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Autore: Ellie_x3    15/09/2019    2 recensioni
“Oh, qualcuno qui è stupido~?”
“Hah!? Chi stai chiamando stupido?!”
“Non è colpa di chibikko, dopotutto non c’è tanto spazio per i neuroni in una testa così piccola...”
Chuuya trattenne il respiro.
“...E poi tutti sanno che le baby gang non sono particolarmente intelligenti!”

[5+1 Volte in cui Dazai ha deluso Chuuya, e una in cui (incredibilmente) ha superato le aspettative; Questa storia partecipa alla Teen! Challenge indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Michizou Tachihara, Osamu Dazai
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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5+1
Scenata in Classe
-

From: Chuuya

Dazai?
Oi, mi vuoi rispondere?
OI. 

 

Naturalmente, Dazai non aveva risposto.
Visualizzava e lasciava perdere. Lascia stare, lasciami stare.  
Ma era una richiesta che sembrava irrazionale dopo un anno in cui Chuuya aveva avuto a che fare con il costante trillo dei messaggi di Dazai, delle conversazioni su qualsiasi social esistente, oltre ad una decente collezione di biglietti lanciati alle spalle dei docenti nel poco spazio che separava i due banchi. Quel moccioso era la personificazione del fastidio, e Chuuya l’aveva eletto proprio demone personale dopo che aveva scoperto la passione di Dazai per il nascondergli penne, astucci e cellulare, ma per qualche motivo era diventato normale mangiare sulla terrazza della scuola seduti l’uno accanto all’altro, tornare a casa insieme dopo i rispettivi club e sentire la voce piagnucolosa di Dazai implorare Tanizaki Naomi, "Rappresentante, per favore! Chuuya non arriva alle mensole~" ogni volta che era il turno di Chuuya di prendersi cura della classe. Sfortunatamente per Chuuya, Naomi era sensibile al potere che le dava essere chiamata 'rappresentante', come se fosse una carica ufficiale voluta da qualche divinità, e Dazai lo sapeva.
In quei mesi, Dazai lo aveva aiutato in algebra e Chuuya, incredibilmente, era riuscito a spiegargli qualcosa di economia domestica e storia occidentale: non che avesse bisogno di aiuto, ma Dazai non si impegnava mai abbastanza e viveva come se tutto fosse destinato a scivolarsi di dosso.
Quello degli ultimi due giorni era stato un brusco cambio di rotta: un silenzio tormentato, all’inizio, fatto di sbuffi e di occhiate lanciate allo schermo del cellulare per controllare che ci fosse campo, che ci fosse una ragione oggettiva per quello che stava accadendo. Perché non era normale che Dazai non rispondesse nè lo seppellisse sotto una montagna di meme e foto di gatti (“Ah! Questo gatto sembra Atsushi-kun!” “E allora mandalo a Nakajima, cretino!”) e commenti su quanto bello e bravo fosse il suo kohai.
Niente.
Silenzio.
Nessun messaggio da quel pomeriggio di due giorni prima, quando Chuuya si era offerto di aiutare Dazai nelle pulizie dopo le lezioni nonostante non fosse il suo turno. Lo stomaco gli aveva fatto una capriola nel cogliere una punta di onestà nel sorriso che gli aveva rivolto Dazai, un senso di timore e rabbia e vergogna che non s'era alleggerito neanche quando Naomi li aveva accusati di utilizzare le responsabilità scolastiche in modo inappropriato.
No, era un senso di timore reverenziale che gli aveva afferrato le viscere e non le aveva più lasciate andare; non quando avevano spostato i banchi, non quando Dazai aveva lanciato qualche commento riguardo i piani per la Golden Week dato che Marzo e Aprile sarebbero stati impegnati con la cerimonia dei diplomi e l'inizio delle superiori, nè quando Chuuya aveva afferrato una spugna, stringendola fra le mani finché le nocche non erano diventate rosse.
“Che c’è, chibikko si vuole dichiarare?” l’aveva pungolato Dazai. Nel dirlo gli aveva rivolto un sorrisetto illuminato dalla luce del sole che iniziava a sparire oltre i grattacieli che Chuuya non ricambiò, ma non parve preoccuparsene.
E dire che Chuuya aveva rinunciato a una delle ultime sere che poteva passare con i suoi amici pur di dare a quel cretino la notizia di persona.
I ragazzi della Pecora avrebbero capito, si era detto, ma a posteriori iniziava a nutrire dei dubbi riguardo la propria capacità decisionale.
“Dazai, c’è una cosa che ti devo dire.”

 

Da allora, lo sgombro idiota si era serrato nel silenzio stampa.
La cosa allucinante, quella che aveva davvero dato uno scossone al mondo di Chuuya, era che la reazione di Dazai non era nemmeno stata la peggiore, né la più veemente riguardo quello che ci si aspettava da lui. Il ragazzino si sfioró il braccialetto blu che gli cingeva il polso sinistro, infastidito e sorpreso da quanto stretto sembrasse tutto ad un tratto. 

 

“Chuuya! E noi come faremo?”
“Io—“
Che diavolo ne so, Yuacchan. Inventatevi qualcosa.
Si era umettato le labbra, lasciando uno sguardo disperato alla ragazza. ciocche rosa le cadevano sul viso, ma erano i suoi occhi — tondi, lucidi, come se la notizia l’avesse ferita fisicamente — che Chuuya non riusciva a guardare direttamente. E dire che si era ripromesso di smettere di delude Yuan, di farle de male calpestando proprio malgrado le richieste che gli venivano deposte ai piedi; i sentimenti non ricambiati, le speranze mal riposte, le chiamate senza risposta.
“Non puoi!” aveva insistito la ragazza, la voce come un pezzo di vetro che tagliava nell’autocontrollo di Chuuya.
“Sapete come vanno queste cose. Non è una mia scelta,” replicò, nascondendo istintivamente le mani nelle tasche.
Li avrebbe implorati di smetterla se Shirase non avesse scelto quel momento per avvicinarsi e parlare, la voce roca di rabbia.
“Non puoi!”
“Shirase…”
“Scappiamo insieme,” aveva proposto Yuan, in un sussurro, “c’è un deposito vicino al fiume. Potremmo vivere lì.”
“Non dire cazzate, Yuacchin,” la interruppe Chuuya, in un sibilo. Non sapevano cosa volesse dire vivere davvero, davvero soli; Chuuya non lo ricordava, fortunato nell'aver trovato una famiglia prima di capire, ma Kouyou-nee gli aveva raccontato la propria esperienza anni prima. Come risultato, Chuuya si era barricato in casa per una settimana, attanagliato dalla paura di tornare e trovare la casa vuota ed essere di nuovo solo.
“A che ti serve una famiglia? Dovremmo essere noi la tua priorità, Chuuya!”
Shirase lo aveva spintonato, mani tremanti che premevano contro le spalle di Chuuya, ed il ragazzo aveva mosso un passo indietro più per rispetto nei confronti dell’onore dell’amico che per vera necessità.
“Dacci un taglio.”
“Sei il nostro capo! Dove pensi di andare?!” aveva ringhiato l’altro, con alle spalle un coro di ragazzi che avevano annuito stringendo fra le mani il braccialetto della gang. Chuuya, di fronte agli occhi tristi, al broncio incorniciato da ciocche rosa di Yuan e al bagliore simile a lacrime che aveva iniziato a rendere liquidi gli occhi di Shirase, aveva sentito una gelida secchiata di stanchezza e frustrazione crollargli sul capo.
Yuan gli si attaccó al braccio, tirando la felpa.
“Neeee Chuuya! Vero che non ci lascerai? Vero?”
Come se fosse colpa mia, avrebbe voluto urlare, ma si limitò a scrollarsi la ragazza di dosso e inforcare la porta prima che qualcuno potesse fermarlo ed insistere ancora.

Con quello spirito, sentendosi chiuso ed intrappolato ed abbandonato da chiunque gli fosse stato accanto in quell’anno, Chuuya era marciato in classe con le mani nelle tasche e la sensazione d’essere sul punto d’esplodere. Mentre proseguiva a testa bassa attraverso il cortile aveva quasi urtato Oda-sensei e il presidente del consiglio studentesco delle superiori, ma non s’era scusato e l’eco di una protesta da parte di Sakaguchi Ango l’aveva seguito mentre spariva nella scuola.
Dazai era seduto nel posto vicino alla finestra, il cellulare svergognatamente sul tavolo.
Lasciami in pace, non mi interessa.
La prima cosa che sentí Chuuya— e lo sentí chiaramente, come se fosse stato risvegliato da un sogno o risollevato dall’acqua— fu il suono delle sue mani che colpivano la superficie liscia del banco.
“Ehi.”
Nessuna risposta. Chuuya registró appena Dazai che voltava il capo per guardare deliberatamente fuori dalla finestra prima di rendersi conto che il suo pugno era volato in direzione del compagno. Prima che potesse pentirsene o pensare di fermarsi, il suo corpo aveva agito da solo e Dazai l’aveva schivato, spingendosi indietro senza nemmeno prendersi la briga di alzarsi. Lo stridere delle gambe della sedia costrinse il ragazzo a serrare la mascella, immaginando che il suono brusco avesse obbligato tutti i loro compagni di classe a voltarsi e stringere i denti, ma non era nulla in confronto al momento in cui la sua mano era entrata in collisione contro la finestra. La sensazione delle nocche che colpivano il vetro aveva fatto esplodere nella visuale di Chuuya un mondo di scintille bianche.
Una singola crepa percorreva la superficie, ma non era nulla in confronto allo sguardo di Dazai —venato di rosso e più adulto della sua età, tagliente.
“Credevo di non doverti fare lo spelling di ‘lasciami in pace’, Chuuya,” dichiaró, abbastanza sibillino che il ragazzo giuró di sentire i compagni di classe — e i ragazzini degli altri anni attirati dal baccano —  sobbalzare alle sue spalle.
Si morse così forte il labbro da sentire il sangue sulla punta della lingua.
“Che problemi hai, kuso Dazai?”

Che problemi hanno tutti quanti?
Non è colpa mia se i miei genitori hanno—

Vogliono—

 

“Chuuya è un tale bambino. È semplice: se non hai intenzione di restare, interagire con te è una perdita di tempo.”
“Una perdita di tempo un cazzo! Ma come ragioni, mackerel? Esistono i telefoni!”
“Chibi dà per scontato che abbia voglia e tempo da investire per cose fastidiose come i messaggi o Skype,” Dazai strinse gli occhi. “Che cosa triste.”
“Tu sei triste, kuso Dazai! Sei davvero—”
“Mi spiace di averti dato l’errata impressione che mi interessasse quello che pensi.”
Triste. 
La cosa davvero triste era che un ragazzino dovesse cambiare scuola e Stato e continente alla fine delle medie, si disse Chuuya, e che quel cretino che si sbracciava in grandi gesti d'amicizia non lo capisse, non si mettesse nei suoi panni.
Cosa doveva dire?
‘Papà, ascoltate, non mi va. Tornateci voi in Francia.’
Poteva praticamente sentire il dramma nella sua testa, viverlo come se fosse legato ad una poltroncina in prima fila in un film che non voleva vedere: “Paul, tuo figlio sta dicendo cose senza senso,” e “Arthur, sei tu che l’hai viziato. Chuuya, mon cher, lo sappiamo che è un momento delicato per te, ma è lavoro. Lo capisci, no?”
Lo capiva, ma non capiva perchè non potesse stare con Kouyou-nee…ma, dopotutto, ci voleva stare davvero? Amava i suoi genitori, la sua famiglia era la cosa migliore che aveva. Non era cresciuto per chiedere di essere abbandonato un’altra volta, non quando ancora nel fondo del suo subconscio credeva di percepire i sussurri di una voce che lo accusava di non essere abbastanza per una ragazza madre che non l’aveva cercato, figurarsi per due persone intelligenti come coloro che l'avevano accolto.
Non c’era modo di fermarli, comunque, anche se ci aveva tentato.
No, la cosa davvero triste era che nessuno fosse in grado di pensare che il lavoro degli adulti gli legava le mani, eppure non gli sembrava un ragionamento così difficile — non per un bastardo intelligente come Dazai.
Un paio di ragazzi alle sue spalle sussurrarono fra di loro.
“Credevo fossimo amici,” ringhiò, fra i denti.
Il sorriso che ricevette grondava veleno.
“Solo perché ogni tanto ti rivolgo la parola, chibi?”
“Quanto sei stronzo.”
“E dimmi, come l’hanno presa i tuoi amichetti della gang? Ora che non hanno più modo di sfruttarti, probabilmente ti rivolgono a stento la parola...”
Chuuya rabbrividì, stringendo i pugni.
Come te.
“Non sono affari tuoi,” sussurró. La consapevolezza che avesse ragione illuminò il mondo di un bagliore rosso sangue, odio e gelo che lo intrappolavano nonostante una voce gli urlasse di lasciar perdere, di andarsene prima che arrivasse il peggio.
“Francamente sono sollevato,” Dazai si strinse nelle spalle, ignaro o disinteressato della furia che stava montando nella testa dell’altro, “questa tua cotta per me stava iniziando a mettermi in difficoltà.”

Il secondo gancio era andato a buon fine e, se il bruciore alle nocche era abbastanza forte da farlo lacrimare, Chuuya aveva ricacciato indietro il disagio di sentire un grumo di cotone in gola, serrandosi dietro una maschera d’odio.
Ancora una volta aveva visto bianco e poi rosso e poi bianco di nuovo. Il dolore sordo si unì al calore e al formicolio e che gli avvolgevano le dita ed il polso, ma almeno questa volta aveva la ruggente soddisfazione di aver sentito le ossa scricchiolare e di avere la mente ferma al momento in cui il suo pugno si era schiantanto contro la pelle di Dazai, nocche che incontravano la mascella affilata di quel bastardo del suo migliore amico.
Era solo lui che stava colpendo? Se chiudeva gli occhi, vedeva Shirase. E il sogghigno crudele di Dazai, e l’espressione stanca dei suoi genitori e Kouyou-nee che lo invitava ad essere ragionevole.
La Pecora era stata la sua famiglia fino al giorno prima e Chuuya aveva la sensazione che la scheggia di violenza sarebbe sempre rimasta lì, dove poteva trarre piacere dalla sensazione della giustizia ristabilita, dalla sensazione viva del dolore e della vendetta, dal suono della sedia di Dazai che cadeva a terra e travolgeva il banco retrostante.
Dazai era volato pesantemente all’indietro tra le urla soffocate delle ragazze e gli “ah!” e “Una rissa? É una rissa quella in 3-A?!” dei ragazzi dai corridoi. 

Ed era così che tutti avevano saputo che Chuuya si sarebbe trasferito in poche settimane, seguendo i genitori in Francia subito dopo la cerimonia dei diplomi: Parigi sarebbe stata casa sua, tra la Shakespeare and Co. e il profilo di un vecchio mulino al cimitero di Montparnasse e un appartamento soppalcato a Montmartre, ed era un luogo dove Arthur Rimbaud e Paul Verlaine avevano sempre sperato di poter tornare. 
Quando aveva accettato la realtà della propria situazione, Chuuya aveva avuto intenzione di divertirsi, di godersi quegli ultimi momenti di una vita che non aveva avuto alcuna intenzione di lasciarsi alle spalle.
Ora Aprile non poteva mai arrivare abbastanza in fretta.

   
 
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