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Autore: carachiel    14/09/2019    3 recensioni
Questa fic partecipa alla challenge Liens, indetta da Atramentum.
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Dei modi di tornare e, forse, tornare indietro.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dr Faker, Haruto Tenjo/Hart Tenjo, Kaito Tenjo/Kite Tenjo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Partecipa alla challenge ‘Liens’, indetta da Atramentum, con il prompt: "You are my family, not my enemy", un rapporto difficile tra famigliari.
Ho preso spunto, per le premesse, dalla storia “Lo spazio di un addio”, di Galatea delle Sfere (aka Naoko_chan), a cui dedico la presente.
 
 
 
La porta stretta
 

 
"Non ho il diritto di rimanere" mormora Faker, il tono ormai quasi rassegnato dal rifiuto che percepisce dal momento in cui è arrivato lì.
"Viviamo sotto lo stesso tetto" gli risponde Kite con quelle stesse parole che era solito dirgli quando cercava di rimarcare una impossibile quanto paventata vicinanza tra loro "E inoltre, non penso potrai rimanere per sempre sulla soglia."
 
Faker non replica, ma rimane lì, con le valigie in mano e la consapevolezza di star sbagliando tutto esemplificata nell'espressione del figlio maggiore mentre gli apre la porta.
 
"Non sarei dovuto partire."
"Non avresti dovuto fare molte cose" gli risponde, con quel tono dolce quanto lo può essere una lametta ricoperta di miele che gli sfiora la carotide.
"Lo so."
 
Quando finalmente varca la soglia, con la sensazione che la casa sia improvvisamente diventata troppo piccola, riesce a malapena a domandare, con la gola secca "Dov'è Hart?"
"È andato a dormire da Yuma, ieri, dovrebbe tornare tra un po'." replica, il tono più morbido.

Deglutisce pesantemente, per poi farsi strada tra le stanze, con Kite che lo segue distrattamente, passandovi non come un padrone di casa, ma come un viaggiatore casuale.
Poggia le valigie per terra, e fissa il muro davanti a sé, aspettando la domanda successiva.
 
"Quanto ancora resterai?"
 
La domanda, formulata con leggerezza, gli chiarisce che non considera affatto il suo rimanere permanente, anzi, lo fa sentire ancora più estraneo.
 
"Il tempo necessario."
 
A cosa, non lo sa nessuno, ma è quel periodo di tempo sufficientemente vago da non farlo sentire troppo male, nel dirlo. Che non gli rimbombi perpetuamente nei timpani, a scandire il tempo che gli rimane.
 
 
Quando Kite si allontana, si lascia cadere sul letto con un sospiro pesante, mentre con sguardo assente scruta gli angoli della stanza alla ricerca di una qualche traccia di familiarità, almeno negli oggetti.
Non riconoscendo alcuna traccia che gli renda meno estranea la stanza, in una casa che non sente sua perché mai l'ha abitata, si piega per disfare le valigie.
Tuttavia, la vista di quegli abiti così cerimoniosamente piegati non fa altro che esacerbare la certezza di non poter restare, richiudendo la valigia e riponendola di nuovo contro l'armadio, in attesa di tempi migliori.
 
Dopo poco sente la porta di casa che si riapre, e il pensiero di Hart lo fa procedere fino alla porta della sua stanza. Tuttavia, il contatto col metallo freddo gli ricorda l'acredine di Kite e lo frena dal palesarsi, facendogli lasciare la presa sul pomo.
Retrocede, finché non vede la porta aprirsi.
"È come ti dicevo fratellone, ero... Oh."
Hart irrompe nella stanza, interrompendosi bruscamente e osservandolo in silenzio, con alle spalle la porta mezza aperta.
In quelle brevi frazioni di secondo che intercorrono, Faker nota amaramente quanto sia cresciuto, mentre sente un groppo crescergli nella gola.
"Sei tornato" conclude, richiudendo la porta dietro di sé e voltandosi a fronteggiarlo.
È più alto, ora, e i capelli azzurrini sono un cespuglio che gli ricade sulle spalle.
Ma ciò che colpisce Faker sono i suoi occhi di oro liquido, che lo fissano quasi a volerlo trapassare.
Annuisce piano, abbassando lo sguardo, il groppo alla gola che si serra sempre di più, fino quasi a soffocarlo.
 
"Perché?" domanda Hart, facendo un passo avanti "Perché sei tornato?"
"Non–... Non lo so" si sforza di replicare, cercando di fuggire via dagli occhi inquisitori del figlio.
"Sono passati quattro anni" mormora Hart alzando pericolosamente il tono "quattro anni, in cui ho creduto ci avessi abbandonato. In cui ogni notte mi domandavo perché, se ti eri tanto prodigato per salvarmi, adesso mi lasciavi così..."
Faker sgrana appena gli occhi, mentre sente Hart che gli si avvicina, serrando le dita contro la sua schiena e i suoi capelli che gli solleticano il mento.
"Hart..." mormora, carezzandogli con incertezza una spalla.
"Non ti chiedo di promettere che resterai, ma resta, ti prego."
 
A sentire tale preghiera, la sua atavica sicurezza di ripartire si incrina.
 
_________________
 
L'indomani l'alba lo coglie seduto sul letto di Hart, mentre ne guarda in silenzio il profilo immobile nel sonno, ha sempre avuto il sonno pesante.
Un passo sul pavimento spezza il leggero incantesimo dettato dalla lama di luce che traspare dalla finestra, ma non si volta.
"Sei qui" mormora Kite, non col tono di una constatazione, bensì di un'accusa.
"Ho perso così tanto delle vostre vite."
"L'hai scelto tu" replica veementemente.
 
Non risponde all'accusa, continuando a dargli le spalle.
 
"Sai, un tempo mi sarei chiesto perché non riuscivi ad amarmi come facevi con Hart. Poi mi sono risposto. Non potevi" continua, sedendosi sul letto ma tenendo lo sguardo fisso sulla sagoma immobile del fratellino.
"Non mi aspetto che tu capisca, o che mi perdoni per ciò che ho fatto" mormora Faker lentamente, poggiando le mani tremanti sulle coperte, come a cercare un sostegno ulteriore.
"No, posso fare di più... perché l'ho fatto anch'io."
La replica lo fa voltare, fino ad incrociare le iridi metalliche del figlio, lo sgomento impresso nel viso.
 
"Non è facile sacrificare tutto, per il bene di qualcuno... E se non fosse stato per Hart, la mia vita sarebbe niente." mormora, fissando lo sguardo verso la finestra, dove la luce continua ad avanzare tra le imposte accostate.
"Kite..." 
"Se fosse servito a qualcosa io avrei accettato persino di sacrificare te, in cambio di Hart" conclude, puntandogli contro le pupille, affilate quanto l’accusa che gli rivolge.
Faker annuisce piano "È giusto."
Kite lo fissa con le sopracciglia aggrottate, senza riuscire a replicare, stranito da tale reazione.
"È per questo che mi hai sempre reso così orgoglioso" gli poggia la mano sulla guancia, piegando le labbra in un sorriso incerto.
Kite non sa come reagire, mentre sente la rabbia evaporare. Perché vorrebbe sentirsi arrabbiato, si ripete.
Ma in quel breve istante, comprende che non può, perché nessuno di loro due è migliore dell'altro
 
Si limita ad annuire, poggiando la mano su quella del padre.
 
 
Quando il sole è ormai alto, la valigia di Faker è mollemente appoggiata accanto alla porta, dove probabilmente resterà per molto tempo.
 
 
 
   
 
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