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Autore: Alicat_Barbix    15/09/2019    2 recensioni
John Watson è un qualunque studente di Hogwarts. Ama il quidditich, teme la McGonagall, odia i Serpeverde. O almeno, così pensava. Ma John Watson è molto di più di questo. Strani sogni costellano le sue notti. Sogni a cui non riesce a dare spiegazione. La vita di John Watson sta per essere travolta dall'ondata ineluttabile del suo passato, un passato che a malapena ricorda ma che ha cambiato per sempre la sua vita. E poi... Sherlock Holmes. Sherlock Holmes che è insolente, arrogante, pieno di sé e più fragile di quanto John Watson pensi.
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO UNO
 
 
Il suo sguardo rimaneva fisso nell’orizzonte, nel punto in cui cielo e lago si incontravano. Intorno, non vi era che silenzio. Era trascorso… quanto? Un anno? Due? Un’eternità? In realtà, pochissimi mesi. Dopo il… ritrovamento del corpo, Dumbledore aveva deciso di chiudere la scuola per far luce sulla tragica morte di Victor Trevor. L’estate era volata, consumata tra i manuali per la preparazione ai G.U.F.O. e sulle lenzuola madide di sudore a causa degli incubi. Non usciva, non dormiva, a malapena s’infilava qualcosa sotto i denti – lo stretto necessario per non morire di fame. Era calato di peso, due profonde occhiaie si erano impossessate del suo viso e non c’era giorno che trascorreva senza che i morsi del senso di colpa lo divorassero. A metà Luglio, era infine arrivata una lettera da Hogwarts dove la sua presenza era richiesta per il sostenimento dei G.U.F.O. che aveva superato senza eccessive difficoltà. Per il resto, il ritorno a scuola dopo tutto quello che era accaduto era stato – per usare un eufemismo – doloroso, tanto che, dopo che Dumbledore aveva annunciato lo svolgersi del Torneo Tremaghi proprio ad Hogwarts, era dovuto scappare dalla Sala Grande e correre fino al luogo che aveva sputato fuori il cadavere sfigurato di Victor.
Ora, quel lago che aveva solcato il suo primo anno, proprio a fianco di quel rossino dal carattere allegro ed eccentrico, gli sembrava ostile, nemico. Attaccato da una qualche creatura della Foresta Proibita. Così aveva annunciato la McGonagall al rientro dalle forzate vacanze prolungate. Solo una bestia che era stata lasciata gironzolare entro i confini sicuri della scuola e che si era avventata sulla prima ombra nella notte. Bastava davvero una cazzata così per morire a sedici anni? Una fottuta creatura sfuggita dal folto della Foresta Proibita?
Sospirò e si trovò a dover trattenere le lacrime, perché ora, ora che era lì, ora che si permetteva di abbandonarsi a quel lutto, ora che guardava dove il suo migliore amico era morto… ora non aveva più niente a reggerlo in piedi. Neanche lo scoprire cos’era accaduto.
“Guarda guarda che ironica coincidenza!”
Una voce… No, quella voce lo fece sussultare. Erano passati cinque mesi, eppure per lui era come essere tuttora bloccato a quel giorno, a quel corridoio, a quel ritardo per arrivare in aula Incantesimi. Si voltò con quanta calma riuscì a racimolare nonostante quello sgradevole fastidio non si fosse ancora esaurito del tutto da sé e puntò il suo sguardo cupo sulla fonte della voce alle sue spalle.
“Holmes.” sibilò senza celare l’acidume nella voce.
“Watson.” rispose quello, altrettanto sprezzante.
John si concesse diversi istanti per studiarlo e con non poco dispiacere si trovò a pensare che era bello. Cazzo se era bello. Non aveva niente di quell’anatroccolo che aveva conosciuto l’anno prima. Era diventato un cigno, Sherlock Holmes. La zazzera di ricci corvini sempre troppo lunghi era stata sapientemente domata con un taglio elegante e al contempo sobrio, il viso che a stento sopportava – tanto era irregolare e spigoloso – si era improvvisamente come ammorbidito con quegli zigomi pronunciati e quel naso incredibilmente regolare, e – ad un’occhiata più o meno attenta – era innegabile il fatto che anche la massa muscolare fosse incrementata.
“Finito la radiografia, dottor Watson?”
Sussultò e fece abbastanza fatica per frenare la colorazione rossastra che minacciava di chiazzargli la pelle. “I-io…”
“Perfetto, deduco che ti piaccia ciò che vedi. Sono sollevato, non vedevo l’ora di fare colpo su di te.”
“Che cosa vuoi, Holmes?”
Il Corvonero alzò le spalle. “Speravo di poter trovare la solitudine che cercavo qui… Ma a quanto pare ti ho sottovalutato.”
Senza aggiungere altro, il moro gli si affiancò e gli occhi si persero a contemplare la sommità del lago. Lo stesso lago che a entrambi aveva tolto tanto, troppo. Rimasero in silenzio per diversi istanti, senza che nessuno fosse in grado di spiccicare parola, infine John, colto da un improvviso e spasmodico desiderio di sfogare tutto quello che si era depositato in fondo al suo cuore, giorno dopo giorno, parlò: “E così, è stata solo una creatura della Foresta Proibita.”
Con la coda dell’occhio, notò un angolo delle labbra dell’altro guizzare verso l’alto. “Così ci vogliono far credere.”
Si volse immediatamente verso quello, gli occhi sgranati. “Che intendi?”
“Andiamo, Watson, è qualcosa di così ovvio che persino tu dovresti esserci arrivato.”
“Io non-”
“Tu guardi ma non osservi. Il corpo di Victor è stato ritrovato a largo, sul fondo del lago.”
John non celò un tremito a quelle parole così secche circa la morte di Trevor e si domandò come Sherlock potesse parlare in quel modo di una persona che aveva amato e che era scomparsa precocemente dalla sua vita. Possibile che Sherlock Holmes fosse davvero lo stronzo psicopatico arrogante che credeva? Possibile che avesse già superato la cosa? Possibile?
“Non farti tutte queste domande, ti verrà il mal di testa.” interruppe il filo dei suoi pensieri Sherlock, sorridendo sprezzantemente. “Ritornando, ora, al ritrovamento del cadavere… Perché una creatura della Foresta Proibita avrebbe dovuto attaccarlo, trasportarlo fin qui e… in qualche modo, trascinarlo al centro del lago, dove le acque sono più profonde?”
John ripercorse quelle parole dentro di sé, un’espressione confusa in volto. “Mi stai dicendo che-”
“Che è improbabile che un Lupo Mannaro o chissà cos’altro sia stato in grado di trasportarlo così lontano. Soprattutto considerato i calamari giganti e quelle palle al piede degli Avvincini.”
“E questo che cosa significa?”
Sherlock sospirò, ravviandosi i ricci con le lunghe dita pallide. “Non lo so ancora, ma una cosa è certa: non mi fermerò finché non l’avrò scoperto.”
“Ma Dumbledore… Come può essere così sprovveduto da non essersi fatto due domande?”
Un ghigno malizioso affiorò sulle labbra del Corvonero. “E chi ha detto che Dumbledore stesso non sia implicato?”
“Stai accusando il preside della nostra scuola di… c’entrare qualcosa con la morte di Victor?”
Ma il moro scrollò nuovamente le spalle. “Non ho detto questo. Ma non possiamo escludere alcuna ipotesi…” Sospirò e si lasciò cadere seduto a terra, dalla tasca estrasse un pacchetto di sigarette babbane. “Senti, Watson… Non fraintendermi: non è che non gradisca la tua compagnia, ma il continuo fluire dei tuoi pensieri senza senso è fastidioso, quindi potresti… lasciarmi solo?”
John spalancò gli occhi in una muta e altezzosa dimostrazione di stupore, ma poi scorse l’infinita tristezza che, granello dopo granello, stava calando negli occhi dell’altro. Sherlock soffriva. Se ne rendeva conto solo ora. Sherlock aveva rimuginato così tanto sulla morte del proprio fidanzato… che alla fine aveva persino deciso di ricercare la verità. Per un attimo, si chiese se non l’avesse giudicato male e, soprattutto, se Victor non avesse ragione: è molto più fragile di quello che pensi.
Si volse e ripercorse a ritroso la strada che aveva calcato per arrivare fin lì e solo quando fu certo di trovarsi ad una ragionevole distanza si guardò indietro e sorprese Sherlock Holmes accucciato su se stesso, scosso dai singhiozzi.
 
 
Louise non era certo una delle più belle ragazze su cui aveva messo gli occhi, ciononostante era divertente e il modo in cui si mordicchiava spesso il labbro inferiore o quello in cui – addirittura – se lo leccava erano chiari segni che non avrebbe fatto alcuna resistenza se John avesse tentato di portarsela a letto. Si erano seduti in un tavolino appartato de I Tre Manici di Scopa ed era sembrato ad entrambi così naturale sporgersi, a un certo punto, l’uno verso l’altro e iniziare a pomiciare senza alcuna inibizione. John fece scivolare la mano sotto la gonna della ragazza che si ritrovò a ridacchiare e proprio mentre lui si apprestava a proporle di spostarsi in un luogo più appartato accadde l’insospettabile.
“Non riuscirò mai ad abituarmi alla quantità di tempo che i comuni mortali spendono in simili frivolezze.”
Louise si staccò da lui boccheggiando e aggiustandosi la gonna, mentre John si trovò a sospirare profondamente. Quella voce era inconfondibile, così come il tono saccente racchiuso in essa.
“Che diavolo ci fai qui, Holmes?” ringhiò cercando di mantenere il controllo.
Sherlock, in piedi accanto a lui, scoccò un’occhiata di sufficienza alla ragazza e le si avvicinò, senza degnarlo di una risposta. “Spostati, devo sedermi.”
“C-cosa…”
“No, lui sta evidentemente scherzando, Louise.”
“No, invece. Allora? Sei ancora qui? Abbiamo di meglio di cui parlare, io e il tuo ragazzo… Oh, capisco. Quindi è per questo che sei così desiderosa di fare sesso con lui. C’entrano i tuoi genitori… Anzi, quelli che credevi essere i tuoi genitori. Una dimostrazione esplicita di ribellione, un tentativo di provare a te stessa che puoi avere tutto quello che vuoi, quando e come lo vuoi… Peccato che con l’amore materno non sia accaduto lo stesso. O forse paterno?”
Lei si alzò di scatto, completamente rossa in viso e con gli occhi gonfi di lacrime, e infine guadagnò la porta del pub senza nemmeno rivolgere a John un saluto. Quello sospirò e rivolse all’altro un’occhiata di fuoco. “Che diavolo ti dice la testa, eh!? Non hai visto che ero impegnato?”
“A scoparti una ragazzina del terzo anno in un pub pubblico? Sì, ho visto. Ma questo è più importante.”
“Questo cosa?” borbottò il Grifondoro passandosi una mano in volto e accettando la busta che l’altro gli stava porgendo. Mentre Sherlock ordinava una burrobirra, tirò fuori delle carte – al tatto lucide – e le sparse sul tavolo, ma appena gli occhi di John registrarono i dettagli di quelle immagini, il primo istinto fu quello di voltare i fogli e di vomitare. “Non è possibile…”
“Watson-”
“E’… è lui…”
Sherlock si sporse in avanti e, prendendogli con insolita delicatezza il mento, lo costrinse a distogliere lo sguardo da quelle foto e incrociarlo col proprio. “Lo so che è difficile. Non pensare a lui, ora… Fa finta che sia qualcun altro. Ma ho bisogno che guardi queste fotografie.”
Guardava il viso stranamente dolce del Corvonero e cercava di raccogliere le idee e la forza per contemplare quelle fotografie, ma gli sembrava di non avere le palle per farlo. Infine, dopo un lungo respiro, lasciò scivolare gli occhi sul soggetto delle immagini, abbandonato su un lettino dell’infermeria, il volto coperto da strisce nere decisamente lasciate da una penna d’oca.
“Il viso-”
“Ho pensato che sarebbe stato meglio coprirlo per non… soffermarcisi esageratamente, anche perché era completamente sfigurato.”
“Meglio per chi?”
Gli occhi di Sherlock si colmarono di tristezza. “Per entrambi.”
Era passata una ventina di giorni da quando si erano rincontrati sulle rive del Lago Nero e per la seconda volta John si chiese come non avesse mai notato tutta quell’umanità che trasudava da quel viso magro e bello. Possibile che solo Victor fosse stato in grado di scorgere quel suo aspetto? O magari, Victor c’entrava, sì, ma più che aver scorto l’umanità di Sherlock, l’aveva suscitata?
“Come hai avuto queste foto?”
“Mio fratello lavora al Ministero e ha grande influenza nella Squadra Speciale Magica. Non puoi neanche immaginare quanto mi sia costato chiedergli questo favore, ma ora non è importante come mi sono procurato le foto, ma che cosa dimostrano le foto.”
“Non ti seguo.”
“Guardale attentamente, John. Hanno detto che è stato l’attacco di una creatura della Foresta Proibita…”
“… Ma sul corpo non ci sono segni di aggressione di alcun animale.”
“Ho letto decine di tomi sulle creature della Foresta Proibita, ma nessuna di queste potrebbe uccidere senza lasciare traccia.”
“Ma hai detto che il viso era sfigurato.”
“Un ricordino che devono avergli lasciato gli Avvincini quando il corpo di Victor è stato buttato in mare.”
John intrecciò le mani davanti a lui mentre Madama Rosmerta poggiava sul loro tavolo la Burrobirra ordinata da Sherlock, il quale vi si avventò senza troppi complimenti.
“Com’è morto, Holmes?”
“Io direi piuttosto… Perché è morto?”
“Okay, quindi… Che cosa credi l’abbia ucciso?”
“Di nuovo domanda errata, Watson.” lo corresse ancora il Corvonero, pulendosi un residuo della bevanda dalle labbra piene sfregandovi elegantemente l’indice. Gesto che gli occhi di John, per qualche strana ragione, catturarono con un insolito interesse. “La domanda corretta è invece… Chi l’ha ucciso?”
A quelle parole, spalancò contemporaneamente occhi e labbra. “Vuoi dire che Victor è stato assassinato?”
Sherlock si piegò in avanti, lasciandogli intuire di fare altrettanto, in modo da creare una sorta di barriera col resto del mondo. “Non credi anche tu che sia l’unica spiegazione plausibile? Io credo… anzi, sono piuttosto convinto che la causa della morte sia… L’Anatema che uccide.”
“La terza maledizione senza perdono?” sussurrò John senza fiato.
Il moro annuì solennemente.
“Ma… Le maledizioni sono illegali. E poi chi potrebbe mai trarre guadagno dall’uccidere un semplice studente di Hogwarts?”
Un sorriso soddisfatto piegò le labbra di Sherlock. “Perfetto. Finalmente hai iniziato a porre le domande giuste.”
E detto questo, si alzò in tutta fretta, aggiustandosi i ricci ribelli con plateali gesti della mano, ma John lo bloccò prima che potesse muovere un passo, prendendolo per il colletto della divisa e tirandoselo vicino, così tanto che i loro nasi si sfiorarono.
“Se quello che dici è vero dobbiamo informare immediatamente Dumbledore.”
Sherlock sospirò con aria frustrata. “Che cosa avete tutti nei vostri piccoli cervelletti? Dev’essere rilassante non essere me. Watson, se Dumbledore stesso ha dichiarato che la morte di Vic è dovuta all’attacco di una creatura della Foresta Proibita, credi davvero che accoglierebbe le nostre ipotesi a braccia aperte? E’ ovvio che Dumbledore sa.”
“Ma allora perché-”
“Non ne ho idea, Watson. L’unica cosa che so è che non mi fermerò prima di aver fatto luce su questa storia.”
E John, nei suoi occhi, vide crepitare la fiamma della determinazione e della passione che stava mettendo nel cercare la verità. Chissà se quelli erano gli stessi occhi con cui guardava Victor… Non si era mai soffermato a guardare lui quando trascorreva del tempo con la coppietta di sposini, come aveva preso a chiamarli malignamente. Durante quelle uscite a tre, i suoi occhi erano troppo concentrati nell’osservare quella stupida felicità dipinta sul volto dell’amico. Magari, se avesse prestato maggiore attenzione a Sherlock, si sarebbe ricreduto e, forse – forse – avrebbe persino augurato loro tutta la felicità del mondo.
“Sei con me, Watson?” gli domandò con voce calda il moro, staccandosi appena dal suo viso per far sì che potessero contemplarsi meglio.
“Conta su di me, Holmes.”
Sherlock si esibì in un sorrisetto di vittoria, mentre si allontanava da lui, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. “Perfetto. Visto che è tutto chiarito, io andrei. Oh, non ti dispiace offrirmi quella Burrobirra, vero?”
Ma John non fece in tempo a replicare che l’altro era già sparito fuori dal locale, scoccandogli un occhiolino decisamente irritante. Sbuffò e lasciò sul tavolo il denaro per le tre Burrobirre, maledicendo quello sbruffone di un Corvonero per aver mandato a monte la sua scopata e il suo buon umore per il weekend.
 
 
C’era l’unicorno. Non era più un unicorno. Era sempre quello, sempre lo stesso. L’unica cosa che si differenziava, erano gli occhi. A volte aveva quelli di suo padre, a volte quelli di sua sorella, a volte quelli di Victor. Ma ora… ora l’unicorno non aveva occhi. Anzi, li aveva ma erano completamente ottenebrati, neri come la pece. John rimase, come al solito, incapace di compiere alcun movimento. Se ne stava lì, ad osservare quella creatura. D’improvviso, un lampo oscuro lo abbagliò, parandosi fra lui e l’unicorno. John urlò, ma dalle sue labbra non uscì suono, e il groviglio ti tenebre iniziò a prendere forma, addensandosi, rimestandosi, contorcendosi. John non fece in tempo a scorgere la forma assunta, perché un sibilo gli s’infilò nelle orecchie, malefico e serpentesco.
John Watson… L’erede del potere… Il piccolo Johnny… Il potere… La chiave… Il cuore di tutto… Mio…
 
 
Si svegliò gridando e muovendo confusamente le braccia nell’oscurità densa attorno a lui. Percepiva il cuore battere forsennatamente in lui e l’aria farsi sempre più calda e insufficiente a dare sollievo ai suoi polmoni.
“Watson? Watson, Cristo, ci sei?”
Una voce. Una voce che lo chiamava. Una voce che non riusciva a delineare. Strabuzzò gli occhi nelle tenebre, ma ogni cosa rimase di quel nero palpabile. Vedeva l’unicorno e il lampo nero e udiva ancora quella voce serpentesca. Prese a tremare e a farfugliare cose prive di senso, finché non avvertì un dolore alla guancia e non si ritrovò nuovamente sdraiato sul suo letto, ora oppresso da una presenza sconosciuta che gli percuoteva il viso con schiaffi poderosi.
“Svegliati, idiota!”
Con uno sforzo d’addominali, riuscì a sollevarsi a sedere, ribaltando la situazione instauratasi col suo aggressore e schiacciandolo sul materasso, un braccio premuto sul pomo d’Adamo.
“Watson! Sono io, per l’amor del cielo!”
Impiegò non pochi secondi a registrare quella voce. “Holmes?” borbottò mentre allungava la mano verso il suo comodino, dove teneva la bacchetta, e mormorava un Lumos frettoloso. In breve, la punta di questa rischiarò appena le tenebre e lui ringraziò interiormente le tende rosse che separavano i letti degli altri compagni di stanza. Quando il viso di Sherlock comparve nel suo campo visivo, rafforzò ancor di più la presa sulla sua gola anziché indebolirla. “Che diavolo ci fai qui? Come hai fatto ad entrare? E poi che diavolo di ore sarebbero?” sibilò per evitare di svegliare gli altri.
“Una domanda alla volta, Watson. Per prima cosa non ho idea di che ore siano, so soltanto che ti ho chiesto di passarmi un libro di Difesa contro le Arti Oscure un’ora fa e tu hai deciso di ignorarmi; poi, non stupirti del fatto che abbia impiegato meno di trenta secondi per indovinare la parola d’ordine dei dormitori, non è certo Fortnox; e infine, sono qui per chiederti una cosa a proposito di Victor. Tutto chiaro, finora? Ah, un’altra cosa, pensi di farmi parlare tutto il tempo con te sopra? Anche se come copertura non è per niente male, devo ammetterlo…”
John si affrettò a scattare in piedi e, con un gesto allusivo della mano, gli intimò di seguirlo fino alla sala comune senza emettere verbo. Una volta accomodati sulle due poltrone rosse di fronte al caminetto che Sherlock si premurò di accendere con un incantesimo Incendio, il Grifondoro prese un respiro profondo e incoraggiò l’altro a proseguire, ma nel frattempo prese a rimuginare sulle parole del moro.
“Dunque, come ti dicevo-”
“Aspetta, aspetta, aspetta… Mi hai chiesto di passarti un libro… un’ora fa?”
“Lieto che tu non sia diventato sordo o completamente stupido nel frattempo.”
“Ti rendi conto che un’ora fa ci eravamo già separati a Hogsmade e che un’ora fa io ero già sotto le coperte a dormire?”
“Oltre a non abituarmi mai alla quantità di tempo che i comuni mortali spendono in frivolezze come le relazioni, non mi abituerò mai alla quantità di tempo che i comuni mortali spendono per dormire o per mangiare.”
John gli rifilò un’occhiata dubbiosa. “Da quant’è che non dormi?”
Sherlock scrollò le spalle. “Non ne ho idea.”
“E da quant’è che non mangi?”
“Due giorni? Di più? Non ricordo, credo di essermelo dimenticato…”
Dimenticato? Come puoi essertene dimenticato?!”
“Calmati, adesso. Andrò a rubare qualcosa dalle cucine più tardi se mi ricorderò.”
“Stai scherzando, spero.”
Sherlock sbuffò e allungò le gambe snelle e toniche, arrivando ad appoggiarle sui braccioli della poltrona di John. “Tornando a noi, volevo chiederti se negli ultimi giorni, prima della scomparsa di Victor, hai mai avuto il sentore che si stesse comportando in modo strano.”
Il Grifondoro vi rifletté a lungo, ma la verità era che non ne aveva la minima idea. Come poteva? Era stato così assente nella vita del suo migliore amico proprio a causa di Sherlock. Anzi, a causa propria. Perché ora che lo conosceva, ora che conosceva quel Corvonero che aveva ripudiato così tanto, iniziava a capire che cosa Victor avesse visto in lui. Scorgeva il dolore, il lutto, l’amore in quelle iridi all’apparenza fredde. E John se ne sentiva sempre rapito, come se non fosse in grado di sostenere quella valanga di emozioni col solo sguardo.
“Non ne ho idea… Nell’ultimo periodo, ci siamo allontanati molto.” confessò a mezza voce.
Sherlock continuò a guardarlo senza scomporsi. “Infatti non te lo stavo chiedendo in qualità di amico, ma di compagno di stanza. Devi esserti reso conto di qualcosa.”
Indurì lo sguardo, improvvisamente colpito al centro del proprio orgoglio. “Non so se te ne sei reso conto, ma nell’ultimo periodo erano rari i giorni che passava al dormitorio.”
“Ancora questa stupida gelosia, Watson?”
La voce del moro era secca, lapidaria, e lui, nuovamente, avvertì un colpo poderoso all’altezza del petto. Aveva ragione: doveva smetterla con quello stupido passato che lo tormentava. Scaricava la colpa su Sherlock solo perché non riusciva ancora a perdonarsi la propria.
“Era nervoso.” rispose alla fine. “Mentre prima si svegliava sempre all’alba per sgattaiolare da te, negli ultimi tempi tendeva sempre a muoversi in gruppo. E poi… guardava spesso fuori dalla finestra, come se stesse cercando qualcosa.”
“O qualcuno.”
John annuì. I ricordi riaffioravano a mano a mano che le sue labbra pronunciavano quelle parole, e lui rivide Victor, fermo di fronte alla finestra, gli occhi che si muovevano come impazziti per il grande cortile. Ma allora, non vi aveva mai dato peso.
“Comunque, il tuo racconto coincide.”
“Con cosa?”
“Con quello che ho notato io. Nonostante le belle giornata, non voleva mai andare di fuori. Quando ci allontanavamo troppo dalle aree più popolate della scuola diventava nervoso, quasi nevrotico, e guardava sempre il suo orologio da taschino in un comportamento compulsivo che dimostrava la spasmodica attesa delle lezioni. Inoltre, aveva anche rinunciato alle apparenze – uniforme indossata per due settimane intere, bacchetta impolverata, capelli in disordine, persino un accenno di barba – quasi si dimenticasse… O magari non aveva aspettative verso il futuro.”
“Quindi sapeva che sarebbe morto. E’ questo che stai dicendo?”
Sherlock congiunse le mani sotto il mento e distolse gli occhi dai suoi, osservando il crepitio delle fiamme. “Era stato minacciato.” sentenziò infine il moro. “E se così è stato, deve per forza esserci una qualche traccia di tale minaccia. Gli effetti personali. Che fine hanno fatto gli effetti personali di Victor?”
John ci pensò su per qualche secondo e il suo volto si illuminò improvvisamente. “La famiglia. Ovviamente sono stati restituiti alla famiglia.”
“Babbani. Eccellente. Più predisposti a farsi raggirare rispetto ai maghi.”
“Che intendi fare?”
“Per ora niente. Ci sono ancora diversi fattori da prendere in considerazione.”
Sherlock si alzò in piedi, stirando le braccia dietro di lui e gemendo appena. John inarcò un sopracciglio mentre lo osservava dirigersi verso l’uscita.
“Bene, è arrivato il momento che io torni nei dormitori a riflettere.”
Ma John fu più rapido e con un balzo felino gli ghermì il braccio, tirandolo indietro. “Stammi a sentire, Holmes. Adesso io e te andiamo a recuperare qualcosa da farti mangiare.”
“Watson, per piacere! Mangiare rallenta i processi mentali. Capisco perché siete tutti così stupidi, visto che non fate altro che anestetizzare la mente con ore ed ore di sonno e imbottite il corpo con tutto quel-”
Il Grifondoro afferrò prontamente la bacchetta e con un ghigno malizioso sussurrò: “Silencio.”
Gli occhi di Sherlock si fecero grandi di stupore e fece per aprire la bocca, ma non vi uscì alcun suono. L’espressione assassina che si dipinse sul volto del moro distrusse ogni tentativo di John di trattenersi dal ridere.
“Si sta così in pace quando non parli.” osservò passandogli un braccio intorno alle spalle e trascinandolo fuori dai dormitori. “Ora che ci penso, come si accede alle cucine?”
Il moro gesticolò furiosamente, annaspando quasi, ma alla fine si rassegnò al suo mutismo forzato e incrociò le braccia al petto, in segno di sfida.
“No, non ti toglierò l’incantesimo. Durerà fin troppo poco e voglio godermi questi momenti il più possibile.”
Sherlock inarcò un sopracciglio, ma non diede segno di ribellione.
“Perfetto. Si trovano nei pressi della Sala Grande, vero?”
L’altro annuì.
“Ma ovviamente sono celate agli occhi degli studenti.”
Altro segno d’assenso.
“Ma tu sai come accedervi.”
E per la terza volta, Sherlock confermò col capo.
Si avventurarono insieme per i corridoi bui della scuola, scivolando furtivamente a ridosso delle pareti, timorosi che quella canaglia di Filch e della sua gatta potessero sbucare da un momento all’altro, cogliendoli in flagrante. Una volta nella Sala Grande, Sherlock gli indicò un immenso quadro raffigurante un mastodontico cesto di frutta e, senza degnarlo di ulteriori spiegazioni – come se effettivamente ne fosse in grado – solleticò la pera in primo piano che, dopo una risatina, prese a mutare forma, rivelando la maniglia di una porta.
“Wow.” sussurrò lui ammirato. “Non smetterò mai di sorprendermi delle stranezze di questo castello.”
Sherlock sorrise sornione e si infilò dietro la porta che conduceva, appunto, alle cucine, un salone enorme costellato di tavolate identiche a quelle della Sala Grande. Sulla parete direttamente opposta all’entrata, stavano ovviamente i banconi da lavoro su cui un centinaio di Elfi erano già indaffarati a preparare le pietanze per la mattina dopo.
“Sherlock caro!” cinguettò una vocetta.
Si volsero entrambi e, di fronte a loro, comparve la figura di un’anziana signora dal viso gioviale, ma severo, con le mani allacciate ai fianchi.
“Questa brutta abitudine di saltare i pasti per poi venire qui ad elemosinare contro le regole della scuola deve assolutamente andare corretta. Dovrei scambiare qualche parola con tua madre, giovanotto.”
Ma Sherlock indicò frettolosamente – e con aria parecchio infantile – il Grifondoro accanto a lui, che per tutta risposta rivolse un sorriso angelico alla signora, allungandole una mano. “Piacere, io sono John Watson. Sono stato io ad insistere per accompagnarlo qui visto che non tocca cibo da… tempo non specificato.”
La donna sospirò, scuotendo la testa, ma si affrettò a stringere calorosamente la mano del ragazzo. “E’ un piacere vedere che Sherlock ha finalmente trovato la forza di voltare pagina dopo… Oh, basta rivangare brutti ricordi. Io sono Mrs Hudson, comunque, e mi occupo di sovrintendere l’eccelso lavoro di questi piccoli cuochi. Venite, cari, venite! Abbiamo giusto qualche pasta appena sfornata.”
John non fece in tempo ad elaborare alcun pensiero, perché si ritrovò seduto accanto a Sherlock, davanti un piatto traboccante di dolci e una tazza fumante di latte caldo. Sebbene non fosse nei suoi piani mangiare a sua volta, alla sola vista di quelle leccornie percepì il suo stomaco brontolare e così si avventò sulle cibarie. A metà porzione, scoccò un’occhiata a Sherlock e, con sua immensa sorpresa, scoprì che aveva già spazzolato la sua razione.
“Si vede che non mangiavi da giorni.”
Il moro sbuffò e si avvicinò la scodella di latte alle labbra, ignorandolo completamente. Era strano, ma improvvisamente John sentiva il bisogno di rimuovere quello stupido incantesimo: contro ogni aspettativa immaginabile, cominciava quasi a sentire la mancanza di quella voce baritonale e calda, petulante e saccente, è vero, ma estremamente confortante. Più tempo trascorreva in compagnia di Sherlock e più si rendeva conto di quanto piacevoli fossero i momenti condivisi con lui. Era come essere entrato a far parte di un’avventura. La cosa più spericolata che aveva mai fatto in vita sua era stata lanciarsi dalla scopa per afferrare il boccino d’oro nella sua prima partita di quidditch contro Serpeverde, invece ora si ritrovava a gironzolare per la scuola di notte, sgattaiolando nelle cucine e arraffando dolci deliziosi appena sfornati, e ad indagare sul mistero della morte del suo migliore amico. A quel pensiero, provò un’istintiva stretta allo stomaco. La mancanza di Victor si stava via via affievolendo, come se Sherlock avesse riportato un equilibrio che aveva perso alla notizia della morte di Trevor. Gli scoccò un’occhiata furtiva. Probabilmente, Sherlock conservava una parte di Victor. Probabilmente, Sherlock era tutto ciò che gli rimaneva di lui. Si chiese se anche per l’altro fosse lo stesso.
“Non capitava da un po’.”
La voce del moro lo riscosse dai suoi pensieri, ma non fu affatto sorpreso di scoprire che l’incantesimo si fosse già esaurito. Era davvero bella la sua voce.
“Che cosa?”
“Che qualcuno si occupasse di me. L’ultima persona – e forse anche l’unica – è stato Victor.”
John lo guardò attentamente. “La tua famiglia? Hai detto di avere un fratello? Non si prendono cura di te?”
Sherlock ridacchiò. “Mio fratello è eternamente preoccupato. Se alla sua preoccupazione sommiamo la sua smania di grandezza e di controllo, ti lascio immaginare i risvolti del suo prendersi cura di me.”
“E i tuoi genitori?”
“Mio padre è sempre stato troppo impegnato col suo lavoro da Auror e mia madre… beh, mia madre è una babbana a cui è crollato il mondo addosso quando era già incinta del secondogenito – sono io per la precisione, salve – e ha scoperto che sia suo marito sia il primo figlio erano maghi. Se n’è andata dopo avermi messo al mondo e aver scoperto che anche io ero diverso da lei.”
John aprì e chiuse le labbra svariate volte, incapace di proferire parola. “Mi… mi dispiace.”
“Perché?” chiese Sherlock voltandosi e rivolgendogli un’occhiata profonda. “Perché ti dispiace? Non è colpa tua.”
“Mi dispiace per quello che avrai dovuto passare.”
“Non è così orribile come sembra.”
“Se fossi stato in te, avrei di certo avuto problemi ad accettare me stesso e mi sarei continuamente chiesto che cosa ci fosse di sbagliato in me. Alla fine, sarei semplicemente arrivato alla conclusione che se il mondo per primo non mi accettava, allora nessuno l’avrebbe mai fatto, e sarei cresciuto da solo e scorbutico.”
Si guardarono a lungo senza parlare, negli occhi del Corvonero, John vi scorse una solitudine immensa, che mai aveva intravisto in quelle iridi e provò l’impulso di abbracciarlo, ma ovviamente si trattenne.
“E tu? Sei un Purosangue, un Nato Babbano o un Mezzosangue come me?”
“Nato Babbano. O almeno credo. Neanche io ho conosciuto mia madre. E’ morta dando alla luce mia sorella minore, Harriet.”
“Deduco che sia una Babbana come i tuoi genitori, visto che non mi sembra che dal tuo modo di parlare sia qui ad Hogwarts.”
John sorrise tristemente, distogliendo lo sguardo e puntandolo sui resti del suo spuntino notturno. “E’ morta. Con mio padre. Un incidente stradale.”
“Oh.” mormorò solamente Sherlock e quelle parole caddero in un silenzio che si protrasse per diversi minuti.
“Ad ogni modo” esordì ad un certo punto il Grifondoro alzandosi in piedi. “d’ora in avanti considerati sotto il mio mirino, Sherlock. Ti trascinerò ad ogni singolo pasto, se serve, e ti imboccherò a forza quando ti rifiuterai di mangiare. E avrai una vita sociale, Sherlock, parola mia. Non puoi continuare a rintanarti Dio solo sa dove a fare Dio solo sa cosa… Perché mi guardi così?”
Sherlock lo stava fissando con occhi grandi di meraviglia e le labbra mezze schiuse. “E’… è la prima volta che mi chiami col mio nome.”
“Ah… Beh, direi che questo teatrino può anche smettere di esistere, no? Siamo amici e, in linea teorica, gli amici non si chiamano per cognome.”
“A-amici?”
“Sì, Sherlock, amici. In questo momento, lo stupido fra i due sei tu. Devo farti un disegnino?”
Il moro distolse lo sguardo, con aria offesa, ma bastarono pochi secondi perché quell’espressione si sciogliesse in una dolce e nostalgica. “Non ho mai avuto un amico prima d’ora. Cioè… c’è stato Victor, in un certo senso, ma con lui è stato diverso sin dal principio.”
“Non so se avere paura o sentirmi onorato, a questo punto.” ironizzò John dirigendosi verso l’uscita delle cucine, ringraziando Mrs Hudson per la sua ospitalità.
Una volta nell’atrio, si guardarono rapidamente intorno, per constatare che non vi fosse nessun segno di Filch, infine si salutarono sbrigativamente, dirigendosi ognuno verso il proprio dormitorio. John sorrideva. Non sapeva perché sorridesse, ma provava uno strano calore all’altezza del petto, come quando trascorreva serenamente il tempo con Victor.
“Ehi!” sibilò in lontananza la voce di Sherlock, costringendolo a voltarsi. “Occhio a non farti beccare… John.”
E il sorriso di quest’ultimo si allargò ancora di più.
 
   
 
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