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Autore: Mary P_Stark    18/09/2019    3 recensioni
Una serie di OS dedicate ai personaggi della Trilogia della Luna. Qui raccoglierò le avventure, i segreti e le speranze di Brianna, Duncan, Alec e tutti gli altri personaggi facenti parte dell'universo di licantropi di cui vi ho narrato in "Figli della Luna", "Vendetta al chiaro di Luna", "All'ombra dell'eclissi" e "Avventura al chiaro di Luna" - AVVERTENZA: prima di leggere queste OS, è preferibile aver letto prima tutta la trilogia + lo Spin Off di Cecily
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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Magnus – Perdonanza
 
 
 Ottobre 2017 – Gungnir (Norvegia)
 

L’aria gelida del mattino spirava sull’altipiano, galleggiando sul lago e sollevando l’acqua in leggere onde biancastre. Il bosco degradava dal rosso e oro delle latifoglie al verde degli abeti e gli ricordava la tavolozza di un pittore.

Magnus Gustavsson avrebbe passato ore e ore in assorto silenzio, a osservare quella natura splendida e incontaminata, ma anche un bambino di sette anni aveva i suoi compiti.

Mentre consumava la sua merenda nella veranda chiusa da vetri temperati, il suo pensiero andò a Brianna McAlister. La videochiamata che la sua famiglia aveva ricevuto quella stessa mattina lo aveva reso felice e, al tempo stesso, lo aveva inorgoglito. (Dopo anni, finalmente, avevano fatto montare un ripetitore per i cellulari.)

La potente wicca di Matlock, depositaria dell’anima di Fenrir, aveva chiesto espressamente il suo aiuto per un esperimento da compiere assieme al dio-lupo e a Padre Tutto.

Sapeva bene che, pur avendo solo sette anni, la sua crescita era stata più rapida del normale e la sua mente, contrariamente a quella di altri bambini, era pari a quella di un adulto. Ugualmente, riusciva a gioire come un bambino di età sua pari di quella nuova avventura e, mentre terminava il suo budino al cioccolato, si ritrovò anche a ridacchiare di aspettativa.

L’idea di aiutare lady Fenrir ti esalta, Magnus?

La voce stentorea di Wotan riverberò nel suo animo e il bambino, annuendo debolmente, disse: “Mi sembra un’ottima occasione per conoscere meglio i nostri amici inglesi… inoltre, mi fa piacere rendermi utile, anche se sono solo un bimbo.”

Prima di accettare la richiesta di Brianna, però, dovresti conoscere un paio di cose sul mio passato… e sul passato di Avya e Fenrir. Non vorrei commettere due volte lo stesso errore, e cioè fidarmi troppo delle mie sensazioni senza darmi il tempo di ragionare sulle cose.

“Pensi di potermi mettere nei guai inconsapevolmente, e magari offenderli?” domandò curioso Magnus, sorpreso dalle reticenze della sua anima divina.

Potrebbe succedere. Il mio potere è così grande, e tu così piccolo, che potrei inavvertitamente farti dire cose che non vorresti. So essere assai goffo, quando voglio.

L’ammissione del dio fece sorridere Magnus. Sapeva di questa sua goffaggine, perché molte altre volte l’aveva notata durante alcuni suoi discorsi telefonici con Tyr e la sua umana Tempest. Il fatto che si preoccupasse di non insultare Fenrir o la sua compagna, però, lo incuriosì al punto di chiedergli: “Credi che Fenrir possa avercela ancora con te? Che dopotutto non ti abbia perdonato?”

Non so cosa passa per la testa di quel lupo e, a ben vedere, avrebbe tutte le ragioni del mondo per odiarmi, visto quanto fui sciocco in quell’occasione. Per questo, vorrei mostrarti come andarono le cose. Soprattutto con Avya. La consapevolezza può aiutare a non commettere errori.

“D’accordo, allora. Ti aspetterò nei miei sogni come sempre?”

E’ più semplice, assentì Wotan con tono grato.

Magnus scrollò le spalle, come se fosse la cosa più naturale del mondo fare sogni telecomandati. Nel suo personale mondo, pieno di magia e mistero, era però così perciò, quando infine giunse la sera a depositarsi come una coperta sul villaggio, lui desinò con calma e si avviò poi a letto per visionare quanto concordato.

Il sonno giunse in fretta come sempre e, come sempre, il sogno bussò alle sue porte e lui le spalancò con curiosità e interesse.

Fu così che, in un turbinio di colori e di suoni, volteggiò fino a un mondo lontano, a un tempo lontano e a un’esistenza lontana.
 
***

Frigga passeggiava nervosa nei suoi appartamenti e, quando finalmente una delle valchirie venne a chiamarla, ella tirò un sospiro di sollievo e domandò: «Tyr sta dunque bene, ora?»

«Rifiuta di essere curato, mia signora. Reputa un giusto pegno, la perdita della mano, e desidera che essa non venga rigenerata» riferì la guerriera, inchinandosi alla propria regina.

Sorpresa, la regina sbatté le palpebre perplessa, colta da un dubbio atroce e, sollevando le gonne per camminare più agevolmente, uscì dai propri appartamenti per raggiungere il figlio adottivo.

La Valchiria, Alary, la seguì fedele – già prefigurandosi una lite furiosa in famiglia -  e, quando la regina spalancò le porte dell’appartamento di Tyr, non si stupì nel vederla furente e bellicosa in viso.

Odino era in piedi accanto al figlio, torvi in viso entrambi ed entrambi silenziosi come statue. Neppure l’entrata in scena di Frigga sortì l’effetto di sconvolgere un simile silenzio funereo.

Tranquilla, Alary si pose a fianco delle porte dell’appartamento, chiudendole senza fare rumore mentre Frigga, avvicinatasi al figliastro, domandava: «Perché mai una simile decisione? Potresti riavere la tua mano in qualsiasi momento!»

«Ma non riavrò il mio migliore amico!» sbottò Tyr, fulminando poi con lo sguardo il padre, che ebbe la decenza di non parlare.

Sempre più confusa, la donna esalò: «Ma… è stato proprio Fenrir a strapparti la mano… perché dunque agognare al suo ritorno?»

«Perché Fenrir è morto per una menzogna, per crimini di cui non si è mai macchiato, e io sono stato così sciocco da non credergli… così come mio padre è stato così superficiale da credere alle parole di Loki, il cui unico scopo era risvegliare il Ragnarök attraverso la morte del figlio.»

Il tono di Tyr fu così penoso e dolente che Frigga gli carezzò i capelli biondi e scompigliati per consolarlo. Era mai possibile, dunque, che Fenrir avesse subito una sorte così avversa, e da incolpevole?

Scrutando il viso imperscrutabile di Odino ne ebbe la conferma senza alcuna necessità di chiedere e, con un sospiro pieno di contrizione, reclinò il capo e lasciò che la lunga chioma castana formasse un velo a celarne l’imbarazzo.

Era dunque avvenuto ciò che più temeva. Gli inganni e i sotterfugi meschini di Loki avevano fatto una vittima illustre, e ora una famiglia era stata spezzata tragicamente, con conseguenze inimmaginabili.

«Vi avevo pregato di non fidarvi di Loki ma voi, no! Bramavate soltanto mettere a tacere la vostra paura, e così facendo avete messo in atto il Ragnarök con le vostre stesse mani!» sbottò Tyr, levandosi in piedi per affrontare direttamente Odino con il suo sguardo livido.

Accigliandosi per il rimbrotto, Padre Tutto replicò piccato: «Dici follie, figlio! Fenrir è ormai morto, e nulla è crollato. Per qualche ragione soltanto sua non è impazzito, distruggendoci tutti, e ora tu mi accusi di aver portato la disgrazia sull’intero mondo. Il dolore ti rende forse pazzo?»

Frigga, però, comprese bene le parole del figliastro e, rivolgendosi a sua volta al marito, replicò: «Tyr ha ragione. Come pensi che reagiranno i figli di Fenrir, alla notizia della morte del loro padre? Credi che ci ameranno, o anche soltanto ci rispetteranno, sapendo che lo abbiamo ucciso senza colpa?»

Odino divenne purpureo in viso per l’ira e sbraitò: «Non gli avevo dato il permesso di procreare!»

«Vi arrampicate sugli specchi per non ammettere di essere stato gabbato da quello scaltro di Loki. Vostro fratello vi ha preso per il naso e questo vi fa infuriare, non di meno scaricate ancora su Fenrir le vostre colpe. Siete spregevole, padre» gli sibilò contro Tyr, volgendogli le spalle pieno di rabbia. «Ora raggiungerò Avya per chiedere il suo perdono e, ve lo giuro su quanto ho di più caro… se verrà torto un capello a lei o ai suoi figli, vi ucciderò

Ciò detto, si trasmutò, svanendo dinanzi agli occhi irosi del padre e a quelli affranti della matrigna.

L’attimo seguente, Odino ringhiò per scaricare la furia e il suo pugno terminò sull’innocente comodino del letto che, letteralmente, andò in briciole sotto il suo colpo.

Imperturbabile, Frigga lo sfidò con lo sguardo e dichiarò: «Non hai davvero compreso ciò che tuo figlio ti ha detto, o fai soltanto finta di apparire uno sciocco?»

«Non ora, Frigga» sibilò il dio, arretrando di un passo prima di notare, finalmente, la presenza silente di Alary, una delle valchirie addette alla sicurezza della moglie. «Lasciaci soli, guerriera. Prometto di non levare mano su di lei, ma devo parlare con la mia consorte senza orecchie ad ascoltarci.»

Ben sapendo di non poter fare nulla, di fronte a un ordine diretto di Odino, la valchiria assentì, ma solo dopo un’ultima occhiata a Frigga, che acconsentì a essere lasciata sola.

Odino attese quindi la scomparsa della valchiria, prima di rispondere alla consorte, e solo per dire: «Sarebbe cosa gradita se, di queste cose, ne parlassimo sempre in separata sede.»

«Non mi interessa se il palazzo tutto ascolterà ciò che ho da dire… alla fine, tutti sapranno che hai giustiziato incolpevolmente un dio. Questo metterà zizzania tra i tuoi seguaci e minerà la tua nomea di divinità giusta e capace» replicò caustica Frigga.

Sospirando, infine, Frigga aggiunse: «So benissimo da dove nasce il tuo odio verso Fenrir, ma Tyr ha ragione. Tu stesso hai seminato e dato vita alla fine di tutto. I figli di Fenrir non potranno mai perdonarti, né sua moglie potrà farlo, e questo odio li consumerà finché non avranno generato altro odio, e così fino alla fine dei tempi, finché finalmente Fenrir risorgerà per dare corpo a questo odio millenario.»

Odino si accigliò ulteriormente, a quelle parole, temendo non poco che sia Tyr che Frigga avessero ragione. Ammettere una cosa simile era comunque ben lungi dall’essere realizzabile.

Non amava commettere errori ma, più ancora, odiava essere gabbato, e Loki lo aveva inguaiato non poco, con il suo piano di distruzione di massa. Lo aveva colpito dov’era più sensibile, e ora ne pagava lo scotto.

Tyr già lo detestava e ben presto, come aveva predetto Frigga, la Corte tutta non avrebbe più avuto fiducia nella sua guida oculata.

Ragnarök poteva manifestarsi con molti volti e, forse, uno di questi era l’inizio della fine del suo regno.
 
***

Assistere alla lite tra Tyr e la compagna di Fenrir, così come al conseguente pianto di quest’ultima, toccò persino il cuore apparentemente duro di Odino.

A seguito della discussione animata con Frigga, Odino si era allontanato da Palazzo per chiarirsi le idee e, inconsciamente, aveva seguito la scia di potere di Tyr per parlare con lui, per giungere a patti con il figlio.

Questo lo aveva condotto su Manheimr, in un bellissimo altipiano verdeggiante, lontano dai villaggi degli umani e circondato da boschi di sempreverdi e montagne brulle e dall’aspetto minaccioso quanto protettivo.

Quel luogo, in effetti, appariva come un’immensa conchiglia, pronta a proteggere le preziose perle che conteneva.

La compagna di Fenrir aveva accusato Tyr di non aver protetto l’uomo che lui aveva giurato essere il suo migliore amico e, con grida di spregio e odio, lo aveva cacciato da casa sua.

Con Tyr ormai lontano – almeno per quel giorno – e l’unica compagnia del canto degli uccelli, la giovane donna in lacrime se ne stava ora seduta su una rozza panca nei pressi dell’entrata della casupola dove abitava.

All’interno dell’abitazione, almeno stando all’udito di Odino, dovevano esserci almeno altre due donne. Tyr aveva parlato di figli maschi, ma quelle voci erano indubbiamente femminili.

Che i figli di Fenrir avessero già procreato? O erano le loro compagne?

Il movimento improvviso della compagna di Fenrir lo strappò a quei pensieri e Odino, muto osservatore del suo dolore, la vide gettarsi in ginocchio e stringersi le braccia al petto, quasi volesse trattenere il suo amante ormai scomparso.

Quello strazio perdurò per diversi secondi, prima che la donna prorompesse in un grido colmo di uno strazio palpabile.

Dalla casa uscirono subito dopo le due donne di cui Odino aveva percepito la presenza e, dolenti entrambe, le si inginocchiarono accanto, stringendola in un abbraccio consolatorio.

Fenrir era dunque riuscito in una simile impresa? Il dio-lupo, che tanto aveva temuto fino alla sua morte, aveva quindi saputo produrre in una donna umana un tale amore e una devozione così totale?

Come ne era stato capace? Quali malie aveva gettato su quella donna?

A un cenno della compagna di Fenrir, le due giovani si scostarono, aiutandola a rimettersi in piedi e, su suo desiderio, venne nuovamente lasciata sola.

Ora più tranquilla, pur se non pacificata, la donna si avviò verso il pozzo per recuperare probabilmente dell’acqua, e fu a quel punto che Odino si mosse.

Mutando le proprie forme in quelle di un uomo canuto, vecchio e zoppo – così da non destare panico nelle tre donne – Odino uscì dal bosco tenendosi a un rozzo bastone.

La donna lo notò immediatamente, forse a causa della sua vita passata a guardarsi le spalle – anche da lui – e Odino, suo malgrado, ne ammirò la compostezza e la regalità.

Poteva anche essere una fragile umana, ma aveva il portamento della sua Frigga.

L’attimo seguente, però, venne turbato da un movimento strano nel bosco – no, del bosco – e, suo malgrado, si rese conto che, a produrlo, era la donna che lo stava fissando con occhi smeraldini.

Era mai possibile che…

Al suo tentennare, il movimento cessò e la donna, rilassando la postura ed esibendosi in un sorriso cauto, disse: «Siete lontano dai villaggi a valle, buon signore. Vi siete perso?»

Riprendendo a camminare claudicante, Odino mormorò roco: «Sono un viandante senza meta, gentile signora. Cerco acqua e un tozzo di pane, se ne avete, o una parola gentile, se vorrete onorarmi.»

«A questa porta avrete sia la prima che la seconda e ben volentieri la terza, se non porterete sventura a noi povere fanciulle» sorrise la donna, lanciando poi un’occhiata verso la porta, ove si erano affacciate nuovamente le sue compagne di vita.

Odino abbozzò un sorriso barbuto, asserendo: «Un vecchio come me reca con sé solo ricordi, e poco altro. Se me lo consentirete, riposerò le mie stanche membra su quella panchina e poi ripartirò senza null’altro chiedere.»

Avya guardò per un istante Sylvi e Lyka, chiaramente turbate dalla presenza di quell’estraneo ma, non ritenendo necessaria la loro presenza, le pregò di rientrare in casa.

Le ragazze, pur se di malavoglia accettarono e Avya, tornando a scrutare il nuovo venuto, disse: «Accomodatevi e bevete. Vi porterò subito il pane, e poi parleremo.»

«Gli dèi ve ne saranno grati» mormorò l’uomo, accomodandosi sulla panchina di legno.

Sorridendo meditabonda lei replicò, prima di svanire in casa: «Questo non ve lo saprei davvero dire, messere.»

Rimasto solo, Odino si guardò quindi intorno, notando la solidità della struttura di pietra e legno, il bel recinto dove si trovavano diverse capre a riposo e una piccola stalla dove, a giudicare dal rumore, si trovava un cavallo.

Era un luogo dignitoso dove vivere, pur se non era neppure lontanamente bello o lussuoso come il suo palazzo di Asghard. Trovava curioso che Fenrir potesse aver trovato gratificante vivere in un luogo così bucolico.

Ma forse, la sua ferocia e la sua brama di guerra erano state ammansite proprio da questo genere di vita. E da quella donna all’apparenza così forte.

Quando la vide tornare, tra le mani un vassoio di pane dall’aroma delizioso e un bel bicchiere di peltro ricolmo di latte fresco, la ringraziò con un cenno del capo e mangiò in silenzio.

Lei, con tutta calma, avvicinò alla panchina un treppiede di legno e si accomodò con la stessa regalità di una regina, sistemando con attenzione il semplice abito di canapa color cannella.

Il vento le scompigliava i rossi capelli rilasciati sulle spalle mentre gli occhi, ancora rossi di pianto, risaltavano comunque per bellezza e intensità su quel viso candido e punteggiato di efelidi.

Sì, era sicuramente una bella donna, ma dubitava che Fenrir si fosse infatuato di lei per questo. Cosa aveva visto, in questa donna, da condannarsi alla morte pur di non scatenare Ragnarök, come Tyr sosteneva che Fenrir avesse fatto?

«Grazie per questi preziosi doni, gentile signora. Avete salvato un vecchio da una morte per fame» disse dopo alcuni minuti Odino, poggiando di fianco a sé il vassoio e il bicchiere di peltro.

Avya ammiccò graziosa, ma la sua voce non trasmise nulla di quella bellezza apparente. «Credete di essere spiritoso, o anche solo credibile, Sommo Odino? Pensate che venire qui, vestito di stracci, basti a ingannarmi? Cosa volete da me? Vedere le mie lacrime? Assaporare sulla lingua il mio dolore? Ridere della mia perdita?»

Sinceramente sgomento – come aveva potuto, quell’umana, riconoscerlo?! – Odino fece tanto d’occhi e replicò roco: «Perché mi accusate di tutto ciò?»

«Ora basta…» sibilò Avya, levando una mano con lentezza studiata.

Dal terreno, radici poderose si levarono intorno a Odino che, vistosi smascherato, gettò a terra la maschera e si levò in piedi esclamando: «Che stregoneria è mai questa?!»

Soddisfatta, Avya ritirò subito le radici che, obbedienti, tornarono nel terreno attorno a Odino e, più calma, disse: «Adesso va meglio. Detesto essere presa in giro e, se mai vi foste soffermato a parlare con Fenrir, lui ve l’avrebbe detto. Ma dubito che voi sappiate qualcosa di me o dei miei figli, vero? O anche dello stesso Fenrir.»

Cercando di trattenere l’impulso di ucciderla per il solo fatto di averlo attaccato – era pur sempre una donna che aveva perso il compagno – Odino si limitò a dire in un borbottio: «Fenrir non era certo la persona più facile da trattare. Ne converrete anche voi.»

Avya scoppiò in una secca risata e, gelida, replicò: «Come avrebbe potuto esserlo, con un padre come Loki, una sorella come Hel e una guida come voi?»

«La lingua forcuta non vi difetta, signora» sbottò a quel punto Odino, punto sul vivo.

«Come dissi a suo tempo a Fenrir, non posso aver paura dell’inevitabile, ma solo di ciò che potrei migliorare» asserì lei, assolutamente tranquilla. «Voi potreste uccidermi in qualsiasi momento e, pur con i poteri conferitimi da Fenrir, io non potrei fermarvi. Perciò, perché preoccuparmene?»

Sorpreso da una tale presenza di spirito e di complessità di pensiero, Odino sospirò e ammise: «Fenrir non avrebbe potuto che innamorarsi di una donna come voi, capace di sfidarlo quando nessun altro avrebbe osato.»

«Così avvenne, in effetti» ammise Avya. «Ve lo ripeto, dunque. Perché siete qui?»

«Per ammettere che ho commesso un errore, e questo mio errore vi ha portato via colui che così tanto amavate» si ritrovò a dire Odino, reclinando colpevole il capo.

Avya, però, non se ne fece nulla delle sue scuse e, levatasi in piedi piena di stizza, replicò: «Sapete cosa dovrei farvi? Far scatenare i miei figli contro la vostra intera casata, perché ciò che più temeva il mio amato si concretizzasse. Ma non lo farò… non getterò al vento il suo nobile gesto per mandare a sicura morte i miei figli e, con essi, molte di voi spocchiose divinità.»

«Signora, ora esagerate, però!» sbottò Odino, levandosi a sua volta in piedi per sfidarla con la sua possanza.

Ancora, lei non si turbò minimamente, e la divinità comprese una volta di più quanta forza fosse insita in quel fragile corpo, e quanta volontà muovesse la donna. Sì, Fenrir non aveva potuto che innamorarsene.

«Mi dovete una vita, e io la pretendo!» lo accusò quindi lei, puntando un dito contro il suo ampio torace.

Lui indietreggiò di un passo, chiaramente sorpreso, e ribatté irato: «Non vi consegnerò mai uno di noi a ricompensa per la vostra perdita!»

Avya, però, scacciò con un gesto della mano quell’idea e si limitò a dire: «Le vostre vite non mi interessano. Io ne voglio solo una; quella di mio fratello Fryc.»

Colpito da quella richiesta davvero imprevista, Odino non seppe come rispondere e Avya, non contenta, chiamò all’esterno sia Sylvi che Lyka, perché le due giovani si parassero dinanzi al dio.

Coraggiosamente, le due si avvicinarono alla nuova presenza che si trovava accanto al pozzo e, pur se spaventate, rimasero accanto ad Avya che, furente, dichiarò: «Mio fratello cercò di ucciderle, credendole una mia progenie, la progenie di un demonio, e solo perché sapevano come curare le persone. I miei figli le salvarono dal rogo, mentre Fenrir tentava invano di salvare un villaggio vicino dall’ira cieca di Fryc. Per questo voglio la sua vita. Mi spetta di diritto, dopo tutte le atrocità che ha commesso in nome di una sua paura immotivata.»

Odino guardò prima Avya, e subito dopo le due fanciulle pallide e timorose e, con un tono di voce il più possibile blando, domandò: «E’ tutto vero? Capirò se mentirete, perciò parlate a cuore aperto.»

Lyka parlò per prima, asserendo: «Ciò che ha detto la nobile Avya corrisponde al vero. Hati e Sköll, i suoi figli, ci salvarono dal rogo che la nostra gente elevò su richiesta di Fryc, soltanto perché eravamo riuscite a salvare un bambino da una brutta febbre.»

«Ci credettero streghe, figlie del sangue impuro di Fenrir, perciò ci condannarono a morte» aggiunse Sylvi con le lacrime agli occhi. «Il sommo Fenrir è sempre stato buono, con noi, e ci ha accolte in casa come sue figlie.»

Odino sospirò, schiacciato da quell’agghiacciante verità e, non sapendo che altro fare, tornò a sedersi e si prese il viso tra le mani, sconvolto.

Quanti altri errori aveva commesso? Con quanta superficialità aveva trattato le vicende degli uomini, per non accorgersi di tali e inutili brutalità?

«La sua vita è tua. Non interverrò. Ma solo una, donna. Non accetterò nient’altro» dichiarò infine Odino, risollevando il viso per guardarla con estrema serietà.

«Non garantisco che sarà solo lui a morire, se verremo attaccati, ma non cercherò volontariamente la fine dei suoi seguaci, se può farvi stare meglio» dichiarò lapidaria Avya.

«Vuoi una guerra» chiosò stanco Odino.

«Sì, una guerra che voi avete contribuito a fomentare e che io finirò, in un modo o nell’altro» replicò la donna, stringendo le braccia sotto i seni.

«Avrebbe dovuto parlarmi di voi… forse, tutto questo non sarebbe avvenuto» cercò di difendersi Odino, accigliandosi.

Avya, però, lo irrise con lo sguardo, asserendo: «Parlare con un dio che lo riempiva di calci quando era solo un cucciolo, o una Corte che lo vessava, irridendolo per la sua doppia natura? Forse, neppure la persona più mite del mondo lo avrebbe fatto.»

Padre Tutto fece per replicare, ma una duplice ondata di potere lo investì a sorpresa, portandolo a volgere lo sguardo verso la foresta.

Come due onde di piena ben distinte, i poteri provenienti dai due giovani appena fuoriusciti dal folto del bosco lo investirono con forza e Odino, suo malgrado, ne ebbe timore. Erano dunque questi, i figli di Fenrir?

Il giovane corvino fu il primo ad avvicinarsi alla casa e, cauto, domandò alla madre: «Va tutto bene, qui?»

«Non avere timore, Hati. Stavamo solo contrattando con questo nobile signore» dichiarò sua madre, carezzandogli una guancia con amore immenso.

«Non mi piace questo tizio. Chi è, madre?» brontolò quindi il secondo giovane, fulvo di capelli e dall’aria assai più bellicosa del primo. Parandosi di fronte ad Avya per proteggerla dallo sguardo di Odino, si accigliò a ogni secondo passato a scrutare la divinità, apparentemente ben deciso a menar le mani.

«Stai guardando storto il Sommo Odino, mio Sköll e, per quanto la cosa sia comprensibile, cerca di essere educato e contieniti» disse Avya con tono blando.

Per tutta risposta, i due figli ringhiarono rabbiosi in direzione della divinità e i loro occhi, di colpo, mutarono colore.

Odino si chiese se anche loro, come il padre, potessero mutare forma e Avya, come comprendendone il pensiero, sorrise e ammise: «Sono come il padre, perciò sono sia uomini che lupi. E sì, sono anche piuttosto riottosi, perciò fate bene attenzione a come vi esprimerete, o manderò alla malora ogni cosa, patto compreso. Posso essere carina e gentile quanto voglio, sopportare tutto il dolore del mondo… ma non accetterò un solo insulto nei confronti dei miei figli. Mai

A Odino non restò che ridere.

Quella donna aveva non solo carattere da vendere, ma anche una forza e un coraggio davvero esemplari, a riprova che soltanto una creatura incredibilmente rara come lei avrebbe potuto far capitolare Fenrir.

Levando perciò una mano per chetare la rabbia crescente dei due giovani mezzosangue e della loro madre, la divinità chiosò: «La vostra lingua ferirebbe anche una pietra, donna. Capisco perché Fenrir si sia sacrificato per farvi vivere e, per onorare il mio errore, non vi danneggerò in alcun modo, né risponderò a ciò che avverrà quando deciderete di portare vendetta. Ve lo siete meritato, dacché avrei dovuto essere più accorto nell’individuare l’inganno di mio fratello. Ma sappiate una cosa; dar voce al proprio dolore chiedendo sangue, ne chiama inevitabilmente altro, in un circolo vizioso senza fine. L’ho imparato a mie spese.»

«Ne affronterò il peso» decretò Avya, ben decisa a portare avanti il suo piano.

«Lo vedo, e so che sarà così. Ma mi sono sentito in dovere di dirvelo» dichiarò Ordino, lanciando poi un’occhiata ai due giovani mezzosangue. A coloro che, presto o tardi, avrebbero distrutto il Sole e la Luna, secondo quanto scritto dalle Norne.

Sì, apparivano forti e impavidi ma, più di ogni altra cosa, erano due giovani appassionati che soffrivano per la morte del padre e agognavano a difendere strenuamente la madre e le loro amiche.

Non erano diversi da qualsiasi altro giovane con a cuore le persone che amavano, anche se avevano sangue divino nelle vene. E lui era stato così sciocco e orgoglioso da cedere alle lusinghe di Loki per liberarsi di un dio scomodo e che temeva, ottenendo solo di scatenare ciò che aveva tentato di evitare.

Era davvero impossibile distruggere il tessuto del Fato. Neppure un dio poteva farlo, a quanto pareva, e di ciò che era avvenuto poteva dare solo la colpa a se stesso.

Levatosi in piedi, si allontanò di un passo, scrutò quella giovane famiglia mutilata dalle sue stesse mani e dichiarò: «Non opporrò resistenza, se vorrete attaccare il clan di vostro fratello, ma vi chiedo ancora una volta di pensare alle mie parole. Sangue chiama sangue.»

«Ne sono consapevole, e vi ringrazio per avermi messo in guardia» dichiarò allora Avya, ora più calma. «Se vedete vostro figlio Tyr, ditegli di tornare. Non lo caccerò più, d’ora in poi.»

«Amava molto Fenrir ma, come molti di noi, ha peccato di ingenuità. Dubito succederà una seconda volta» ammise Odino, lanciando un’ultima occhiata ai due giovani mezzosangue, ancora parati innanzi alla loro madre.

Sorridendo appena, si chiese se i suoi scriteriati figli avrebbero fatto la stessa cosa, per Frigga, o se si sarebbero limitati a combattere senza pensare alla difesa nuda e cruda dei propri cari.

Un giorno, lo volesse o no, lo avrebbe scoperto, ma preferiva di gran lunga non avvenisse a breve termine.

Senza dire altro, si trasmutò per tornare a palazzo, su Asghard e, quando mise piede nelle sue stanze, trovò Frigga ad attenderlo.

Lei sollevò il viso dalla visione della sua polla della divinazione e, sorridendo al marito, mormorò: «Sei stato bravo. Un po’ goffo, ma bravo.»

Arrossendo suo malgrado, Odino borbottò: «Non avresti dovuto sbirciare.»

Frigga non si lasciò sconvolgere dal suo sguardo burbero e, raggiunto il marito, gli carezzò la guancia barbuta e replicò: «E vedere il mio goffo marito che chiede perdono? Non me lo sarei perso per nessun motivo!»

«Non ho chiesto perdono!» sbottò il dio, ancor più a disagio.

«Sei andato da una donna in lutto per capire chi fosse e come Fenrir fosse legato a lei, e tutto ciò per sapere quanto il tuo errore fosse stato grande» asserì ora totalmente seria Frigga. «Non contento di ciò, le hai concesso di prendersi la sua vendetta sul fratello, reo di aver dato la caccia per anni a lei e alla sua famiglia, e aver commesso un autentico genocidio di innocenti nel frattempo. Non è chiedere perdono, questo?»

«Vedi cose che non esistono» sbuffò il marito, allontanandosi dalla donna per andarsi a sedere sull’enorme letto dalle colonne lignee.

Frigga lo lasciò andare, sorridendo comprensiva. «Sono stata allevata dalle streghe, perciò so come vedere le cose oltre il velo della realtà.»

«Ora parli per enigmi, donna» mugugnò Odino, togliendosi i calzari e i bracciali di pelle borchiata per poi gettarli su una poltrona vicino. La presenza di Frigga lo metteva dannatamente a disagio, ma non poteva cacciarla dalle sue stanze.

«Il Ragnarök ha cominciato a ticchettare ma forse, con il tuo gesto, lo hai rallentato e, quando verrà il momento di veder crollare ogni cosa, noi non saremo più qui per subirne direttamente lo scotto» mormorò Frigga, lo sguardo perso in direzione delle finestre e, da lì, alle alte montagne che sovrastavano l’immenso palazzo degli Asi.

Cosa ella avesse visto in quel momento, a Odino rimase per sempre ignoto.
 
***

Sbadigliando nel risvegliarsi, Magnus recuperò i suoi occhiali dal comodino, li inforcò e, nello scendere da letto, disse mentalmente: “Wotan, ci sei?”

Dove vuoi che vada, ragazzo?, ironizzò il dio, facendolo ridere.

Raggiunto che ebbe il bagno, Magnus si lagnò per bene il viso e i denti dopodiché, con passo tranquillo, si avviò verso la cucina, dove la madre e il padre stavano già dialogando dinanzi alla loro colazione.

“Credo di aver capito perché hai voluto farmi vedere quell’episodio.”

Spero ti sarà d’aiuto, quando sarai assieme a Brianna e a Fenrir.

“Credo di sì. E forse, lo mostrerò anche a loro.”

Oh, beh,… magari anche no, bofonchiò imbarazzato il dio.

Magnus rise sommessamente mentre entrava nella cucina e salutava i suoi genitori e, nel sedersi a tavola, replicò: “Non essere in imbarazzo. Ammettere i propri errori non è mai facile, ma tu l’hai fatto bene, no?”

Lo diranno i posteri, credo ma, per ora, sembra aver funzionato. Il mondo non ci è ancora caduto in testa!

Il bambino assentì e, quando vide comparire in cucina anche la diciottenne Elsa, prima ad aver conosciuto Brianna e amici, la salutò allegro e disse: «Sei già pronta? Io devo ancora mangiare!»

Lei gli sorrise gentile, si accomodò salutando i padroni di casa e replicò: «Non temere, Magnus. Abbiamo tutto il tempo del mondo. Zio Wulfgar ci accompagnerà a Oslo solo tra un paio d’ore, perciò puoi mangiare con tutta calma.

«Bene!» esclamò il bambino, affondando il cucchiaio nella sua ciotola di cereali.

I genitori sorrisero nel vederlo così allegro e pieno di vitalità e la madre, Annelyse, rivolgendosi a Elsa, disse: «Ti ringrazio per aver deciso di accompagnarlo. Tra il piccolo Mathias e la gamba rotta di Gheorg, non sapevo davvero che fare.»

Elsa sorrise al marito di Annelyse, che osservava imbarazzato la sua gamba rotta poggiata su una sedia, e replicò: «Non c’è alcun problema. Inoltre, mi fa piacere rivedere i nostri amici. Sono anni che non li vedo.»

«Farà un’avventura fanfaffica» bofonchiò Magnus, masticando in tutta fretta i suoi cereali.

Annelyse rise e lo redarguì bonariamente, intimandogli di non parlare con la bocca piena ma il bambino, ridacchiando, aggiunse: «Fono capafe di non stroffarmi, sai, mamma?»

«Ne sono convinta, tesoro, ma non sta bene» sottolineò Annelyse.

Magnus allora lasciò perdere e Odino, suo malgrado, disse: Ti prego, ricorda che sono dentro di te. Un po’ di contegno.

“Non ti farò fare brutta figura, promesso”, asserì il bambino, sorridendo tra sé.

Era davvero buffo avere nella testa un dio della sua grandezza, ma era anche un impegno, e lui era ben deciso a portarlo fino in fondo, e nel migliore dei modi. Odino sarebbe stato orgoglioso di lui.

Tutti quanti, a Gungnir, lo sarebbero stati.







N.d.A.: breve capatina in Norvegia per incontrare il piccolo Magnus, detentore dell'anima di Odino-Wotan, che abbiamo incontrato per la prima volta in "All'ombra dell'Eclissi". Ho voluto riempire un buco di trama riguardante il momento in cui, nello Spin-off dedicato a Cecily, Odino dice che lui e Fenrir si erano allenati insieme per poter gestire i poteri di quest'ultimo.
Visto che non avevo mai spiegato niente riguardo a come si fosse arrivati a questa decisione, ho pensato di scrivere una OS che ne dipingesse i contorni. Spero di avervi fatto cosa gradita.
A presto!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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