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Autore: lagertha95    02/10/2019    3 recensioni
Bellarke AU
Lo Spaceship è una sala giochi nello stato di Arkadia.
Bellamy e Clarke giocano allo stesso gioco, alla stessa postazione, in orari diversi ma consecutivi.
Si incontrano, entrano in contatto, si conoscono.
Non è tutto rose e fiori, all'inizio non si piacciono neanche perchè sono "nemici" e ogni giorno cercano di battere il record dell'altro a Tetris, ma alla fine - inevitabilmente - scopriranno di essere innamorati l'uno dell'altra e nonostante qualche intoppo riusciranno a superare tutti gli ostacoli.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: AU, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti/e!
Sono Lagertha e sono nuova nel fandom.
Ho avuto adesso, dopo tantissimo, il tempo per dedicarmi ad una serie.
The 100 mi ha completamente assorbita e - come era scontato - mi sono innamorata della Bellarke (e soprattutto di Bellamy).
Spero che questa piccola cosa, forse la prima di tante altre più complesse e più lunghe, possa piacervi.
Vi allego anche il link della canzone che, in parte, l'ha ispirata e da cui sicuramente trae il titolo la mia storia.
Detto questo vi auguro buona lettura e spero che vorrete eventualmente farmi sapere se la storia vi è o meno piaciuta.

Baci, Lagertha


https://www.youtube.com/watch?v=MQZjkKQGChU


Tetris
 
Tu eri per me
il pezzo del tetris longilineo
quello che lo aspetti una vita,
ma finalmente quando arriva,
ti risolve tutto.

 

Bellamy era questo per Clarke: pezzo del tetris longilineo.
Amava fin da piccola passare le giornate a giocare ai videogiochi anni ‘80 del padre.
Ad Arkadia c’era fortunatamente una sala giochi, probabilmente l’unica dello Stato, che fosse fornitissima per quanto riguardava i videogiochi: qualunque tu cercassi, lì lo avresti sicuramente trovato.

Si erano conosciuti proprio allo Spaceship, litigando perché lui, già ubriaco, le era andato addosso rovesciandole l’intero negroni sul vestitino di jeans che lei indossava.
Da quel giorno, ogni volta che si incontravano allo Spaceship, lui si inchinava lasciandole libero il passaggio e sussurrando un “Ben arrivata Principessa” mentre lei lo ignorava bellamente.
Aveva imparato che avevano orari diversi: quando lei arrivava per giocare, lui aveva generalmente già finito le sue partite ed era già piuttosto avanti con il bere. Non si trovavano mai insieme alla postazione di gioco che avevano scoperto essere la stessa. Fortunatamente, pensava Clarke, che non avrebbe tollerato la presenza del ragazzo in un momento così importante della sua giornata.
Poi però un giorno era successo. Clarke era in anticipo ed evidentemente Bellamy era in ritardo, perché arrivarono nello stesso identico momento allo Spaceship, lui la fece entrare per prima, ma Clarke lasciò che si sedesse lui per primo. Quella era la loro regola non scritta: alla postazione numero 100, giocava prima Bellamy, poi Clarke.
E quello che aveva dato da pensare a Clarke è che quel gesto non le era affatto pesato: era stato naturale come lo era indossare l’orologio che le aveva regalato suo padre, come lo era sedersi a gambe incrociate sulla poltroncina e legarsi i capelli in una mezza treccia totalmente disordinata. Prima Bellamy, poi Clarke. Così era e così sarebbe stato sempre.
 

Tu eri per me
la terza dell’accordo,
la nota più importante,
che decideva la sorte
delle mie giornate vuote.

 

Clarke era questo per Bellamy: la terza dell’accordo.
Bellamy si era ritrovato a dover condividere la sua postazione con quella ragazzina dai capelli biondi e mossi che arrivava ogni pomeriggio alle 18, quando lui si era appena alzato dalla poltrona che quindi era ancora calda quando la Principessa – come l’aveva ribattezzata Bellamy dopo il loro primo rovinoso incontro in cui tutto il negroni di Bellamy era finito sul vestitino di Clarke – si sedeva.
Eppure quando iniziava a bere, i suoi occhi non si staccavano da lei e la osservavano finché non smetteva di giocare e, così come era arrivata, se ne tornava a casa.
Quando a notte fonda tornava a casa e iniziava a scribacchiare note, Bellamy si era ritrovato a pensare a lei ogni qualvolta si era trovato bloccato nell’ispirazione.
Octavia rideva e lo prendeva in giro chiedendogli chi fosse la bella a cui lui pensava in modo così assorto quando nel bel mezzo della stesura di una canzone o di una melodia si trovava bloccato.
Poi un giorno era successo che con il suo gruppo fosse andato a suonare in un locale, che stesse per l’appunto suonando la canzone che aveva intitolato Princess quando lei era entrata, in un vestito di maglina leggera che la fasciava perfettamente. Si erano guardati e Bellamy aveva quasi perso il ritmo, ma lei aveva sorriso e lui si era ripreso, continuando a suonare per il resto della serata.
Alla fine, quando era uscito dal locale con una birra in mano per fumarsi una sigaretta, l’aveva trovata lì fuori, appoggiata al muro, quasi fosse in attesa di qualcosa.

“Ehi” le aveva detto. “Com’è andata oggi allo Spaceship?”

Non si erano mai presentati, nonostante condividessero la stessa identica postazione.

“Bene, ho di nuovo battuto il tuo record.” aveva ghignato lei in risposta.

“Domani ne avrai uno nuovo da battere Principessa, non aver paura.”

Avevano riso insieme, finché lei, schiarendosi la voce, aveva detto “Mi chiamo Clarke, comunque.”

“Bellamy” aveva risposto lui, tendendole la mano.

“Il fratello di Octavia?” aveva chiesto Clarke guardandolo mentre stringeva quella mano forte ed elegante.

“Proprio io. Come la conosci?”

E avevano iniziato a parlare, a raccontare di come Clarke avesse conosciuto Octavia, di come lui avesse cresciuto la sorella.
A Bellamy era venuto naturale parlare con lei e quella sera, per la prima volta, era tornato a casa sereno, addormentandosi immediatamente e dormendo un sonno privo degli incubi che lo tormentavano ormai da anni.

 
Tu eri per me
La bestia più feroce
Che si riesce a domare solamente sotto voce
La bestemmia di un credente
Quando urta un comodino
La preghiera di un agnostico
Di fronte al grigio di un mattino
Invernale
Infernale
 


Si stavano urlando addosso come mai avevano fatto.
Erano fuori dalla sala giochi e Clarke era furente. Bellamy non capiva e urlava di risposta senza capire che stava solo peggiorando le cose.
Clarke era riuscita ad ammettere a se stessa e ad Octavia – ormai parte integrante della sua vita – che forse era innamorata di Bellamy.
Erano mesi e mesi che condividevano la stessa postazione allo Spaceship e che lei lo andava a vedere ad ogni concerto, anche a quelli fuori città, soltanto perché lui glielo chiedeva.
E quella sera, quando lo aveva visto flirtare con quella smorfiosetta di Echo, Clarke era impazzita.
Non ci aveva proprio visto più.
La mano di Echo che strofinava languidamente il braccio di Bellamy.
Le dita di lei che gli spostavano un ciuffo ricciuto e ribelle dalla fronte.
Gli occhi con cui lei lo guardava.

Per Clarke era stato troppo, con uno sguardo gli aveva fatto capire che dovevano parlare e senza aspettarlo si era avviata fuori dalla sala giochi.
Lui l’aveva raggiunta – e fortunatamente, aveva pensato Clarke, altrimenti la situazione sarebbe precipitata ancora di più – e le aveva chiesto che cosa fosse successo.
Clarke aveva cominciato a tempestarlo di domande: chi era quella tipa, come si erano conosciuti, come mai lo toccava in quel modo, che cosa ci fosse tra loro.
Bellamy si era limitato a rispondere che si erano conosciuti in università, che lei era una compagna di corso, che lo toccava in un modo assolutamente normale, che avevano iniziato a frequentarsi.
Clarke si era zittita e lo aveva guardato con gli occhi pieni di lacrime. Non si spiegava quella reazione, o meglio, se la spiegava, ma non voleva che lui la vedesse così. Ormai però era tardi. A Bellamy non erano sfuggiti gli occhi gonfi e lucidi, né il modo nervoso in cui si tormentava le mani.

“Che cosa c’è Principessa? Ti sei innamorata di me?”

Clarke era scoppiata a piangere e tra un singhiozzo e l’altro gli aveva urlato che sì, forse aveva creduto di essere innamorata di lui, ma che evidentemente non era il caso e lei non aveva tempo da perdere con un idiota.
Poi si era voltata e se ne era andata a passo di marcia, le spalle che – Bellamy lo vedeva benissimo – continuavano ad essere scosse dai singhiozzi sempre più forti che Clarke cercava senza successo di trattenere.
Eppure non l’aveva seguita. Non era andato da lei a consolarla. L’aveva lasciata da sola e sola Clarke era arrivata a casa, si era buttata sul letto, aveva ignorato tutti i messaggi da parte di Octavia e aveva pianto fino a che, stremata, non si era addormentata.
 
E scusa se ti dico certe cose
Ma a qualcuno devo dirle
E l'unico qualcuno che conosco sei tu
E hai soffiato dentro al mio cuore
A forma di armonica
Hai seminato vento e raccolto energia eolica
I tuoi piuttosto e i tuoi abbastanza
Non fermeranno certo il vulcano che erutta sopra al mio viso scoperto
Tutto iniziò con uno sposami detto con indifferenza
Ed è finito con un piacer di far la tua conoscenza
Oh magari incoscienza eh

 

Bellamy non aveva più visto Clarke da quella sera.
Octavia gli aveva detto che la ragazza era partita, che era andata a trovare dei parenti da qualche parte lontano da lì, ma sua sorella non era mai stata capace di mentire e gli occhi pieni di dolore con cui rispondeva alle sue domande per Bellamy erano il chiaro segno che Clarke lo stava solo evitando.
Ogni tanto sua sorella spariva e Bellamy sapeva perfettamente che andava da Clarke e soffriva nel non sapere come stesse la ragazza.
Non si era granchè fermato a pensare che cosa provasse la ragazza per lui e neanche che cosa provasse lui per lei. Aveva capito ed era riuscito ad ammettere a se stesso che se gli dava così fastidio non vederla per giorni – per settimane, ad essere precisi – probabilmente qualcosa doveva voler dire, ma non sapeva con precisione cosa stesse accadendo dentro di sé.
Però qualcosa stava accadendo e lui sentiva di doverglielo dire.
Aveva seguito Octavia, un pomeriggio che era uscita, e l’aveva vista incontrarsi con Clarke.
Era rimasto sconvolto: la ragazza era dimagrita e appariva sciupata. Aveva i capelli tirati su in uno chignon disordinato e non emanava la luce che lui si era abituato a vederle indossare.
Aveva visto le due ragazze parlare in modo concitato, come se Octavia stesse cercando di dirle qualcosa, di spiegarle, ma Clarke scuoteva la testa, quasi tappandosi le orecchie. Non voleva saperne.
Alla fine Octavia se ne era andata e Clarke era rimasta seduta al tavolino del bar. Si era accesa una sigaretta e aveva ordinato qualcosa ad un cameriere che era passato. Bellmay era rimasto ad osservarla, avvicinandosi inconsapevolmente un passo alla volta.
Al tavolino era arrivato un bicchiere pieno di vino rosso fino all’orlo e Bellamy aveva notato che il cameriere non si allontanava di molto, tenendola d’occhio. Gli aveva dato fastidio. Non gli piaceva che qualcuno la guardasse in quel modo, tenendola d’occhio, quasi si preoccupasse per lei.
Lui si preoccupava per lei, lo poteva ammettere a sé stesso, e gli dava fastidio che qualcun altro si preoccupasse per lei.
Si avvicinò con decisione. Clarke non si accorse di lui finché non spostò la sedia e non si sedette.

“Che cosa ci fai qui?”

“Sei messa male. Che cosa ti è successo?”

Clarke fece un sorriso sghembo, di quelli che appartenevano a lui e lo guardò con gli occhi azzurri cerchiati di viola.

“Sto male. Mi hai fatto male tu e mi sono fatta male io. Ma non importa, i sentimenti non possono essere imposti.”

“Tu non mi hai neanche fatto parlare, Clarke.”

“Per sentirmi dire cosa? Che sono la ragazza dello Spaceship? Che sono l’amica di tua sorella che viene a vederti ai concerti?” una risatina isterica, un tiro di sigaretta e un sorso di vino e poi tornò a guardarlo “No grazie. Non voglio sentire cose del genere, neanche se sono vere. Mi riprenderò, sono abbastanza forte. Piuttosto che starti vicino e soffrire per un tempo indefinito preferisco soffrire tanto in una volta e poi riprendermi una volta per tutte.”

“Non mi stai facendo parlare neanche adesso, Principessa.”

Bellamy aveva iniziato a parlare a ruota, senza permetterle di fiatare. Era come un vulcano: fino a quel momento si era trattenuto, ma alla fine era esploso, eruttando.

“Tu non mi fai mai parlare. Tu vai dritta per la tua strada senza curarti di chi ti sta intorno. Tu sei stata ferita, hai ragione, ti ho fatto male, ma non mi hai ascoltato. Hai preso e te ne sei andata. Sono settimane intere che non ti vedo e che Octavia mi mente, ma adesso basta.” prende fiato, la guarda negli occhi e riprende a parlare. “Ti ho fatto male e mi dispiace, ma che cosa avrei potuto fare? Dirti che non era così per me? Avrei mentito Clarke. Non so che cosa io stia provando per te, ma so che mi dà fastidio che tu mi eviti, che il cameriere lì all’angolo ti stia con gli occhi addosso da quando sei arrivata, mi dà fastidio non sapere come stai e non vederti. Io non so che cosa sia, ma ti prego, non andartene così di nuovo.”

Tu eri per me
La consapevolezza
Che con l'aiuto del tempo anche un Magikarp è in grado
Di diventare Gyarados
Tu eri per me
Scampare a mille incubi
Ma rimanerci secco al primo sogno apparso
Lungo la mia strada

 

Clarke aveva subito lo sfogo di Bellamy per un tempo indefinito, ma sicuramente lunghissimo.
Se ne era rimasta zitta a guardarlo, perché lui tutto sommato aveva ragione: non lo aveva lasciato parlare, lo aveva aggredito, urlandogli addosso, vomitandogli addosso tutto quello che aveva da dire senza ascoltare una delle parole che lui era riuscito ad inserire tra un grido e l’altro.

Il cameriere a cui il ragazzo aveva fatto riferimento se ne era andato, lasciandoli soli al tavolino.
Poi la pioggia aveva iniziato a cadere, bagnandoli, e loro due erano scappati correndo verso casa di Bellamy perché era la più vicina.
Quando erano arrivati a casa erano zuppi e avevano lasciato una scia di acqua sul pavimento in parquet dell’appartamento del ragazzo.
Bellamy le aveva detto che poteva andare a fare una doccia mentre lui avrebbe preparato un the.
Clarke era uscita dal bagno avvolta nell’accappatoio del ragazzo e gli aveva chiesto se avesse qualcosa da darle per mettersi addosso mentre i suoi vestiti erano ad asciugare. Bellamy aveva annuito in silenzio ed era tornato in fretta con un paio di pantaloni della tuta e una t-shirt bianca che a Clarke sarebbe sicuramente andata larga.
Lei li aveva presi, mormorando un grazie e si era di nuovo chiusa in bagno, uscendone poco dopo.
Aveva notato lo sguardo di Bellamy su di sé e aveva visto che era arrossito, eppure lei non si sentiva sexy né altro con quei vestiti da uomo addosso.

Si erano seduti sul divano, a guardare la tv e a sorseggiare il the che aveva preparato Bellamy, in silenzio.
Clarke si era addormentata velocemente perché erano giorni che non dormiva bene, giorni in cui aveva gli incubi, in cui sognava la morte di suo padre – era caduto fuoribordo durante una crociera con la madre e lei, che era appena adolescente – e Bellamy che le diceva che lei non era niente, che non sarebbe mai stata niente, che era solo un’insulsa ragazzina viziata che aveva creduto di essere di più.
Bellamy non l’aveva svegliata. L’aveva lasciata dormire – e sbavare con molta grazia le avrebbe detto poi – appoggiata alla sua spalla, nonostante gli facesse male, e l’avrebbe fatto finché lei avesse voluto.
Quando si era svegliata era ormai notte inoltrata. Bellamy era ancora seduto accanto a lei, la testa indietro appoggiata alla testiera del divano. Russava leggermente ed appariva terribilmente innocente.

Clarke lo aveva osservato, imprimendosi tutti i tratti possibili nella mente per poi ritrarlo una volta arrivata a casa.
Gli aveva spostato i capelli dalla fronte, sfiorandogli la pelle scura con le dita, contando le lentiggini che costellavano il naso e gli zigomi del ragazzo che era capitato in mezzo alla sua strada completamente inaspettato.
 

Tu eri per me
L'assenza per Bresson
La corrida per Hemingway
E la rivoluzione per Danton
Il fischio del treno per Belluca mi hai scandalizzato
Come la Carrà in Rai col tuca tuca

 

Nonostante tutto quello che era successo tra loro – ovvero niente, in fin dei conti – Bellamy e Clarke non erano ancora giunti a nessuna conclusione.
Che cos’erano?
Bellamy se lo chiedeva spesso, guardando la ragazza seduta sul suo divano a leggere.

Avevano iniziato a vedersi come due ragazzi normali, ragazzi che non avevano affrontato nessun litigio ancora prima di stare insieme.
Passavano serate intere a guardare film d’autore. Aveva scoperto che Clarke conosceva il francese così le aveva chiesto di insegnarglielo per poter guardare i film di Bresson, che piacevano ad entrambi.
Altre volte passavano il pomeriggio a leggere, ognuno con un libro, lui all’angolo del divano, lei con le gambe distese e la schiena appoggiata a lui che con una mano reggeva il libro e con l’altra l’abbracciava.
Octavia si era abituata alla visione del fratello e dell’amica sul divano a leggere, ognuno perso nel proprio mondo, vicini e lontani contemporaneamente eppure così adattati l’uno all’altra.
Li osservava per qualche minuto, finché, scuotendo la testa, non se ne andava, lasciandoli lì, protetti, immersi nel loro mondo.

Passavano intere ore insieme, in silenzio, a contatto. Nessuno dei due richiedeva di più. Il contatto fisico bastava ad entrambi, anche se a volte smaniavano per avere qualcosa di nuovo, ma avevano paura.
Clarke aveva sconvolto la vita di Bellamy e lui aveva sconvolto quella di lei, ma nessuno dei due se ne era reso conto fino in fondo e per ora tutto andava bene così.
Avevano iniziato con i fuochi d’artificio, urlandosi addosso ancora prima di conoscersi e poi tutto era stato un avvicinarsi lentamente e con cautela, prendendosi le misure, per poi litigare di nuovo, a caso, e adesso erano arrivati a questo: stare insieme, conoscersi, imparare a rispettarsi, imparare a venirsi incontro, confrontarsi e godere dei momenti passati insieme e della pace.
 

E scusa se ti dico certe cose
Ma a qualcuno devo dirle
E l'unico qualcuno che conosco sei tu
E hai soffiato dentro al mio cuore
A forma di armonica
Hai seminato vento e raccolto energia eolica
I tuoi piuttosto e i tuoi abbastanza
Non fermeranno certo il vulcano che erutta sopra al mio viso scoperto
Tutto iniziò con uno sposami detto con indifferenza
Ed è finito con un piacer di far la tua conoscenza
Oh magari incoscienza eh

 

“Ti amo”

A Bellamy era uscito così, d’istinto, in un momento in cui forse non avrebbe dovuto dirlo perché lei avrebbe potuto intenderlo come un ringraziamento e non come una dichiarazione di sentimenti che lui provava.
Come al solito però Clarke lo aveva sorpreso e compreso ed aveva risposto, sorridendo e strofinando il naso al petto nudo del ragazzo che stava, nudo, disteso accanto a lei tra lenzuola bianche e fresche.

“Ti amo anche io, idiota.”

Le aveva baciato i capelli biondi e profumati che ogni tanto odiava perché quando dormivano rischiava di mangiarli. Aveva ringraziato non sapeva neanche lui bene chi per avergliela fatta incontrare.
Stavano insieme ormai da un anno. Gli screzi non mancavano, le discussioni neanche, ma alla fine riuscivano sempre a riappacificarsi e senza grandi dimostrazioni tornavano alla loro tranquillità.
Quello che era bello, a parere di Octavia e degli altri che man mano si erano aggiunti al gruppo, era che Bellamy e Clarke erano complementari e inconciliabili allo stesso tempo e che probabilmente avrebbero finito per restare soli, se non si fossero trovati.
Lei era pignola, abitudinaria, leggermente prepotente e terribilmente razionale.
Lui era un leader nato, terribilmente prepotente, decisamente poco pignolo e adattabile.
Entrambi amavano come se ogni volta ne andasse della loro stessa vita e trovandosi erano arrivati alla pace, più o meno.
 

Tu eri per me
ciò che l'effetto Dunning-Kruger è per Kanye West
Tu eri per me
ciò che per gli anni 90 è stato Friends
Mi rifugiavo nei tuoi occhi per ore
E mi sentivo una persona migliore
Mi rifugiavo nei tuoi occhi per ore
E mi sentivo una persona migliore

 
Clarke era capace di perdersi negli occhi di Bellamy per un tempo incalcolabile.
Non riusciva a capire perché, ma ogni volta che lo guardava si sentiva meno sola al mondo, si sentiva compresa, si sentiva protetta e a casa.
Tutto quello che di brutto nella vita le era capitato perdeva di importanza quando era con lui perché tutto quello che aveva sopportato, che aveva patito, che aveva dovuto fare – lasciare la madre, iniziare a lavorare per mantenersi, cambiare città – l’aveva portata a lui.
Bellamy era la casa di Clarke.
Quando guardava il suo fidanzato, Clarke vedeva quello che aveva perso quando il padre era caduto fuoribordo.
Quando Bellamy l’abbracciava, tutto il brutto che li circondava scompariva e lei si sentiva davvero al sicuro.
Non glielo aveva mai detto. Non erano una di quelle coppie smielate che passavano le giornate a tenersi la mano, a farsi le coccole e a sussurrarsi quanto si amavano.
Non era così che funzionava tra loro.
Loro si dimostravano quello che provavano con piccoli gesti: la colazione pronta ogni mattina, il caffè messo da parte, un fiore raccolto e messo tra i capelli, il letto rifatto, la casa tenuta in ordine anche quando erano terribilmente stanchi.

Erano andati a convivere dopo un anno e mezzo di relazione. Erano passati quasi tre anni e tutto quello che era successo era ormai un lontano ricordo che li faceva sorridere quando uno dei loro amici tirava fuori quella vecchia e assurda storia.
Murphy, Octavia e Raven erano quelli che più si divertivano a prendere in giro quelli che reputavano la coppia più strana che avessero mai visto.
La casa di Bellamy e Clarke era diventato il luogo in cui quella strana comitiva si riuniva ogni sera, fino a tardi, insieme.
Era la famiglia che nessuno dei due aveva mai davvero avuto e adesso invece erano lì, insieme.
Clarke e Bellamy osservavano quello che avevano creato ed erano davvero fieri di tutto.
Erano diventate persone migliori e guardando, sprofondando negli occhi l’uno dell’altra, si vedevano: cresciuti, maturati, migliori.
 

E scusa se ti dico certe cose
Ma a qualcuno devo dirle
E l'unico qualcuno che conosco sei tu
E hai soffiato dentro al mio cuore
A forma di armonica
Hai seminato vento e raccolto energia eolica
I tuoi piuttosto e i tuoi abbastanza
Non fermeranno certo il vulcano che erutta sopra al mio viso scoperto

 
“Bell! Bellamy dove sei?”

“In cucina! Che c’è?”

Clarke lo raggiunse in cucina. Il ragazzo era in piedi davanti ai fornelli, intento a cucinare una non ben specificata pietanza il cui odore causò dei forti conati a Clarke.

“Ehi! Che succede?”

La ragazza inspirò profondamente un paio di volte, drizzando le spalle e alzando il viso.

“Sono incinta Bellamy.”

Il ragazzo la guardava, gli occhi neri e dal taglio obliquo spalancati come mai e pieni di una luce che Clarke non aveva mai visto.

“Dì qualcosa, ti prego…”

Bellamy continua a restare in silenzio, le pentole ancora sul fuoco, lui voltato di tre quarti verso Clarke.

“Bellamy…”

Clarke era ormai sull’orlo di una crisi di pianto, gli occhi gonfi e pieni di lacrime che minacciavano di uscire, quasi stessero per rompere una diga.

“È una sorpresa bellissima. Mio dio, da quanto lo sai?”

“Pochissimo. l’ho scoperto neanche un’ora fa.”

“Clarke, è bellissimo, sono così felice”

Bellamy cominciò a tremare, emozionato come mai Clarke lo aveva visto.

“Tu…tu sei davvero felice? Non sei arrabbiato?”

“Arrabbiato? Come potrei essere arrabbiato? Mi rendi la persona più felice del mondo, io…”

Clarke osservava il ragazzo in silenzio. Bellamy non era mai stato uno di molte parole, neanche con lei che comunque gli stava a fianco da ormai 5 anni.
5 anni in cui erano cresciuti, maturati, si erano conosciuti e adesso si appartenevano.
Nessuno dei due sarebbe sopravvissuto se all’altro fosse successo qualcosa.
Clarke aveva paura, aveva avuto paura che lui si arrabbiasse, che dicesse che non era il momento, che…non sapeva che cosa con precisione, ma lui aveva quella luce negli occhi e sprizzava felicità da tutti i pori e Clarke si sentì un’idiota perché aveva pensato che lui non ne sarebbe stato felice, mentre non lo aveva mai visto così felice in tutti gli anni che avevano condiviso.

“Sposami Clarke, sposami e rendimi completo”

Clarke restò di stucco. Non aveva dato quell’annuncio per ottenere qualcosa, doveva farlo e tanto bastava per lei, il resto era solo un valore aggiunto a quella che per lei era la felicità.

“Sì.” la risposta le scivolò tra le labbra senza che lei potesse fare niente per fermarla. “Sì, Bellamy Blake, ti sposerò.”




Octavia guardava fieramente il fratello avvolto nello smoking nero che aspettava che la sua sposa lo raggiungesse all’altare.
A Bellamy si illuminarono gli occhi quando videro Clarke incedere in modo regale lungo la navata, ammantata di luce, vestita di bianco avorio. Il vestito era semplice e lasciava che la pancia ormai abbastanza pronunciata si vedesse. Clarke lo aveva scelto appositamente, non voleva nasconderla, voleva che si vedesse la sua felicità, anche se sarebbe bastato guardarle il viso, per capire quanto fosse felice.
Murphy, posto al fianco di Bellamy, di fronte ad Octavia, si rese conto che il mondo era scomparso intorno ai due che avevano trovato nell’altro tutto ciò che serviva loro.

La cerimonia era passata in un batter d’occhio.
Erano felici come non lo erano mai stati prima.
Erano insieme ai loro amici, insieme a tutti quelli che amavano, insieme e legati.
Ne avevano passate tante, meno gravi di quello che avevano passato prima di incontrarsi, e le avevano superate tutte.
La fede d’oro bianco brillava agli anulari di Bellamy e Clarke che si guardavano innamorati come mai prima, la mano destra di Bellamy incrociata con quella di Clarke sulla pancia rigonfia.

“Ehi ragazzi!” Jasper e Monty erano arrivati, spensierati come sempre. “Dove andiamo a festeggiare?”

“Ma che domande” Bellamy e Clarke si scambiarono un’occhiata complice “Allo Spaceship, ovviamente, a fare una partita a Tetris.”

 

   
 
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