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Autore: Schmetterlinge    22/09/2019    1 recensioni
Il Master le si affianca, fissandola [dritta] in quei profondi occhi color cobalto.
“Non voglio che tu ti faccia male, Juvia.”
La ragazza lo guarda, in attesa che finisca.
“Ma ti autorizzo a scatenarti come poche volte nella tua vita, siamo intesi?”
Lo scruta, incerta di aver afferrato pienamente il significato di quelle parole.
“Ti do dieci secondi per terminare l’incontro, d’accordo?”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lluvia
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I giorni si susseguivano e sentivo che qualcosa non andava.

Il pallore innaturale.

Il battito accelerato.

La fronte imperniata di sudore.

La temperatura corporea in costante calo.

Più i minuti passavano e più il mio corpo si indeboliva.

Più le ore scorrevano e più perdevo sensibilità, lucidità. 

Continuo a fissare i palmi delle mie mani appoggiate, inermi, sulle gambe.

Ero seduta sul lettino dell’infermeria dove Poluska mi aveva letteralmente rinchiusa da qualche giorno.

Anche volendo, non avrei potuto fare nulla per andarmene e tornare in camera mia: le gambe mi avevano abbandonata già da un po’.

Non avere più alcuna sensibilità dalla vita in giù era qualcosa di spaventoso.

Fisso le mie mani e continuo a vedere la stessa immagine davanti ai miei occhi: io che, nel cuore della notte, trattengo il più possibile le urla soffocando il viso contro il cuscino.

Urlo, urlo dalla rabbia, dal nervoso, dalla frustrazione di essere impotente quando non lo sono mai stata.

Cerco di respirare, lentamente, inspiro ed espiro, nella speranza di riuscire a riprendere il controllo di una situazione che mai avrei pensato potesse sfuggirmi di mano.

Ero sopravvissuta a casi ben peggiori, la mia resistenza fisica lo aveva sempre dimostrato: persino Gilarts, quanto a stamina, aveva pubblicamente ammesso quanto fossi di gran lunga superiore a chiunque della Gilda.

Questa volta però era diverso e, a pensarci, mi veniva quasi da ridere.

Non riuscivo a credere di aver oltrepassato il limite.

La verità era che mi stavo lentamente spegnendo, me ne stavo andando poco a poco e sembrava che nemmeno le vaste conoscenze mediche di Poluska avrebbero potuto aiutarmi.

Ero diventata il mio peggior nemico, stavo morendo per colpa di me stessa.

Perché, 

 

Perché, 

 

Perché?

 

Ero davvero arrivata ad un punto di non ritorno?

 

 

 

Poluska viene a farmi visita quasi ogni due ore.

La osservo mentre mi prova la febbre, tamponandomi la fronte imperniata di sudore.

La guardo accarezzarmi la testolina blu, mentre controlla la mobilità [quasi nulla] delle mie gambe.

La vedo affaccendarsi, quasi disperata, nella speranza di trovare una soluzione che non c’è.

All’improvviso le prendo una mano, come a volerne richiamare l’attenzione; si blocca, di colpo, fissandomi con fare interrogativo e preoccupato.

“Juvia, tutto bene? Ti fa male qualcosa?”

Le sorrido, dolce.

A dire il vero il mio corpo è un dolore unico ma l’ultima cosa che desidero è preoccuparla ulteriormente.

“No, non è quello…”

Mi si siede accanto, sul bordo del lettino, in attesa che continui.

“Nessuno si era mai preso cura di me, nessuno si era mai interessato tanto a me fino a quando non sono arrivata a Fairy Tail.

Qui ho imparato cosa significa contare per qualcuno.”

Vedo le iridi scure assottigliarsi e farsi lucide.

“Perciò, comunque vada …”

Trattengo il fiato.

“Grazie.”

Abbasso lo sguardo, imbarazzata.

Inizio a giocherellare con una ciocca di capelli, quando mi sento stringere contro la sua spalla.

E’ raro vedere una donna così autoritaria, apparentemente fredda, sicura di sé e spesso impassibile, completamente inerme e sconfitta.

“Non parlare come se fossi già morta, Juvia.

Non te lo permetto.

Ce l’hai fatta prima e ce la farai anche adesso, chiaro?”

Poluska non è mai stata brava a mentire, come non lo sono mai stata io.

Non dico nulla, consapevole, mi limito soltanto ad affondare il viso contro la sua spalla.

Mentre mi lascio cullare dalla sua dolce stretta, come farebbe un bambino nelle braccia di una madre, lascio che i miei pensieri vadano a loro.

 

A lui.

 

 

“Come stanno gli altri?”

Poluska si passa nervosamente una mano sul volto, pensierosa.

“Come sta il Master?”

“Pensano che tu abbia una grave polmonite, al momento non credo sospettino altro ma sai bene che non riuscirò a mentire ancora per molto.

Continuano a chiedermi di te, vorrebbero vederti.”

Mi irrigidisco, preoccupata.

Da una parte ho una paura [folle] che possano scoprire la verità; dall’altra vorrei tanto poterli riabbracciare.

Uno ad uno.

I loro volti scorrono nella mia mente, radiosi e sorridenti, fino ad arrivare a quello di Gray.

Quel ragazzo riusciva a farmi sentire come una ragazzina adolescenziale alla sua prima cotta.

Completamente persa e stupida.

“Stai tranquilla, per ora sono riuscita a dissuaderli.”

Le membra si rilassano.

 

 

Non voglio mi vedano così.

Non voglio che lui mi veda così.

 

 

“Ho detto loro che non è il caso, hai bisogno di riposo.”

 

 

[Il che in effetti è vero]

 

 

Continuo a fissarla perché intuisco che c’è dell’altro.

“Natsu e Gajeel hanno tentato di sfondare il portone dell’infermeria.”

Spalanco gli occhi dalla sorpresa, piacevolmente allibita.

“Insieme a Gray.”

La mia espressione deve essere incomiabile.

“E … ?”

Inizia a ridere di gusto, quasi divertita.

“E niente, per evitare che ci riprovino, ho posto un sigillo sull’intera stanza, in questo modo non entrerà nessuno.”

Rilasso le spalle, rassicurata ma al tempo stesso neanche troppo.

Mi viene da ridere, scuoto la testa al pensiero di quei tre.

Saluto Poluska mentre la osservo chiudersi la porta alle spalle, lasciandomi in balia di me stessa, nella più totale solitudine.

Mi abbandono contro il cuscino, freddo.

Lo sento gelido ma probabilmente è colpa della febbre alta.

Fisso il soffitto bianco, alto, fino a quando avverto dei passi veloci, leggeri e furtivi avvicinarsi all’infermeria.

Trattengo il fiato non appena li sento fermarsi di colpo davanti alla porta.

“Juvia, riesci a sentirmi?"

Soffoco un singhiozzo non appena riconosco la voce di Wendy, seguita da quella di Lucy.

“Juvia siamo noi, puoi sentirci?”

Affondo i denti tra le labbra, aumento la stretta per sentire dolore, nella speranza di non scoppiare in lacrime.

Schiarisco la voce con un colpo di tosse, cercando di sembrare il più convincente possibile.

“Ragazze …”

Le sento ammutolirsi di colpo.

Che abbiano intuito quanto stia male?

Lo so, non sono mai stata brava a mentire ma devo comunque provarci.

 

Non devono sapere.

 

Nessuno deve sapere.

 

 

“Juvia … ?”

E’ sempre la piccola Wendy a parlare.

Questa volta il tono è decisamente più teso, preoccupato, allarmato quasi.

Wendy era specializzata in arti curative.

Era tanto piccola quanto sveglia, sapeva riconoscere quando qualcosa non andava.

Ho il volto inondato di lacrime, non riesco a parlare e mi manca il respiro.

Mi porto una mano davanti alla bocca, piegandomi su me stessa.

Ricaccio i singhiozzi, schiarendo la voce roca.

So già che me pentirò ma decido di fregarmene.

Faccio per scendere dal letto, aggrappandomi al comodino lì accanto; faccio forza sulle braccia, sui gomiti, trascinando le gambe inermi lungo il pavimento in marmo.

Avanzo, lentamente, mentre sento le voci di Wendy e Lucy agitarsi.

Nel muovermi ho causato un po’ di frastuono ma nulla di che.

Striscio, come un serpente, fino ad arrivare alla porta.

Mi aggrappo alla maniglia, tossendo convulsamente; accosto la fronte contro il legno.

“Ragazze …”

Ho la voce rotta dal pianto, sembro tutto fuorché convincente ma non importa.

“Sono qui.”

Le sento appoggiarsi, dalla parte opposta, premendo i palmi contro la superficie ruvida.

Non parlano più, aspettano che sia io a continuare.

Tossisco nel tentativo di schiarire nuovamente la voce.

Mi concentro, devo apparire rassicurante, convincente.

“Sto un po’ meglio …”

 Soffoco qualche singhiozzo, ho il volto paonazzo e bagnato, è una fortuna che non mi vedano.

Sembro un mostro.

“Poluska ci impedisce di vederti…”

E’ Lucy a parlare questa volta.

“Ti aspettiamo tutti, Juvia.”

Scuoto la testa, quanto vorrei urlare, quanta rabbia.

“Perciò …”

Chiudo gli occhi, inspirando ed espirando quanta più aria in corpo.

“Torna presto.”

Proprio quello che non avrei mai voluto sentirmi dire.

Sorrido, rassegnata, sconfitta.

“Promesso.”

E rimaniamo lì, in silenzio, in ginocchio, divise soltanto da una vecchia porta in legno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Era trascorsa una settimana dal mio imminente ricovero, se così si può chiamare, e Poluska iniziava ad abbandonare ogni speranza.

Ormai avevo imparato a riconoscere i passi leggeri di Wendy, quelli cadenzati di Erza e quelli scricchiolanti di Lucy.

Venivano a farmi visita ogni mattina e ogni pomeriggio, raccontandomi quanto accaduto nell’arco della giornata, le missioni da preparare, i litigi tra compagni e le risate.

Ed io ascoltavo, in silenzio, lasciandomi scappare qualche risatina e fingendo un tono rassicurante, mentre dentro di me avrei solo voluto piangere.

 

 

 

 

 

 

 

 

Fisso con finto interesse la finestra lì accanto quando dei passi pesanti, lenti richiamano la mia attenzione.

Si dirigono verso la mia stanza; Il respiro mi si mozza, riconoscerei quell’andatura ovunque.

 

 

 

Ti prego, no.

 

 

La maniglia si agita, qualcuno cerca di aprire la porta ma inutilmente.

 

 

Ti prego, non farlo.

 

 

Confido nel sigillo di Poluska.

“Juvia, apri.”

Rimango impassibile, anche perché non ho nemmeno la forza di muovermi.

“Juvia, mi senti?”

Continuo a non ribattere.

“Apri questa porta.”

Trattengo il fiato.

“Gajeel …”

Cala il silenzio.

“Wendy dice che non stai bene.”

Rimango pietrificata.

“Non so cosa abbia in mente Poluska ma è evidente che qualcosa non va, perciò apri questa porta.”

Mi si stringe il cuore al pensiero di ferirti, di mentirti ma so che, al mio posto, faresti lo stesso.

“Vai via Gajeel, sto bene.”

Lo sento esplodere, d’altronde non era mai stato bravo a controllare le emozioni.

“Piantala, lo so che non stai bene, lo sento, dannazione!”

Per un momento temo che con i suoi pugni possa davvero sfondare la porta.

“Se non apri vorrà dire che entreremo con la forza, al diavolo Poluska.”

Mi sollevo sui gomiti, spaventata.

Aveva parlato al plurale.

“Gajeel per favore, no!”

Inizio a tossire, mi manca il fiato, cerco di parlare ma invano.

Vorrei poterli fermare ma è tutto inutile.

D’altronde stiamo parlando di Gajeel e probabilmente anche di Natsu e Gray.

Le mura tremano, il cemento si crepa e il legno si sgretola.

Riesco a scorgere i ragazzi entrare di corsa nella stanza.

Wendy e Lucy sono subito dietro di loro.

Non riesco a muovermi, mi limito a fissarli, inerme.

Gajeel si blocca appena mi vede.

Mi si accosta, prendendomi per le spalle.

Mi accarezza il volto, cerca di richiamare la mia attenzione.

La sua espressione è un misto tra lo sgomento e lo spaventato.

“Juvia …”

Natsu mi si avvicina, Gray rimane poco più dietro.

Tremo, sono pallida e inizio a vedere sfuocato.

In quel momento vedo crollarmi tutto il mondo addosso.

 

 

All’improvviso, tutto smette di avere importanza.

 

 

Così, semplicemente, mi lascio andare.

Mi sento cadere, inerme, senza forze.

L’ultima cosa che vedo è l’immagine di Gajeel chiamare Wendy, Natsu che mi prende al volo, Gray che corre verso di me e Lucy che urla.

Poi, il buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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