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Autore: Restart    24/09/2019    0 recensioni
Mia è in procinto di sposarsi con Gabriele, quando una bufera di neve improvvisa la costringe a passare il pomeriggio col suo vicino di casa Massimo. La convivenza porterà a galla questioni irrisolte.
Primo capitolo della serie "Per le vie di Firenze".
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Nel caso non l’aveste capito: è sempre Venerdì.

Sono le tre e sono esattamente cinquanta minuti che sto fissando il soffitto. La rabbia è sbollita quarantasette minuti fa, ma il mio orgoglio è grande quanto Firenze, quindi col cavolo che ritorno su. E neanche lui verrà giù a scusarsi viz-à-viz, visto che se il mio orgoglio è come Firenze, il suo è grande come Roma o Milano. Questo passerà alla storia come il giorno allo stesso tempo strano e palloso di sempre.
All’improvviso sento le scale scricchiolare, ma non voglio guardare. Voglio tirarmela ancora un po’. Così arriccio il naso e aggrotto le sopracciglia, mentre le mie braccia si incrociano sul petto. Lo sento piazzarsi davanti a me e prima che possa dire qualcosa inizia a cantare.
«Tu- tu tua
Patatina mia
Non titillare la mia fantastia.
Allora, rucolina mia
La notte è buia
No, non andare via»
Ma che cazz… alzo la testa e lo vedo ballare scimmiottando Michael Jackson.
«Com’è bello il nostro amore,
senti come sale
è bello solo se ci sei tu,
sotto questa luna
dimmi cosa pensi di me»
E allora lì, gutturalmente, di stomaco proprio, mi sale Vanette. Mi alzo in piedi, mi smuovo un po’ i capelli e mi trasformo. Prendo in mano la spazzola per capelli e canto
«Che sei una merda
Inequivocabilmente merda,
ma proprio mer..»
Neanche a dirvelo non sono riuscita a finire di cantare per le risa che mi salivano. Anche Massimo sta ridendo di gusto, ha perfino le lacrime agli occhi.
«Olmo era veramente l’unica cosa che potesse alzarmi il morale» riesco ad articolare tra le risa. Lui si limita ad annuire, pulendosi gli occhi dai lacrimoni che ricoprivano le sue guance.
«Come ti è venuto in mente…» la domanda rimane sospesa non appena riesco a metterlo a fuoco realmente.
«Dove l’hai trovata la camicia?» il mio tono è totalmente cambiato. Ci sono delle sfumature rabbiose, incredibile come sia riuscita a cambiare completamente umore nel giro di mezzo minuto (neanche). Lo vedo zittirsi e le sue guance colorarsi di un lieve rosso.
«L’ho trovata in uno scatolone lì nello studio.. c’erano un sacco di cose, ehm, vecchie» ammette, con lo sguardo sfuggente. Mi sento sprofondare. Non doveva trovarlo, era l’unica cosa che non doveva trovare; che imbecille che sono. Come posso essermi scordata di nasconderlo?
«Perché hai tenuto tutta questa roba?»
«La vera domanda Massi che devi fare è: perché mi sono messo a rufolare in roba non mia?»
«Perché quando te ne sei andata, sbattendo tutte le porte che trovavi, mi sono buttato sulla poltrona e una scritta su uno scatolone ha attirato la mia attenzione “Olmo e Vanette”. Non è molto usuale trovarlo. È vero, ho curiosato nelle tue cose, mi dispiace, avrei dovuto mettere le mani a posto. Ma non credevo che tu te ne ricordassi e soprattutto che tu avessi tenuto…» si tocca la camicia e sorride, piano, cercando di non farsi vedere. «questa».
A2. Colpita e affondata.
Mi sento esattamente come un sommergibile in battaglia navale. Boccheggio, senza voce. Non so veramente cosa dire. Non ho una vera risposta alle sue domande, l’ho fatto e basta.
Forse circa dieci anni fa non ce la facevo a liberarmene, ma neanche ora sarei in grado. Mi si stringe lo stomaco e le parole mi muoiono tutte in bocca. O magari non proprio tutte.
«Beh, non ti sorprendere. Alla fine sei stato importante nella mia vita. In un modo o nell’altro» sussurro piano, più a me stessa che a lui. Max si gela, gli occhi sbarrati, fissi su di me. Visto così, con quella camicia rosa anni ’70 un po’ sgualcita sembra una statua del museo delle cere.
«Non credevo così tanto» dice piano, la sua voce è più vicina a me però. Mi prende una mano nella sua e mi costringe a guardarlo. «Non tanto quanto me almeno. Non ti ho mai dimenticato veramente.»
«Credevo ci fossimo lasciati come amici. Perché allora tu mi hai trattato come una merda in questi anni?»
Esita. I suoi occhi fanno un guizzo sofferente e la sua bocca si distorce in una smorfia quasi dolorosa.
«Sono stato parecchio male dopo che tu sei partita. Soprattutto sono stato male quando sei tornata con Gabriele» ha iniziato a piangere. Due lacrime mi cadono sul palmo della mano e io tiro su la testa. D’istinto faccio una cosa di cui penso mi pentirò. Lo abbraccio. Forte, stringendo le mie braccia al suo collo, inspirando il suo odore pungente, vagamente familiare.
«Mi sei mancato Max. Io cercavo veramente di averti al tuo fianco. Volevo che il mio amico tornasse, come al liceo. Tu ti sei chiuso nel tuo bozzolo come al solito» mi stringe anche lui, forse più del dovuto. Lo sento inspirare profondamente, affondare il viso nell’incavo tra il collo e la spalla e bagnarmi il maglione.
«Sei mancata tanto anche a me» dice piano, alla lana rossa del mio pullover. Poi tira su la testa di scatto e mi sorride.
«Non sono più tanto lo stronzo cinico di cui parli sempre a tutti vero? Se mi vedessero ora così…» mi viene da sorridere. Gli scosto i capelli dagli occhi e lui mi rivolge un occhiata da rivoltare le budella.
«No, forse no. Questo è il Massimo che conosco io e che…» mi fermo prima di dire una cavolata. Lo stavo per dire, lo stavo per dire. Merda. I miei occhi guizzano sul suo volto e lo vedo dipinto da un’espressione scioccata. Ha capito. Merda, ha capito.
Sono io che invece non riesco a capire come possa essermi uscita una cosa del genere. Potrebbe rovinare la mia vita. Completamente. Okay, tentiamo di recuperare in corner.
«… a cui ho voluto tanto bene» la luce di speranza che si era accesa nelle sue iridi scure si affievolisce piano. Ma la bocca si piega in un debole sorriso.
«Possiamo recuperare undici anni di ghigni e vaffanculo?» domanda piano e io mi limito ad annuire.
«Allora, intanto grazie per questa risposta. Mi ero già preparato a dormire sul pianerottolo» sorride. «Perciò, visto che mi hai perdonato la camicia, mi perdonerai anche questo» si allontana a grandi falcate e ritorna su. Pochi secondi dopo riappare con in mano lo scatolone. Lo posa ai miei piedi e inizia a smuovere tutto quello che c’è dentro. Ne estrae una cassetta (sapete di quelle risalenti più o meno alla preistoria? Esatto, una di quelle. Per fortuna il mio lettore funziona ancora alla grande) e la infila nel lettore.
«Questa è storia» annuncia, guardandomi con gli occhi che gli brillano. La prima immagine ha me come protagonista. Una me molto diversa da quella di oggi. Una me con i capelli biondi, lunghi fino a metà schiena. Una me truccata come una Barbie brutta. Siamo al mare, a Viareggio. Riconosco la casa dei nonni di Viola. Siamo noi, il gruppo che eravamo. Avevamo poco più di diciott’anni. Ci sono Gabriele e Massimo che giocano a biliardino, Tommaso e Viola che si stuzzicano cercando di non essere visti da me. C’è Cate che balla insieme a Marco, suo fratello. E poi ci sono io che aiuto Stefano, all’epoca il fidanzato della stessa Caterina, in cucina. Appena lo vedo sento lo stomaco chiudersi e l’aria sembra sempre più rarefatta.
Massimo si accorge del mio stato, perciò si avvicina e mi passa il braccio sulle spalle. Mi ero quasi dimenticata i suoi ricci castani e quegli occhi profondi, bellissimi che avevano stregato tutte noi, soprattutto Cate. Si rivolge alla telecamera e biascica qualcosa in pugliese, mentre si infila in bocca un pezzo di pane e prosciutto.
«Non mi ricordo chi stesse facendo il video…» dico piano, non staccando lo sguardo dalla tv.
«Andrea, tuo cugino, ti ricordi? Stava con Anita all’epoca..» le ultime parole le dice piano, quasi sussurrandole. E io capisco subito perché. Andre l’ha odiato profondamente quando ha scoperto che Anita era incinta di Max. E loro erano sempre fidanzati.
L’immagine ad un certo punto diventa nera, per poi mostrarci di nuovo mio fratello.
«Ora, cari nipotini miei, ecco a voi la mamma e il babbo quando erano belli e giovani» fa segno di far silenzio e va verso la terrazza, dove ci siamo io e Max che parliamo abbracciati e mentre guardiamo le stelle. Sento le mie guance stanno diventando di un fastidioso rosso. Con la coda dell’occhio noto che anche Max è diventato così.
«Ehm, non mi ricordavo ci fosse anche questa parte» balbetta, evitando il mio viso.
Ok, forse è meglio terminarla qui, so come continua. E sicuramente non è adatta per dei bambini. Che imbecille mio fratello. Glielo devo rinfacciare questo quando lo rivedo.
«Ehm» mi schiarisco la voce. «Ce n’è un altro. Quello del karaoke». Allungo il braccio dentro la scatola alla ricerca dell’altra cassetta. Max sembra non aver ancora realizzato di quale stia parlando. Ma ad un certo punto lo vedo sbiancare.
«No, non ci credo» si porta una mano davanti agli occhi, evitando di guardare. Ah-ah tanto bastano solo le orecchie.
Questa volta l’immagine è ancora più vecchia. È l’estate del ’99. La nostra prima estate insieme. Io avevo sedici anni, una bambina insomma. Era la sera prima del compleanno di Viola e avevamo preso l’impianto perché sapevamo quanto lei odiasse il karaoke (anche se ha una voce spettacolare).
E quello era il turno di Massimo a cantare. Era salito sul palco perché spinto da Tommaso ed era arrossito. Si era guardato imbarazzato attorno e poi aveva incrociato i miei occhi. Me lo ricordo ancora lo sguardo che mi rivolse. Un misto tra “aiutami tu” e “voglio buttarmi”. Sorrisi. E poi partì la base di Bella, di Jovanotti. La mia canzone preferita. Con la coda dell’occhio notai il viso soddisfatto di mio fratello che mimò un “questo è per te”.
«Che figura di merda» commenta Max cercando di non guardare. Invece io sono presa. Ho già visto il filmato di nascosto altre volte, cercando di domandarmi come fossimo finiti da lì, da quel luglio del ’99, ad oggi, che non possiamo neanche guardarci. Quella sera sentii per la prima volta qualcosa per un ragazzo, per quel ragazzo timido, quel ragazzo con quegli zigomi alti e gli occhi seducenti che mi fece perdere la testa. Fino a quel momento era stato solo il migliore amico di mio fratello. La sua voce profonda riempie la stanza.
Arriva un suo commento soffocato (soffocato dal cuscino che si sta premendo sul viso per non vedere):
«E comunque canto meglio Olmo». Mi scappa da ridere, ma trattengo. Okay facciamo un commento serio.
«Ho una cassetta anche di Olmo e Vanette». Mi alzo e questa volta vado verso lo scaffale dove tengo i dvd e tra questi ce n’è uno che ho camuffato con la scritta “Matrimonio Nathalie e Roberto Conti” per evitare che Gabriele lo aprisse. Al suo interno ci sono due dvd, ma il primo lo salto direttamente. Sarà meglio che non lo guardi ancora. Inserisco il secondo nel pc e glielo piazzo davanti.
Questa volta è Carnevale. 2003. Siamo a casa mia, quella in campagna. Il tema era, neanche a dirlo, Mai dire Gol. Il video fa prima una panoramica di tutti gli invitati (sempre i soliti, manco a dirlo. Ah no, dimenticavo: c’era anche il fratello minore di Andrea, Mattia). Avevamo allestito un piccolo palco, dove ognuno di noi doveva fare un’imitazione del personaggio da cui ci eravamo travestiti. Ci facciamo delle grandi risate, alcune di divertimento, altre di nostalgia. I bei vecchi tempi, quando eravamo solo un gruppo, quando non c’era bisogno di tre mesi di anticipo per trovarsi e mangiare una pizza insieme. Bastava Gabriele che passava sotto casa nostra con la sua Graziella arrugginita e il montgomery logoro.
Alla fine arriviamo io e Max. Lui con la sua assurda camicia rosa con le becche lunghe e io con una parrucca orrenda. E attacchiamo a cantare. Malissimo, ma non importava. Ci fissiamo, ci sorridiamo, e a me, in questo momento, quasi tredici anni dopo, viene da piangere. Cerco di pulirmi velocemente il viso, tentando di nascondere ogni forma di piagnucolio.
«Bene, abbiamo già visto abbastanza» dico ad alta voce, battendo le mani. Ma lui pare immerso in una strana forma di contemplazione. Fissa quasi ipnotizzato lo schermo della tv. Poi vedo una piccola lacrima scivolare sulle sue guance e lui non fa niente, non gliene importa. Alza gli occhi verso di me e mi rivolge un sorriso amaro.
«Cosa ci è successo?» domanda, ma la sua voce è piuttosto dura. «Perché abbiamo permesso che tutto questo accadesse, eh Mia?» Si alza in piedi e si piazza davanti a me. Il suo respiro è affannoso, lo sento sul mio viso. Ha le labbra strette e sembra che stia per combattere una guerra con se stesso.
«Perché ci siamo persi Mia?» gli manca l’aria, boccheggia. «Perché te ne sei andata?»
Mi sento colpita in pieno. Sono sicura che ho smesso di respirare. Non mi ha mai fatto granché bene ripensare a quel periodo.
«Lo sai benissimo perché me ne sono andata» balbetto piano, evitando il suo sguardo.
«No, non lo so» replica duro. Ma poi sembra pentirsi del tono di voce. «Mi hai lasciato da solo al Piazzale. Ti ho aspettato per tutto il pomeriggio. E quando sono tornato a casa di te c’era rimasta solo una lettera… quella lettera» si allontana da me e inizia a girare frustato attorno al divano. «L’ho consumata per le tante volte che l’ho letta. La so a memoria. E nonostante questo non sono ancora riuscito a capire appieno il significato di quelle parole. Non sono ancora riuscito a capire perché mi hai lasciato dall’oggi al domani. Me lo puoi spiegare? Eh? Per favore». Mi stringe le braccia delicatamente e mi guarda supplichevolmente negli occhi.
«Lo sai. L’ho scritto in quelle righe. Avevo bisogno di fare le mie esperienze Max. Avevo ventun’anni e non sapevo niente. Non avevo fatto niente. E tu parlavi già di matrimonio. Mi sentivo soffocare, sentivo che la mia vita stava prendendo una piega che io non avevo previsto» sbotto quasi rabbiosamente. Ma lui non sembra nemmeno toccato da quello che ho detto.
«Non è questo. Lo so, ti conosco, ti conosco meglio di tutti gli altri. Non lasci mai niente a metà, se non per cause di forza maggiore»
«No! Tu non mi conosci! Tu conoscevi la vecchia Mia, la Mia che è partita da Firenze con delle scelte dure da fare. La Mia che era sempre una ragazzina. Sono cresciuta in Inghilterra. Sono diventata una persona diversa, con esigenze diverse. Sono diventata indipendente» alzo la voce, buttando fuori tutto quello che mi tengo dentro da più di dieci anni. «Ho dovuto fare delle scelte difficili, ho dovuto rinunciare a te e ad un’altra persona…» mi fermo, mi manca il respiro. Sto per dirglielo. Sto per dirglielo dopo tutto questo tempo. Sono pronta? Forse no. Ma sono sicura che se me lo tenessi dentro per tanto ancora potrei esplodere. Lui sembra improvvisamente aver capito.
«Mia…» mi prende la mano. «Non dirmi che è quello che penso»
«Quel pomeriggio mi ero decisa di venire al Piazzale e dirti che ero incinta. Erano due settimane che mi tormentavo su come tu avresti potuto reagire e ero terrorizzata dall’idea che mi avresti lasciato. Ma poi, poco prima di uscire di casa, mi sono sentita male. Mi ha aiutato Tommaso ad andare in ospedale. Avevo avuto un aborto spontaneo. Ed è stato sempre Tommaso ad aiutarmi a partire per il Devonshire da mia nonna. Avevo bisogno dei miei spazi, avevo bisogno di riprendermi» sputo tutto d’un fiato, senza pensare troppo a quello che dico. Sembra che gli sia crollato il mondo addosso.
«E non hai pensato a me? Non hai pensato che forse anche io meritavo di sapere tutto questo, visto che magari, ma magari dico eh, ero io il padre?» punta quello sguardo felino su di me e mi sento mortificare.
«Vorrei che tu capissi che ero giovane. Che ero terrorizzata. E che per colpa di quell’incidente probabilmente non potrò mai avere altri figli» prendo fiato, forse per pensare bene alle parole che sto per dire, forse per cercare di respingere delle lacrime indesiderate. «Gabriele tutto questo non lo sa, non lo sa ancora. E vorrei dirglielo con calma. Quindi, per favore, tienilo per te. Ma soprattutto buttatelo alle spalle, come ho fatto io. Non ci si può piangere per qualcosa che non è ancora cominciato» concludo, cercando di tenere il mio tono più fermo e determinato possibile. Max apre la bocca un paio di volte, come se dovesse dire qualcosa, ma alla fine decide che il silenzio d’accettazione è la migliore scelta.
«Grazie per aver capito, o almeno credo» sussurro al suo orecchio, lasciandogli un lieve bacio sullo zigomo ruvido. E questa è forse la cosa più naturale che ho fatto oggi. Ho sentito arrivarmi dallo stomaco il bisogno di farlo. Di sentire di nuovo il contatto con lui.
«È meglio che metta a posto camera mia. Tu fai pure quello che vuoi» indico con un debole cenno la stanza e mi allontano, cercando di evitare il contatto visivo.
 
   
 
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