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Autore: _Frame_    15/09/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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205. Al di là della morte e Senza di te

 

 

Immerso nel tepore del suo sonno, in un limbo simile al grigio nevischio che lo aveva circondato quando aveva perso conoscenza, quando il vento di ghiaccio si era acquietato e tutto a Khimki era tornato sospeso e silenzioso, Italia ormai aveva perso il conto di tutte le volte in cui si era sentito risalire, di tutte le volte in cui si era spinto verso l’alto per inseguire una luce, un brusio di voci indistinguibili l’una dall’altra, un senso di calore e di familiarità con quell’ambiente che tendeva a rischiarsi e a farsi più nitido ogni volta in cui provava a tendere l’orecchio, a forzare gli occhi a riaprirsi, o anche solo a muovere le dita, a girare una guancia o a spostare una gamba. Aveva perso il conto anche di tutte le volte in cui i dolori erano tornati ad aggredirlo, acuti e penetranti come una serie di coltellate, e a farlo retrocedere, a dilaniare ogni suo desiderio di riaprire gli occhi, di affacciarsi a quella sofferenza che una volta sveglio lo avrebbe schiacciato come un macigno. Ogni volta il corpo protestava, gridandogli di non riuscire a sostenere il peso di quel risveglio, ordinandogli di dargli tregua, di assopirsi di nuovo, di lasciarsi annegare in un luogo dove tutto era buio e silenzioso e dove niente poteva fargli del male.

Italia aveva perso il conto delle volte in cui si era sentito nuovamente sprofondare nel vuoto, precipitare nella buia e collosa nebbia grigia che tornava sempre a risucchiarlo e a tenerselo stretto, rendendo i suoi muscoli pesanti, il battito del suo cuore lento, la sua mente offuscata, i suoi sensi intorpiditi, la sua volontà infreddolita – lo stesso ingorgo di sensazioni che lo aveva intrappolato durante la prigionia di Russia, durante il sonno sotto del suo ghiaccio.

Ogni volta in cui lasciava affiorare le mani dalla nebbia, Italia ritraeva le braccia, troppo spaventato per lasciarsi risalire a galla, troppo dolorante per raccogliere le forze di affrontare il freddo che lo stava aspettando dall’altra parte.

Non c’era nulla per cui valesse la pena stringere i denti, come aveva fatto durante la traversata nella neve per raggiungere Russia, e per riemergere a sua volta. Non c’era niente che potesse compensare quel dolore, se solo non fosse stato per quel paio di occhi azzurri che lo avevano cercato, che lo avevano raggiunto, e che gli avevano mostrato la strada del ritorno.

Schiudendo lo sguardo fuori dalla nebbia, Italia allora si aggrappò a quegli occhi azzurri, si appese a quella luce fresca e confortevole come un cielo primaverile, non più dolorosa come una stilettata di ghiaccio, e non smarrì più il cammino.

 

♦♦♦

 

7 dicembre 1941

Krasnaya Polyana, Unione Sovietica

 

Una spinta di tepore più forte delle altre lo riportò a galla, soffiò via la nebbia in cui Italia era annegato durante quel suo sonno senza fine, affondò il braccio nell’oscurità e lo sradicò dallo stagnante tepore di quel limbo che ormai gli stava marcendo addosso.

Italia arricciò la punta del naso, la sfregò su qualcosa di caldo ma ruvido. Un tessuto. Tastò un odore forte, di stoffa vecchia, di polvere, di pelliccia umida. Ma almeno non sentiva freddo. Dove... Spostò una spalla, e la stoffa in cui era avvolto scivolò giù dal suo viso, schiaffandogli sulle palpebre una dolorosa botta di luce arancio. Inviò una scossetta di energia attraverso le braccia intorpidite, strinse le mani. Fra le falangi riconobbe la consistenza della stoffa, di qualcosa di cedevole e ruvido allo stesso tempo. Mosse di nuovo le dita. Aveva perso sensibilità sulle punte. Dove sono?

Italia si rigirò in un giaciglio di giacche e di pelli, si accasciò sull’altra spalla facendo cigolare le molle della branda su cui era steso, e schiuse gli occhi, dissolvendo la patina sfocata che si era raccolta fra le ciglia. Un tiepido chiarore riempiva l’ambiente. Lo solleticò lo scricchiolare lento e costante di un paio di mattoni messi a riscaldare in una teca di alluminio. Lo raggiunse il profumo stagnante, bruciato e un po’ ferroso della pietra lasciata abbrustolire. Un odore ancor più forte e pungente di quello delle giacche e delle pellicce in cui era avvolto.

Italia batté di nuovo gli occhi. Mise a fuoco le pareti di una tenda da campo colorate dal riverbero di una lampada a cherosene che traballava su un tavolino schiacciato in un angolo. Fuori non era ancora sceso il buio. Qualche ombra si spostò al di fuori della tenda, accompagnata da uno scricchiolare di passi sulla neve, da qualche brusio lontano, da voci indistinte che Italia non riconobbe.

Quelle ombre scure e sconosciute, come sgusciate fuori dalla nebbia appena dissolta, trasmisero a Italia un vuoto di paura dritto in fondo allo stomaco, facendogli provare la sensazione di gelo che lo stritolava ogni volta in cui il buio tornava a risucchiarlo e a richiamarlo a sé. Sono al fronte? O sono di nuovo a Mosca?  Ricadde sulla schiena. Gli occhi socchiusi, di nuovo smarriti nella foschia, e il respiro affrettato da avide boccate d’aria che lo tennero a galla, impedendogli di affogare nella nebbia. Sono ancora con Russia? Mi hanno di nuovo catturato? Cosa...

Spostò una mano sotto il suo giaciglio e raggiunse il petto. Un dolore ramificò attraverso le costole, una scossa gli trapassò lo sterno e gli fece inarcare le spalle, inchiodandolo alla branda. Quel lampeggio di dolore fu come uno stridente schiaffo in pieno viso.

Allagato da una vampata di sudori freddi, Italia riprese fiato. Il dolore si ritirò, lento come una marea, e lo lasciò di nuovo alla deriva con il suo corpicino debole e ferito, in balia delle memorie di tutto quello che aveva attraversato. Oh, giusto. Batté di nuovo gli occhi e si ritrovò a vagare nella grigia nebbia di Khimki, circondato dai vortici di vento e dalle sfrecciate azzurrine del ghiaccio, con le gambe affondate nei cumuli di neve che si era trascinato dietro durante la traversata. La bufera. Io sono tornato da Russia anche se Romano e gli altri mi chiamavano, ho sentito freddo, poi l’ho raggiunto, l’ho abbracciato, e ho parlato con lui, e...

Lo colse un altro giramento di testa. La vista si offuscò di nero, un fischio nelle orecchie risucchiò lo scoppiettare dei mattoni riscaldati, e forti brividi si arrampicarono attraverso le gambe, dandogli l’impressione di essere ancora accasciato in mezzo alla neve.

Italia si strinse le tempie, sprimacciò le dita sulle palpebre, e vagò nei ricordi. Le ultime immagini vissute con Russia sempre più sfocate, le loro parole sempre più distanti, come la memoria di un sogno. Cos’è che gli ho detto? E come ho fatto a tornare libero? Se...

La neve attraverso cui aveva camminato e sulla quale era crollato in ginocchio si era abbassata. Italia si era accasciato, riverso sul fianco, aveva guardato attraverso la foschia dietro la quale si nascondevano le sagome nebulose delle isbe, e si era ritrovato da solo in mezzo al freddo, in mezzo al silenzio interrotto solo dal suo respiro. Tornò il senso di spossatezza privo di dolore, il desiderio di lasciarsi andare, di abbandonarsi in quel luogo dov’era caduto, ma riaffiorò anche il breve battito di gioia che aveva provato quando aveva realizzato di essere di nuovo libero, quando aveva udito il caldo battito del suo cuore che ormai non era più prigioniero del ghiaccio, della nebbia e della paura.  

Italia aveva udito dei passi. Qualcuno gli era venuto incontro, e il soffice suono delle suole sulla neve fresca lo aveva spinto a tenere gli occhi aperti. Anche quella volta era stato raggiunto da un paio di occhi azzurri che erano emersi come da un sogno. Un sogno che aveva vissuto tante volte e che non gli era mai sembrato reale come in quel momento. Il sogno di due occhi azzurri che non avrebbe mai potuto confondere o dimenticare, anche se fossero trascorsi altri cento o mille secoli.

Sacro Romano Impero?

Quel sorriso, quella frase che aveva pronunciato – “Sei tornato” – erano sorti spontanei dentro di lui.

Ma la nebbia si era divisa, la vista si era rischiarita, la sagoma zoppicante si era avvicinata, e i tratti del suo volto si erano plasmati in quelli adulti di Germania.

No, non era Sacro Romano Impero. Era Germania.

L’ultima sensazione, l’ultimo ricordo. Le forti braccia di Germania che lo stringevano, il capo di Italia che cadeva sul suo petto, gli occhi che si chiudevano, e il nero che lo inghiottiva, permettendogli di abbandonarsi dove più si sentiva al sicuro, dove non c’era niente di cui avere paura.

Germania mi ha portato via? Sorse in lui un inaspettato singhiozzo di dolore e amarezza. Ma se fossi rimasto dall’altra parte, allora forse avrei davvero rivisto Sacro Romano Impero?

Italia tornò a rigirarsi nel giaciglio, facendo di nuovo cigolare la branda. Spostò un braccio e urtò qualcosa che emise un sottile squillo metallico contro le sue dita intorpidite. Piegò il gomito sulla branda, fece forza sul muscolo della spalla indolenzita, resistendo ai tremori risaliti lungo la schiena, e sollevò il busto.

La croce di ferro scivolò dal suo petto, ciondolò verso il basso e tornò a urtargli la mano, emanando la familiare scintilla d’argento simile a una strizzata d’occhio.

Italia sgranò le palpebre per la prima volta da quando aveva ripreso conoscenza. La mia croce. La raccolse fra le mani aperte a coppa, strinse leggermente le dita, e il lieve pizzicare dei bracci di ferro sulla pelle fu simile al guizzo che si era smosso nel suo petto, al brivido di calore che aveva sciolto il ghiaccio, liberandolo.

Italia accostò la croce al petto e sospirò trattenendo a stento le lacrime di commozione. Il battito del suo secondo cuore era tornato al suo posto. Già, non sono rimasto dall’altra parte, sono ancora vivo, sono tornato. E non devo essere triste per questo. Poggiò la croce di ferro sulla guancia, la sfiorò con le labbra, con il respiro che non era più oppresso dal peso della prigionia. Era libero. Sono tornato.

“Ohi,” lo colse una voce alle sue spalle. “Sei tornato?”

Per la seconda volta, il cuore di Italia si animò, spremuto da un singhiozzo di gioia e di stupore.

Si voltò.

Romano sedeva a gambe incrociate affianco alla piccola nicchia dove i mattoni roventi scricchiolavano e bruciavano fra le pareti della teca di alluminio ormai annerita. Fece scivolare il gomito giù dal tavolino, urtò una gavetta sporca ma vuota dove probabilmente aveva bevuto del surrogato di caffè, e si diede una stropicciata al viso esausto e smagrito, strofinando le dita e rigirando le nocche contro gli occhi appesantiti dalla stanchezza, ombreggiati dai capelli che cadevano sfoltiti e in disordine sulla fronte. “Era proprio ora.” Anche lui indossava una giacca pesante sopra gli abiti, nonostante la tenda fosse riscaldata.

Italia trasse un sospiro che lo riempì di tutto il calore che aleggiava nella tenda. I suoi occhi luccicarono, i suoi muscoli si alleggerirono, e le sue guance si spolverarono di rosso. “Romano.” Arrancò nel nido di giacche e pelli in cui era avvolto, premette un ginocchio sulla branda e la fece cigolare di nuovo. “Romano,” esclamò. “Sono...” Una saetta di dolore risalì la gamba che aveva piegato, gli morse il muscolo del polpaccio e lo fece ricadere sul gomito. Italia strinse i denti, ingoiò un guaito, vide le stelle.

“Fermo.” I passi di Romano lo raggiunsero, le sue braccia gli avvolsero le spalle e lo risistemarono nel mucchio di giacche, coprendogli la schiena. “Non ti alzare. Sei ancora ferito.”

“Ma...” Italia tornò a prendersi la fronte fra le mani. Gli girava la testa, le ultime scintille di dolore scoppiettarono come bolle luminose. Si strofinò il collo, la spalla, e tastò per la prima volta la consistenza ruvida delle bende che grattavano sotto gli abiti, sulla sua pelle ferita. Impastò la lingua sul palato. Sapeva di ferro, di amaro. Le guance e la gola secche come se avesse mangiato un pugno di sabbia. “D-dove siamo?”

Romano chinò lo sguardo. Gli sfilò le braccia dalle spalle e tornò a sedersi affianco allo scricchiolare dei mattoni abbrustoliti, di nuovo a gambe incrociate. Passò una mano fra i capelli, strofinò la nuca, e tenne il volto girato, gli occhi distanti. Si strinse nelle spalle e trasse un lungo sospiro. “In un villaggio,” rispose. “Quello da cui siamo partiti per venire a recuperarti. Ma dobbiamo andarcene. Forse addirittura entro stasera. Ieri Russia ha già cominciato a lanciarci addosso la controffensiva e ci sta massacrando.” Fece cadere la mano dal capo e la serrò sulle caviglie incrociate. Scosse il capo soffiando uno sbuffo amareggiato. “Sette armate di cavalleria,” commentò. “Roba da non credere. Non finiscono più, sembra che sbuchino dalla fottuta terra. Tutte truppe fresche appena cavate fuori da Mosca, senza nemmeno un giorno di guerra alle spalle, contro di noi che ormai non ci reggiamo sui piedi neanche per un giorno di marcia.” Distese una gamba e diede un calcetto a uno dei mattoni che si era inclinato fuori dalla teca di alluminio. “Pazzesco.” Il mattone ricadde sugli altri e sollevò uno scricchiolio più secco e acuto, come di porcellana che va in frantumi. “Sono bastate solo poche settimane per mandare a puttane tutti questi mesi di progressi.” Romano strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. Forzò le labbra in un sorriso tremolante e compassionevole, ma il suo sguardo vacillò. Gli occhi bordati dalle palpebre gonfie e sciupate ancora non furono in grado di levarsi da terra. Un ultimo sussurro a fior di labbra. “È proprio vero che contro di Russia non c’è possibilità di vittoria.”

Fra di loro, all’interno della tenda, si allungò un silenzio soffocante dove esisteva solamente lo scricchiolare dei mattoni roventi, qualche fischio di vento sbatacchiato sulle pareti di tela, e il rumore dei passi e delle voci provenienti dal villaggio che ora pareva appartenere a un altro mondo, a un’altra nebbia.

Italia riprese a respirare quell’aria che sapeva di ferro, di terra bagnata, di bende sporche, e di vecchie pellicce. Si strinse nelle giacche in cui Romano lo aveva avvolto impedendogli di scendere dalla branda, e anche lui abbassò lo sguardo, schiacciato da un peso ancor più doloroso delle ferite che bruciavano sotto le medicazioni. “È...” Sorse in lui una paura viscida e pressante che gli chiuse lo stomaco. Lo stesso timore che lo aveva schiacciato tante volte quando aveva provato a emergere dal buio del suo sonno, lo stesso che lo aveva sempre calciato indietro, dove tutto era nero, silenzioso e privo di dolore. “È colpa mia, vero? Se io...” Italia si strinse le spalle, affondò le mani fra i capelli e tenne il capo basso. “Se io non mi fossi mai lasciato catturare, allora noi...”

Romano scosse la testa. “Non pensarci,” rispose fin troppo in fretta. “Non serve a nulla rimuginarci. Ormai quel che è fatto è fatto.” Oscillò in avanti con le spalle, fece dondolare le gambe incrociate. “E comunque Germania è già al lavoro su una nuova strategia che ci permetterà se non altro di non perdere tutti i territori che abbiamo conquistato quest’estate.”

“Ma se...” Italia si morse il labbro, rimangiandosi le parole, ed emise un breve sussulto, colto da quella realizzazione improvvisa. Germania. “Ah!” Tirò su il capo con un rimbalzo, i suoi occhi saettarono da un angolo all’altro della tenda. “Ma dov’è Germania?” Si sporse dalla branda. “Sta bene? È qui con noi? È...”

“Sta bene.” Romano sbuffò e fece roteare lo sguardo. “Disgraziatamente. Ma mi ha lasciato qua a occuparmi di te intanto che ti rimettevi in sesto. Hai dormito per giorni.”

“E...” Il cuore di Italia tornò a rallentare, il calore si asciugò dalle guance, i suoi occhi tornarono tristi e colpevoli. “E tu stai bene? Russia non ti ha ferito, vero?”

Romano stropicciò le dita sulla stoffa dei pantaloni, fece traballare le gambe, e guardò in alto per nascondere di nuovo gli occhi sotto le ciocche di capelli. Un’ombra di conflitto gli attraversò lo sguardo. “Non sarà una cosa del genere a uccidermi, no? Dopo tutto quello che abbiamo passato venendo fin qua.”

“Oh,” sospirò Italia. “Sì. Credo. Ma...” La sua voce tremolò, arrochita dal freddo e soffocata da quei battiti d’ansia di cui il cuore era gonfio. “Ma gli altri, invece? Sono...” I suoi occhi traballarono, colti da un luccichio di speranza. “Stanno tutti bene, vero?”

Romano flesse il capo e indicò i lacci della tenda con un cenno del mento. “Perché non vai a controllare di persona?”

Una botta di panico sprofondò nella pancia di Italia. “No.” Italia strinse le gambe al petto, rabbrividì, e si rannicchiò nel suo giaciglio, desiderando solo essere inghiottito dalla branda, sprofondare di nuovo nel suo sonno nero, scappare da quella paura che gli fece dimenticare persino del dolore delle ferite. “No, io...” Scosse il capo e premette la fronte sulle ginocchia. “Non posso farmi vedere dagli altri. Dopo tutto quello che è successo, dopo tutto quello che ho fatto, mi...” Un altro spasmo di paura fece sobbalzare i suoi battiti. Italia si aggrappò al petto, sfiorò la croce di ferro che non riuscì comunque a dargli conforto. “Mi odierebbero e basta.”

Romano gli rivolse lo sguardo per la prima volta, batté le palpebre e inarcò un sopracciglio. “Ma cosa dici?” Sciolse le gambe incrociate, si rialzò da terra e andò a risollevargli di nuovo le spalle. “Su, alza il culo e vai per lo meno a farti vedere in faccia.” Lo aiutò a reggersi in piedi e gli diede una piccola spintarella sulla schiena. “È il minimo, direi. Hai idea di quanto siano tutti preoccupati? Così almeno la piantano di rompere.”

“M-ma...” Italia si aggrappò ai lembi della tenda e frenò la camminata. “Romano, aspetta.” Si girò verso di lui. “Io...” Gli sfiorò una spalla, guidato dal fremente desiderio di gettargli le braccia al collo, di farsi stringere, di farsi strofinare la schiena e sentirsi dire che andava tutto bene, che avrebbero superato anche quella, che sarebbe bastato rimanere uniti per rimediare a quel disastro, per andare oltre. Ma non successe nulla. Italia si morse il labbro, restio, e compì solo un piccolo passo più vicino a lui. “V-volevo solo dirti che...”

Romano arretrò. Gli raccolse una spalla, lo fece girare e lo pose di nuovo di fronte allo spacco della tenda. “Va’.” Lo guidò fuori tenendogli una mano fra le scapole, si rimise a braccia conserte, scostante, e si rinfilò fra i lembi di tela, rientrando nel tenue ambiente riscaldato. “Ma non metterci troppo. Fra un po’ dobbiamo sbaraccare tutto.”

“Oh. Va...” Italia si rimboccò la giacca, respirò attraverso il bavero, e annuì. “Va bene.” Diede le spalle allo spicchio di luce attraverso cui Romano lo aveva guidato per allontanarlo, si strofinò le braccia infreddolite, e trascinò i piedi guardando in basso, senza nemmeno conoscere la sua destinazione. Di nuovo la nebbia tornò a impossessarsi del suo cuore, di nuovo Italia si ritrovò a vagare da solo nel buio, smarrito.

Il vento gli soffiò in faccia, i cristalli di ghiaccio gli pizzicarono le guance e graffiarono via la sensazione di calduccio in cui si era imbozzolato mentre si era appisolato sulla branda. Fu uno schiaffo di lucidità che spazzò via gli ultimi residui di nebbia dalla sua mente e dal suo cuore.

Italia tirò su col naso, si strofinò il viso rosso e infreddolito, e continuò a trascinare il passo sulla neve indurita senza nemmeno guardare dove metteva i piedi. L’immagine di Romano voltato, delle sue braccia conserte e del suo sguardo distante, s’impresse dentro di lui come una delle ferite che bruciavano di dolore attraverso la pelle. Non ha voluto nemmeno un abbraccio. Ancora un po’ e nemmeno mi toccava. Si diede una strofinata fra i capelli. Sentiva la testa pesante, le orecchie ancora ovattate, gli occhi appannati da quel velo di tristezza. Dev’essere ancora arrabbiatissimo con me. Anche se ora siamo tornati assieme, lui...

Lo colse un ricordo. Il suo animo di nuovo racchiuso nella tempesta di ghiaccio, il vento a gridargli nelle orecchie, e la neve a isolare lui e Romano dagli altri che stavano combattendo. “Voi mi avete abbandonato,” gli aveva gridato. “Non avete fatto niente per salvarmi quando Russia mi ha portato via.” Riemerse tutta quella rabbia che lo aveva reso cieco, impedendogli di affacciarsi al dolore di Romano e di frenare quelle parole che gli avevano sicuramente spezzato il cuore.

Sarà per tutto quello che gli ho detto? si chiese, tenendosi ancora più stretto alla giacca. Ma l’ho fatto solo perché ero sconvolto, e perché sono rimasto con Russia così tanto tempo, e perché avevo paura, e perché...

Qualcosa lo bloccò. La fastidiosa ma sincera vocina della sua coscienza frenò quel pensiero.

Italia sospirò e attraversò la nuvoletta di fiato bianco sbocciata dalle sue labbra. Gli occhi bui, le spalle schiacciate e le gambe sempre più pesanti che comunque continuarono a trascinarlo attraverso le vie del villaggio, in mezzo alle ombre dei soldati che gli scivolarono addosso come fantasmi. Però Russia non mi ha mai messo in bocca parole che non pensavo. Vorrei crederlo. Vorrei davvero che fosse così. Vorrei credere di aver detto tutte quelle brutte cose solo perché ero influenzato da lui, ma... Strinse la mano aggrappata al petto. Ma sento che Russia in realtà ha solo tirato fuori il lato di me che ho sempre cercato di nascondere agli altri e a me stesso. Io pensavo davvero tutte quelle cose che ho detto. E allora come farò... Una nuova gelida botta di paura gli pugnalò il cuore. Il suo battito si interruppe con un tonfo sordo, lo fece impallidire, gli strozzò il fiato in fondo alla gola, rendendo l’ambiente nero. Come farò a guardare in faccia Germania dopo averlo trattato così?

“Ita?”

Quella voce mandò in frantumi la scura bolla di pensieri nella quale stava soffocando. Riportò Italia alla realtà, con i piedi a terra e lo sguardo affacciato alle strade del villaggio dove s’infossavano le ombre del tramonto. Lo fece girare.

Prussia, fermo fra le fioche luci di due lampioni, lo stava osservando con un’espressione stupita, quasi incredula di vederlo già fuori, cosciente, e in piedi sulle sue gambe.

Italia trasse un sospiro che schiuse il nodo al cuore, facendo risalire il sangue alle guance. “Oh.” S’illuminò di gioia, riuscì a distendere il primo vero sorriso da quando si era svegliato. “Prussia!” Come liberate dal peso di due macigni, le sue gambe volarono attraverso il suolo innevato. Italia spiccò un balzo, spalancò le braccia, e si fece acchiappare al volo da Prussia, senza nemmeno preoccuparsi del suo breve ansito di dolore. Non gli importava. Gli importava solo delle braccia che avevano raccolto il suo salto, delle spalle a cui si era aggrappato e in cui aveva potuto affondare il viso, delle mani che si erano strette alla sua schiena per non farlo scivolare giù.

Prussia vacillò di un passo all’indietro, fece scivolare le mani attorno alle gambe che Italia aveva avviluppato al suo torso, e gli diede una spintarella per non farlo cadere verso il basso. “Piano, piano,” rise vicino al suo orecchio, “c’è abbastanza me da abbracciare senza saltarmi addosso.”

Italia rise a sua volta, respirando attraverso la sua giacca, attraverso quel profumo ferroso e muschiato così simile a quello di Germania. Strinse di più le braccia attorno alle sue spalle e incrociò le gambe che gli aveva allacciato attorno ai fianchi. Dopo tutta la freddezza di Romano, finalmente un paio di braccia calde e affettuose ad accoglierlo. “Oh, quanto sono contento che stai bene.”

Prussia gli strofinò una mano fra i capelli e gli diede una soffice pacca sulla nuca. “E chi mi ammazza. Piuttosto...” Sciolse l’abbraccio, rimise Italia a terra, si diede una spolverata alla spalla, e si cinse i fianchi, flettendo il capo di lato per esaminare Italia. Annuì e gli rivolse un sorriso d’approvazione. “È bello rivederti in piedi, e be’...” Fece spallucce con aria sdrammatizzante. “Di nuovo assieme a noi.” Anche Prussia però era ferito. Aveva una guancia bendata attraverso la quale si notava ancora il gonfiore del livido fiorito attorno alla ferita ricucita.

La fiammata di gioia che era bruciata attraverso il viso e il petto di Italia si estinse, tornando a rovesciargli addosso quel freddo senso di sconforto che aveva provato al suo risveglio e davanti al tocco negato di suo fratello. D’improvviso, non ebbe più tanta voglia di abbracci e di sorrisi.

Italia si strofinò un braccio – le bende prudevano, probabilmente avrebbe dovuto farsele cambiare – e si guardò attorno. Prussia era da solo. Qualche soldato attraversò la strada, degli uomini si fermarono affianco a un furgone che avevano appena riacceso in moto, un paio di loro uscirono dalle isbe e altri aiutarono a sistemare il carico su uno dei mezzi posteggiati in fila. Nessuno badò a loro. “Non sei assieme a Germania?”

Prussia scosse il capo e si diede una grattata alla guancia bendata. “Ero dal medico, a cambiare la medicazione, e ora stavo andando a dare una controllata alla postazione radio prima che smantellino tutto. West è in tenda.” Raccolse le spalle di Italia come aveva fatto prima Romano, lo fece girare, e lo guidò verso la via principale illuminata dai pochi lampioni accesi. “Vai, vai da lui.” Gli diede un paio di spintarelle sulla schiena. “Vedrai come sarà contento di vederti di nuovo in...”

“No!” Italia puntò i piedi a terra e grattò le suole sulla neve. “C-cioè, io...” Tornò a girarsi, a gettare lo sguardo a terra, e avvolse un polso di Prussia per non finire di nuovo allontanato. “Uhm...” Ma le parole che Prussia aveva appena pronunciato gli rimbombarono addosso, lo perseguitarono e tornarono a gettare un’ombra di tensione sul suo viso. “Allora è vero.” Prima che smantelliamo tutto, ha detto. “È vero che Russia ha vinto la battaglia e che...” Si tenne più stretto al braccio di Prussia. Lo guardò quasi implorandolo di aver capito male. “E che non c’è più speranza di prendere Mosca?”

Quell’ombra di conflitto scivolò anche attraverso gli occhi di Prussia, spalancò una voragine di silenzio così fitto che a Italia parve quasi di poter udire il lento volteggiare della neve secca raccolta dal vento e trascinata fra le loro gambe come polvere.

Prussia guardò in disparte, guardò i soldati, si passò nuovamente la mano attraverso la guancia ferita, affondò il tocco fra i capelli, dando una strofinata dietro l’orecchio, e si riprese con un sospiro. “Vedrai che in qualche modo sistemeremo anche questa. Poi West ha già un piano, quindi possiamo starcene tranquilli.” Rinnovò quel mezzo sorrisetto da furbo con cui lo aveva punzecchiato prima e tornò a dargli una piccola spintarella sulla spalla. “Va’ da lui e fatti rassicurare, su, su.”

Italia si scollò da lui e si affrettò a scuotere la testa. “Io non credo che Germania mi vorrà vedere,” mormorò. “Sarà ancora arrabbiato.”

“Arrabbiato?” Prussia sollevò un sopracciglio. “Arrabbiato per cosa?”

“Lo sai.” Italia intrecciò le punte delle dita, si graffiò le nocche, e gettò lo sguardo ai piedi, spostando il peso da una gamba all’altra. “Per tutto quello che ho fatto, per tutto quello che ho detto, e per...” Si morse il labbro. Abbassò la voce senza nemmeno fare condensa. “Per tutto quello che è successo per colpa mia. E ora che dobbiamo anche arretrare per la prima volta e che rischiamo di perdere tutto quello che abbiamo conquistato quest’estate, non mi vorrà mai più vedere né parlare.”

Prussia si ritrovò contagiato da quel malessere che gli venne addosso come una soffocante nuvoletta di fumo. Anche il suo sorriso scemò, gli occhi persero lucentezza. “Ita...” Scosse il capo, si rifiutò di assistere al faccino di Italia ridotto in quel modo. “Su.” Tornò a raccogliergli le spalle e lo spinse verso l’unica persona che avrebbe potuto raddrizzare quel broncio di dolore e colpevolezza. “Va’ da lui,” insistette. “Va’ da lui, fatevi una chiacchierata o anche qualcos’altro e risolvetela fra di voi.”

“M-ma io...”

“Io vi raggiungo appena ho finito di controllare la situazione sugli altri fronti.” Prussia si batté la mano sul petto e gli fece l’occhiolino. “Se West fa lo scemo con te, ci penso io a dargli un pugno in testa, intesi?”

Rincuorato e incoraggiato dal suo ottimismo, da quel ghigno aguzzo che era riuscito a lacerare ogni sua paura, anche Italia ritrovò il coraggio di mostrare un bocciolo di sorriso. “S-sì.” Annuì. “Va... va bene.” E proseguì lungo la stradina senza bisogno di farsi spingere o sorreggere.

Senza interrompere il passo che ora avanzava con più sicurezza, strinse i pugni lungo i fianchi, chiuse gli occhi, raddrizzò il capo e raccolse un lungo sorso di fiato dalle narici, riempiendosi il petto. Il cuore però accelerò i battiti, lo stomaco si chiuse, e un groppo d’ansia gli rese la gola secca. Fu lo stesso gomitolo di paura e agitazione che aveva provato un anno prima durante il viaggio in treno che lo aveva condotto fino al Brennero, quando era corso lungo la piattaforma innevata, quando si era ritrovato ad affrontare lo sguardo gelido di Germania, quegli occhi che avrebbero potuto pietrificarlo, quella sua sfuriata che era stato il definitivo affondo di spada dopo i mesi di agonia trascorsi a combattere e a penare nei Balcani.

Italia ricominciò a tremare. Il suo passo tornò incerto e traballante, i suoi pensieri opprimenti. Non voglio mai più rivivere un momento simile. Non voglio mai più rivedere Germania arrabbiato in quel modo con me, non voglio più sentire il nostro legame vacillare in quella maniera, non voglio più avere la sensazione che si stia di nuovo per spezzare. Non potrei mai sopportarlo. Di nuovo guadagnò un respiro incoraggiante. Soffiò lentamente l’aria bianca dalle labbra. Eppure devo farlo.

Proseguì lungo la strada che conduceva alla periferia del villaggio e dovette sollevare il braccio per ripararsi dai raggi del sole morente che brillavano lungo la piana di neve, lunghi e affilati come lame di ghiaccio. Socchiuse le palpebre e scrutò l’orizzonte. Una larga distesa di cristallo luccicante attraversata da qualche vortice di vento bianco, chiazzata dalle sagome nere e piatte delle isbe, dei cavi della luce e degli alberi spogli, e bagnata dalle sfumature ghiacciate del tramonto che stava già calando, anche se era solo pomeriggio.

Nonostante la freddezza di quel chiarore, la luce del tramonto trasmise a Italia un pacato senso di serenità e rassegnazione. Devo affrontare Germania. Non ho scelta, anche se ho paura, anche se so che farà male. Italia si rimboccò la giacca. Proseguì attraverso il suolo talmente duro, congelato e consumato dal passaggio dei mezzi militari, che non scricchiolava nemmeno sotto la sua camminata. Ma forse c’è un modo per rimediare a quello che ho fatto. Riprese a mangiucchiarsi il labbro inferiore, a sopprimere il formicolio dei brividi arrampicati lungo il suo viso. C’è un modo per farmi perdonare, e c’è un modo per evitare che Germania si allontani da me. Almeno per un po’. Sì, non ho altra scelta. Forse Germania all’inizio si arrabbierà, ma poi capirà anche lui, sono sicuro. Se questo servirà a non perderlo e a non distruggere la nostra alleanza, sono disposto a correre il rischio. Raggiunse la croce di ferro appesa sotto la giacca, la strinse in un moto di gratitudine per averla di nuovo al suo fianco, e le rivolse un’ultima preghiera, un’ultima richiesta, un’ultima spinta di coraggio per non sentirsi troppo solo in quella lotta. E ora sono disposto a tutto pur di non perdere Germania.

Il maltempo delle ultime settimane si era mitigato, eppure il villaggio era avvolto da una strana e inquietante quiete elettrica, simile a quella che Italia respirava prima di una tempesta o di un temporale. Quell’aria lo spinse a rimboccare la giacca e a rintanarsi al caldo, facendolo rabbrividire ancor di più rispetto a quando si era trovato in mezzo alla bufera di neve e di ghiaccio.  

Lo colse un presagio viscido. Una brutta sensazione che andava al di là di Germania, di Russia, e della campagna in Unione Sovietica.

Non avrebbe dovuto aspettare molto per scoprirne l’origine.

 

.

 

Racchiusi in una vecchia e ammaccata gavetta di alluminio ormai annerita – una di quelle che avevano distribuito in ogni tenda per preparare la nicchia della stufetta –, quattro mattoni bruciavano e crepitavano, roventi, distribuendo il loro calore ondeggiante fra le pareti di tela dove regnava un silenzio intenso, interrotto solo dallo sfregare delle bende vecchie che Germania si stava cambiando da solo.

Germania finì di srotolare l’ultima fascia sporca dal braccio che si era ferito quando era stato aggredito dalla tempesta di ghiaccio, a Khimki. Ammucchiò la benda insanguinata nell’angolo affianco alla branda dove aveva già accatastato quelle vecchie e sporche di cui si era spogliato, e riavvolse le ferite ricucite con le fasce nuove che erano riusciti a recuperare dai carichi che non si erano congelati durante il trasporto dal fronte. Si spostò a sedere più vicino alla nicchia di mattoni, per tenere al caldo la pelle nuda e spalmata di tintura di iodio, e sistemò la giacca che si era buttato sulle spalle per non far prendere freddo alla schiena durante la medicazione. Strinse la benda pulita sotto il gomito, la fissò, e passò a quella successiva.

Dentro la tenda regnava un odore di terracotta rovente, di neve sciolta e infangata, delle sue vecchie bende impregnate di sangue rappreso, di disinfettante, e di abiti sporchi che non c’era modo di lavare. Ma almeno era al caldo.

Germania finì di arrotolare attorno al braccio anche l’ultima benda, si massaggiò il muscolo livido e indolenzito, e rimboccò la giacca senza però indossare le maniche. Si passò una mano fra i capelli, stropicciò la fronte, lasciò scendere il tocco lungo le palpebre gonfie, e posò gli occhi rossi di stanchezza sulle carte che aveva spiegato e distribuito sotto la luce della lanterna a cherosene. Non aveva mai smesso di lavorare nonostante i dolori, nonostante il suo cuore affaticato e nonostante la sua mente esausta.

Corrugò la fronte sotto le dita ancora pressate sotto i capelli in disordine e represse un conato di frustrazione davanti a quello che poteva dedurre dalle carte. Ma non ne distolse lo sguardo. Nonostante la sconfitta, non gli era concesso di scappare. Non mi è ancora concesso distogliere lo sguardo dalla mia preda, rimuginò. Non mi è ancora concesso chiudere le fauci e retrarre gli artigli. E non voglio nemmeno farlo. Questa sconfitta non ha fatto altro che rendere il mio desiderio di conquista più assetato che mai. Distese una mano, scostò un mucchio di bollettini appena stampati e provenienti dal fronte di Tula, e fermò il tocco sulla carta su cui aveva usato il compasso per racchiudere l’area della ritirata dal fronte di Mosca. Un brivido lo fece esitare. Però...

Però c’era sempre la realtà della sconfitta con cui avrebbe dovuto convivere e che bruciava più di tutte le ferite che avevano lacerato il suo corpo.

Germania si massaggiò il torso senza premere troppo sulla medicazione di cui aveva dovuto occuparsi il dottore e che lui non aveva toccato. Trasse un respiro più debole e incerto, deglutì per ricacciare indietro il sapore del sangue e per sciogliere l’impressione di avere ancora il ferro contundente affondato nel suo corpo, sotto la costola spezzata. I suoi occhi fissi sul territorio sovietico accerchiato dal segno di compasso. Lo sguardo socchiuso toccato di traverso dalla tenue luce della lampada che rendeva il suo volto ancora più duro, intagliato nell’ombra come granito.

Un blocco completo, realizzò con amarezza. Un blocco completo su tutto il fronte semicircolare di trecento chilometri che racchiudono Mosca. Il gelo troppo aggressivo per poter proseguire, l’esercito troppo stanco per poter reagire alla controffensiva di Russia che è già cominciata, Mosca che ormai si è rivelata inespugnabile, e il completo fallimento dell’Operazione Tifone.

Uno scoppio di calore mandò in frantumi lo spigolo di un mattone, rimbalzò sulla teca di alluminio e fece sfaldare la terracotta abbrustolita che sollevò un rovente rigetto di scintille.

Germania puntò i gomiti sulle ginocchia, raccolse le tempie fra le mani, e trasse un lungo sospiro che dovette mozzare fra i denti a causa di una fitta sotto la costola rotta. Serrò le dita tremanti fra i capelli. Gli occhi rossi fissi sul pavimento della tenda. I muscoli rigidi in quella gabbia di rabbia e dolore.

Non ci sono riuscito.

Le pareti della tenda precipitarono nel buio. Una vampata di gelo risalì le braccia nude di Germania e sollevò la pelle d’oca sotto le bende, lasciando che il ghiaccio si arrampicasse nel suo cuore. Tutto si fece scuro e freddo, come se i mattoni avessero smesso di scoppiettare, come se qualcuno avesse gettato dell’acqua ghiacciata sulla lampada. L’unico rumore a rimbombare fra le parti della tenda era quella nube di pensieri brontolanti che Germania non riusciva a soffiare via dalla sua testa.

Nonostante in partenza avessi tutte le condizioni a mio favore, a cominciare dall’effetto a sorpresa, Russia ha vinto. È pur sempre vero che ho ancora in mano i territori che sono riuscito a conquistare finora. Ho Kiev, ho Smolensk, e Finlandia sta ancora tenendo Leningrado sotto assedio. Ma questo basterà? E soprattutto, riuscirò a mantenere ciò che gli ho sottratto? Riuscirò a resistere alla controffensiva di Russia e a non farmi schiacciare, considerando tutta la potenza che ha dimostrato combattendo contro di me? E considerando anche... Germania si sfilò una mano dai capelli, distese il braccio, espose le nuove medicazioni alla luce della lanterna. Sospirò. Considerando le mie condizioni?

Tornò a pervaderlo quell’atroce sensazione di smarrimento che aveva provato quando era caduto svenuto fra le braccia di Italia. Il buio attorno a lui si dilatò, lo risucchiò di nuovo in quel luogo dove veniva privato di ogni dolore, di ogni pensiero, dove si sentiva in pace e al sicuro, ma anche in preda a un’inspiegabile nostalgia.

Germania chiuse gli occhi, scosse la testa e si massaggiò la fronte per disfarsi di quelle vertigini, per non perdere di nuovo contatto con la realtà. Che cosa mi sarà successo? Premette una mano sulla branda, spostò il tocco facendola cigolare, si tolse la giacca dalle spalle e la accartocciò per posarvi la testa sopra. Si coricò distendendo un braccio sul viso. Così disteso e vulnerabile, lontano dagli occhi dei suoi alleati e dei suoi nemici, visse il dolore sentendosi staccato dal suo corpo, affacciato a quell’ambiente lontano ma tiepido e familiare che lo chiamava a sé. Non è la prima volta che provo una sensazione simile, ma non è mai stata così insistente come adesso.

Rilassò il respiro, rallentò il battito del cuore, si circondò di quella sensazione soffice e sospesa, e fu come trovarsi una seconda volta fra le braccia di Italia, avvolto da quel senso di protezione e di abbandono nel quale sapeva di potersi rifugiare senza rimorso e senza vergogna.

Cosa significano quei sogni? Ogni volta in cui mi ritrovo a essere più vulnerabile ed esposto, è come se dentro di me si risvegliasse qualcosa che mi accompagna da tutta la vita e che allo stesso tempo non conosco. Un qualche luogo dove solo Italia riesce a raggiungermi.

Si strinse di nuovo il torso ferito, trattenne il respiro per non finire di nuovo fulminato da una scarica di dolore, e si girò sul fianco con l’intenzione di rilassare i muscoli, di chiudere gli occhi e di assecondare quel bisogno di silenzio e di guarigione, per recuperare le forze prosciugate dalla lotta contro Russia e per abbandonarsi nel ricordo della voce di Italia. Quella voce che lo aveva chiamato fra i singhiozzi e che era venuto a prenderlo dall’altra parte, impedendogli di morire sul campo di battaglia.

“Germania... Germania...”

Quella stessa voce che ora suonò così nitida e vicina. “Germania?” Quella stessa voce che lo stava chiamando fuori dalla tenda. “Germania, posso entrare?”

Germania spalancò gli occhi, rimbalzò sulla branda arpionandone il bordo per non rotolare a terra, e gettò lo sguardo sui lembi della tenda ancora chiusi. “I...” Ricacciò indietro quel breve ansito di sgomento. “Italia...” Riagguantò la giacca che aveva appallottolato sotto la testa, se la gettò su una spalla prendendosi una manica in faccia, la rigirò fra le mani incerte e tremanti, e la indossò al contrario. “Cosa... sei tu?”

“Uhm.” L’ombra di Italia si spostò fuori dalla tenda, senza entrare. “S-sì, sono...” la sua figura si rimpicciolì come se si fosse stretto nelle spalle. “Sono solo, uhm, volevo...” Infilò le punte delle dita fra i due lembi e aprì un piccolo spiraglio. “Posso entrare? Se vuoi posso...”

“S-sì, entra.” Germania rigirò la giacca per l’ennesima volta, riuscì a raddrizzarla, a rimboccarla attorno alle spalle, a lisciare le maniche che non aveva ancora indossato, e si coprì la fasciatura sul torso solo con il braccio. Rimase seduto, affianco al calore dei mattoni e sfiorato dal riverbero oscillante della lanterna. Passò di nuovo una mano fra i capelli, li tirò indietro ma le ciocche tornarono a cadere in disordine. Non insistette. “Vieni pure.”

Italia fece scivolare dentro la punta di un piede e sgattaiolò fra i lembi della tenda ancora spremuti fra le sue mani. “S-scusa, non volevo disturbarti.” Richiuse la tenda dietro di sé, tenendovi le spalle accostate, e sollevò lo sguardo. “Stavi...” I suoi occhi nocciola rischiariti dal tepore della lanterna, si posarono sulle carte aperte, sui bollettini sparsi e su quelli che erano caduti sul pavimento, sulle bende sporche di sangue ammucchiate affianco alla gavetta che conteneva i mattoni riscaldati, sulla branda sfatta su cui Germania sedeva, su quella tetra ombra di stanchezza che gli gravava addosso, sulle sue spalle ricurve e coperte solo dalla giacca, e sul capo sorretto dalle mani consumate dalla guerra. Quell’aria distrutta rendeva Germania così diverso, come se il dolore e la fatica non appartenessero a un corpo sempre forte e saldo come il suo.

Italia trasse un sospiro, soffocò un battito del cuore e trattenne il pizzicore delle lacrime. Quell’immagine gli trasmise un dolore indicibile. “Stavi riposando?” Di nuovo finì schiacciato dal senso di colpa. Compì un passo indietro portando un tallone fuori dalla tenda. “Scusami, non volevo disturbarti, se vuoi posso torna...”

“No,” lo interruppe Germania. “No, stavo solo...” Germania voltò lo sguardo, raccolse una spallina della giacca che gli stava di nuovo scivolando dalla schiena e si coprì. “Puoi restare, se vuoi. C’è...” Si tirò più indietro e sbirciò Italia dall’ombra. “C’è qualcosa di cui volevi parlarmi?”

“S-solo...” Italia intrecciò le mani sul grembo, strofinò le unghie sui polpastrelli, compì un piccolo passo in avanti ma sempre a capo basso e a spalle chine. Gli occhi premuti sul pavimento perché faceva troppo male vedere Germania ferito. Per colpa sua, oltretutto. “Volevo solo sapere come stavi, se le ferite stanno guarendo.” Un breve sospiro. “E se hai bisogno di qualcosa.”

“Sto meglio.” Germania annuì, usò un tono rassicurante, e si massaggiò un braccio bendato. “E anche il mio corpo guarirà. Non è la prima volta che rimango ferito durante una guerra, dopotutto.” Il crepitare dei mattoni riempì quel silenzioso vuoto che si stava aprendo fra di loro. Germania diede un’altra strofinata alla fasciatura sul torso e sollevò lo sguardo senza però voltare il viso. “Tu ti sei ripreso?”

“Sì.” Anche Italia si affrettò ad annuire, a rassicurarlo. “Sì, sto meglio. Sono riuscito ad alzarmi da solo. Romano mi ha tenuto d’occhio, quindi...” Rigirò ancora le punte delle dita e pizzicò le nocche fra le unghie. “Non avevo nulla da temere.”

“Bene,” rispose Germania. “Questo è un bene.” Passò un’altra strofinata attraverso il bendaggio, si massaggiò il fianco, contrasse una smorfia e girò il capo per nascondere quella smorfia di sofferenza. Rimase seduto e piegato sulla branda, racchiuso nella sua nera nebbia di sconfitta che lo rese ancora più distante e irraggiungibile.

Prima Italia non riusciva nemmeno a sfiorarlo con gli occhi, ora non riusciva a staccargli lo sguardo di dosso. Brividi d’ansia rimontarono dalla pancia e accrebbero un senso di nausea che rese l’ambiente più stretto e soffocante attorno a lui. Il battito del cuore superò il crepitare dei mattoni nella gavetta. Un galoppare sempre più rapido e fitto, pesante da sostenere come un sasso fra le costole. Non rimanere in silenzio. Quel silenzio allungò la distanza fra loro ancor più della sgridata del Brennero di un anno prima, spalancò una voragine di vuoto in cui Italia si sentì precipitare. Lo sguardo distante di Germania fu peggio di una sua fredda occhiataccia di rimprovero. Non rimanere in silenzio, Germania, ti prego. Di’ qualcosa. Italia strinse le dita intrecciate fino a far sbiancare le unghie. Di’ qualsiasi cosa, ma non rimanere zitto come se avessi rinunciato a sistemare le cose fra noi due. Io sono qui. Sono qui, mi vedi? Guardami. Guardami, Germania, ti prego. Non ti voglio perdere.

“Ehm.” Italia si schiarì la voce. Azzardò un altro tentativo. “Vuoi...” Avanzò di un piccolo passo, ci ripensò, e tornò indietro. “Hai bisogno che faccia qualcosa per te? Se vuoi posso portarti qualcosa da mangiare, oppure posso andare a chiamare il dottore, così ti visita e...”

“No.” Germania lo interruppe di nuovo. “Non serve.” Si chinò a raccogliere i bollettini che erano caduti, li impilò uno sull’altro, sfogliò una delle carte topografiche e ripescò una matita rotolata fino all’orlo del tavolo. “Ho solo bisogno di riposarmi. E poi c’è ancora molto lavoro da fare. C’è la ritirata da organizzare, e devo già cominciare a pensare a un piano per la controffensiva, e anche a raccogliere i bollettini dagli altri fronti per...”

“Oh.” Italia indicò l’esterno. “Prussia è già andato da quelli della radio per controllare e farsi dire tutto quello che sta succedendo anche nelle altre battaglie. Dopo ha detto che viene subito qui ad avvisarti.”

“Ah.” Germania annuì. Fece scivolare la mano dalle carte, tornò con i gomiti sulle ginocchia, e intrecciò le dita, facendole tamburellare sulle nocche. “Bene.”

Un’altra voragine di silenzio inghiottì l’ambiente scuro della tenda, zittì lo scricchiolare dei mattoni roventi, il fischio del vento contro le pareti di tela, e il ticchettare delle unghie di Italia che continuavano a graffiare la pelle ormai rossa e consumata.

Italia inspirò a fondo e raffreddò la fiamma di agitazione salita a bruciargli le guance. “Sei...” Si rosicchiò il labbro fino a sentire il sapore della neve rimasto fra le screpolature della pelle. Lo stomaco di nuovo torto in un nodo. “Sei sicuro che non hai bisogno di altro?”

“No.”

“Oh.” Il silenzio stritolò il cuore di Italia, gli fischiò nelle orecchie, gli scaricò addosso un altro spasmo di brividi, facendo sorgere in lui il desiderio di gridare piuttosto che permettere a quel vuoto spalancato fra lui e Germania di inghiottire i suoi pensieri, tutte quelle parole che non aveva il coraggio di pronunciare. Ti prego. Fra le palpebre annerite sorse un velo di lacrime che si costrinse a non versare. Il cuore così pieno d’angoscia da dar l’impressione di star scoppiando. Ti prego, ti scongiuro, dimmi qualcosa. Dimmi qualsiasi cosa, parlami, urlami, sgridami quanto vuoi, mandami via e dimmi che sono un buono a nulla e che ho rovinato tutto, ma non restare così zitto senza farmi capire cosa dovrò fare adesso e cosa succederà fra noi due, ti prego. Ti prego, Germania. Chinò il capo fra le spalle e strizzò gli occhi per contenere il pianto sempre più caldo e pesante. Non allontanarti da me.

Chino a sua volta con il capo fra le spalle, lo sguardo girato e le mani giunte come in una dura e silenziosa preghiera, anche Germania stava combattendo con lo stridente vortice di pensieri che gli stava ululando nella testa, tagliente e doloroso come il vento siberiano dentro cui aveva combattuto durante le battaglie contro Russia. Perché te ne stai lì fermo in silenzio? Indurì le spalle, corrugò la fronte e trattenne il respiro. Coraggio, Italia, reagisci. Arrabbiati con me come hai fatto davanti a Russia, mettiti a piangere come hai fatto lo scorso inverno al Brennero, stammi appiccicato dicendomi di avere paura di rimanere di nuovo da solo, lamentati per il dolore delle ferite o per il freddo, qualsiasi cosa! Fai qualcosa ma non comportarti come se ormai non t’importasse più niente di me o dell’alleanza. Italia... Rilassò la pressione delle mani intrecciate, lasciò che quel triste pensiero rendesse i suoi occhi ancora più opachi e segnati dal peso di quella guerra che non era in grado di sostenere da solo. Non allontanarti da me.

“Io...” Italia si girò di profilo e tornò a raccogliere un lembo della tenda, senza però né aprirlo né uscire. Non stava ancora guardando Germania negli occhi. “Io in realtà ero venuto qui per chiederti...” Stropicciò il telo fra le dita. “Per chiederti di...” Si strinse nelle spalle, trasse un lungo respiro, e si preparò a incassare il colpo che sarebbe arrivato subito dopo aver pronunciato quelle parole. Le disse d’un fiato, prima di ripensarci. “Di poter tornare per un po’ di tempo a casa, in Italia. Solo un paio di mesi. Solo fino alla fine dell’inverno, magari.”

Germania fu aggredito da una botta di gelo in pieno ventre che lo fece sbiancare, come se Italia avesse spalancato la tenda lasciando entrare una risacca di vento e nevischio. Fu uno schiaffo di ghiaccio sulla pelle nuda e ferita, un vuoto allo stomaco ancor più doloroso della ferita che pulsava sotto le bende, un freddo ancora più estraniante di quello in cui si era ritrovato a cadere durante l’ultima battaglia.

Trovò la forza di sollevare lo sguardo su Italia. Batté due volte le palpebre brucianti, mise a fuoco il suo profilo girato che traballava come la luce della lanterna. Lo interrogò con un sussurro. “Cosa?”

Italia strinse la mano con cui si era aggrappato alla tenda e gli diede le spalle. “Non sto abbandonando la guerra, te lo giuro. È solo che...” Riprese fiato. Gli si era seccata la gola, sentiva il battito del cuore proprio in fondo alla lingua. “Che preferisco tornare dalla mia gente, almeno per un po’. Ma Romano può sempre rimanere qui. Può restare nelle retrovie, e io tornerò comunque in primavera, non sarà una cosa definitiva. Mi serve solo tempo. Mi serve un po’ di tempo per ripensare a tutto quello che è successo, capisci?”

“No.” Un primo ma ancora debole scorcio di rabbia fece breccia nel cuore di Germania. I tratti del suo volto tornarono a indurirsi, privi dell’ombra di dolore marcata dalle ferite. I suoi occhi gelidi e impenetrabili nonostante il calore dei mattoni e la luce della lanterna. “No, Italia, non lo capisco,” disse ancora. “Non lo capisco e soprattutto non te lo posso permettere.”

Italia tremò sotto la scossa di quelle parole, ma stette zitto e girato. Le mani aggrappate alla tenda che non aveva ancora intenzione di aprire per scappare.

“Ora abbiamo raggiunto un livello critico,” disse ancora Germania, “la guerra sta attraversando una fase estremamente fragile dove ogni singolo giorno e ogni singolo spostamento potranno fare la differenza. È fondamentale ora più che mai che rimaniamo uniti, e tu non puoi sottrarti a un dovere simile. Sei una nazione.” Indurì il tono di voce, colpì dove sapeva gli avrebbe fatto più male. “Comportati come tale.”

“T-tanto...” Italia riprese a tremare, le ginocchia deboli su cui sarebbe anche potuto crollare e i brividi sempre più acuti lungo la schiena. Si morse le labbra secche, affondò le unghie nel tessuto della tenda, e contenne un piccolo guaito. La voce sfumò in una dolorosa nota strozzata, sul punto di piangere. “Tanto ormai io non servo più a niente.”

Germania corrugò le punte delle sopracciglia, spezzando quell’espressione che aveva inchiodato Italia al muro, e i suoi occhi tornarono lucidi, anche se celati dal velo d’ombra. “Cosa stai dicendo?”

Italia ricacciò indietro un singhiozzo, tenne le palpebre strette per non stillare neanche una lacrima. “Io...” Quella realizzazione batté sul petto come una pugnalata. Il dolore saettò attraverso il profilo della cicatrice sul cuore che da tanto tempo non si faceva sentire. “Io non servo a niente in questa guerra. Ho avuto sempre paura, fin dall’inizio. Mi sono fatto catturare, ho rovinato tutto, e mi sono lasciato manipolare da Russia mettendo in pericolo anche voi. S-se...” Il fiato formò un groppo che rimase incastrato nel petto. “Se io tornassi a casa sarebbe meglio per tutti.” Italia deglutì e la sua gola smise di tremare. “Tanto qui combino solo guai.”

Germania scosse la testa. “Italia, non...”

“E forse dovremmo smetterla.” Italia schiuse gli occhi e le prime lacrime si staccarono, piovvero a terra una dietro l’altra – plic, plic, plic – senza essere trattenute dalle ciglia. Tutto il dolore trasudò unicamente da quegli occhi tristi su cui la luce non riusciva più a brillare. “Dovremmo smetterla adesso prima che succeda tutto daccapo come l’altra volta, prima che la guerra ci faccia diventare nemici. È meglio adesso, credimi, prima che tu cominci a odiarmi.” Strinse di più le mani tremanti sulla tenda. “Non...” Scosse il capo, spalancò un lembo facendo entrare una vampata di gelo, e affondò una falcata di corsa nel suolo innevato. “Sarebbe stato meglio se non mi avessi mai chiesto di tornare a essere un tuo alleato.”

Germania scattò in piedi, con un solo slancio raggiunse l’altra estremità della tenda, si appese al braccio di Italia prima che potesse scappare, lo attirò a sé combattendo contro la resistenza dei suoi piedi piantati a terra, ed entrambi finirono avvolti dal lembo di tela ancora arpionato dalle dita di Italia. Germania lo riportò indietro, scivolò sulla carta di uno dei bollettini piovuti sul pavimento, ed entrambi caddero con un rimbalzo sulla branda molleggiante.

Germania si rialzò per non schiacciare Italia, gli strinse le braccia inchiodandogli la schiena sulla coperta sfatta, e si riprese da quello sforzo – da quello spavento che gli era saltato al cuore come un proiettile – traendo rauchi respiri e ricacciando indietro il martellare del suo cuore. Italia non provò a ribellarsi nemmeno quando Germania gli premette la fronte sul petto, prostrandosi su di lui come aveva fatto in mezzo alla neve e alla nebbia. “Non dirlo...” Anche Germania prese a tremare. A tremare come la sua voce, come la sua integrità. “Non provare mai... mai più a dire una cosa simile, chiaro? Non dire mai più che io e te non avremmo dovuto riformare l’alleanza. E non pensare nemmeno per un secondo che io mi sia pentito di questa decisione, o che io non ti voglia più al mio fianco. Tutto quello che ti ho detto...” Risollevò il capo ma ancora non riuscì a guardare Italia negli occhi. Tenne la fronte accostata alla sua clavicola sporgente. “Tutto quello che ti ho detto non vale già più niente per te?”

Italia singhiozzò sotto di lui con un sussulto. Tutto quello che gli aveva detto, tutte quelle parole che si erano scambiati mentre erano abbracciati, insanguinati e disperati, soli come due bambini che non hanno nulla se non l’affetto reciproco per aiutarsi a non crollare.

“Io ho bisogno di te. Ma non per vincere la guerra, non per rendere la mia nazione più forte, non per sfruttare il tuo paese per le mie conquiste. Io ho bisogno di te perché tu possiedi una forza che io non ho, che nessuno di noi ha. E quando affronto una guerra, quando rischio la vita sui campi di battaglia, sei tu che mi dai la forza di sopravvivere.”

Gli occhi di Italia tornarono ad annacquarsi. “Io...” Le sue braccia scivolarono da sotto la presa rammollita di Germania, gli avvolsero le spalle bendate. “Io ho solo...” Italia si aggrappò per non sentirsi di nuovo sprofondare, scosse il capo e premette il viso lacrimante contro la sua spalla. “Ho solo troppa paura che un giorno tu ti stancherai di me.” Singhiozzò e tirò su col naso. “Che ti stancherai dei miei errori, e delle mie paure. Per questo preferisco stare lontano da te e dalla guerra, p-per...” Ingoiò un altro singhiozzo. “Per non deluderti più, per non farti più arrabbiare.”

Il corpo di Germania vibrò di tensione sotto la stretta delle sue braccia. “E a me non pensi?” Germania riuscì a sollevare gli occhi, a posarli su di lui, ma senza rialzarsi, senza spostare il ginocchio piegato fra le sue gambe. “A quello che desidero io e a quello di cui ho bisogno non pensi? Come credi che mi sia sentito quando ti hanno portato via? Quando ho realizzato di non essere stato abbastanza forte da proteggerti? Credi sul serio che non abbia anch’io paura di deluderti di nuovo?” Fece scivolare una mano tremante sul cuore di Italia, lo posò sul suo battito, dove sapeva che la cicatrice stava bruciando. “Che non abbia paura che possano tornare a farti del male? Se io ho voluto affrontare questa guerra assieme a te non è stato per sfruttare la tua forza, o per metterti in pericolo, ma perché ho sempre saputo che avrei avuto bisogno di te in momenti come questi. Per darmi coraggio, per non perdere la speranza, per trovare sempre un valido motivo per andare fino in fondo nonostante le sconfitte.” Strinse il pugno sul suo petto, tornò a nascondere lo sguardo e le contratture di rabbia infossate attraverso la sua fronte. “È chiaro che sono in collera per aver perso questa battaglia, ma posso ancora contare sulla forza dei miei uomini e sulla tenacia della mia nazione. La guerra non è ancora persa. Ma se avessi perso te, non me lo sarei mai perdonato. Se ti avessi perso...” Scosse il capo. “In che modo avrei potuto rimediare?”

Italia batté le palpebre, versò le ultime lacrime, e i suoi occhi rimasero lucidi ma privi del bisogno di continuare a piangere. Si strinse a Germania, alle sue spalle spoglie, lasciò che il petto toccasse il suo e che quelle parole colmassero la distanza che li aveva divisi. I loro cuori di nuovo vicini. L’animo di Germania batteva ancora per lui. “Germania.” Italia strinse le mani aggrappate alle sue bende, spostò le gambe bloccate dal suo ginocchio. “M-mi...” Reclinò la testa all’indietro e boccheggiò un ansito agonizzante. “Mi stai schiacciando.”

Germania si tirò subito indietro. “Ah! Verdammt.” Scivolò giù dalla branda, allentò la presa delle braccia attorno a Italia. “Scusami.”

Italia rimbalzò giù dal sottile materasso cigolante e tornò a tuffargli le braccia al collo, ad allacciargli le gambe al torso come aveva fatto quando era saltato a stringere Prussia. Chiuse forte la presa, seppellì il viso nell’incavo del suo collo, inspirò il profumo che gli era tanto mancato, quell’aroma di muschio, di polvere da sparo, di ferro, di legno, di casa, e si lasciò travolgere da una fitta di malinconia. Italia singhiozzò e ricominciò a piangere, ad annacquargli le bende. “Mi dispiace.” Fu una bella sensazione, però, un pianto diverso dal precedente. Liberatorio. “Mi dispiace se ho detto di voler tornare indietro. Io...” Singhiozzò di nuovo, strinse gambe e braccia, impedendo a Germania di allontanarlo o di respingerlo. “Io voglio stare qui con te.”

Germania scosse il capo. “Non pensarci.” Il suo tocco risalì la schiena di Italia, gli sorresse la nuca, affondò fra i suoi capelli, gli carezzò più volte le ciocche. Il suo tiepido mormorio vicinissimo all’orecchio. “Non pensarci.”

Italia spanse altre lacrime, le fece scorrere fra le loro guance, e gli sfiorò il viso con le labbra umide. “Non riesco a vivere senza di te.” Si tenne ancora più stretto, aggredito dal terrore di quel pensiero, di quell’incubo in cui non voleva mai più perdersi.  “Non posso, non posso. Non ci riesco proprio.”

Anche Germania provò dentro di sé qualcosa di simile. Una sensazione che non sapeva esprimere, che non sapeva nemmeno se fosse legittima, ma che gli apparteneva come il suo stesso respiro. Stringendo Italia fra le braccia, consolando i suoi singhiozzi, carezzandogli i capelli e respirando il suo profumo dolce, seppe solo che nemmeno lui aveva più intenzione di perderlo e che non sarebbe mai vissuto in pace lontano dal loro legame.

Italia accostò le labbra alla sua guancia e riuscì a sollevarle in un sorriso gioioso. Una risata vibrò fra i loro petti. “Aah, da quanto tempo non ci abbracciavamo così bene, vero?” Perché cullarsi fra le braccia di Germania rimaneva la sensazione più bella del mondo, l’unica in grado di sciogliere ogni paura dal suo cuore.

Dentro Germania però continuò a ronzare un dubbio. Quelle parole pronunciate da Italia – “Non riesco a vivere senza di te” – che gli erano rimaste dentro come un chiodo. “Perché, Italia?” Fece scivolare la mano dai suoi capelli e gli cercò lo sguardo. “Cos’è che ti spinge a rimanere legato a me nonostante non ci sia nulla che ci obblighi a rimanere assieme?” Gli pettinò la frangia di lato. “Cos’è che ti spinge ad avere bisogno di me?”

Italia abbassò gli occhi ancora rossi di pianto. Strinse le braccia ancora allacciate attorno al collo di Germania, mosse le dita fra le corte ciocche di capelli biondi che crescevano sulla nuca, e gli accostò di nuovo la fronte al petto, dove poteva udire il battito del cuore che pareva completare il suo. “Tu mi vedi in maniera diversa da come mi vedono gli altri. L’altro giorno, sai, tutto quello che mi hai detto, che sono forte anche se non so di esserlo, e che non sono inferiore alle altre nazioni, che non sono una semplice consolazione...” Il suo sorriso si macchiò di tristezza. “Nessuno avrebbe mai detto una cosa così per me. Tu sei l’unico che riesce a guardare tutto di me, non solo le mie paure, o i miei pianti, o le mie debolezze.”

Germania sospirò, pieno di comprensione. “Forse è perché...” Anche lui guardò in disparte, incapace di sostenere il peso di quei pensieri. “Perché anche tu in qualche modo sei sempre stato l’unico a vedere una parte di me che gli altri non riconoscono mai.”

“Oh.” Italia batté le palpebre e i suoi occhi umidi s’illuminarono di stupore. “Sul serio?”

Germania annuì. Il suo sguardo serio ma i lineamenti più morbidi, quasi ringiovaniti. “Non ti sei mai soffermato davanti alla Germania conquistatrice, alla Germania spaventosa, alla Germania sterminatrice. Tu sei sempre stato capace di guardare oltre quel lato di me, di leggermi dentro. E immagino di aver sempre avuto bisogno di questo, anche se non lo sapevo. Ancora prima di incontrarti, io avevo bisogno di qualcuno che riuscisse a raggiungere quel lato di me che io stesso ho paura di far emergere perché mi rende vulnerabile, perché mi rende tutto ciò che non dovrei essere. All’inizio credevo di poterci convivere. Credevo che sarei stato in grado di accettare il mio destino da nazione conquistatrice e distruttiva.” Posò gli occhi azzurri su Italia. Occhi di nuovo limpidi come laghi di montagna e animati dalla sincerità più pura. “Ma poi sei arrivato tu.”

Italia si sentì affogare in quell’azzurro, ma rimase a galla. “Non dire così,” lo rimproverò. “Non dire di essere debole solo perché anche tu a volte hai paura o senti di non riuscire a fare qualcosa. Guarda che tutti hanno diritto di avere paura ogni tanto. Non c’è niente di male.”

“No,” rispose Germania. “Io non posso. Non posso permettermi alcuna debolezza, alcuna vulnerabilità. Non è per vedermi così che...” Altri pensieri gli attraversarono la mente. Pensieri estranei alla sensazione di pace trasmessa da Italia. Pensieri su suo fratello, su tutti i comandanti che avevano regnato le loro due nazioni, sulla croce di ferro che fin dalla nascita aveva pesato su di lui come un fardello. “Io e te abbiamo responsabilità diverse, Italia. Per questo tu non capisci. Tu sei una nazione sorta spontaneamente dall’eredità di tuo nonno, io invece sono stato creato con un preciso scopo e con un preciso destino a cui non posso sottrarmi. Se lo facessi, rinnegherei la mia stessa natura.”

Italia scosse il capo, rimbalzò a sedere fra le sue gambe per tenersi ancora più vicino, e gli sfiorò la fronte con la sua. “Guarda che a me non importa quanto forte diventi, o se riuscirai a conquistare tutte le nazioni del mondo. Io voglio solo che tu sia felice. Anche se tu facessi qualcosa che non dovresti, anche se rinunciassi alle guerre e a tutto quello che ti hanno sempre insegnato, io ti vorrei bene lo stesso.”

“Lo so.” Germania trasse un sospiro rassegnato. “Ed è per questo che alla fine mi ritrovo sempre a voler tornare da te. Perché tu sei sempre stato l’unico a non avere alcuna aspettativa nei miei confronti, l’unico disposto a essermi amico senza aspettarti nulla in cambio, l’unico ad avermi sempre guardato come un essere umano e non come un obiettivo da portare a compimento, come...” Di nuovo la presenza della croce di ferro batté sul suo petto spoglio, gli ricordò chi fosse, gli ricordò a chi apparteneva. Germania sfilò un braccio dal fianco di Italia per poterla sfiorare. “Come l’eterno Reich Millenario che dovrebbe sorgere, regnare sulle altre nazioni, e dominare il mondo fino all’alba dei tempi. Tutto quello che mi è sempre stato insegnato, i valori che mi sono stati tramandati, l’affermazione della mia forza, la brutalità in battaglia, la volontà di potenza, il coraggio contro i nemici e la durezza con gli alleati... tu sei sempre andato oltre a questo.”

“Perché queste cose non sono importanti per me. E...” Italia fece spallucce e distolse lo sguardo, di nuovo colto da un brivido di vergogna. “E forse è anche perché sono troppo debole per capirle. È per questo?”

“No.” Germania tornò ad avvolgergli i fianchi e a stringerlo a sé. “No, io credo ancora a quello che ti ho detto l’altro giorno. Credo ancora che tu non sia debole, perché tu possiedi un coraggio che io non ho. Tu hai il coraggio di mostrare apertamente le tue paure, hai il coraggio di chiedere aiuto quando ti trovi in difficoltà. E forse questo ti dà più valore rispetto a me che ho sempre lottato quasi per compiacere gli altri, senza...” Mozzò quelle parole fra le labbra. In quel momento fu lui l’anima fragile fra le sottili ma forti braccia di Italia. “Senza nemmeno il coraggio di mostrarmi debole quando vorrei semplicemente crollare.”

Italia gli carezzò le braccia bendate, passò il tocco di nuovo attorno alle sue spalle, si appese al suo dolore, e accostò di nuovo la guancia calda e umida di lacrime alla sua. Fece correre una mano fra le ciocche di capelli e lo raggiunse ancora una volta dove solo lui sapeva trovarlo, impedendogli di sprofondare nel buio. “Se tu crolli,” mormorò, “allora io ti tengo. Te lo giuro.”

Un altro sospiro sconsolato sgonfiò il petto di Germania, ingrigì l’azzurro delle iridi. “Non ho mai avuto il diritto di crollare, non mi è stata mai data la possibilità di essere debole, di mostrare paura. Per questo tu rappresenti tutto quello che mi manca e che certe volte vorrei avere.”

“Cioè, solo...” Italia cominciò a capire. “Essere quello che vuoi e non quello che ti hanno insegnato gli altri?”

“Sì,” rispose Germania. “Più o meno. Più o meno immagino sia così.”

“Oh.” Quel pensiero rattristò Italia. Non è giusto, si disse. Nessuno di noi dovrebbe vivere con un peso del genere. Nessuno dovrebbe essere costretto a diventare qualcosa che non è, né una nazione né nessun uomo. Italia raccolse il viso di Germania fra i palmi, lo guardò negli occhi senza alcuna incertezza. “Ma se tu vorrai mostrarti debole davanti a me, non dovrai mai avere paura di farlo. Io ci sarò sempre se un giorno vorrai crollare su di me. Io allora ti prometto che sarò più forte e che ti sosterrò. Forse sono un pauroso, sono un debole, e non sarò mai forte tanto quanto te.” Si gonfiò il cuore di coraggio. “Ma ti prometto che saprò esserlo quando tu non ci riuscirai. E che sarò sempre in grado di capire quando avrai bisogno di essere triste e debole anche tu. Quando... quando accadrà...” Annuì per convincere entrambi. “Ti prometto che sarò forte per tutti e due.”

Germania gli posò una mano sulla guancia, ne percorse il profilo morbido nonostante i mesi di freddo e fame, si perse in quei caldi occhi dalle sfumature d’ambra, e si domandò cos’avesse mai fatto nella sua vita per aver meritato Italia al suo fianco. “Lo so.” Gli scostò una ciocca rimasta incollata alla guancia bagnata dal pianto che aveva versato, affondò la mano fra i suoi capelli, percorse la lunghezza del ciuffo arricciato, e tornò ad avvolgergli il viso. “So che saprai esserlo.”

Italia sorrise. Gli occhi luminosi, colmi della gioia più pura.

Tornò ad avvolgere Germania in un abbraccio, questa volta non guidato da un impeto di disperazione ma da un caldo e semplice gesto d’affetto.

Germania riappoggiò il capo sulla sua spalla, strinse le dita fra i suoi capelli, gli strofinò la nuca, e unì la fronte alla sua. I loro occhi a scrutarsi nella penombra, le punte dei nasi a sfiorarsi, i respiri lenti a vibrare fra le loro labbra, i battiti dei loro cuori che battevano all’unisono, e la sensazione estraniante di essere soli al mondo. Loro due nel loro mondo perfetto, senza guerre, senza conflitti, senza sofferenze.

Passi affrettati percorsero la strada innevata, raggiunsero la tenda, e una figura entrò sbattendo di lato un lembo di tela. “West!”

Germania compì un rimbalzo, staccò la mano dalla nuca di Italia e girò di scatto il capo tenendo però la guancia accostata alla spalla per celare il rossore improvviso.

Appeso al lembo della tenda, mezzo accasciato sulle ginocchia traballanti, il capo chino fra le spalle e la schiena ricurva scossa dal respiro accelerato che biancheggiava fra le labbra ansimanti, Prussia si costrinse a prendere fiato. “West, è succ...” Si strinse il petto e per poco non soffocò.

Germania aggrottò un sopracciglio. “Cosa...” Prussia era bianco come un lenzuolo. Indossava un’espressione sconvolta così insolita da parte sua. Germania non lo aveva mai visto così. Gli fece paura. “Cos’è successo?”

Anche Italia si sporse a guardare, senza però slacciare né braccia né gambe dal torso di Germania.

Prussia traballò di un passo e cadde sul ginocchio. “È...” Risollevò lo sguardo. “È succ...” Un altro ansito gli arrochì la voce. “Giappone! America...” Spalancò un braccio e indicò dietro di sé. “Hawaii!”

Una scheggia di sospetto trapassò il cuore di Germania. “Cosa?” Germania sgusciò fuori dall’abbraccio di Italia, raccolse la giacca che era caduta sul pavimento, tornò a indossarla sulle spalle, e si alzò senza provare alcun dolore alle ferite ricucite. “Cos’è successo alle Hawaii?” Avanzò fino a portarsi davanti a Prussia, a sommergerlo nella sua ombra. “Parla!”

Ma ci fu poco tempo per parlare, poco tempo per discuterne, poco tempo per realizzare quello che era appena successo e tutto quello che avrebbe comportato. Poco tempo per capire che la guerra non sarebbe mai più stata la stessa e che il conto alla rovescia verso la sua tragica fine era ormai sempre più serrato, impossibile da fermare.

 

.

 

Diari di Germania

 

Se dovessi individuare il vero punto di non ritorno, il momento in cui le sorti della guerra si sono capovolte irreversibilmente, privandomi definitivamente della possibilità di vittoria, sceglierei il dicembre del Quarantuno, quando ho percepito per la prima volta il terreno sfaldarsi sotto i miei piedi, quando mi sono reso conto di come non vi era più alcuna certezza, alcun sostegno che sarebbe stato in grado di sorreggere il futuro della mia nazione nonostante i miei errori e nonostante gli incoraggianti propositi da parte di Italia. Non era ancora finita, questo è certo, perché ancora tante battaglie aspettavano di essere combattute, ma ormai le Potenze dell’Asse avevano imboccato la via di non ritorno e avevano scelto la strada verso l’inesorabile sconfitta. Se mi fossi fermato subito davanti a questo, se mi fossi immediatamente reso conto che ormai la guerra era perduta, chissà quante vite sarebbero state risparmiate, e forse avrei anche potuto salvare il mio Paese dal destino che gli è toccato a conflitto terminato. Questo è un rimpianto che ancora oggi mi tormenta.

Se invece qualcuno dovesse chiedermi la causa della mia perdita, se mi dovessero chiedere di individuare il tassello storto che ha letteralmente dato inizio al grande crollo che è stata la Seconda Guerra Mondiale, per me sarebbe molto più facile trovare la risposta.

Il più grande errore di tutta la guerra è stato il Patto Tripartito, l’alleanza fra la mia nazione, quella di Italia e quella di Giappone.

Le nostre tre nazioni, pur avendo sviluppato nel corso degli anni obiettivi e ideali comuni che hanno poi acceso la scintilla della guerra, si sono rivelate completamente incompatibili. Italia è entrato in guerra ignorando i miei ordini, ha dato inizio alla battaglia nei Balcani sempre senza farne parola con me, e qualcosa di simile è capitato anche con l’entrata nel conflitto di Giappone. Fra di noi è venuto a mancare un elemento senza il quale è impossibile fondare una solida alleanza o anche semplicemente un qualsiasi legame d’intesa e complicità: la fiducia reciproca.

Tutte queste azioni hanno fatto sì che la situazione degenerasse, ma allo stesso tempo mi hanno dimostrato un altro principio assoluto che vige fra noi nazioni durante la guerra, quando le nostre vite corrono ogni giorno il rischio di spegnersi. Ogni nazione, quando si tratterà di sopravvivenza e di istinto di espansione, porrà sempre se stessa davanti a tutto. Non importa quanto forte sia il legame di un’alleanza, non importa quanto le nazioni si fidino l’una dell’altra, non importano tutti i propositi e le promesse stipulate in tempo di pace. La guerra semplicemente sa sempre tirare fuori il lato peggiore di noi, ed è successo anche durante quegli anni più bui, allontanandoci, rendendoci avidi ed egoisti, rischiando di spezzare persino la nostra amicizia oltre che la nostra alleanza.

Quella fra noi tre era semplicemente un’alleanza che non avrebbe mai dovuto esistere.

Cos’è allora che ci ha spinti l’uno verso l’altro? Che cosa ci ha guidati nella stipulazione del patto? In cosa consisteva quel bisogno di legare i nostri animi e intrecciare i nostri destini per sentirci più forti e meno soli in questo mondo crudele e spaventoso? Forse è davvero stato quel desiderio di riscatto non solo nei confronti del mondo ma anche nei confronti dell’eredità su cui si sono fondate le nostre nazioni, sul peso di quel passato che ci ha sempre perseguitati e messi alla prova. Un passato fin troppo pesante per poter essere ignorato o dimenticato. O forse è sempre esistito qualcosa di più fra noi tre. Qualcosa che realmente andava al di là delle nostre nazioni, della Storia stessa, e del nostro passato. Dopotutto, se c’è una cosa che la guerra non è stata in grado di distruggere è stata la nostra amicizia. Sarò sempre riconoscente per questo.

Ancora oggi comunque mi ritrovo a chiedermi cosa sarebbe successo se fossi riuscito a ottenere la vittoria assieme ai miei alleati, se fosse andata in maniera diversa, se fossimo riusciti tutti e tre a raggiungere i nostri obiettivi. Non ho mai trovato una risposta.

Vi è solo una certezza in tutto questo, nei miei dubbi continui e negli incubi che ancora oggi mi perseguitano: nulla sarà in grado di cancellare quella guerra, nulla sarà in grado di far dimenticare al mondo quegli anni devastanti, e nessuno ci perdonerà mai completamente per i crimini di cui ci siamo macchiati. E va bene così.

La Storia non si riscrive, dopotutto, altrimenti non sarebbe tale.

 


N.d.A.

E così termina anche il mega-giga arco narrativo della prima e sfortunata fase dell’offensiva in Unione Sovietica, yee! La prima vera e propria sconfitta tedesca che aprirà la via a una serie di numerosi altri insuccessi che determineranno a loro volta la perdita definitiva della guerra. Eeh, che vogliamo farci, prima o poi qualcosa doveva succedere...

Durante la stesura di questi capitoli mi sono lasciata guidare da un’atmosfera molto a “La Regina delle Nevi”, come si è anche visto dalla frase d’apertura dell’arco narrativo e come anche qualcuno di voi ha già colto. E in effetti questo piccolo finale può richiamare facilmente la scena della fiaba dove Gerda riesce a sciogliere la spina di ghiaccio entrata nel cuore di Kay, così come Germania è riuscito a ristabilire un legame con Italia, sciogliendo metaforicamente il ghiaccio nato dall’influenza di Russia e da quel bacio che lui gli ha posato sulla mano ferita, lo stesso bacio con cui la Regina delle Nevi ha stregato l’animo di Kay. Ma in realtà, durante la scena di riconciliazione fra Germania e Italia risalente a qualche capitolo fa, mi è tornato in mente più che altro il finale di Dante’s Inferno, il videogioco. In particolare la scena dove Dante rende la croce a Beatrice permettendo la sua redenzione e l’ascesa al Paradiso prima della mega battaglia finale contro il Diavolo. Questa scena qui, tanto per chiarirci. Qualcuno dovrebbe proprio scriverci una bella AU! Germania è Dante, Italia è Beatrice, Prussia è Virgilio, Romano è Francesco, Russia è il Diavolo, okay la smetto...

Dal prossimo capitolo ci faremo una bella nuotata nel Pacifico, signori, ma ovviamente non partiremo direttamente dall’attacco su Pearl Harbor, ci mancherebbe. Per questo sarà necessario un piccolo salto indietro nel tempo per esplorare i mesi appena passati anche dalla prospettiva di Giappone e di America, prima che cominci anche la loro tragica guerra. Ma tranquilli: non ci metteremo molto. È quello che arriverà durante Pearl Harbor che mi preoccupa, ma vedrete tutto una volta che sarà pubblicato.

Con il nuovo arco narrativo cambieremo completamente musica sotto molti livelli. I temi trattati saranno diversi, tornerà a sbucare un po’ di gente che solleverà questioni che finora sono passate un po’ in secondo piano, e comincerò ad addentrarmi per bene nell’esplorazione del rapporto America-Inghilterra messo a confronto con quello Giappone-Cina, evidenziando quindi sia i parallelismi fra America e Giappone sia quelli fra Inghilterra e Cina. Perché complicarsi la vita con gente immaginaria è bello e salutare. :D

Stay tuned!

   
 
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