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Autore: ONLYKORINE    26/09/2019    2 recensioni
La storia partecipa al contest "Concorso di scrittura", con traccia: Sei un supercattivo o un supereroe?
Il nostro protagonista saprebbe perfettamente come rispondere, finché non incontra Cassandra che lo scombussola e gli fa fare cose strane tipo confessare che lui riesce a...
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seguii la donna fino allo sportello bancomat e aspettai che prelevasse. La osservai dall'altro lato della strada e la guardai fisso: ormai era un gioco da ragazzi. Sette-Quattro-Undici-Otto.

La gente ha metodi strani per ricordarsi le cose. Avevo letto la mente di tantissime persone in quei mesi e avevo scoperto che anche cinque numeri semplici come quelli del pin di un bancomat, hanno tanti modi di essere ricordati: chi li raggruppava a gruppi di due numeri più uno singolo, chi li divideva in uno da tre e uno da due, chi a caso, come questa donna elegante, e chi si ricordava i cinque numeri distintamente. Tutti, però lo pensavano mentre lo digitavano. Tutti. Era questa la mia fortuna.

Riuscivo a leggere nel pensiero della gente. Non era tanto che avevo scoperto di riuscirci. Mi bastava guardare qualcuno, concentrarmi e riuscivo a percepire i suoi pensieri. Con il passare del tempo ci avevo preso la mano e avevo capito come riuscirci per quello che mi interessava e ricavarci qualcosa.

La gente faceva i pensieri più strani. Davvero, nessuno pensava che qualcuno avrebbe potuto sentirli. Qualcuno come me.

Ho sempre auto paura di incontrare una persona capace di fare quello che sapevo fare io. Qualcuno in grado di leggere i miei pensieri, così se beccavo qualcuno che mi fissava, e a dir la verità era una cosa che mi capitava spesso, recitavo la poesia che ho imparato alle elementari, quella sulla figlia del poeta che giocava con la palla e prima di arrivare in fondo alla prima strofa, pensavo urlando: 'Brutto bastardo!' e lo osservavo per vedere se sul suo volto c'era stupore.

Come? È una cosa da scemi? Può essere. Ma ho sempre voluto essere sicuro. Quindi: o non ho mai incontrato qualcuno come me oppure fingeva molto bene.

Quando la donna si staccò dal bancomat, attraversai la strada velocemente per andarle incontro. Mentre lei si girava, la urtai contro la spalla e il suo braccio si spostò, stringendo forte il contante, che pensò le volessi rubare. Le sorrisi, nonostante l'occhiataccia che mi lanciò, perché tanto c'ero abituato.

"Mi scusi" dissi, fingendomi dispiaciuto. Lei annuì e strinse gli occhi. Conoscevo quel genere di persone. Si sentivano migliori di tutti. Migliori di me, specialmente. Mi toccai la fronte con la punta di un guanto e dissi ancora: "Buongiorno". 

La sua bocca divenne una linea piegata, brutta, odiosa. "Buonasera" mi corresse, pensando subito dopo: 'Pezzente'. Ero abituato anche a questo e, infatti, non mossi un muscolo. "A lei" risposi sorridendo e girandomi per andarmene.

Toccai in tasca il bancomat. Un'altra donna che si sarebbe accorta di aver lasciato il bancomat allo sportello.

Mi diressi in fretta verso la mia banca preferita per prelevare il denaro altrui. Digitai il pin che avevo spiato e prelevai il possibile. Intascai i duecento, mi incamminai verso il centro città e quando passai vicino alla banca di prima, infilai il bancomat nella fessura e aspettai che lo sportello se lo rimangiasse.

Guardai il cielo e sospirai quando infilai le mani nella tasca della felpa. Era una bella serata, fondamentalmente. Qualche ora e avrebbe fatto freddo, non era più inverno inoltrato ma le nottate non erano ancora neanche tiepide.

Andai verso il fast food più vicino, deciso a cenare. Sulla soglia, una giovane donna con in braccio un bambino chiedeva l'elemosina. La degnai appena di uno sguardo ed entrai nel locale. In cassa ordinai due Hamburger, delle patatine, del fritto e una birra in bottiglia. Con il vassoio in mano, camminai verso uno dei tavoli che davano sulla vetrata, mi sedetti, mi tolsi i guanti e scartai il primo panino.

Fuori c'era buio, ora. Guardai il cielo e sospirai, bevendo direttamente dalla bottiglia.

Sono sempre stato solo. Da ragazzino avevo avuto una famiglia, ma per lo più ero cresciuto per strada. Mio padre lavorava tutti i giorni, tutto il giorno, tornava a casa solo per urlare dietro a mia madre, cenare, ubriacarsi e crollare a letto. Mia madre piangeva quando mio padre era a casa e stava zitta tutto il tempo quando non c'era. Mio fratello maggiore se n'era andato da così tanto che non lo avrei riconosciuto neanche se si fosse presentato a casa mia.

Quando compii diciassette anni avevo troppa poca voglia di studiare e troppa di mettermi nei casini per continuare a vivere con i miei, così me ne andai. Dormii un po' da tizio e un po' da caio, ma presto, tutti mi fecero capire che fosse il caso di levar le tende.

Vivevo un po' per strada, un po' nei rifugi, un po' dove capitava. In quegli otto anni da solo avevo vissuto facendo piccoli lavoretti e rubacchiando. Soprattutto rubacchiando. Poi scoprii il mio dono. Era stato un caso. Non avevo capito subito.

Stavo guardando una ragazza, una bella ragazza a dir la verità, seduta su una panchina del centro commerciale che mandava messaggi con il cellulare. Io la guardavo e lei leggeva i messaggi che arrivavano dalla sua amica Daniela. E sapevo quello che le rispondeva perché lo pensava mentre scriveva.

Mi chiesi come mai lei parlasse così ad alta voce di tutti i fatti suoi, quando un ragazzo le si avvicinò e tentò di rimorchiarla. Riuscii a sentire benissimo tutto quello che lei diceva a lui e anche quello che invece pensava veramente. Era stata una rivelazione.

"No, mi spiace, ho già un ragazzo" disse.

'Non ho nessuna intenzione di uscire con te, idiota' pensò, invece.

"Frequento l'ultimo anno al Linguistico" disse ancora, mentre pensava subito dopo: 'Ho diciassette anni e sono stata bocciata due volte, ma tanto non lo scoprirai mai' quando capii che le sue labbra non si muovevano quando io sentivo i suoi pensieri, feci due più due.

Poi feci altri esperimenti. Provai a non guardare qualcuno per vedere se erano gli occhi che mi permettevano di leggere nella mente o cosa e scoprii di essere in grado di farlo anche solo toccando qualcuno o andandoci contro. Potevo essere molto vicino o toccargli una spalla o, ancora, guardandolo. Logicamente, guardare da lontano era l'ideale se si voleva fregare una persona, ma era molto più stancante.

Una volta provai a curiosare fra i pensieri di un cane, per vedere se funzionasse anche con gli animali. Lo accarezzai e mentre lui scodinzolava silenziosamente, sentii il suo abbaiare festoso che mi salutava e una strana sensazione mi si allargò nel petto, qualcosa che non avevo mai provato: contentezza. Mi ricordo che mi allontanai dal cane quasi di slancio: mi ero spaventato. Avevo sempre sentito i pensieri delle persone, ma mai delle sensazioni.

Feci altri esperimenti: se toccavo qualcuno, gli stringevo la mano o soltanto sfioravo la sua pelle, potevo sentire cosa provava. Se il sentimento era forte, lo percepivo anch'io nella sua potenza, come essere contagiati dalla stessa malattia, mentre invece, se il sentimento non era così intenso anch'io lo percepivo come un piccolo spiffero.

Un tipo mi passò di fianco con il vassoio e si sedette al tavolo di fronte al mio. Mi fece un cenno con il capo, come per salutarmi e iniziò a mangiare. Lo guardai distrattamente mentre con un boccone si divorò metà panino e si pulì con la manica della maglia che aveva indosso. Disgustato, voltai lo sguardo.

Quando mi alzai per buttare i rifiuti e gli passai vicino, notai che guardava verso l'entrata del locale: stava guardando la ragazza che chiedeva l'elemosina.

'Potrei portarla a casa mia. Sicuramente farà di tutto per un pasto caldo. Anche scaldarmi il letto' pensò, ghignando.

Non mi importava cosa avrebbe fatto. Non mi interessava sapere cosa dovesse fare quella ragazza per mangiare quella sera. La guardai attraverso il vetro. Non volevo sentire a cosa pensasse, ma vedevo il suo viso triste. Poi guardai ancora l'uomo.

Non sono fatti tuoi. Non ti interessa. Il mio mantra tornò alla carica.

Vuotai il vassoio nel sacco. Fatti i fatti tuoi.

Appoggiai il vassoio sugli altri. Voltati dall'altra parte.

Sospirai. Fregatene.

Sospirai ancora e tornai alla cassa.

Comprai due panini piccoli, una bottiglietta d'acqua e un succo di frutta. Me li feci infilare in un sacchetto, indossai i guanti prima di pagare e mi avventurai fuori. Effettivamente stava iniziando a fare freddo. Le allungai il sacchetto e lei mi guardò stralunata, poi ci guardò dentro e sorrise all'interno della busta, tirando fuori uno dei panini. Prima che io potessi dire qualsiasi cosa, lo divorò.

Non mi fece ribrezzo come immaginai, nonostante mi disse 'grazie' con la bocca piena. Feci un passo per andarmene quando la vidi spostare il bambino. Sospirai ancora. Non sono...

Misi a tacere il mio mantra e le dissi: "Vieni con me".

La ragazza spalancò gli occhi e scosse la testa. Le allungai una banconota da dieci e le dissi ancora: "Vieni con me", ma questa volta mi voltai e non aspettai la sua risposta.

La sentii alzarsi e seguirmi. Non rallentai il passo, ma controllai spesso che continuasse a essere dietro di me. Quando aprii la porta del rifugio di Rosa, la tenni aperta per farla entrare per prima. Lei entrò e si fermò nell'atrio dove Rosa, la responsabile, le sorrise.

"Cara, mi spiace, ma non abbiamo più posti. Puoi provare..." Rosa si interruppe quando mi vide. Mi fece un cenno che stava a significare "Lei è con te?" e io annuii. La donna sulla sessantina si avvicinò di più a noi e mise una mano sulla spalla della ragazza, guardando il bambino addormentato. "Ti troveremo un posto, allora. Vieni..."

La ragazza si voltò verso di me, mi salutò e mi ringraziò. Ma non aprì mai la bocca, se non per rispondere alla mia amica Rosa.

"Ciao, mi fa piacere vederti. Come stai?" mi chiese quando tornò, da sola. "Sto" risposi io, alzando le spalle.

Rosa si era occupata di me, molto più di quanto aveva fatto la mia vera madre. Dopo cinque minuti di chiacchiere, mi girai per andarmene. "Sei un bravo ragazzo, stai lontano dai guai" mi salutò lei.

"Sono loro che mi vengono a cercare, lo sai" risposi, come sempre. Lei mi lanciò un'occhiataccia affettuosa e un sorriso le disegnò le labbra. La stavo ancora guardando quando qualcuno mi urtò, entrando di corsa nel rifugio.

Una strana sensazione si impossessò di me. Un misto di inquietudine e di terrore, come quando vidi di nascosto il mio primo film horror, da ragazzino. Sorpreso, tornai verso  Rosa e la persona che era entrata. Era una ragazza, pressappoco della mia età.

"I miei guanti! Ho lasciato qui i miei guanti, li avete trovati?" esclamò. La osservai bene, per capire chi potesse mai essere da avere così tanta paura. Rosa le rispose che non avevano trovato niente e sentii i suoi pensieri urlare di dolore. Non mi era mai successo. Lei stava urlando. Nella sua mente. Non doveva essere tutta a posto.

"Mi spiace, Cassandra, non abbiamo trovato i tuoi guanti..." Mi avvicinai ancora. La ragazza era in stato confusionale, l'avrei capito anche senza leggerle i pensieri.

"I miei guanti..." Ora era sconsolata. Sentii il vuoto e un bruttissimo senso di impotenza. Mi sentivo solo e per un attimo il buio mi circondò, avvolgendomi a spirale. Dovetti fare uno sforzo tremendo per non cadere per terra. Mi sentivo esausto. Ma... chi era quella ragazza? E come faceva a sopportare tutto questo?

"Cassandra, sei andata in ospedale? Ti sei fatta dare le medicine..." Rosa venne interrotta dalla ragazza che si infuriò: "Non sono malata! Non prenderò le medicine!"

Preoccupato per tutte e due, cercai di mettermi in mezzo per dividerle, ma quando allungai un braccio verso la mano della ragazza lei gridò: "Non toccarmi!"

Mi immobilizzai da quello che pensò subito dopo: 'Ti prego, non toccarmi. Ti prego, non lo fare'. 

Era una supplica e io non avevo mai alzato le mani su una donna. Mai. La mia mano si fermò a mezza via e dissi, stupito: "Non ti tocco. Scusami, non volevo spaventarti".

Lei annuì, poi tornò a parlare a Rosa: "Sono uscita adesso dall'ospedale, ma ho bisogno dei miei guanti..." Si passò una mano fra i capelli biondi e li scompigliò, sospirando. Le sue mani erano piccole e pallide.  Sentivo ancora quell'inquietudine che l'artigliava. Dannazione, ero scombussolato io. Chissà come stava lei...

Quando mi passò di nuovo accanto per uscire dal rifugio, mi lanciò uno sguardo tanto blu quanto disperato e si allontanò da me. Continuai a guardarla e mentre spingeva la porta con la spalla la sentii pensare "Il ponte. Il ponte di Mezzo. Mi butto di sotto. E sarà finita questa storia assurda".

Mi spaventai. Tante volte sentivo i pensieri di persone a cui era andato male qualcosa dire che sarebbero scappati di casa, avrebbero ucciso qualcuno o si sarebbero uccisi. Ma mai nessuno con quell'intensità. Mai nessuno aveva creato il buio dentro di me. Non avevo mai incontrato qualcuno che pensasse davvero di farla finita. Fino a ora.

Salutai di nuovo Rosa e rincorsi la ragazza. Ma doveva essere stata velocissima, perché fuori dal rifugio non la vidi. Mi guardai intorno e la scorsi mentre camminava velocemente lungo la strada. Verso il ponte di Mezzo. Sapevo dov'era quel ponte, così la rincorsi in mezzo alla gente e alle macchine per raggiungerla.

Lei doveva essere molto più in forma di me, perché riuscì a seminarmi più o meno a metà strada. Arrivai al ponte, un po' isolato e ormai deserto a quell'ora e lo attraversai non sapendo bene se sperare di incontrarla o meno.

Quella ragazza, Cassandra, mi aveva incuriosito. Era l'unica che mi avesse scosso, che mi avesse fatto provare una sensazione così forte anche se così oscura. Mi sentivo intrappolato. Continuavo a vedere i suoi occhi, a vedere quello sguardo senza speranza che mi fissava, come a volermi accusare. Accusare? E di cosa poi? Mica era colpa mia se lei era... Era cosa? Malata? Forse. Rosa aveva parlato di medicine. Ma io ero stato vicino a persone malate di mente, avevo visto i loro pensieri e le loro sensazioni. Non erano così. Lei non era malata. Era... disperata? Forse sì. Sembrava inconsolabile, come se sapesse che nessuno avrebbe potuto comprenderla.

Così fu con gioia e sgomento che la vidi in fondo al ponte, vicino alla balaustra in pietra a guardare giù. Mi fermai a osservarla.

'Non voglio buttarmi, diamine. Non voglio. L'acqua è così buia e c'è così freddo... Non... Ma che alternative ho? Tutti mi credono pazza. E se fossi pazza davvero? Forse dovrei farlo e smetterla di pensarci. Buttarmi giù e farla finita... Forse... O forse potrei andare a parlare con quel dottore al consultorio... era l'unico che mi aveva creduto. O magari ha fatto finta... Magari anche lui...'

Per la prima volta in vita mia, mi sentii uno spione. Non avrei dovuto leggerle la mente, non con pensieri così intimi, ma volevo davvero aiutarla. Avrei potuto fare qualcosa per lei? Beh, di sicuro avrei potuto evitare che si buttasse giù dal ponte. Feci un passo avanti e parlai.

Fu un errore. Lei si spaventò della mia presenza, appoggiò una mano sulla balaustra e vidi il suo viso deformarsi. Quando le sue dita toccarono la lastra di pietra, spalancò la bocca e gli occhi, come se fosse stata scossa da dentro. Quando iniziò a tremare, mi spaventai anch'io e la raggiunsi velocemente. La presi per le spalle e la staccai dal freddo parapetto.

I suoi occhi tornarono normali e la sua bocca si richiuse, leggermente, accostando appena le labbra fra di loro. Rimasi un attimo di troppo a osservarla. Ma anche lei rimase senza parole per un po' e poi sussurrò: "Mi stai toccando".

La lasciai andare di scatto. Lei non voleva essere toccata. "Scusami" dissi, facendo un passo indietro. Annuì senza dire niente. "Non ho i miei guanti..." disse ancora. Sembrava meno sconvolta di quando era al rifugio, ma comunque spaesata.

Scossi la testa senza capire e le chiesi: "Vuoi i miei?", facendo il gesto di toglierli. Lei non poteva saperlo, ma quell'offerta era molto di più di quello che sembrava. I guanti mi servivano per proteggermi da ciò che non riuscivo a controllare. Erano i miei guanti da supereroe. Li chiamavo così perché se ero io a scegliere o meno di leggere nella mente delle persone, le mie mani non avevano controllo, se toccavano qualcuno, non potevo evitare di venire investito da emozioni altrui. I guanti erano l'unico modo per difendermi. Per isolarmi. Privarmi di tale protezione era un grosso rischio, per me.

Lei scosse la testa mentre li allungavo nella sua direzione e io dissi ancora: "Non buttarti, per favore". Sembrava una supplica. Forse lo era.

Cassandra alzò lo sguardo su di me e, alla luce dei lampioni vidi le sue guance farsi rosse. Bene. Se provava vergogna, voleva dire che ci aveva ripensato. "Non volevo buttarmi" sostenne, guardando il fiume.

Quasi risi. L'avevo seguita fin lì e le avevo offerto ciò che avevo di più caro per non farle fare una brutta scelta e ora lei negava. Ma andava bene così. Annuii. "Bene. Andiamo a prendere un caffè? O un tè? Qualcosa di caldo?"

Lei alzò gli occhi su di me e io vidi qualcosa di simile alla gratitudine. Neanche ci feci caso, ma lo capii senza sentire i suoi pensieri. "Sei una persona gentile" disse Cassandra, incredula, incamminandosi vicino a me lungo il ponte.

Scossi le spalle e, come prima, non cercai di sentire quello che stesse pensando, ma camminai pacificamente vicino a lei. Mi sentii in pace. Anche lei sembrava più tranquilla.

"Posso chiederti perché ti servono proprio i tuoi guanti?" le chiesi. Lei non si voltò verso di me, ma rispose con un'altra domanda: "Perché porti i guanti in aprile?" questa volta sentii io le guance arrossarsi. Mi aveva beccato. Io portavo i guanti anche in agosto. Perché non era il freddo che volevo tenere fuori.

Ma questa volta non volevo tenere qualcosa fuori. Qualcosa mi spinse a raccontarmi, a fidarmi di lei. Di Cassandra. Feci per prenderle la mano, scordandomi che lei non volesse essere toccata e quando la sfiorai, lei indietreggiò con la mano a mezz'aria.

Non seppi stare zitto e chiesi ancora: "Perché hai paura di me?" 

In fin dei conti, mi sembrava di averle mostrato di valere la sua fiducia. Lei sospirò profondamente e sussurrò: "Non ho paura di te. Ho paura di quello che vedo quando tocco le cose, o le persone".

Come? Mi stupii. Cosa vedeva? "Perché? Cosa vedi?" chiesi ancora. Possibile? Possibile? Avevo trovato qualcuno che sentiva quello che sentivo io? Poteva leggere la mia mente? Pensai una cosa stupidissima che non avrei mai detto ad alta voce, solo per capire se potesse farlo. Ne pensai tre o quattro, a dir la verità, una più brutta dell'altra e finii con una proposta sconcia che anche Rosa mi avrebbe schiaffeggiato se avesse assistito alla scena. Ma lei, Cassandra, non si mosse e il suo viso non mutò: non mi aveva sentito.

Cercai di non rimanerci male. Ma il mio viso dovette lasciar trapelare quello che pensavo, perché lei si morse il labbro inferiore e mi guardò con tristezza. "Non mi crederesti".

Mmm. E chi lo sa, anch'io riuscivo a fare cose per cui non mi avrebbe creduto nessuno. "Mettimi alla prova".

Cassandra, oramai era diventata Cassandra e il suo nome risuonava dentro di me come le canzoni di Natale nei negozi a dicembre, fece un passo verso di me e mi toccò una mano. A dir la verità, mi toccò il guanto, ma comunque fu quello che fece: mi toccò.

"Hai dato un sacchetto a una ragazza seduta per terra. Hai dato dei soldi a un tipo con le mani callose. Hai comprato un giornale. Hai schiacciato il bottone del passaggio pedonale a un semaforo. Hai scritto cinque numeri su un pezzetto di carta. Aspetta... Hai, per caso, rubato una tessera bancomat?"

Il suo sopracciglio sinistro si alzò mentre mi faceva quella domanda e io feci un passo indietro. Aveva visto tutto. Avevo fatto tutte quelle cose. La cena alla ragazza del fast food, l'affitto del mio monolocale a Ernesto, l'attraversamento di via Rione, il pin di quell'idiota che pensava al contrario. Tutte le cose che avevo fatto con i guanti. Il suo sorriso divenne triste. "Adesso dirai che sono matta. Perché vedo cose che non fanno piacere e nessuno mi crede. Deve essere colpa del mio nome..."

Ero così stupito che non mi accorsi neanche di leggerle i pensieri. 'Sei proprio come tutti gli altri. Peccato'.

"Non sono come tutti gli altri. Cosa hai visto quando hai toccato la balaustra, al ponte?" chiesi. Cassandra spalancò gli occhi "Come hai fatto..."

Ma non volevo spiegarglielo, non ancora. "Cosa hai visto? Sei quasi svenuta, sei stata... male" sussurrai avvicinandomi.

"Sto sempre male. Ho visto Vittorio, un uomo che è salito sul parapetto e si è buttato nel fiume perché aveva perso il figlio e non riusciva a gestire il dolore. Ogni volta che tocco qualcosa, vedo qualcosa che mi fa stare male. Sempre. Ho bisogno dei miei guanti per non stare così."

Riuscivo perfettamente a crederle. E riuscivo anche a capire il problema dei guanti. Ero sorpreso, sorpreso e contento per aver trovato una persona come me e allo stesso ero preoccupato, perché non mi era piaciuta per niente quando aveva toccato la pietra là al ponte.

Però... Però "Non sei stata male quando hai toccato i miei guanti" Cassandra spalancò gli occhi. Probabilmente, presa dal nervoso o chissà da quale emozione, non se n'era accorta.

"No, hai ragione" disse, dopo un po' "di solito sto male anche quando al bar tocco il bicchiere e scopro che non l'hanno lavato ma sciacquato sotto l'acqua corrente".

Cassandra fece una smorfia e poi incrociò le braccia al petto "E invece tu come hai fatto a sapere cosa stavo pensando?" Oh. Giusto.

Lei stava ancora aspettando. "Penserai che sia matto" . 

Sorrisi, usando le sue stesse parole. Il suo viso si tinse di tenerezza e sorrise a sua volta. "Mettimi alla prova". 

Risi, quando disse esattamente quello che avevo detto io.

***

"Così sei un supereroe..." disse Cassandra giocando con il bicchiere, seduta sul divano del mio monolocale.

Le avevo spiegato tutto, quello che mi succedeva e anche, con vergogna, quello che facevo con il mio dono. Lei mi aveva raccontato del suo, di dono e di come lei lo vivesse male. Le spiegai un po' come facevo io a gestire i pensieri e ci scambiammo aneddoti, consigli e pareri. Fu una serata piacevolissima e, per una volta, non dovetti sforzarmi di essere quello che non ero.

"Solo perché leggo nel pensiero?" La guardai di sottecchi, mentre fingevo di raccogliere qualcosa da terra. Ero imbarazzato, nessuno mi avrebbe mai definito un supereroe.

"Stasera mi hai salvato, avevo pensato davvero di buttarmi" sussurrò ancora, confidandosi con me. Annuii senza dire niente perché lo sapevo. Ma avevo visto anche quanto era forte e glielo dissi. Per un po' nessuno parlò più, ma poi lei mi disse: "Ok, hai il mio permesso, guarda dentro di me".

Sorrisi perché era veramente una cosa strana da dire e anche da fare effettivamente, ma, visto che avevo il suo permesso, ascoltai i suoi pensieri: 'Posso toccarti, adesso?'

Quando alzai le mani verso di lei, per permetterle di toccarmi, lei le spostò e posò le sue piccole mani sulle mie guance. Aspettammo insieme la sua reazione e quando chiuse gli occhi un po' mi preoccupai, ma lei si avvicinò e mi baciò.

"Mi hai baciato perché dici che ti ho salvato?" le chiesi quando ci staccammo.

"Ti ho baciato perché sei il mio supereroe e chi è che non vorrebbe baciare un supereroe?"

E posò di nuovo le labbra sulle mie.

 

   
 
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