Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Ser Balzo    25/09/2019    1 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

15.

Gli sconfitti sventurati

 

 

 

And she said, Romeo, Romeo, I’m your Juliet
I’m the pot of gold that you haven’t found yet

And I’m here, right here

He said, Juliet, I believe every word you said
Time is running backwards every single day

I’m here, right here

 

– The Fratellis, Starcrossed Losers

 

 

 

Artemisia schiumava dalla rabbia.

Ringhiando per la frustrazione, calciò un sasso davanti a lei. La piccola pietra scartò bruscamente di lato, sollevando una scia di polvere mentre rimbalzava fra la terra rossastra.

«Risparmia le forze» le disse Ares, alla sua sinistra.

«Come se ci servissero a qualcosa» berciò lei di rimando, fissando la nuca di Katniss Everdeen come se potesse atomizzarle la testa con la potenza del solo sguardo. «Quella puttana codarda, tutti buoni ad uccidere restando nascosti…»

«Sono giorni che marciamo» continuò Ares, ignorando i violenti improperi della sua compagna di scudo. «E il Distretto Due è ancora lontano.»

«…li potrei uccidere tutti prima che miss Bruciate-con-noi sollevi il suo stupido arco giocattolo…»

«I viveri stanno per finire, e non credo che–»

«…la faccio a pezzi, sì, lei e quell’altra stronza simpaticona»

«Artemisia.»

La mano di Ares si chiuse sulla spalla della ragazza, costringendola a voltarsi. Il volto del massiccio IEROS era una maschera di granito.

«Smettila. Adesso.»

Artemisia rimase qualche istante interdetta, colpita da quell’ordine secco e perentorio. Poi il suo voltò si deformò in preda all’ira e le sue labbra si dischiusero violentemente, pronte a ribattere adeguatamente a quella sfrontata insolenza.

«No.» La voce di Ares era ferma e possente, un monolite ancestrale inattaccato dal tempo. «Sei una guerriera, non una stupida. Non dimenticare chi è il vero nemico.»

Gli occhi di Artemisia lampeggiarono. «Ma noi…»

«Noi aspetteremo gli ordini del colonnello Rorke. E in ogni caso, anche se ci dovessimo riuscire, uccidere Katniss Everdeen non servirebbe a niente. E tu lo sai bene.»

La ragazza inspirò profondamente, poi si girò di scatto, riprese a camminare e tirò un calcio ad un altro sasso.

Rimasto indietro, Ares sospirò.

«Non è semplice, eh?»

Il ragazzo si voltò, sorpreso. Il tenente Baeley guardava Artemisia, una mano sulla cinghia del fucile e l’altra sulla cintura tattica. «Cerchi di fargli capire dove andare, cosa fare, quando fermarsi, ma la verità è che non puoi fare altro che restare a guardare.»

Ad Ares non piaceva il tono di quell’uomo. Sapeva di codardia, rassegnazione e, peggio ancora, qualcosa che non riusciva a catalogare. Qualcosa che sapeva avere tremendamente a che fare con la strana ombra in un piccolo angolo della sua memoria.

Cenere.

«Non sono il caposquadra. Il sergente Cicero…»

«Non c’è, a quanto vedo» finì per lui Baeley. «E soprattutto, non è qui a tenere a bada la piccola campionessa…»

Qualcuno lo interruppe.

«Si chiama Artemisia.»

Baeley si azzittì. Ares sentì la gola seccarsi, ammirato e al tempo stesso turbato da colui che aveva aggredito così fieramente il tenente.

«Certamente. Ti suggerisco di muoverti, o finirai in fondo alla colonna. Immagino che tu non voglia che la retroguardia ti spari.»

Baeley riprese a camminare, lasciandolo Ares da solo. Il ragazzo rimase interdetto ancora per qualche istante.

Poi, finalmente, comprese che a parlare era stato lui.

 

C’era stato un tempo in cui Dan avrebbe apprezzato il territorio che lo circondava.

Ai lati della polverosa strada che stava percorrendo si stendeva un’arida distesa di terra e cespugli, in mezzo alla quale si innalzavano ogni tanto rilievi più o meno elevati di roccia rossastra. Le Lande Ingenerose, aveva sentito due soldati davanti a lui chiamarle. Immaginava che l’aggettivo si riferisse all’infertilità del suolo; ma per quanto lo riguardava, quella terra non era avara per niente. Avrebbe potuto cavalcare per tutto il giorno senza mai fermarsi: cosa c’era di meglio?

Si sorprese a pensare una cosa del genere. Quelli erano tipi di elucubrazioni che riguardavano il vecchio Dan. Cose precedenti alla guerra, alla Ghiandaia Imitatrice, agli Hunger Games.

Cose in cui compariva il volto di sua sorella.

Dan si ritrovò a pensare a cosa sarebbe successo se avesse deciso di aggredire una guardia. Così, senza motivo. Di correre addosso ad una di quelle divise bianche, buttarle giù a terra e far finta di credere davvero di poter scappare. Gli avrebbero sparato subito? Oppure lo avrebbero inseguito, riportato indietro e condannato ad attendere un vero e proprio plotone d’esecuzione? Stando a quanto sembrava bizzarro il loro comandante, la seconda poteva essere un’opzione più che probabile.

Riflettere in tono così distaccato sulla propria dipartita gli procurò un piccolo brivido. Forse c’era una parte di lui che ancora desiderava tornare ad essere una persona normale: essere ancora il giovane mandriano del Distretto Dieci, tornare a casa tutte le sere morto di fatica ma in qualche strano modo soddisfatto, guardare il cielo seduto davanti alla porta di casa ed aspettare con ansia il giorno di riposo.

«Un penny per i tuoi pensieri» gli disse Dana, che camminava vicino a lui.

Dan la guardò perplesso, diede un'occhiata a Penelope, in marcia alle sue spalle insieme a Lee, e riportò lo sguardo su di lei. «Penny? Cosa c'entra Penny?»

La risata di Dana raccolse le attenzioni di un paio di soldati; nessuno, però, le disse di fare silenzio.

«Oh, capisco, sei finalmente diventata matta» disse Dan, sospirando.

«Oh, tranquillo, non ancora. Non del tutto, almeno.»

«Allora cosa avevi tanto da ridere?»

«Un penny per i tuoi pensieri. Non mi riferivo a Penelope.»

«E a cosa, allora?»

«A un penny.»

«E che accidenti è, un penny?»

«A dirti la verità, non ne ho idea.»

«Andiamo bene.»

«È una cosa che diceva mio padre. Un penny per i tuoi pensieri. Probabilmente neanche lui sapeva cosa fosse, un penny. E neanche suo padre, e il padre di suo padre, fino a prima di Panem e delle Ribellioni. E ora io sono qui, e loro sono tutti morti, e ancora non ho idea di cosa sia un maledetto penny.»

«A giudicare dalla struttura della frase, dovrebbe essere un qualche oggetto di valore.»

«È l'idea che mi sono fatta io. E comunque, stai rovinando il mio flusso di coscienza.»

«Sono desolato.»

«Comunque, il senso è: a cosa stavi pensando?»

Dan lasciò che il suo sguardo vagasse sull'immensa distesa di terra rossa. «A casa.»

«Oh.» Dana guardò per terra, poi sollevò lo sguardo, socchiudendo le palpebre per non farsi accecare dal sole. «Non era male, il Distretto Dieci.»

«Era una schifezza.»

«Lo so bene, volevo solo essere di supporto emotivo.»

Dan la guardò, e un sorriso storto gli affiorò sul viso. «Ti ringrazio, ma non ce n'è bisogno.»

«Questo lo dici tu.»

«Certo che lo dico io.» E detto ciò, Dan tolse a Dana l'elmetto e se lo mise in testa.

«Ehi!»

«Non male. Mi sento già più schizzato.»

«Ridammelo.»

Dan allontanò una mano di Dana che cercava di riprendersi il proprio copricapo. «Va grande persino a me, vorrei sapere come accidenti fai a muoverti con questo coso in testa.»

«Perché la tua testa è stupida, e la mia no. L'elmetto sa dove trovarsi meglio.»

«Ah beh, buon per lui allora.»

«Senz'altro. Ora ridammelo, stai facendo una figura veramente misera per un prigioniero di guerra.»

Dan allontanò un'altra mano di Dana, ridacchiò e posò la propria sulla testa bionda della ragazzina. «Accidenti, vecchia mia, la tua testa scotta.»

«Fa caldo, e – sorpresa – qualcuno mi ha rubato il cappello.»

Dan sospirò. «D'accordo, hai vinto.» Rimise l'elmetto in testa a Dana, che se lo sistemò con fare soddisfatto. «Ma devi bagnarti la testa, o comincerai a delirare molto più di quanto tu non stia già facendo adesso.»

«D'accordo, d'accordo... fratellone.»

«Molto bene...» disse Dan. Stava per aggiungere "sorellina", ma la parola divenne cemento quando raggiunse le labbra. 

Dana vide il suo sguardo mutare con la rapidità di un sospiro. Forse comprese quello che era successo, ma non disse nulla.

Tra i due cadde il silenzio.

Nel frattempo, la colonna continuava a marciare.

 

Giunse il tramonto, stendendo sul mondo la sua tavolozza di arancio, azzurro e rosa. Fu come se le Lande Ingenerose si vestissero di un morbido drappo di seta, e la guerra apparve d’un tratto lontana. Non c’era vita, non c’era morte, non c’era violenza; solo l’incommensurabile silenzio del deserto. 

Era una cosa che faceva effetto, pensò il tenente Baeley. 

«Oh, se solo avessi una tela» disse ancora una volta il capitano Aber. «Che splendido paesaggio ne uscirebbe fuori!»

Baeley si chiese se avrebbe continuato a ripeterlo, ogni volta per ogni tramonto, fin quando non fossero riusciti a tirarsi fuori da quel maledetto deserto. Per quanto lo riguardava, il tramonto poteva essere bello come il paradiso: ma finché non gli avesse portato acqua, viveri e – se proprio voleva essere gentile – uno stramaledetto corpo d’armata, lui avrebbe continuato a considerarlo in meri termini di rifrazione di raggi solari. 

«Compagnia, alt!» vociò il capitano Aber, facendo scattare il pugno all’altezza della tempia. 

Stanca e mormorante, la trentina di persone al suo seguito smise di trascinare i piedi, piegò la schiena verso terra e si fermò.

Aber tirò fuori da una tasca il suo cannocchiale dorato, lo allungò con uno scatto e prese ad osservare qualcosa oltre un paio di grosse rocce. «Tenente, lo vedete anche voi?»

Baeley prese il cannocchiale che gli veniva offerto dal capitano e lo puntò dove presumibilmente il suo superiore stava guardando. La bocca gli si dischiuse in un moto repentino di sorpresa.

«Alberi.»

«Dunque non mi sono ingannato!» esclamò il capitano, più soddisfatto di quanto forse il suo ruolo di comando permetteva. «Un bel bosco, a neanche mezz’oretta di camminata. Sarà un ottimo posto dove passare la notte.»

«Senza dubbio» rispose Baeley, restituendo il cannocchiale ad Aber. Una macchia di verde era decisamente uno spettacolo inconsueto in mezzo a tutto quel rosso, ma Baeley sapeva che spesso nei deserti si potevano trovare delle oasi vicino a delle sorgenti d’acqua.

Acqua.

Sentì il pomo d’Adamo sobbalzare nella gola riarsa. Erano passati ormai cinque giorni da quando si erano lasciati dietro il Distretto Quattro per avventurarsi nel deserto che lo separava dal Distretto Due, e ormai da tre erano stati costretti a razionare le scorte di acqua e di cibo. 

Acqua. Ombra. Riparo.

Mentre il sollievo accarezzava il suo corpo sfinito dal sole e dalla marcia, Baeley realizzò che c’era voluta una guerra per fargli capire la bellezza delle cose semplici.

 

«Deve muovere le mani verso il basso.»

Baeley sollevò lo sguardo dal mucchietto di legna a cui stava cercando di dare fuoco. Seduta a gambe incrociate, circondata come sempre da quattro dei suoi soldati migliori, Katniss Everdeen strofinò rapidamente le mani e le mosse verso il basso.

Baeley diede un’occhiata al legnetto che teneva tra le mani. «Oh.» Prese il legno tra i palmi, poggiò un estremità su un altro pezzo piatto e largo e cominciò a sfregare. «Così?»

La Ragazza di Fuoco annuì, l’ombra di un sorriso che sfumava sul volto come una goccia di pioggia su del metallo incandescente.

«Grazie.»

«Non c’è di che.»

Baeley era troppo stanco per badare al surrealismo della conversazione appena avvenuta. Convogliò tutte le energie che gli rimanevano per sfregare i due pezzi di legno tra di loro: ma per quanto si sforzasse, il legno sembrava risoluto nella sua convinzione di non farsi carbonizzare.

«Forse questa può aiutare.»

Baeley fu ancora una volta costretto a sollevare lo sguardo dal mucchio di legnetti: il sergente dei Volontari, la donna con cui il capitano aveva tentato di fare il galante, gli stava tendendo una mano, sul cui palmo riposava una pietra verde scuro.

«Che cos’è?» chiese Baeley.

«Una pietra focaia» rispose Katniss Everdeen. «Ma così è vincere facile.»

Baeley le scoccò una rapida occhiata, un po’ a disagio di averla come spettatrice dei suoi fallimenti in materia di sopravvivenza.

«Permette?» chiese la donna. 

Baeley indicò con le due mani il suo pallido tentativo di fuoco da campo. «È tutto suo.»

Ayla si inginocchiò di fronte ai legni. «Mi servirebbe un pezzo di metallo. Di norma usavo il mio coltello, ma da un po’ di tempo non è più in mio possesso.»

Baeley rifletté un attimo su cosa poteva dare alla donna che corrispondesse alle sue richieste, poi optò per l’oggetto più innocuo che aveva a disposizione: si sfilò la propria piastrina identificativa dal collo e gliela porse.

«Grazie» disse Ayla. Sfregò la pietra sulla piastrina, e un paio di scintille caddero sui ciuffi di erba secca in mezzo a cui Baeley aveva messo i rametti; un altro paio di colpi, e finalmente una piccola fiammella si alzò tra il legno.

«Magnifico» commentò Baeley.

«Non c’è di che.»

«Finora avevo usato il liquido del mio accendino…»

Katniss Everdeen emise un brontolio di disapprovazione. Baeley la fulminò con lo sguardo. «Silenzio, tu.»

«Certamente» disse Katniss, poi borbottò qualcosa di vagamente molto simile alla parola accendino.

«Lei fuma…» Ayla diede un’occhiata alla piastrina, poi la restituì a Baeley. «…Tenente Baeley?»

«No» disse Baeley, rimettendosi la piastrina al collo e lasciandola scivolare sotto l’uniforme bianca. «Me l’ha dato mia madre prima che partissi per il fronte. Diceva che era un accessorio indispensabile per un soldato.»

«Beh, è sicuramente molto utile.»

Baeley fece un sorriso amaro ed emise un piccolo sospiro. «Temo che lei lo intendesse in senso puramente estetico. È una stilista.»

«Oh.»

«La grande Calpurnia Van Berian!» esclamò il capitano Aber, seduto poco distante su una sedia pieghevole, agitando in aria la pipa. Al suo fianco, il soldato Daniell, ormai ufficiosamente promosso a suo aiutante di campo, dovette spostarsi di mezzo passo di lato per evitare che la mano del capitano facesse cadere la bottiglia d’acqua che lui teneva in equilibrio su un vassoio. «Ah, che donna, che tatto, che squisitezza! Ha insistito molto perché venissi affidato alla mia protezione, ma con una classe, un’eleganza… normalmente un gentiluomo non acconsentirebbe a simili favoritismi, ma per la grande Van Berian… ebbene, lo confesso, ho dovuto fare un’eccezione.»

«E grazie tante» disse Baeley, a mezza voce.

«Come dice, tenente?»

«Che non smetterò mai di ringraziarla, signore.»

«Oh, suvvia, per così poco» tubò Aber, deliziato. «Per la grande Van Berian, questo e altro…»

Baeley si accorse che la donna lo stava guardando con aria divertita. Prima che si rendesse conto di quello che stava facendo, ricambiò lo sguardo. Lei si coprì la bocca con una mano per evitare di ridere, e Baeley avvertì uno strano formicolio accarezzargli lo stomaco.

Cosa diavolo sto facendo?

Scattò in piedi, come se un serpente fosse strisciato alle sue spalle e gli avesse appena morso il didetro. «La ringrazio, sergente. Può tornare dai suoi uomini.»

La donna si alzò in piedi con la stessa rapidità, le guance dipinte da un leggero rossore. «Certamente.»

Baeley fece cenno ad un soldato, che andò ad affiancarsi al sergente. La donna parve voler dire qualcosa, poi si girò e cominciò a camminare.

«Sergente.»

La donna si fermò. Nel suo sguardo Baeley colse una traccia di timore, e in un misto improvviso e irrazionale di rabbia e senso di colpa fu tentato di non dirle nulla.

«Al contrario di lei, non ho avuto l’opportunità di spiare la sua medaglietta: dunque, non so ancora il suo nome.»

La donna parve sorpresa da quelle parole. «Ayla» disse, dopo un attimo di tentennamento. «Ayla Wilkins.»

«Molto bene, sergente Wilkins. Buonanotte.»

«Buonanotte, tenente.»

 

Ancora una volta, Clove si svegliò di colpo. 

I contorni del sogno stavano ormai sfumando, ma poteva ancora sentire le fiamme lambire le estremità della sua mente. Che il colpo sparatole da quel ragazzo psicopatico le avesse definitivamente incasinato la testa?

Come se fosse colpa sua.

Sebbene pesta e sanguinante, Clove la Debole sembrava aver recuperato abbastanza energie da potersi permettere di parlare. Stringendo i denti e premendosi i palmi delle mani sulle tempie, Clove visualizzò Clove la Forte che afferrava i capelli di Clove la Debole e le ficcava la testa sott’acqua, osservandola contorcersi fin quando, con un ultimo spasmo, Clove la Debole cessava finalmente di vivere.

Ripreso il controllo della situazione, Clove si guardò intorno. I tre fuochi che erano stati accesi dal gruppo – uno per i militari regolari, uno per i pidocchiosi ribelli, e uno per gli IEROS – erano ormai quasi estinti. Una mezza dozzina di soldati, in piedi ma stanchi morti, montavano la guardia svogliatamente, convinti che in fondo nessuno sano di mente avrebbe cercato di filarsela in un deserto senza acqua né cibo, neanche la stramaledetta Katniss Everdeen in persona.

Clove bruciò di rabbia a sentire quel nome invaderle la testa: eppure, ebbe l’impressione che l’intensità del sentimento avrebbe dovuto essere molto maggiore di quanto stava provando al momento. Oh, era furibonda, questo sì: ma non così tanto quanto avrebbe voluto.

O dovuto?

Si alzò, come se volesse scacciare un fastidioso e pruriginoso insetto che le si era acciambellato tra le gambe. I soldati non sembrarono neanche accorgersi del suo movimento.

Le ore prima dell’alba, quando tutti pensano che la notte sia ormai finita. Il momento migliore per attaccare.

In silenzio, leggera e mortale come aveva imparato ad essere all’Accademia, Clove uscì dal cerchio di luce del fuoco e si inoltrò nella boscaglia.

Qualche secondo dopo, Dan si mosse per seguirla.

 

Era passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui Dan aveva dormito come si deve che ormai aveva dimenticato cosa volesse dire lasciarsi cullare dall’oblio in una notte profonda e senza sogni. Ma non tutto il male veniva per nuocere: se non fosse stato sveglio, quella notte non avrebbe visto Clove cercare di darsela a gambe. E non avrebbe avuto l’occasione perfetta per sistemare il suo conto in sospeso, una volta per tutte.

Evitare lo sguardo dei soldati e tuffarsi nel bosco era stato fin troppo facile. In parte, Dan era convinto che le sentinelle l’avessero visto, ma l’avessero lasciato andare: un prigioniero in meno voleva dire più cibo e acqua per tutti, senza doversi prendere il disturbo di piantargli una pallottola nella nuca. In ogni caso, doveva trattarsi di destino.

La mano corse alla falda sinistra della giacca, proprio dietro la tasca. Lì, in un risvolto del tessuto bruno, aveva nascosto uno dei coltelli da lancio di Clove.

Uno spasmo d’acciaio gli contrasse il volto.

Il cerchio si chiude.

Perché era così che doveva andare.

 

Non sapeva dove stesse andando, né tantomeno perché lo stesse facendo. Sapeva di star percorrendo una linea retta, così da avere una via sicura per tornare al gruppo accampato; ma lì, in mezzo a quegli alberi, il suo desiderio di continuare a combattere sembrava d’un tratto attenuato.

Dev’esserci qualcosa in questa foresta. Qualcosa che rammollisce, che inibisce, che mi rende debole.

Forse era per questo che Clove la Debole aveva scelto quel posto per ritornare in tutto il suo patetico splendore. Peccato che non fosse durata a lungo, pensò Clove con una smorfia di feroce soddisfazione.

Non hai mai vinto e non vincerai mai.

Questi alberi maledetti, continuò a mugugnare tra sé mentre camminava. Dev’essere per colpa loro che alla loro vista si era sentita, anche solo per un istante, prendere dal panico. Da quando Rorke l’aveva fatta rientrare in gioco, era la prima volta che li vedeva.

Ed era stata l’ultima cosa che aveva visto, prima che Thresh le spaccasse la testa.

Beh, mi dispiace tanto, ma neanche voi siete riusciti a battermi. Io ho vinto, io vinco, io vincerò sempre. Sempre.

Si rese conto solo dopo qualche passo che era uscita dal folto del bosco. Davanti a lei, per circa una decina di metri di diametro, si apriva una piccola radura.

E in mezzo alla radura, una struttura di metallo simile ad una cornucopia la attendeva.

 

Dan la vide uscire allo scoperto e fermarsi dopo qualche passo. Fissava qualcosa al centro della radura, qualcosa che lui non riusciva a vedere ma che sembrava averla bloccata con la forza di un muro invisibile.

Chissà cosa starà vedendo. Film folli di una testa rotta.

Qualunque cosa fosse, per Dan era un’occasione d’oro.

Estrasse il coltello, lo afferrò per il piccolo manico e iniziò ad avanzare.

Quando entrò nella radura, temette che lei si accorgesse del fracasso che stava facendo il suo cuore. Ma l’assassina di Rose rimaneva immobile, come se fosse su un altro mondo.

Solo un secondo e ce l’accompagnerò volentieri.

In quel momento, le immagini del suo sogno si sovrapposero alla realtà. Il terrore che lì davanti ci fosse Rose rischiò di travolgerlo.

Non stai sognando, non adesso. Questa è la realtà. Rose è morta, lei è viva. Quindi fai quello che devi fare, e uccidila. Solo allora sarai in pace.

Dan strinse forte il pugnale da lancio.

Solo allora sarò in pace.

 

Clove sbatté le palpebre. La cornucopia, con la sua superficie così lucida da sembrare liquida e con la sua bocca straripante di armi, provviste e medicine, sparì in un istante.

E in quel momento, si accesero le luci.

Gialle, bianche, alcune arancio fuoco. Sapeva cos’erano. Le aveva viste spesso, nel giardino di casa sua, fra gli alberi di Capitol City, e anche lì nelle rare isole di verde delle Lande Ingenerose, dove più di una volta era venuta ad addestrarsi per gli Hunger Games. Le avevano create a partire dalle lucciole, modificandole geneticamente perché fossero più grandi, più luminose, più colorate. Ne aveva viste, ma mai così tante.

Quella radura risplendeva di una gigantesca colonia di Luminarie.

Il ricordo di un terrazzo affollato di abiti eleganti la colpì con una tale forza da farla quasi vacillare. Rivide sé stessa – dodici, tredici anni? – che avanzava impettita, cercando di non inciampare nei tacchi alti con cui si era esercitata fino a farsi sanguinare le piante dei piedi, raggiante e trionfante nel nuovo vestito che le era stato confezionato per l’occasione. E poi vide in fondo al terrazzo, con uno smoking bianco, un ragazzo che sembrava a disagio. Le venne quasi da ridere al pensiero che in quell’occasione aveva pensato fosse un povero pusillanime: ben presto avrebbe scoperto che era il guerriero più forte che il Distretto Due avrebbe mai potuto sognare.

Si girò, rapita dai ricordi di un passato che sembrava non essere mai esistito e da quella miriade di luce che trapuntava il blu che cominciava a tingersi d’azzurro.

E in quel momento si accorse che Dan stava per ucciderla.

 

Le luci lo presero alla sprovvista. Per un’istante pensò fosse tutta una trappola, tesa da non si sa chi e non si sa bene per quale motivo, e fu preso dall’istinto animalesco di correre via e rifugiarsi nel folto oscuro della foresta.

Poi Clove si girò verso di lui, e vide l’espressione che le dipingeva il viso. Né rabbia, né rancore, né selvaggia euforia. Gli occhi erano spalancati, la bocca semichiusa. Vide l’orlo degli incisivi riflettere le luci tra gli alberi, e vide che erano storti, irregolari. Come quelli di una bambina.

E vide che Clove, in quella radura punteggiata di piccole stelle, era felice.

 

Era fermo, la mano levata, un coltello da lancio stretto goffamente tra le dita. La guardava, gli occhi spalancati, un’aria sciocca, stupida e stupita dipinta sul volto.

La faccia di un cerbiatto che si ritrovi davanti ad un cacciatore.

Era da solo, senza nessuno a proteggerlo. Sarebbero bastati meno di quattro secondi a disarmarlo, prendere il pugnale e tagliargli la gola. O l’arteria femorale, in caso avesse voluto guardarlo mentre moriva lentamente dissanguato.

L’avrebbe ucciso, come aveva ucciso sua sorella. E lo sapeva anche lui.

Forse fu per questo che abbassò la mano e gettò il coltello a terra.

Sapeva di essere già morto.

«Rose Martin.»

Il nome aleggiò tra i due, come se fosse stato evocato dalle viscere della terra. Era stato pronunciato da una voce strana, roca, un po’ stridula. Una voce che, infine, Clove riconobbe come sua.

Il ragazzo parve non reagire. I suoi occhi erano fissi su di lei. Grazie alla luce delle Luminarie, Clove poté notare che erano color nocciola. Banali. Volgari. Stupidi.

Fin troppo simili ai suoi.

Come vuoi, Clove. Ma sappi che peserà anche quello, al momento della scelta degli sponsor. Tuo fratello si fece gli occhi verde scuro, perché quell’anno andava per la maggiore…

«Era tua sorella.»

Non era una domanda, perché lo sapeva già. Ma sentì comunque il bisogno di chiederglielo. Perché sentisse questo bisogno, invece, non riuscì a capirlo.

«Sì.»

Fu un bisbiglio più che una voce vera e propria. Il tono non era meno rauco e spezzato del suo. D’altronde, quando passi una settimana in un deserto con poca acqua e ancora meno cibo, è già tanto che tu riesca a parlare.

«Era tua sorella, e io l’ho uccisa.»

«Sì.»

«L’ho uccisa, e tu vuoi uccidermi.»

«Sì.»

«Arrivi tardi. L’hanno già fatto.»

Il ragazzo non rispose. Continuava a fissarla, anche se adesso non aveva più l’aria della preda braccata. Era diventato attento, calcolatore; ma nonostante questo, nello sguardo non c’era quella luce che aveva avuto quando aveva premuto il grilletto.

Senza sapere perché, Clove continuò a parlare.

«Mi hanno spaccato la testa. Hanno preso un grosso sasso e mi hanno fracassato il cranio. Non sono neanche morta subito, a quanto pare. Ci ho messo un po’ a tirare le cuoia. Ho fatto in tempo a sentire il mio assassino dire a Katniss Everdeen “per Rue”. Per Rue. Sai qual è la cosa divertente? Io Rue neanche l’ho uccisa.» Lo spettro di un’orrenda risata le uscì dalla gola. «Ne ho ammazzati un sacco, di quei poveri disgraziati. Ho ucciso tua sorella, ho torturato quella povera stupida che aveva avuto la grande pensata di accendere un fuoco quando i Favoriti erano a caccia, ne ho sgozzati un paio che non dovevano avere più di dodici anni… ho persino ammazzato una lucertola per il semplice fatto che mi annoiavo. Eppure, per tutti i peccati che ho compiuto, l’unico per cui sono stata punita è quello che non ho commesso.» 

Scese il silenzio. Clove si aspettava una risposta sprezzante, un dovrei provare pietà per te? o qualcosa di simile. Qualcosa che lei avrebbe detto se fosse stata nella sua posizione.

Perché – e se ne rese conto così, all’improvviso, con un senso di vertigine, vuoto e mestizia che la prese all’altezza dello sterno – era la prima volta che parlava a qualcuno senza un secondo fine dietro. Che parlava perché aveva qualcosa dentro, e aveva bisogno che quel qualcosa uscisse.

Forse era la luce prima dell’alba, forse erano le Luminarie, forse era la quiete degli alberi: ma in quel momento, Clove non si sentì una stupida per quello che era appena successo.

«Hai ucciso mia sorella.»

Non c’era rabbia nelle sue parole, ma era come se volesse disperatamente che ci fosse. Parole che probabilmente aveva ripetuto più e più volte, ma che ora sembravano sfuggirgli, scivolando via nel momento del bisogno.

«Sì, l’ho fatto. Ma dimmi una cosa: se ci fosse stato mio fratello nell’arena, e tu fossi stato al posto mio, che cosa avresti fatto? Ti saresti fatto ammazzare? Solo uno resta vivo. Solo uno ce la fa. Solo quello conta. Certo, a meno che tu sia una povera stupida del Dodici con una treccia carina e il tuo ragazzo sia lì con te.» Clove sbuffò tutto il suo disprezzo, mentre un sorriso terribile le dipingeva il volto. «Gli Amanti Sventurati. Credono sempre di essere loro a prendersi il peggio della vita.» Lo sguardo di Clove si perse nel vuoto. «Ma nessuno pensa mai agli Sconfitti Sventurati.»

Quelle parole sembrarono toccare qualcosa da qualche parte nascosto dentro l’animo del ragazzo. Il suo sguardo cambiò di nuovo, ma questa volta Clove non riuscì a comprendere cosa si nascondesse dietro di esso.

«Gli Sconfitti Sventurati» disse. 

Clove non rispose. Qualcosa – forse gli alberi, forse le Luminarie – le diceva di aspettare. Anche solo per un istante, anche solo per una volta.

E così, aspettò.

Non seppe esattamente quanto tempo trascorsero, lei e il ragazzo che aveva cercato di ucciderla, l’uno davanti all’altra, circondati dal silenzio e dalle luci di un’alba che ancora non sapeva di dover nascere. 

Poi, alla fine, il ragazzo parlò.

«Dicono che nessuno sopravviva davvero agli Hunger Games. Ma parlano sempre e solo di quelli che finiscono dentro l’arena. Io e te possiamo pure respirare, ma non siamo più vivi di mia sorella.»

E detto ciò, le volse la schiena e rientrò nel bosco.

Clove attese, incerta e scossa da sentimenti che non riusciva a decifrare, poi si incamminò per la stessa via di Dan. Prima che il sole sorgesse, erano entrambi rientrati nel gruppo.

E nella radura, la fredda lama di rasoio del pugnale restò a dare il benvenuto ai nuovi raggi del sole. 







L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ok. Quattro anni. È un po' di tempo, e io non ho nessuna scusa che non sia: sono successe un po' di cose, dal duemilaquindici. (Mi sa che ai tempi c'era ancora Obama, buon Dio...) In ogni caso, come potete vedere, questa storia è ancora qui. Come i suoi personaggi è stata maltrattata, dimenticata, lasciata a marcire in trincea con delle vaghe promesse e qualche pallida rassicurazione; ma ha stretto i denti, ha tenuto giù la testa ed è sopravvissuta fino ad oggi. Quello che vi posso dire è che ho stabilito quanti capitoli saranno in tutto (circa ventiquattro) e che voglio fare tutto il possibile per portare a casa questa strana matassa di pallottole, bombe e perdenti sventurati. Perché lo devo a tutte quelle anime disgraziate che hanno seguito questa storia e l'hanno vista interrompersi tutta d'un tratto, senza un perché. Dovunque ora siate e qualunque cosa ora stiate facendo, se ce la farò a finire è solo merito vostro.
E poi, come si può smettere ora che Clove e Dan per la prima volta non hanno cercato di uccidersi? 
A presto, Panem per sempre e tante care cose!  

 

 

 

 

 

 

 

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Ser Balzo