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Autore: Ksyl    23/09/2019    9 recensioni
Alcuni mesi dopo la 2x24
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
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1. Beckett

Si svegliò di soprassalto, con gli occhi sbarrati e il cuore martellante, a causa dell'adrenalina generosamente messa in circolo da quella parte primitiva del suo cervello sempre pronta a combattere o fuggire, senza altre alternative possibili, come per esempio abbandonarsi a un lungo sonno ristoratore. Abbandonarsi non era qualcosa che la mente perennemente in guardia le concedesse di fare da molto tempo, ormai.

Si voltò verso il muro, tastando al buio tra le lenzuola alla ricerca del cellulare, per strapparsi dagli artigli dell'ennesimo incubo. Le quattro del mattino. Come ogni notte, puntuali e implacabili.
Tornò a sdraiarsi sulla schiena, nascondendo gli occhi appannati nell'incavo del braccio. Tentò di calmarsi, imponendosi di rallentare il respiro e far indietreggiare quella forza bruta che, durante il sonno, si insinuava nelle pieghe della sua razionalità.
Naturalmente, non ebbe alcun successo. Si intestardiva a provarci ogni volta, pur sapendo benissimo che non sarebbe servito a niente. Si strofinò le palpebre con violenza, esasperata.
Non c'erano vie d'uscita, aveva già percorso tutte quelle che le erano venute in mente durante puntigliose analisi interiori che non l'avevano portata da nessuna parte. Il suo sistema di vigilanza interiore era ormai settato su valori non compatibili con una vita serena, o quantomeno saltuariamente riposante.

Le placide acque cristalline dei laghi di montagna, che tentava di evocare prima di andare a dormire, per convincere la sua mente di essere al sicuro e non in mezzo a chissà quali ignoti pericoli, si facevano beffa di lei, trasformandosi presto in vortici spaventosi di cui era artefice il suo inconscio in subbuglio, che le scaricava contro frammenti del caos che si rifiutava di affrontare durante il giorno.
Si sentiva sempre più stanca, frustrata e smaniosa di fuggire.
Aveva imparato a sue spese che fuggire non era la soluzione Lo aveva già fatto. Solo per scoprire che la distrazione durava lo spazio di qualche giorno, spesso nemmeno quello, in cui si trovava a sperare contro ogni logica di aver messo distanza tra lei e qualcosa che, invece, continuava a darle la caccia e che recuperava terreno molto in fretta. Le notti insonni tornavano sempre a farsi vive.

Era logorata dalla costante sensazione di impotenza impossibile da scrollarsi di dosso. Sapeva che sarebbe stato controproducente lasciarsi prendere dallo sconforto, se voleva almeno riappropriarsi di un paio d'ore di risicato riposo e non passare il giorno seguente tra occhi pesti e cervello abulico, senza dimenticare una generosa dose di cattivo umore. Se ne accorgeva da sola ed era la prima a non tollerare se stessa, nei suoi momenti peggiori. Ma era altrettanto consapevole che nessuno sforzo l'avrebbe magicamente fatta riaddormentare, non importava quante disgustose tisane si imponesse di bere dal tramonto, a quanti caffè rinunciasse, a quali inutili esercizi di rilassamento si dedicasse. Le quattro del mattino erano il suo tribunale interiore. Quello che non l'assolveva mai.

Scalciò indietro le coperte con rabbia. Non avrebbe trascorso altre ore a fissare le ombre sul soffitto, attendendo che le luci del giorno dissipassero i suoi crucci o alleggerissero questioni irrisolte che la notte aveva ingigantito. Rimuginare non serviva a niente, solo a farle girare la mente a vuoto, sprecando energie, che le erano invece necessarie per carburare. Ma se durante il giorno riusciva a distrarsi abbastanza da abbassare al minimo il frastuono interiore, la notte tornava a pretendere qualcosa che lei non poteva concederle.

Decise di alzarsi, rassegnata a iniziare troppo presto una giornata che, ne aveva già qualche sentore, sarebbe stata infernalmente lunga. Se solo avesse potuto sottrarre le ore di sonno notturne a un conto che risultava sempre insopportabile.
Si infilò un pullover leggero sopra il top con le spalline, avanzò sul pavimento apprezzando il fresco delle piastrelle sotto i piedi nudi, sensazione che le consentì di riprendere contatto con la realtà, infinitamente più noiosa e rassicurante delle nebbie da cui si era appena svegliata. Scostò le tende e uscì sul balcone, prendendo posto su una piccola panca di ferro battuto – unico vezzo che si era concessa per ingentilire un arredamento spartano che non suscitava in lei alcuna emozione. Era uno dei motivi per cui aveva scelto quell'appartamento minuscolo situato in un edificio troppo alto e senza scale. Aveva bisogno che l'ambiente esterno accogliesse in modo neutrale le sue angustie, senza aggiungere stimoli sensoriali che avrebbero saturato il suo sistema emotivo già molto scosso.

Si lasciò cadere su di essa con un sospiro avvilito. Perché doveva essere così difficile? Perché non poteva concedersi di annullarle la consapevolezza in un provvidenziale limbo, come facevano tutti gli altri? Proprio come lei un tempo faceva, dandolo per scontato?
Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal sottofondo di rumori provenienti dalla città prossima al risveglio, molti piani più sotto.

Un clacson improvviso la fece sobbalzare, interrompendo la tregua. Si infuriò, prendendosi la testa tra le mani. Non c'era pace, per lei? Aveva fatto delle scelte sbagliate, ma non potevano pretendere che pagasse per sempre. Non le era chiaro chi fosse quel "loro" generico al quale indirizzava le sue lamentele e che pareva esigere da lei un prezzo tanto alto, ma le veniva più facile attribuire la colpa all'esterno, invece che avere il coraggio di affrontare quello che si agitava in lei. Anche se sapeva che la strada poteva essere solo quella. Era solo troppo doloroso percorrerla e non aveva abbastanza forza. La sprecava tutta ancor prima che l'alba sorgesse.

Decise di prepararsi il primo caffè della giornata, tanto a quel punto non aveva nessuna intenzione di rimettersi a dormire e bramava quel po' di caffeina che si concedeva quotidianamente. Alzandosi il cellulare le scivolò dalla tasca, cadendo a terra con un tonfo sordo. Si chinò a raccoglierlo, spazientita. Ecco un'altra delle cose completamente inutili della sua vita attuale. Nessuno conosceva il suo numero, tranne suo padre, che ogni tanto le lasciava messaggi in segreteria, visto che lei per abitudine, o fingendo di dimenticarsene, lo teneva spento.

Attese girellando inquieta nella cucina minuscola e, non appena il caffè fu pronto, tornò all'aperto a sorseggiare la bevanda bollente, a malapena passabile, scrutando l'orizzonte e attenendo che l'effetto rinvigorente cancellasse il torpore. Voleva tornare a sentirsi energica, senza la solita cappa di malessere a opprimerla, proprio come il clima umido delle giornate estive alle quali non riusciva ad abituarsi. Non aveva nemmeno l'aria condizionata, a peggiorare un quadro già disastroso. Non era da lei autocommiserarsi, rifletté. Doveva smettere di essere tanto negativa, doveva darsi da fare e trovare un modo per uscire da quella situazione, invece che limitarsi a subirla. Ma se c'era una strada miracolosa, non l'aveva ancora trovata.

Giocherellò con il cellulare, persa in pensieri poco piacevoli – le succedeva spesso in quelle ore di frescura prima che il sole diventasse rovente – quando si rese conto di aver composto, senza pensarci, un numero che le era ben noto. Si riscosse, cancellandolo subito. Che razza di scherzo le faceva la sua mente? No. Assolutamente, no.
Era l'ultima cosa che poteva permettersi di fare e che avrebbe mai fatto. Non era quella la soluzione, anzi, sarebbe stato solo l'ennesimo disastro, forse il peggiore, a dirla tutta. Solo perché non riusciva a rimettere in ordine la sua vita, non significava che fosse il caso di richiamare in vita fantasmi che si stavano godendo felici una vita lontano da lei.

A farla desistere non era tanto la prospettiva di un rifiuto – era adulta e vaccinata, se pure un po' ammaccata- , quanto la ferrea determinazione a non voler disturbare qualcuno che, con ogni probabilità, non pensava più a lei da secoli. Del resto, perché avrebbe dovuto importagliene qualcosa? Lo aveva già dimostrato chiaramente l'ultima volta che si erano visti, diverso tempo prima, quando se ne era andato felice come una Pasqua a trascorrere un'intera estate negli Hamptons con la prima che passava.

Abbassò gli occhi sulla tazza, un po' demoralizzata, ma decisa ad agire correttamente. A prescindere dal fatto che a lui importasse o meno della sua sorte, non sarebbe stato giusto. Non era tanto egoista da cercarlo per colmare un vuoto o usarlo per reprimere una strisciante angoscia da cui non riusciva a liberarsi. E non voleva dover specificare chi fosse, se lui non avesse riconosciuto la sua voce. Sarebbe stato umiliante, il modo peggiore di iniziare un'altra orribile giornata.

A dire il vero, rifletté, battendosi sovrappensiero il cellulare sul labbro superiore, a lei non l'avrebbe di certo peggiorata, il fondo lo aveva toccato da un pezzo e ci stazionava da tempo, ma lui aveva ogni diritto di non farsi coinvolgere nelle sue lagne. A quale titolo, poi? Nessuno. Anche nel caso in cui avessero superato lo scoglio dell'iniziale sorpresa e l'eventuale imbarazzo, non avrebbe tollerato di scambiare convenevoli con un uomo perfettamente a proprio agio nel suo universo. Sarebbe stato un contrasto stridente che l'avrebbe fatta deprimere ulteriormente. Non aveva niente da dirgli e, soprattutto, non voleva essere testimone di un'eventuale beatitudine domestica. Chissà, magari si era addirittura risposato, non se ne sarebbe stupita.

Quindi, era una cattiva idea, da ogni parte la si guardasse. Oppure no? Erano solo supposizioni le sue, giusto? E, in tutta onestà, una reazione indesiderata avrebbe davvero potuto modificare in negativo la sua situazione? Il cuore accelerò lievemente mentre rifletteva sul fatto che forse... Perché no? Non doveva per forza sfogarsi non appena ottenuta la comunicazione, vomitargli addosso tutto quello che non aveva ancora detto ad anima viva. Poteva semplicemente... salutarlo. Come se fosse un vecchio amico. Tranne per il fatto che loro non erano mai stati amici. Non sapeva di preciso in che modo definire quello che c'era, o meglio non c'era stato tra loro, ma non era importante, le suggerì il buonsenso. Non doveva risolvere proprio in quel momento il mistero del suo rapporto con Richard Castle, considerando che lui era presumibilmente ancora legato alla ex-moglie improvvisamente tornata in auge e lei... Beh, lei se ne stava seduta su un terrazzino spoglio a fissare una piastrella scheggiata, a migliaia di chilometri da casa. E non si parlavano da mesi. Prima perché sarebbe stato pericoloso farlo e poi perché lei non l'aveva reso possibile. O magari lui l'aveva tagliata fuori dalla sua vita con la leggerezza con cui si muoveva nel mondo alla ricerca del prossimo stimolo che lo avrebbe almeno temporaneamente appassionato e tanti saluti al resto.
No, Richard Castle non meritava che lei fosse tanto cinica nei suoi confronti, si rimproverò. Poteva avere numerosi difetti, alcuni dei quali particolarmente irritanti, ma aveva dimostrato di avere buon cuore, che riversava generosamente sulle persone a cui teneva. Glielo doveva, a prescindere da come l'avesse piantata in asso al distretto. Non una delle sue migliori performance da uomo di buon cuore, onestamente, ma non aveva voglia di tornare a rimuginarci sopra.

Innumerevoli caffè dopo, che le avevano lasciato un gusto acido in bocca e i prodromi del mal di stomaco, si trovò a comporre quel numero con mani tremanti, arrendendosi a una forza che aveva avuto la meglio sui suoi miseri tentativi di opporvisi. Non aveva niente da perdere, tentò di convincersi. Qual era la cosa peggiore che sarebbe potuta capitare? Di ricevere in cambio un'educata indifferenza. Che le avrebbe fatto più male di un telefono brutalmente riattaccato in faccia al nervosismo che se la stava mangiando viva, ma quello l'avrebbe gestito dopo, in solitudine.

La verità era che lo desiderava più di se stessa, e il solo aver dato corda a quella minuscola idea al suo primo apparire aveva demolito gli argini del suo faticoso autocontrollo, inebriandola di endorfine. Stava bene dopo un periodo di tempo dolorosamente lungo. Non bastava forse questo? O si stava cacciando nell'ennesima via senza uscita?

Squillò a vuoto. Poteva ancora mettere fine a quella follia, si disse in un raptus di buonsenso. Ma quel brivido di eccitazione che aveva fatto capolino in una vita altrimenti monotona l'aveva contagiata e non aveva ancora intenzione di rinunciarvi. Non sarebbe stato possibile, le mani si rifiutavano di premere il pulsante che avrebbe dato un taglio ai suoi deliri.
Passò qualche secondo di troppo che ebbe lo stesso effetto di una secchiata di acqua gelida, smorzandole l'entusiasmo. Che cosa stava facendo? Che cosa pensava di...?

"Pronto?".
La voce familiare la fece sobbalzare con violenza, impedendole di chiudere la telefonata – chissà se più tardi l'avrebbe rimpianto - e facendole schizzare il battito cardiaco alle stelle. Se lo sentiva rimbombare nelle orecchie, sensazione che la disorientò ulteriormente. Non ricordava più il motivo per cui avesse deciso di assecondare quell'impulso che ora le appariva molto più che sconsiderato – forse agghiacciante era il termine giusto - e non capiva perché fosse tanto recalcitrante a riattaccare. Lui non conosceva quel numero, non avrebbe mai saputo di chi si trattasse.

No, non l'avrebbe fatto, lei non era una vigliacca, pensò risolutamente. E voleva riascoltare quel timbro inconfondibile almeno un'ultima volta. Poi sarebbe tornata a essere quella persona responsabile che era sempre stata. Qualcuno che non telefonava alle... si rese conto con sgomento di non aver considerato il fuso orario. Doveva essere tardissimo da lui.

"Castle?". Venne fuori come un interrogativo, o forse più una speranza. Che non la mandasse al diavolo, che non fosse lui a riattaccare. O che almeno non l'avesse dimenticata.

...

Ciao a tutti, non so quante persone abbiano ancora voglia di leggere una ff su Castle - o una ff di Castle da me scritta - o ogni variante possibile, e non nego che questa storia sia stata partorita con tutta una serie di ritardi/ostacoli/sì/no/cancello/vado avanti/vado a far l'orto/basta per sempre/ndo credi d'andare, che tutte quelle favolose metafore dello scrivere di getto storie miracolosamente apparse nella coscienza ispirate da una fonte misteriosa e creativa levatevi proprio (pur avendolo sperimentato io stessa in passato). Di fatto, dopo minuziosa analisi interiore, il verdetto è stato che aveva senso di esistere e di andare avanti, quindi eccola qui. Non avrei mai potuto pubblicare qualcosa di cui non fossi convinta o innamorata io stessa e sono entrambe le cose. Grazie a tutti per l'attenzione. Silvia

   
 
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