recuperò il telefono e digitò il numero di Alec.
Suo fratello rispose al terzo squillo. “Iz, dimmi.”
“Potresti avere ragione.”
“Riguardo?”
“A Simon. Potrebbe piacermi il mio migliore amico.”
Alec rimase in silenzio qualche istante, assimilando l’informazione. “Ho un’ora buca a pranzo. Ti porto del cibo e parliamo, d’accordo?”
“Ti adoro. Tantissimo.”
Alec rise sommessamente e la salutò, riagganciando.
Quando Izzy rimase di nuovo sola con i suoi pensieri, si diresse nuovamente nella sala allenamenti. I suoi occhi cercarono immediatamente Simon e lo trovarono dove l’aveva lasciato: alla chest press, con i suoi bicipiti e i suoi addominali definiti, che improvvisamente divennero una tentazione più di quanto non lo fossero mai stati negli ultimi anni. Isabelle aveva sempre saputo che Simon avesse un bel fisico, ma solo adesso, che non si imponeva più una carestia sentimentale, sentiva il pieno effetto che aveva su di sé. E le faceva parecchio effetto. Simon era… sexy. La combinazione perfetta di sensualità e dolcezza di cui Isabelle si era volutamente privata in questi anni.
Sospirò, guardandolo per un’ultima volta prima di distogliere lo sguardo. Aveva bisogno di concentrarsi e di riordinare i pensieri per decidere poi come agire. E per questo, Isabelle tendeva ad adottare il metodo Lightwood, che prevedeva due guantoni e un sacco da boxe.



Alec arrivò all’ora di pranzo, quando la palestra era ormai vuota, e come promesso le portò del cibo. Due Caesar Salad con il pollo da asporto. Una per sé e una per Isabelle.
Izzy era talmente affamata che quasi la divorò e fu ben contenta quando Alec le mostrò un altro sacchetto in cui erano presenti due donuts con la glassa al cioccolato.
“Avevi fame.” Scherzò Alec, guardando la sorella addentare la ciambella.
“Taci.”
Alec rise, mentre finiva la sua insalata e si accingeva a prendere il suo dolcetto. “Allora, parliamo?”
“Da quando sei diventato così impaziente di parlare di sentimenti?”
“Non lo sono. Voglio solo aiutarti. E tu non mangi mai così in fretta. Di solito finisco sempre prima di te, a meno che tu non sia nervosa. O preoccupata, in quel caso diventi una specie di aspirapolvere.” Alec addentò la sua ciambella. “In quanto medico, devo dirtelo: non fa bene mangiare troppo velocemente.”
Izzy sbuffò e diede un altro morso alla ciambella, masticando più lentamente, questa volta. “Sono terrorizzata, Alec.” Confessò, dopo aver deglutito il boccone. “So di provare qualcosa per Simon e so che devo parlare con Mark e farla finita. Ma… poi? Qual è il passo successivo?”
“Parlare con Simon?”
“Per dirgli cosa? Ehi ciao, ho capito che mi piaci? Se non dovesse ricambiare? Butterei all’aria dieci anni di amicizia!”
“Se non provi, non lo saprai mai.” Erano seduti nell’ufficio di Isabelle, alla sua scrivania, una di fronte all’altro. Alec si allungò sulla superficie di legno per raggiungere la mano di Izzy. La coprì totalmente con la propria. “So quanto fa paura, credimi. Non c’è nessuno che lo sa meglio di me. Ma la paura paralizza, Isabelle. E ti toglie le cose belle senza che tu te ne accorga.”
“Questo è il tuo modo carino per dire che Will era uno stronzo e che ti ha creato problemi di fiducia?”
Alec rise, guardando altrove. “Potrebbe essere sì, ma non mi riferisco solo a Will.”
Isabelle si fece più attenta. I suoi occhi neri come il carbone si assottigliarono. “Cosa non mi stai dicendo, Alec?”
“Non stiamo parlando di me, adesso.” Disse Alec, agitando una mano per allontanare anche la minima possibilità che si cominciasse a parlare di lui. Era lì per cercare di aiutare Izzy e così sarebbe stato. “Stiamo parlando di te. Lo so che hai paura. Ti conosco, Iz, e so come sei fatta. Vuoi l’amore, ma hai paura di trovarlo. Ma Simon potrebbe essere la tua occasione. C’è un motivo per cui con tutti i ragazzi, fino ad ora, non ha funzionato.”
Già, pensò Isabelle, perché nessuno di loro era Simon – era la seconda volta che aveva quel pensiero. E se anche Alec, che la conosceva meglio di quanto lei conoscesse se stessa, l’aveva insinuato allora forse era vero.
“Ti preferisco silenzioso, musone e scontroso, sai?”
Alec ridacchiò. “Cercherò di non offendermi.” Addentò la ciambella e masticò il suo boccone con calma, prima di ingoiarlo e domandare: “Allora, gli parlerai?”
Izzy sospirò, come se avesse il cuore pesante e quello fosse un modo per provare ad alleggerirlo. “Prima devo parlare con Mark. Non è giusto continuare a stare insieme a lui quando so benissimo ciò che provo per un altro.”
Alec annuì.
“Poi parlerò con Simon.”
Alec annuì di nuovo.
Calò il silenzio e Alec finì la sua ciambella. Isabelle sembrava pensierosa e Alec iniziava a preoccuparsi di aver varcato la soglia che separa la discrezione dall’indiscrezione. Forse le aveva indirettamente fatto pressione e adesso lei si sentiva in qualche modo obbligata ad affrettare le cose. Non era questo ciò che voleva, lui voleva semplicemente aiutarla.
“Izzy…” la chiamò, “Se ho detto qualcosa che in qualche modo ti fa sentire costretta a cambiare le cose, mi dispiace.”
Isabelle gli rivolse un sorriso tenero. “Niente di ciò che hai detto mi ha fatto sentire costretta a cambiare le cose, Alec. Mi sono solo resa conto che devo farlo e che… ho paura.”
Alec realizzò quanto lui e i suoi fratelli fossero propensi a quel sentimento, se si trattava di amore.
Jace aveva sempre saputo che voleva Clary, nella sua vita, ma durante i primi appuntamenti si era dimostrato distaccato e silenzioso, quasi volesse prima studiarla, capire che tipo di persona fosse e se potesse fidarsi di lei al punto da aprirsi totalmente. Non voleva che gli spezzasse il cuore. Voleva essere certo che lei non l’avrebbe ferito. 
Isabelle aveva sempre tenuto i ragazzi a distanza. Li frequentava per qualche mese e poi inevitabilmente loro se ne venivano fuori dicendo che lei non si lasciava conoscere in pieno. Izzy non aveva mai permesso a nessuno di scavare a fondo nel suo cuore per capire cosa si celasse nella parte più profonda di sé. In questo si assomigliavano tutti e tre.
Ma poi era arrivata Clary e Jace aveva lasciato che avesse accesso pieno al suo cuore, nel modo più totalitario possibile.
E lo stesso era successo per Izzy, quando aveva conosciuto Simon e… e beh, era successo anche ad Alec quando aveva conosciuto Magnus.
Nemmeno Will era riuscito a toccare in profondità le corde di Alec nello stesso modo in cui era riuscito a farlo Magnus. E ad Alec andava bene così. Gli piaceva che Magnus e William fossero diversi anche in questo. Gli piaceva che Magnus riuscisse ad avere accesso a delle parti di Alec alle quali nessuno, prima di lui, era riuscito ad accedere.
“Dopo Will sai com’ero ridotto. Sono letteralmente fuggito dal paese, cavolo! Avevo bisogno di stargli lontano il più possibile. Mi aveva ferito così profondamente, Izzy, che pensavo che il mio cuore avrebbe sanguinato per il resto dei miei giorni.” Alec fece una pausa. “Non sapevo se mi sarei mai rifidato di qualcuno…”
“Ma poi hai incontrato Magnus…” Isabelle sorrise – uno di quei sorrisi dolci e comprensivi, uno di quelli carichi di complicità che facevano sentire Alec al sicuro. Isabelle aveva sempre significato questo per lui: sicurezza, comprensione, l’assoluta certezza che lei ci sarebbe sempre stata per lui e che l’avrebbe sempre capito.
Alec annuì. “Sono piuttosto certo di essermi innamorato di lui, Iz.” Dirlo ad alta voce faceva meno paura di quanto credesse. E sentiva che fosse giusto dirlo ad Isabelle: primo, perché era Izzy; secondo: perché le aveva appena detto che tutte le cose belle si trovano al di là della paura. E magari Alec non si sentiva ancora pronto per dirlo a Magnus, ma era già un passo avanti. “Ho paura a dirglielo? Sì, cacchio. Ma… usciremo insieme, al suo ritorno. È un passo avanti, un passo lontano dalle mie fobie e verso ciò che voglio davvero.”
Isabelle sorrise di nuovo. “Sono felice per te, Alec, te lo meriti.”
“Anche tu lo meriti. E se pensi che sia Simon ciò che vuoi, percorri quella direzione. Con i tuoi tempi, certo, ma concediti di essere felice, Isabelle. Felice per davvero. Te lo meriti.”
Izzy aveva gli occhi lucidi. Si alzò dalla sedia e circumnavigò la scrivania per raggiungere il fratello. Alec si alzò dalla propria sedia, avendo capito cosa stava per fare la sorella, e si lasciò abbracciare, ricambiando la stretta.
“Hai parlato più in questa mezz’ora che in tutta la tua vita, ne sei consapevole, vero?”
Alec ridacchiò sommessamente.
“Ma sono convinta che dovresti farlo più spesso, Alec.”
Il ragazzo la strinse a sé e le lasciò un bacio sui capelli – un gesto che facevano da sempre, anche quando Alec non superava ancora Isabelle di venti centimetri abbondanti. “Non mi preferisci più scontroso e musone e tutte le cose carine che mi hai detto solo poco fa?” Scherzò, una punta di sarcasmo colorava la sua voce.
Isabelle rise e scosse la testa in un cenno di diniego. Alec, allora, la strinse un po’ più a sé.
“Ti voglio bene, fratellone.” Sussurrò la ragazza, dopo istanti di silenzio.
“Anche io.”



*


Magnus era emozionato e ansioso allo stesso tempo. Emozionato perché il giorno del suo compleanno era arrivato e si sentiva di affermare con assoluta tranquillità di indossare i suoi trentacinque anni in modo favoloso.
Ansioso perché mancavano pochissimi giorni alla sua partenza. Tutto era pronto: le valige, il biglietto aereo, tutti i documenti necessari. Lui e Alexander avevano trovato qualcuno che aprisse la scuola di danza in sua assenza, pescandolo tra le schiere fidate di Sophia, che era sempre ben disposta ad aiutare un amico. Magnus era soddisfatto della scelta del suo sostituto, o meglio sostituta. Si chiamava Sarah e aveva un entusiasmo contagioso. Quando era venuta a sapere che avrebbe aiutato niente meno che Magnus Bane non era riuscita a trattenere un grido euforico e Magnus aveva sorriso. Non tanto perché era stato riconosciuto dopo anni lontano dai palchi scenici, ma perché aveva rivisto in Sarah la stessa scintilla carica di entusiasmo e voglia di fare che aveva lui alla sua età. Sarah aveva affiancato Magnus nelle ultime settimane, di conseguenza il ballerino aveva abbastanza elementi per affermare che la ragazza avrebbe fatto un ottimo lavoro.
Almeno sotto quel punto di vista era tranquillo.
Il viaggio, invece… più si avvicinava e più Magnus sentiva l’ansia montargli dentro. Tre settimane. Sono solo tre settimane – continuava a ripetersi, ma non per questo diventava meno spaventoso. Tutto ad un tratto la paura di non essere più in grado di fare quello che aveva fatto per anni era diventata insistente, come se un tarlo si fosse formato nel suo cranio e adesso fosse arrivato a divorargli il cervello. E se si fosse messo in ridicolo? Se l’avessero trovato ridicolo? O avessero pensato che questo fosse il tentativo disperato di una stella cadente per ritornare sotto la luce dei riflettori?
A Magnus piaceva la sua vita, ma forse gli altri avrebbero pensato il contrario. Non voleva fare la figura del disperato.
Tutto ad un tratto l’idea di partire non lo entusiasmava più. Guardò le sue valige pronte da giorni in un angolo della sua camera da letto. Fu enormemente tentato di disfarle e successivamente chiamare la produzione per disdire, ma proprio mentre stava per fare il fatidico passo verso le valige, sentì suonare alla porta.
“Papà! Hanno suonato!” Lo informò Erin, dal salotto. Stavano giocando insieme fino a qualche istante prima, fino a quando Magnus non aveva sentito il desiderio di vestirsi in modo più comodo e si era diretto in camera. Non si era cambiato, dal momento che i suoi pensieri l’avevano assalito, di conseguenza indossava ancora una camicia nera, con le maniche arrotolate fino ai gomiti, abbinata a dei pantaloni dorati.
“Ho sentito, bintang, adesso papà va ad aprire!” Magnus uscì dalla propria stanza e percorse tutto il corridoio che portava al salotto. Una volta attraversato pure quello, arrivò alla porta e la aprì.  
Lo stupore che attraversò il suo viso fece sorridere il suo visitatore.
“Ciao, Magnus.”
“Ciao, tesoro.”
“So che non si fanno le improvvisate, scusami.”
“Puoi farmi tutte le improvvisate che vuoi, solo che… pensavo dovessi lavorare, oggi pomeriggio.”
Alec socchiuse un occhio e gli rivolse un sorriso di scuse. “Potrei aver mentito, ma a scopo benevolo, giuro!”
“E quale sarebbe questo scopo benevolo?”
“È una sorpresa.” Sorrise Alec.
“Mi sento in dovere di dirti, pasticcino, che non mi piacciono le sorprese.” Confessò Magnus, spostandosi dall’uscio per far entrare Alec in casa. Il medico entrò, ma non si tolse il giubbotto. Era dicembre da più di una settimana, ormai, eppure Alexander continuava ad usare un giubbotto di pelle, quando sarebbe stato più appropriato usare un cappotto, o un parka. Qualcosa che lo tenesse al caldo per davvero.
“Non hai freddo?” Gli domandò, accennando al fatidico giubbotto con lo sguardo.
Alec sorrise, guardando prima l’oggetto in questione e poi alzando di nuovo lo sguardo su Magnus. “Ti preoccupi per me?”
“Ho solo paura che tu prenda freddo.”
Alec si avvicinò. Erano così vicini che Magnus dovette alzare di un pochino la testa per riuscire a guardarlo negli occhi.
“Quindi ti preoccupi per me.” Soffiò Alec. La distanza tra loro era così poca che Magnus sentì il suo respiro su di sé – e ciò gli provocò una scarica di brividi lungo la schiena.
Era dicembre, fuori faceva freddo e a lui era appena balenato nella mente un rimedio perfetto per risolvere il problema. In più sarebbe stato un regalo di compleanno azzeccatissimo. Ma poi Alec fece un passo indietro, rimettendo distanza tra di loro e frantumando tutte le fantasie di Magnus riguardanti qualsiasi tipo di contatto fisico con l’altro.
“Ma non devi,” affermò con un sorriso, “Il mio giubbotto è imbottito. Dentro è caldo come una coperta.”
Magnus sospirò, come se fosse stato svuotato delle sue energie.
Quali energie, gioia? Quelle sessuali? – gli domandò la sua vocina interiore, pungente e sarcastica. Lui la scacciò. Non era il momento. C’era Erin nell’altra stanza, diamine! Doveva darsi un contegno.
“Ora, torniamo al discorso principale: a te che non piacciono le sorprese.” Cominciò Alec.
“Lo so, tesoro, ma…”
Alec alzò un indice e lo interruppe. “Niente ma, Magnus. Non oggi. Fidati di me, per favore.” Lo guardò con i suoi grandi occhi cervoni, così espressivi che fecero attorcigliare le già sensibili budella di Magnus e non riuscì a resistere. Era vero che non gli piacevano le sorprese, ma Alexander… lui gli piaceva da morire ed era pienamente consapevole che non gli avrebbe mai negato niente. Non quando glielo chiedeva con quegli occhi.
“D’accordo.” Si arrese, quindi.
Alec gli regalò uno dei suoi meravigliosi sorrisi, quelli che gli illuminavano tutti i lineamenti. “Erin è già vestita?”
Magnus annuì.
“Andiamo, allora.”
Alec sorrise di nuovo e Magnus sentì il suo cuore accelerare. Forse le sorprese non erano poi così spiacevoli.



Stavano camminando per Central Park da un po’, ormai. Con l’arrivo di dicembre era arrivata anche la prima nevicata, di conseguenza il parco aveva toni bianchi lasciati dai fiocchi di neve che erano rimasti incastrati tra le chiome degli alberi e non si erano ancora sciolti. Sull’erba piccole gocce di brina congelata rendevano il tutto luccicante alla flebile luce del sole che tentava, con coraggio e testardaggine, di scaldare almeno un po’ l’aria. Sembrava di guardare una cartolina. E il fatto che fossero vicino ad uno dei laghi rendeva questa immagine ancora più veritiera.
Magnus guardò la superficie dell’acqua incresparsi leggermente, quando si alzò una folata di vento e la sua attenzione, a quel punto, si spostò su Erin. Era abbastanza coperta? Sentiva freddo?
Ma la sua bambina sembrava tranquilla. Continuava a mangiare lo zucchero filato che Alec le aveva comprato ad una bancarella – era stato irremovibile sul non far pagare Magnus, così tanto che alla fine il ballerino aveva dovuto cedere – e si guardava intorno, affascinata dalla neve e dal parco in versione invernale.
“A cosa pensi?” gli domandò Alec, che era completamente concentrato su di lui. Magnus si chiese se non avesse una specie di radar che gli permettesse di percepire i pensieri altrui.
“Erin è abbastanza coperta, secondo te?”
Alec abbassò lo sguardo sulla bimba, che continuava a mangiare lo zucchero filato. Era in mezzo a loro due, come se Alec e Magnus fossero i suoi bodyguard – e un po’ lo erano, dal momento che non la perdevano di vista un attimo – e sembrava stesse bene.
“Ha un giubbotto, una sciarpa e un capello, Magnus. Penso stia bene.”
“Ma non ha i guanti. E fa freddo. Sei un medico, dovresti sapere che la grande circolazione si ferma, quando c’è troppo freddo! Se le andassero le mani in ipotermia?”
Alec si fece pensieroso per un attimo e di colpo la consapevolezza che non si trattasse solo di quello si appropriò del suo cervello. Sospirò, con pazienza, e si chinò all’altezza di Erin.
Monyet,” La chiamò, “Hai freddo alle mani?”
Erin, con la bocca piena di zucchero filato, negò con il capo. I suoi lunghi capelli neri uscivano da un cappellino di lana lilla.
“E stai bene?”
Erin annuì e visto che Alec era alla sua altezza, ne approfittò per prendere un ciuffo del suo zucchero filato e porgerglielo. Il ragazzo sorrise e accettò quell’offerta, ringraziando la bambina, prima di tornare in posizione eretta e guardare Magnus. Appurato che la bimba stava bene, adesso bisognava occuparsi del padre.
“Erin sta bene, Magnus. Ora dimmi cosa ti preoccupa davvero. Perché non può dipendere tutto dall’assenza di un paio di guanti.”
Sì, era ufficiale: Alexander Lightwood aveva un radar incorporato nel cervello che gli permetteva di leggere i pensieri altrui.
Oppure gioia, se vogliamo ragionare in termini di ipotesi razionali e non di follie da ciarlatani – cominciò la sua coscienza e Magnus si sentì un tantino offeso dal suo subconscio per quel tono sfacciato – semplicemente ti capisce e ti conosce meglio di chiunque altro. Dovresti esserne felice, invece di ragionare come un pazzo.
D’accordo, il suo sfacciato ed oltremodo pungente subconscio poteva avere ragione. Per questo svuotò il sacco, perché sapeva di potersi fidare di Alexander e perché parlare con lui lo aiutava sempre a stare meglio – e a vedere le cose da un’altra prospettiva. Una prospettiva che spesso lo tranquillizzava.
“Sto pensando di non partire.” Disse sottovoce per non farsi sentire da Erin.
“Cosa??” Esclamò Alec, perplesso. “E perché?”
“Perché ho Erin e devo occuparmi di lei.”
Alec si bloccò in mezzo al percorso e trascinò Magnus di lato per evitare di intralciare gli altri passanti. Erin li seguì senza fare domande.
“Abbiamo già parlato di questa cosa, Magnus. Abbiamo organizzato tutto settimane fa. Erin starà con tua madre e con me, se vorrà.” Gli prese il viso tra le mani, spronandolo a guardarlo negli occhi. “Cosa ti preoccupa, Magnus?”
L’uomo sospirò, arrendendosi. Non sapeva davvero negare niente a quegli occhi. Niente. Alec lo guardava in quel modo così intenso e particolare, senza filtri, senza secondi fini. Gli penetrava l’anima con quelle iridi bellissime. Alexander lo guardava come se avesse messo il cuore in ogni suo sguardo e lo stesse pregando di essere sincero con lui – perché Alec di certo lo sarebbe stato. E come si fa a negare qualcosa a qualcuno che ti guarda in questo modo? Come si nega qualcosa a qualcuno che ti guarda come se altro non gli importasse che tu sia felice e stia bene?
Semplice.
Non si può.
“Ho paura che mi vedano ridicolo. Temo possano pensare che non mi piaccia la mia attuale vita e che questo sia il mio tentativo disperato per tornare alla ribalta dopo anni di inattività lontano dal mondo dello spettacolo.”
Alec gli accarezzò gli zigomi con i pollici. “Non succederà nulla di tutto questo.” Gli sorrise, incoraggiante. “Vuoi sapere cosa succederà?”
Magnus annuì.
“Andrai là e ti divertirai. Sarà una bellissima esperienza. E sarai il ballerino più bravo di tutti, anche dopo anni lontano dai palchi scenici. Noteranno solo questo: la tua bravura e il tuo talento. Nessuno dirà niente di cattivo su di te perché non ne hanno motivo. La verità è che sono stati loro a cercare te, non il contrario. Se davvero tu stessi cercando a tutti i costi di tornare alla ribalta, li avresti ossessionati fino farli cedere e convincerli a farti partecipare. Ma non è andata così.” Alec gli baciò la fronte. “Non devi temere nulla, Magnus.”
L’uomo gli rivolse un sorriso colmo di gratitudine. “Grazie.” Appoggiò le mani sopra ai polsi di Alec, accarezzando la pelle nulla che sbucava dalle maniche del giubbotto.
In quel momento, Magnus non ebbe più dubbi: lo amava. Sapeva di amarlo, ne ebbe la certezza. Magnus era arrivato al capolinea di quel percorso che aveva imboccato mesi prima e adesso… adesso era chiaro come la luce del sole che si era innamorato di Alexander. Non c’era via di ritorno, per lui. C’era solo un’unica, semplice verità: lo amava.
Dio, se lo amava. Con tutto se stesso. Con tutto quel cuore pieno di cicatrici che Alec aveva avuto tra le sue mani fin dalla prima volta che i loro sguardi si erano incrociati. E quanta delicatezza aveva riservato a quel cuore, quanto rispetto.
Magnus avrebbe voluto dirglielo in quell’istante, gridarlo persino a tutti gli sconosciuti che adesso li circondavano ma dei quali era solo vagamente consapevole. Perché non contavano niente. L’unico che contava era l’uomo che adesso era di fronte a lui e che sapeva sempre cosa dire e come dirlo per aiutarlo, per farlo sentire al sicuro.
Ma sapeva che non sarebbe stato giusto. Che avevano ancora bisogno di tempo, prima di arrivare a pronunciare quelle due paroline cariche di un significato titanico.
Alec sorrise e abbassò le mani dal suo viso. “Ora, sei pronto per la tua sorpresa?”
Magnus rise e annuì. Insieme continuarono a camminare con Erin che trotterellava in mezzo a loro, troppo concentrata sulla sua nuvola di zucchero filato per capire a pieno quello che era appena successo.


Camminarono ancora una decina di minuti prima di raggiungere il Delacorte Theater.
Magnus non ci era mai stato. Aveva vissuto a New York per anni, prima di partire con la sua compagnia in giro per il mondo e non aveva mai visto quel teatro. Aveva la forma di un anfiteatro greco ed era all’aperto. Era davvero bello e pieno di gente, tutta infagottata nei suoi cappotti.
Alec, al suo fianco, lo guardava. “Ti piace?”
Magnus annuì. La scenografia del teatro dava direttamente sul Belvedere Castle, che conferiva al tutto un’aria magica, come se fossero stati catapultati indietro nel tempo. A Magnus piaceva davvero tanto. E doveva ammettere che per la prima volta in vita sua, l’idea di una sorpresa lo incuriosiva, anzi che terrorizzarlo.
“Ora mi puoi dire perché siamo qui?”
Alec sorrise, anche se c’era una punta di insicurezza nascosta dietro il suo sorriso. Temeva che la sua sorpresa non fosse gradita. Ma decise comunque di portare a termine il suo piano. Per questo frugò nella tasca interna del suo giubbotto e gli allungò uno dei due biglietti che aveva acquistato per assistere allo spettacolo.
Magnus lo afferrò e lo studiò. Era un biglietto per un posto in terza fila centrale. Lo spettacolo in questione era Il Cigno Nero.
“Sophia qualche settimana fa mi ha parlato di questo evento. Ha detto che voleva dirtelo perché il cigno nero è una delle tue rappresentazioni preferite. Le ho chiesto se poteva non farlo perché avrei voluto farti una sorpresa di compleanno. Mi ha aiutato a trovare i biglietti. È stata molto gentile.”
Magnus alzò lo sguardo dal biglietto ad Alec. Il rossore sulle sue guance non aveva niente a che fare con il freddo che li circondava. Alec era in imbarazzo, Magnus lo sapeva. Era sicuro che l’uomo al suo fianco temesse che la sorpresa non era gradita, quando invece lo era eccome.
C’era sempre una prima volta per tutto. E quel giorno era arrivata anche la prima volta in cui Magnus Bane aveva gradito una sorpresa.
“Sei dolcissimo, lo sai?” Magnus allungò una mano per accarezzargli una guancia accaldata e Alec, istintivamente, abbassò lo sguardo – i complimenti ancora lo imbarazzavano. Magnus decise in quel momento che sarebbe diventata la sua missione personale fare in modo che Alexander imparasse ad accettarli, perché si meritava tutti i complimenti esistenti al mondo.
“Quindi ti piace? Nel senso, ti piace davvero? Non lo dici per cortesia?”
Magnus sorrise, intenerito. “Mi piace davvero. Grazie, tesoro.” Si sporse verso di lui quel tanto che bastava per lasciargli un bacio fugace sulla guancia.
Era sincero, quella sorpresa gli piaceva davvero. Ma ancora di più gli piaceva passare il pomeriggio del suo compleanno con Alexander.
“Forse dovremmo sederci…” Ipotizzò Alec, notando che piano piano tutta la folla cominciava a prendere posto.
Magnus annuì e prese posto. Alec si sedette al suo fianco, mentre Erin si sedeva in braccio al padre. La fregatura di non far pagare i bambini sotto ai sei anni era che non gli riservavano un posto proprio.
“Cosa guardiamo, papà?”
“Uno spettacolo di danza, bintang.
La bambina si sistemò meglio sulle gambe del padre per essere più comoda. “Hanno i tutù?”
Magnus ridacchiò e notò che anche sul viso di Alec era comparso un sorriso tenero. “Penso proprio di sì, sayang.
“Mi piacciono i tutù. E la danza.” Erin annuì, come se avesse voluto dare solennità alle sue parole.
Magnus e Alec si guardarono, sorridendo.
Erano felici, come nessuno dei due lo era da tempo. E, per entrambi, era tutto merito dell’uomo che avevano al proprio fianco.




Dopo lo spettacolo tornarono verso la macchina. Alec aveva trovato parcheggio poco lontano dal parco per un puro colpo di fortuna e adesso stava riaccompagnando Magnus ed Erin a casa. La piccola era sistemata sul seggiolino che di solito Alec usava per Diana, mentre Magnus era seduto al fianco di Alec. L’abitacolo dell’auto era immerso in un piacevole tepore, dal momento che appena saliti in macchina Alec aveva acceso il riscaldamento.
Il viaggio dal parco alla casa di Magnus trascorse in un piacevole silenzio, rotto solamente dalle domande di Erin, che era curiosa riguardo ad un sacco di cose: come si fanno i tutù, chi è che li fa; come mai lo zucchero filato è così morbido e perché a volte diventa rosa; aveva fatto domande sulla neve, chiedendosi se avesse un qualche sapore particolare. 
Magnus aveva risposto con pazienza ad ogni domanda, soffermandosi particolarmente sull’importanza di non mangiare la neve, mentre Alec continuava a guardare la strada con un sorriso che si allargava ad ogni interazione padre-figlia di cui era spettatore silenzioso.
Magnus ed Erin avevano un rapporto bellissimo. Era sicuro che niente e nessuno sarebbe mai stato in grado di mettersi tra loro due, o di scheggiare anche solo minimamente il loro legame.
“Eccoci.” Comunicò Alec, quando fermò la macchina davanti al palazzo dove viveva Magnus. “Aspetta un attimo, prima di scendere, ok?”
Magnus lo guardò con un sopracciglio alzato, incuriosito da quella richiesta, ma non disse niente, limitandosi ad annuire.
Alec si slacciò la cintura e scese dall’auto. Magnus lo seguì con lo sguardo fino a che non lo vide aprire la bauliera, nella quale si chinò, sparendo di conseguenza dal campo visivo del ballerino. Rimase in attesa circa tre secondi, prima di vederlo ricomparire. Qualche istante dopo, Alec era di nuovo in macchina, seduto al sedile del guidatore e teneva un pacco in mano. Era incartato con precisione in una carta color avorio a cui era abbinato un fiocco verde smeraldo.
“Per te.” Disse Alec, porgendoglielo. Le sue guance erano tornate color porpora. E ancora, quel rossore non aveva niente a che fare con la temperatura. “Buon compleanno, Magnus.”
L’uomo afferrò il pacchetto che gli veniva porto. Ci passò le dita sopra, accarezzando la carta liscia al tatto. Alzò di nuovo lo sguardo su Alec. “Non dovevi. Già il teatro e questa giornata sono stati perfetti.”
Alec arrossì. “Aprilo, magari non ti piace.”
Magnus scosse la testa. “Impossibile. Qualsiasi cosa abbia a che fare con te mi piace in automatico, pasticcino.”
Le guance di Alec presero fuoco e Magnus sorrise. Gli piaceva sapere di essere in grado di provocargli reazioni così profonde e spontanee. Gli piaceva essere la causa di quel rossore tanto adorabile.
Dopo un ultimo sguardo al viso di Alec, Magnus si concentrò sul pacchetto, cominciando a scartarlo con devozione, nemmeno avesse paura che strappando l’involucro avrebbe rotto anche il regalo stesso. Tolta di mezzo la carta e il fiocco, Magnus si trovò in mano una scatola. Assomigliava ad una scatola di scarpe, per questo spinto dalla curiosità, sollevò in coperchio senza rifletterci troppo.
Ciò che i suoi occhi incontrarono lo lasciò un attimo senza fiato. Anche quella fu una sorpresa, piacevole tanto quanto lo era stato lo spettacolo a teatro e quell’intero pomeriggio.
Alexander gli aveva regalato delle scarpe da punta, tipiche della danza classica. Non erano le classiche punte rosa, ma erano nere e i lacci che avrebbero avvolto i polpacci di Magnus sembravano fossero fatti di seta lucida. Erano bellissime. E per un attimo non riuscì a fare altro che guardarle perché le adorava – e pensare al fatto che non vedesse l’ora di metterle e ballarci.
Ma il silenzio di Magnus, dettato da un piacevole stupore, agitò Alec.
“Se non ti piacciono posso cambiarle…” Si affrettò a dire.  
Quelle parole destarono Magnus dalla sua attenta contemplazione. “Non dire sciocchezze, confettino. Le adoro. Sono bellissime.”
Alec tirò un sospiro di sollievo. “Davvero?”
“Davvero.” Confermò l’altro, prima di sporgersi verso di lui per abbracciarlo. Alec venne invaso dal suo profumo e respirò a pieni polmoni, mentre ricambiava quell’abbraccio, quasi avesse voluto fare scorta di quell’odore – che aveva lo stesso effetto di una droga, per lui – che non avrebbe sentito per tre settimane.
“È stato il miglior compleanno di sempre.” Gli sussurrò Magnus all’orecchio, prima di sciogliere l’abbraccio e tornare al suo posto.
Alec sorrise. “Mi fa piacere.” Le guance tornarono a colorarsi nuovamente di cremisi. “E… sono stato bene anche io.”
Magnus allungò un braccio verso di lui per accarezzargli una guancia. E Alec, seguendo un istinto che non riuscì a frenare in tempo, sporse il viso verso il suo palmo. Magnus gli accarezzò uno zigomo con il pollice per qualche istante, prima di rompere quel silenzio. Doveva romperlo, altrimenti avrebbe finito per prendere il viso di Alexander tra le mani e tirarlo a sé per baciarlo con tutta la foga di cui era capace. L’unica cosa che lo trattenne fu la consapevolezza che avrebbe solamente confuso le idee della sua bambina, ancora seduta nel seggiolino sistemato sul sedile posteriore.
“La giornata non è ancora finita.” Sorrise, con un’astuta malizia. “Ci vediamo stasera?”
Alec annuì, un sorriso gli tendeva le labbra. “Ovviamente.”
Magnus lo guardò ancora un istante, volendosi imprimere quel sorriso bene in mente, prima di scendere dall’auto e recuperare Erin dal seggiolino. Con la bimba in braccio e il suo regalo stretto nella mano che aveva libera, Magnus si chinò all’altezza del finestrino che Alec aveva aperto. “A stasera, passerotto.” Gli fece l’occhiolino – Alec, ovviamente, arrossì di nuovo – e poi si voltò verso casa.
Alec rimase a guardarlo finché non lo vide sparire all’interno del palazzo. Poi si accasciò sul sedile della sua auto e liberò un respiro profondo.
Era fottuto. E alla grande, anche. Ogni suo minimo dubbio era sparito nell’esatto momento in cui Magnus gli aveva appoggiato una mano sulla guancia e lui, come un cucciolo bisognoso d’affetto, aveva sporto il viso verso il suo palmo.
Era innamorato di lui. Totalmente e irrimediabilmente.
E ad Alec andava benissimo così.





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I’m baaaaaack
Seriamente, mi sembra di essere stata via per un’eternità. E di questo mi scuso immensamente. Ho avuto da fare quest’estate e di conseguenza il tempo per scrivere era davvero poco. Vi chiedo scusa ancora.
Ad ogni modo spero che abbiate passato una bella estate e che questo capitolo, nonostante l’attesa millenaria, vi sia piaciuto lo stesso.
Ho qualcosa da specificare al riguardo: non so se effettivamente anche gli ebrei festeggiano il Ringraziamento. Ho letto su Internet di no, ma si sa il mondo del web spesso nasconde delle bufale immense, quindi se ci fosse qualcuno che ne sa più di me al riguardo non si faccia remore a farsi avanti, cosicché io possa eventualmente modificare la prima parte del capitolo.
Parlando sempre di Simon e soprattutto di Simon ed Izzy… pensate abbia affrettato troppo la cosa? Non so perché ma mi sembrava arrivato il momento di smuovere un po’ la loro situazione, ma adesso ho paura di averlo fatto in modo repentino e poco realistico/coerente. Per questo vi chiedo per favore di farmi sapere cosa ne pensate – e soprattutto se avete trovato OOC il comportamento di Alec mentre parla con Isabelle.
Un’altra cosa: la parte del compleanno di Magnus doveva comprendere anche la parte dedicata alla festa di sera, ma visto che il capitolo è già venuto lungo di per sé e voi avete aspettato anche troppo, ho deciso di dividere la cosa. Per questo l’undicesimo capitolo inizierà con la seconda parte del compleanno di Magnus.
Credo di aver detto tutto, spero che il capitolo via sia piaciuto e mi scuso ancora averci messo così tanto a pubblicarlo. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
Vi saluto e, come sempre, ringrazio chiunque legga la storia, la recensisca o l’abbia messa tra le preferite/seguite/ricordate. Lo apprezzo tantissimo!
Un abbraccio, a presto! <3

PS: So che sono in ritardo di due giorni, ma trovo opportuno fare gli auguri al nostro archer boy preferito che il 12 ha compiuto 30 anni tondi tondi! Auguri Alec, ti amiamo come ti ama Magnus (o quasi!) <3
 
   
 
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