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Autore: Ellie_x3    22/09/2019    6 recensioni
Aveva sperimentato un tipo ben diverso d'amore, lui, un sentimento crudele e meschino che non faceva altro che male.
Tagliava in profondità le membra di un uomo, recidendo i muscoli, non lasciando altro che languore, scavando nelle ossa fino a prosciugare qualsiasi ricordo dell'essere umano che era stato in passato. Il sentimento mostrato da Alain aveva in sé la dolce sfrontatezza dell'attrazione: inequivocabile, sì, ma di gran lunga meno disperato e violento di ciò che provava Rossignol.
Magari, si disse, non esistono tipo diversi d'amore, ma solo uomini che lo vivono diversamente.
Forse Rossignol stava mentendo e non era affatto amore quello che provava per Alain, ma una cosa era certa: Alain era innamorato di lui.
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
Capitoli:
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Epilogo
-

 


Va, Louis, gros paour
Du temple dans la tour

 


[1791] 


Ad esser sincero, Rossignol non aveva mai avuto in animo di disonorare la memoria dell’unica persona che avesse davvero amato ma, codardo, codardo fino in fondo, non aveva avuto la forza di leggere le sue ultime parole. Il biglietto del principe T. giaceva in un cassetto, nascosto sotto pile di documenti firmati, lettere di credito e inviti all’Opera.
Proprio come sua madre aveva sepolto i propri segreti che non sapeva come affrontare, così faceva Rossignol.
Di tanto in tanto gli capitava di sentire una voce conosciuta chiamarlo, sussurrargli nel silenzio di fargli quest’ultima cortesia; di dargli voce un’ultima volta. Tuttavia, ben presto e a dispetto di ogni buon proposito, il rombo dei fucili aveva zittito il fantasma del principe T.
I canti attorno all'Albero della Libertà, la folla e le sue danze e le sue richieste feroci, i suoi forconi e la sua violenza avevano preso a rimbombare tra i saloni deserti di Versailles. Si chiedeva alle donne di vestire con moderazione, agli uomini di adornare il capo con coccarde tricolori ed ai nobili di cedere i propri privilegi con un inchino ed una stretta di mano, per poi essere cortesemente indirizzati all'esecuzione più vicina. La corte, un tempo tetto sicuro per chiunque potesse noleggiare un cappello e un bastone, era oppressa da un’atmosfera grigia che odorava di zolfo; chi avrebbe mai detto che la Ragione potesse indossare così bene il mantello della Morte.
Rossignol, che pur aveva abbandonato le marsine di taffettà e i giustacorpo in velluto, faticava ancora ad abituarsi ai sussurri, all’argenteria opaca, ai topi che correvano nei corridoi. Lanciò uno sguardo fuori dall’ampia vetrata che dava sull'Orangerie, ma fu come guardare in uno specchio ora che la servitù si rifiutava di servire un re che non prendeva la comunione. Fuori, ciò che usava esser illuminato a giorno era ormai immerso nel buio.
Non amava guardare il proprio riflesso, Rossignol; non più.
Gli occhi s’erano fatti opachi, i riccioli disordinati e troppo lunghi per essere acconciati. In tempi recenti, la magrezza aveva scavato solchi al posto delle guance.
Si guardava e vedeva un assassino e un giocatore d’azzardo. Persa la vezzosa aura della giovinezza egli era rimasto bello, ma senza alcun fascino; gli anni l’avevano derubato dell’aria da cherubino, i lutti gli avevano strappato le gote rosee e la scintilla negli occhi chiari, l’ombra della Marcia su Versailles di anni prima aveva gettato sul suo viso un’inquietudine che aveva finito per divorare ogni parvenza di grazia.
Rossignol non era più.
Aveva seguito sua nipote nella tomba, in quell’ennesima bara per bambole, e Josephine dopo di lei. Sua madre, grigia e vecchia, seguitava a vivere a Parigi, con il caos che le scorreva addosso come un mare di pece.

Un’altra occhiata alla finestra e stavolta, alle sue spalle, v’era un’altra figura slanciata, ogni giorno più magra ma non meno conosciuta. Rossignol non potè fare a meno di sorridere laconicamente.
Da quando aveva smesso di sobbalzare ad ogni porta aperta?
Da quando non aveva più paura che la folla irrompesse nelle sue stanze?
“Remis,” mormorò, con un cenno, “Stanno partendo?” 
Il paggio annuì.
Non era più giovane come un tempo, ma era invecchiato bene: i suoi ricci rimanevano ribelli, color fiamma, e il viso pallido non era solcato da una sola ruga. Quando si muoveva sembrava ancora un ragazzo e per questo, per lo spettro di un passato recente sacrificato sull’altare della bestialità che Remis portava sulle spalle, Rossignol lo amava più di prima.
Almeno qualcosa, nel suo casato, rimaneva grazioso.
“La fiacre per i bagagli di Sua Grazia è appena partita, monsieur. A breve seguiterà la berlina per Sua Altezza Serenissima.”
Rossignol si morse il labbro inferiore. Un’altra principessa reale, infine, abbandonava il palazzo con i suoi figli.
In ogni caso, Rossignol era certo che sarebbe stata l’ultima principessa di Lamballe ad abbandonare il palazzo.
“Louise Marie Adelaide porta con sé la cognata?”
“No, monsieur. La principessa rimarrà accanto a Sua Maestà.”
Con un debole sorriso — come a significare lo sapevo, era naturale  Rossignol accennò un segno d'assenso con il capo: nemmeno lui aveva intenzione di lasciare la propria casa prima dei sovrani, la cui partenza non era programmata che per l’estate.
“Louis Alexandre ne sarebbe stato orgoglioso,” considerò.
Il principe era stato molte cose, in vita, ma non un codardo: Rossignol ripensava con dolore ai racconti di Guy Tholomeis, all’epoca a corte, e di come era solito ricordare le serate passate al tavolo da gioco insieme a Louis Alexandre di Borbone.
Ora non vi erano più né l’uno né l’altro per raccontare; uno in Austria, l’altro preda dei vermi, strappato anzitempo ai suoi vizi. Oltre ogni aspettativa, tuttavia, la principessa di Lamballe s’era rivelata pallida e malaticcia ma coraggiosa come un leone.
Ad ogni modo, Rossignol non aveva interesse nel dare l’addio ad Adelaide, nonostante ricordasse d'aver rispettato la sua scelta di abbandonare il marito per tornare a Parigi: v'era una dolceamara ironia nel modo in cui persino gli affari di cuore erano legati alla rivoluzione, oramai, come se avessero tutti dimenticato come essere uomini e donne, tramutandosi in macchine che respiravano, mangiavano, amavano politica e sangue.
Abbassò gli occhi sulle numerose lettere che doveva finire di leggere in segno che, per lui, la conversazione poteva finire lì.
“Porta i miei saluti a Sua Altezza Serenissima.” sussurrò.
Lasciò che Remis prendesse congedo con un inchino profondo e nessun indugio, e sospirò pesantemente.
Stavano partendo tutti; persino d’Artois aveva oltrepassato le Alpi per salvare il proprio ramo della famiglia, salvaguardando la linea dinastica nel peggiore dei casi, trovando sollievo in chissà che domestica tedesca nel migliore.
Rossignol, tuttavia, non aveva motivo di partire. Aveva, di recente, portato all’attenzione della regina una proposta riguardo alle tombe nobiliari; non sopportando l’idea di mani bisognose che dissacravano la tomba del principe T. per scovarvi tesori, aveva proposto di spostarla. Nasconderla, mascherarla.
Quello non era stato che l’inizio.
Non era mai stato tanto attivo come in quei giorni di sventura.  




 

Era seppellito sotto il nome di Charles Marnie. Date ignote.
Jehan Henri aveva sorriso nello sfiorare con l’indice l’epitaffio, nel graffiare il muschio dalla pietra annerita.
Maniscalco, Calais. 
“Avreste detestato passare come un maniscalco, non è vero?” mormorò, abbastanza piano da avere la sensazione che le sue parole fossero portate via dal vento estivo. Non sapeva che giorno fosse, da quando avevano cambiato il calendario: s’era rifiutato di usarlo, nonostante avesse la vaga idea che mancavano pochi giorni a maggio. Tante cose erano mutate ma quella tomba rimaneva, nulla poteva cancellarla.
“Così pieno di voi come eravate, avreste preferito un chierico o un poeta, quando non eravate né l’uno né l’altro. Ah, forse un abate, non? Avreste riso dei peccati altrui e guardato con pietà ai miei errori, e l'equilibrio sarebbe stato ristabilito. Mi perdonerete, spero, ma sarebbe stato sciocco, di questi tempi in cui l’uomo rivolta le tombe, le deruba come farebbe una bestia. No: qui non v’è nulla da rubare.”
Silenzio.
Non che Rossignol si aspettasse una risposta da un pezzo di pietra, dopotutto.
“Ho intenzione di scrivere nuovamente ad Alain. Sì, dovreste esserne geloso: siete sempre stato così portato per questo genere di emozione che mi sorprende non mi abbiate mai confrontato direttamente in proposito. Tentavate di nasconderlo, ma era come un’aura tenebrosa attorno al vostro corpo, un’aura che vi rendeva spaventoso ai più e che ho sbagliato a leggere in maniera così plateale che me ne vergogno, quando ci penso.”
Sospirò.
Com’era strano parlare con Charles Marnie, maniscalco di Calais, e sapere che non aveva nemmeno avuto il coraggio di guardarlo in faccia un'ultima volta.
Eppure, ora, con un sogghigno sulle labbra, lo costringeva a custodire le sue ultime parole.
“Ad ogni modo, mon ami, questo è un addio. Verranno a prendermi presto; forse sono già alla mia porta. Ma voi che ne potete sapere? Siete morto. Forse, siete morto con un tempismo invidiabile. Ma prima di raggiungervi, se c'è davvero un luogo in cui siete e se è vero che vi ho costretto ad un'eternità nell'Inferno più profondo, desideravo rivelarvi un segreto: fino all’ultimo giorno, mi avete fatto rimpiangere di non essere davvero una ragazza dalla campagna, in visita a Versailles per un solo ballo mensile.”
Rossignol si fermò un istante, deglutendo a vuoto con enorme fatica.
Perché aveva atteso così tanto nell’andare a trovare quella tomba senza date che lui stesso s'era premurato di mettere in salvo? Perchè si sentiva scosso dai sensi di colpa, proprio in quel momento?
Si era ripromesso di non piangere affatto, eppure non riusciva a passare attraverso quella terribile sensazione d’essere rimasto solo al mondo.
“Vi ho odiato. Da quando vi ho visto, avete sottolineato troppe mie mancanze perché non potessi essere interessato a voi. E quella sera avrei davvero, davvero desiderato nascere Charlotte de Chigny.”

 


#

 

Amico mio, 

Non avete mantenuto la vostra promessa e ve ne sono grato. Non siete tornato a Corte, immagino oberato dagli impegni d'una terra aspra e ingovernabile che avevate disimparato a gestire.
Mi è dispiaciuto sentire di vostra madre e ho pregato molto per lei. In quest'occasione ho scoperto che mio padre la conosceva e ciò non mi ha stupito, in realtà: proveniamo in parte dagli stessi luoghi, lo sapete? Senza dubbio alcuno, tuttavia, essi si rispecchiano meglio in voi che in me.
In voi ho sempre scorto l'impetuoso vento che si abbatte sulle scogliere in inverno e il candore della neve novembrina che si scioglie sotto un sole ancora troppo caldo, lasciando intravedere un ultimo squarcio di natura decadente. In voi ho scoperto la Britannia, sulla quale i miei occhi mai si sono posati; eppure ora sento di conoscerla. Ho imparato ad amarla attraverso di voi, piuttosto che attraverso i ricordi che mio padre ha della vostra bella regione e che teneva chiusi segretamente in un cassetto del suo cuore.
Voi siete la vostra terra, siete il rumore degli spifferi e dei canti nel cielo limpido. Io sono figlio di Parigi.
Ed è qui che vi prego di non tornare.
In effetti, quello che vi domando e vi prego di fare è di trasferire quanti più capitali possibili all'estero. Yolande, che certo ricorderete, ed il nostro comune amico il conte d'Artois e Angouleme sono già partiti, insieme alle loro famiglie ed ai loro seguiti. La bancarotta e gli scandali di quando eravate a Corte non sono più semplici fantasmi, ma realtà; l'odio del popolo è cocente e, temo, presto arriverà ad incendiare tutto ciò in cui crediamo e per cui viviamo, come un barilotto di pece a cui da troppo tempo era stato dato fuoco alla miccia. 
Se non l’avete già fatto, andatevene in Austria o in Germania, o dove credete: nella vostra ultima lettera mi raccontaste che avevate conoscenze in tutto il vecchio mondo, ora vi dico che è il momento di metterle a frutto. Ripensandoci, forse l'America è l'unico luogo sufficientemente lontano da farmi credere con estrema certezza che sarete al sicuro e che non dovrò preoccuparmi per voi.
Mi siete caro come un fratello, Alain, e lo siete sempre stato.
Giacchè non ci vedremo più, voglio rivelarvi che non vi ho mai davvero amato in maniera romantica. 
Vi sono affezionato, certo, ma ero innamorato di altri, all’epoca: uomini e donne valorosi e preziosi quanto voi, ma infinitamente più torbidi. Siete troppo luminoso perchè la mia anima, cruda e bestiale, possa sopportarvi. 
Mi spiace di avervi mentito ed usato, e infine, tradito. 
Tuttavia, ora che sapete la verità potete andarvene senza rimorso e siete libero di odiarmi, se lo desiderate, ma fatelo sapendo che vi ho voluto bene e che ve ne voglio e che, in nome di ciò, vi chiedo d'essere prudente. Non è un buon giorno per essere nobili francesi, amico mio, né tantomeno per essere fedeli al giusto potere assegnato da Dio. Io continuerò ad esserlo da qui, dove posso vedere la regina sorridere, e voi siate fedele lontano da Parigi, aiutando gli eserciti amici a combattere ciò che di certo accadrà. Si respira nell'aria odore di pece e zolfo. 
Aiutate il vostro Re come vi chiedo, poiché siamo certi che qui non serva altro che un drappello di nobili fedeli ed inetti, mentre i più coraggiosi dovranno combattere per noi che restiamo. 

Vi prego di scegliere con saggezza.
Il vostro lontano amico, che non v'ha mai dimenticato,

Jehan Henri

 

Quell’ultima lettera, che non aveva ricevuto risposta, aveva segnato la fine di un’epoca.
Datata 1971, ricordava bizzarramente a Jehan Henri di quel penoso fiasco a Varennes, e di come tutto il mondo fosse seguitato a crollare. Non vedeva la propria stanza di Versailles da allora.
Poco importava che un biglietto sofferto — mai aperto, sfiorato con reverenza e mai dimenticato — rimanesse ancora chiuso nel cassetto di uno scrittoio che era stato costretto a lasciare di fretta, trascinato fuori dalla minaccia della morte: Rossignol non aveva alcuna intenzione di leggerlo, comunque.
Era stato, piuttosto, suo dovere aver premura degli amici ancora in vita: dir loro addio prima dell’inevitabile, senza nascondere un sorriso riconoscendo che da quando il sole era tramontato sulla monarchia tutte le sue missive erano firmate Jehan Henri de Gramont e il suono del suo vecchio nomignolo gli risultava poco familiare.
In quei penosi, ultimi giorni a corte, infine Jehan Henri aveva preso carico del proprio rango. Quando non v’era più nessuno da tradire, quando aveva ucciso il proprio amante e macchiato la propria reputazione, Jehan Henri aveva deciso di diventare fedele.
Si era detto che l’avrebbe letto il biglietto di T., una volta pronto, ma non lo era mai stato e l’occasione gli era stata tolta dalle mani.
Quanti anni erano passati. 
Ora il morso delle manette aveva rovinato polsi che avevano suscitato l'ammirazione degli astanti mentre suonava il piano ed il freddo aveva ingrigito la pelle rosea. Quando poggiava la testa al muro, nel tentativo di pensare, di riflettere, non era più la morbida carta da parati a fiori ad accogliere i suoi pensieri, ma il duro muro di pietra di una stanza a lui riservata in un palazzo che non riconosceva, sebbene l'avesse visitato spesso nel cuore della città che l'aveva cresciuto, amato ed infinite tradito.

Non era stato fortunato, l’antico cherubino. Gli era stato negato anche d’esser prigioniero in casa propria, tra le comodità cui era affezionato, ed era stato tramutato in un esempio: i vizi, tutti, rinchiusi nella cella grigia della padronanza.
Rossignol, che ancora languiva nei meandri dello spirito di Jehan Henri, mai del tutto annientando, aveva riso di quella definizione e se n’era beato, complimentandosi con gli zotici che gli facevano il favore di renderlo un martire. Quanto fredda e crudele si era rivelata la sua bella capitale, un tempo teatro di goliardie; ora le sue strade puzzavano di sangue e di morte e nelle piazze echeggiava il suono della carne mozzata in un mattatoio senza confine, un paradiso per i ladri e i criminali.
Se quella era la Repubblica, à la merde; avrebbe potuto non vederla mai e non ne avrebbe certo patito la mancanza.
A detta del popolo era persino peggio della Monarchia ed allora era Jehan Henri a ridere, non Rossignol, perchè allora che bisogno c’era stato di giustiziare un buon sovrano? Quale lo scopo del massacro di un’istituzione voluta da Dio?
No, Parigi era diventata un inferno in mano ai rivoluzionari. Un mostro senza controllo, un fiume di sangue sempre in piena: i nobili erano privati della testa senza passare per la Giustizia, il Clero sbeffeggiato, i vignettisti e gli avvocatucci da pochi spiccioli regnavano impuniti. Non c’era più nulla del vecchio splendore, nulla che Jehan Henri potesse ricordare con affetto.
Non era certo un luogo per Alain, quello.
Dopotutto, lui aveva sempre avuto il difetto d’esporsi troppo.


 

#

 

 

[1826 - Inverno]

 

Molto era cambiato nei turbolenti anni della Rivoluzione e del successivo Regime, lasciando solchi profondi che il governo di un Ufficiale D'Artiglieria cresciuto in Generale e trasformatosi Dittatore avevano infettato.  
Ancor più profondi erano i segni dello scellerato governo della Montagna, spazzato come un cumulo di sabbia dai venti europei. 
Alain Ovigny — non era saggio mantenere il de nobiliare, nei tempi più recenti, e se n'era sbarazzato non senza un pizzico di rammarico — non aveva pianto la perdita di Parigi, ma aveva tremato nel riconoscere vecchi scorci e palazzi familiari distrutti dalle cannonate. 
Ovunque andasse, rivedeva le vie strette e fangose che aveva conosciuto anni prima addobbate diversamente, con vecchi alberi della cuccagna ornati da coccarde tricolori, donne con abiti d'una semplicità quasi vergognosa, uomini imbronciati e con i polsi morsi dalle catene. Il terrore che si era sparso per il Paese durante il governo della Gironda era ancora ben arroccato negli animi, nonostante il recente ritorno del vecchio schema.
La gioventù folle di Saint-Just aveva lavato col sangue le strade di Parigi e la minaccia di Buonaparte, come lo chiamavano i realisti e i suoi sostenitori, era stata scongiurata con difficoltà.
In un disperato tentativo di tornare indietro, un vecchio amico si stava adoprando per rimettere le cose a posto.

Proprio come il florido regno che avevano conosciuto, il giovane che era stato Charles-Philippe d'Artois di Borbone non esisteva più. Lo stesso viso perennemente sbarbato aveva perso la freschezza d'un tempo, ora macchiato e tagliato da rughe profonde ed arrossato dal vento Londinese, con il fantasma della perdita dei due fratelli maggiori ben visibile negli occhi opachi. Accolse Alain con un sorriso, ma non v'era traccia delle fossette che gli si formavano un tempo sul bel viso fiero. Portava la parrucca, cosa che un tempo faceva di rado in privato.
“Amico mio,” esordì il sovrano, con voce tonante.
Era più profonda, ma sempre riconoscibile: avrebbe potuto parlare allo stesso modo sui gradini di Versailles, a malapena protetto dal sole e con un sorriso ad incurvargli le labbra.  
Alain si scoprì a ricambiare il cenno quasi meccanicamente. Un se stesso più giovane, che credeva morto prima della rivoluzione, premeva per incontrare un vecchio e caro amico.
“Maestà.” 
Come sembravano distanti i giorni in cui d’Artois non era che Sua Grazia; com’era stato diverso il mondo, allora. 
Con un entusiasmo che parve sorprendere entrambi d’Artois si avvicinò quando ancora Alain non s’era rialzato dall’inchino, i tacchi che tuonavano sul pavimento in gran fretta, e strinse l’amico d’un tempo in un caloroso abbraccio. Incapace di reagire, Alain rimase immobile. 
Le mani del principe — no, del re — gli si erano arpionate alla stoffa della redingote per un lungo istante, come ad assicurarsi che non fosse un fantasma, prima di allontanarsi d'un passo con un’ultima pacca sulla spalla.
“Non siete cambiato.” 
Ne sembrava soddisfatto. Alain scosse la testa, grato che quella formalità potesse persuaderli che nulla fosse mai accaduto. 
“No, Maestà, e nemmeno voi.” 
“Ah, questa è una menzogna, mon ami,” dichiarò d’Artois, allegramente, “ma sono disposto a perdonarvi se voi perdonerete la mia mancanza di buone maniere.”
Quella era, di certo, una sorpresa.
Non v’era alcun dubbio che il fu conte si fosse fatto carico dell’educazione degna d’un re durante l’esilio, se non per sé stesso per il nipote, ma Alain non s’era c’erto aspettato di vederlo diverso dall'uomo che aveva conosciuto: Charles era un altro tipo di re, nonostante l'età iniziasse a rivelare le somiglianze con i fratelli ed il nonno. Il duca D'Ovigny non si sarebbe mai sognato d’essere accolto da un uomo bardato d’ermellino con le labbra serie, il volto arcigno, arroccato su una sedia d’oro come avevano fatto suo nonno e i suoi antenati: Charles, come Louis Auguste prima di lui, era fra i sovrani che mascheravano il proprio rango.  
“Maestà…” Alain sussultò.
Non aveva mai perso la speranza di poter pronunciare di nuovo quella parola, non verso un uomo che considerava legittimamente il proprio re; sentire quel suono, mai scordato, tre sillabe che aveva imparato sin da bambino, fu come ritornare a respirare nuovamente; come urlare da una montagna, dal tetto del mondo. 
d’Artois sorrise gentilmente. 
“State bene?” domandò. I suoi occhi nocciola sembravano capire perfettamente cosa avesse interrotto l’amico.
L'uomo annuì. 
“Vi trovo in ottima forma, Maestà,” sussurrò. Un bizzarro senso di capogiro, insieme alla sensazione d’aver una mano invisibile a torcergli le viscere, gli rendevano difficoltoso dire qualsiasi cosa. “É un sollievo inimmaginabile.”
“Credetemi, ho pensato la stessa cosa di voi.”
Con una breve risata, il sovrano strinse la spalla di Alain, guidandolo verso un divanetto. 
I mobili, brillanti sotto i raggi del mezzogiorno, non sembravano aver subito la minima traccia della guerra; non un filo, non una scheggia fuori posto. Restaurati, proprio come il loro padrone.
“Ma dovete raccontarmi così tante cose, Alain. Beviamo. Alla salute dei tempi passati, e delle vecchie amicizie. Vi fermerete di certo a cena, non è così?”
Alain esitò, senza poter impedire ad un sorriso di far capolino sulle sue labbra.
“Maestà, non intendo di certo crearvi disturbo.”
A quelle parole, improvvisamente, d’Artois aggrottò la fronte. 
“Creare disturbo, voi? Mon Dieu, non dite idiozie. Chiedo troppo nel voler un vecchio amico alla mia tavola? Che vadano a farsi fottere. Son troppi anni che non vi vedo per lasciarvi salpare senza una parola.”
Alain prese un respiro profondo ed annuì di nuovo, con più convizione. Che male poteva fare, dopotutto, cenare con il re? Rivangare vecchi ricordi ed aprire vecchie ferite, proprio quando credeva d’averle finalmente guarite?
Una serata per soffrire ancora.
“Vi devo avvertire che ho una moglie, ora, Maestà.” dichiarò. 
Gettando indietro la testa, d’Artois scoppiò in una fragorosa risata. 
“Mettete le mani avanti, canaglia?” domandò. Ridere gli rendeva la voce rauca come se avesse vissuto abbastanza da confondere la gioia con l’isteria, il dolore e la pazzia. “Ebbene, se non siete a Parigi per una donna, per cosa, allora?”
“Rossignol.”
Se avesse fatto esplodere un colpo di pistola, probabilmente, Alain avrebbe creato un boato meno terribile. Il silenzio del nuovo re — interrotto solo dal fruscio nell’ordinare con un gesto che fosse portato del vino — era pesante, attonito.
Lo fissava, quegli occhi cupi che un tempo erano parsi d’ambra e che la guerra aveva cambiato per sempre; Alain lo guardò di rimando.
Oh, Dio, pensò Non dovrei nemmeno guardarlo negli occhi.
Tuttavia se era stato facile, quasi naturale, evitare lo sguardo del precedente sovrano e non aveva mai avuto occasione di confrontare Louis XVIII, d’Artois sembrava non accettare frivolezze.
“Voi siete pazzo,” mormorò il re, infine, lasciandosi cadere sulla poltrona dietro di lui. 
Alain, massaggiandosi le tempie, chinò la testa.
“Sono persuaso a non avvicinarmi nemmeno a Versailles, ma non posso andarmene senza portare i miei rispetti.”
D’Artois sospirò.
“Vostra moglie sa?”
“Non sospetta nulla,” rispose Alain, piano. Non passava giorno in cui non si sentisse in colpa per averla scelta giovane, bionda, con gli occhi azzurri e turbolenti come l’oceano in tempesta; per averla strappata a suo padre quando ancora sembrava un ragazzino, un sacco d’ossa e non una giovane donna. Tuttavia, non c’era bisogno che d’Artois lo sapesse i dettagli, “ma sono venuto da voi perchè so che potete aiutarmi. Vi siete già fatto carico una volta della mia causa.”
Con il volto nascosto fra le mani, il re rimase immobile.
Quel modo di mascherare i propri pensieri, come arricciava il naso prima di compiere un gesto che non considerava affatto saggio o di puntare su un cane o un cavallo perdenti riportarono Alain nel passato. Sebbene il volto del re fosse segnato e macchiato, sebbene i suoi riccioli fossero nascosti dal bianco della parrucca, le sue esitazioni erano le stesse d’un tempo.
Infine, d'Artois scosse le spalle. 
“Non so dove sia Rossignol,” dichiarò, infine, come se si stesse scrollando di dosso un grosso fardello. “Nessuno lo sa. Come molti altri, il suo corpo è stato gettato in una strada.”
Alain aggrottò la fronte, sentendo un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Una goccia di sudore mortalmente freddo che lo fece sobbalzare, drizzare ogni singolo capello sulla nuca. 
“Mi state dicendo che non v’è una tomba?”
Il vino era stato portato con solerzia e il sovrano ne scolò un intero bicchiere prima di rispondere. Sulle labbra aveva una patina color sangue, ma non si preoccupò di accettare il fazzoletto che gli veniva offerto. 
“Sbranato dai cani, alla meglio,” rispose, in tono greve. Alain si alzò improvvisamente, più per prendere aria che per partire, ma d’Artois sgranò gli occhi. “Ma non andatevene ora, vi prego. Rimanete.” 
Il duca, che riusciva a stento a reggersi sulle proprie gambe, non stava di certo prendendo commiato: d'Artois doveva sapere che in quel momento non v’era altro posto dove sarebbe potuto andare. Nessuno se non l'uomo che aveva di fronte poteva scacciare l’immagine ingiuriosa di Rossignol nel fango, morto, la sua bella testa separata dal corpo.
Aveva sempre amato la forma allungata, graziosa, del suo collo; come si legava al capo, sotto due zigomi perfettamente disegnati che si univano in un mento appena sporgente, arrotondato. Ricordava d’aver fatto scorrere le dita dalla mascella alla giugulare e allo sterno, tracciando dei segni rosei sulla pelle eburnea del ragazzo.
Là dove, appena qualche anno dopo, cani randagi ed uccelli avevano morso e beccato e lacerato la carne. 
Scosse la testa, cercando di scrollarsi di dosso quelle terribili immagini.
“Com’è stato possibile?” sussurrò.
Il Conte d’Artois, Charles X, per una volta non rispose.





Note:

La cit iniziale è naturalmente La Carmagnole.

Ed è finita 💛 Innanzitutto volevo ringraziare chi ha messo questo mini-disagio nelle liste, e chi ha recensito e letto in silenzio. Vi voglio un sacco bene. Mi avete fatto venir voglia di migliorare questa storia capitolo dopo capitolo, le recensioni mi hanno fatta sorridere (e non vedo l'ora di rispondere come si deve, ora che non ho il rischio di fare spoiler e scivoloni nelle risposte 🙊) e le letture mi hanno riempita d'orgoglio. Ho la sensazione che questa storia abbia ricevuto anche più amore di quello che si meritava, e per questo non ringrazierò mai abbastanza.

Come avrete capito, la decisione di mantenere il principe T. senza nome completo è sia una citazione alla narrativa classica — quanti personaggi rimangono senza nome, o solo con l'iniziale! — quanto una decisione pratica, dal momento che non avevo lo spazio per approfondire/incastrare rami cadetti del Principato di Waldeck-Pyrmont. Comunque, ai fini della storia non era importante. L'idea del rapporto fra Rossignol e il Principe T. è nato da questa canzone (Miley non mi piace, ma in questa cover mi ha dato l'ispirazione tipo mattonata in testa mentre ero all'Hermitage a San Pietroburgo, motivo per cui T. doveva essere Russo), quindi capite che l'outcome drammatico era stato deciso sin dalla prima parola e un po' mi dispiace LOL

Niente, io sono una mamma fiera di Rossignol e spero di aver convogliato un minimo del mio grandissimo amore per Parigi e per la sua storia, in particolare per quel meraviglioso periodo storico che è il tramonto del '700 e delle Monarchie Assolutiste. Grazie, grazie, grazie ancora per tutto il sostegno (a volte immeritato, lo riconosco) e spero di non aver deluso eccessivamente con questo epilogo.


 

   
 
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