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Autore: Melisanna    03/10/2019    2 recensioni
Giulietta sapeva di essere una bella bambina e lo riteneva tremendamente noioso. Sospettava che crescendo la faccenda non sarebbe migliorata: le belle fanciulle dei racconti non facevano mai niente di interessante. Aspettavano, di solito. A volte venivano rapite e venivano salvate e sempre si innamoravano.
Questo racconto partecipa al writober di fanwriter.it
Genere: Avventura, Commedia, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo racconto partecipa al writober indetto da fanwriter.it
Il prompt di oggi è: #precanon e sono stata persino aderente alla richiesta! Che brava, mi faccio i complimenti da sola. In compenso è diventata una storia di due capitoli che incorporerà anche il prompt di domani (e poi basta spero).


Era una bambina molto bella. Lo sapeva, perché glielo dicevano sempre, Che bella bambina che sei Giulietta, la più bella di Verona, come splendono i tuoi occhi, come sono d'oro i tuoi capelli, se così bella Giulietta!

Per quanto la riguardava, essere bella era una seccatura, la nutrice cercava sempre di raccoglierle i capelli in trecce complicate che rendevano la sua bionda colombina adorata ancora più graziosetta e sua madre le ripeteva che una bella bambina non corre, sta con la schiena dritta e non si mescola ai servitori. Suo padre le diceva solo che era bella e con la sua bellezza l'avrebbe reso fiero e le accarezzava la testa. Giulietta avrebbe preferito che suo padre la portasse a cavalcare come i suoi fratelli, invece che accarezzarle la testa e avere sempre quell’aria di vago imbarazzo in sua presenza, ma a quanto pareva andare a cavallo nelle campagne non si addiceva a una damigella.

Giulietta sapeva di essere una bella bambina e lo riteneva tremendamente noioso. Sospettava che crescendo la faccenda non sarebbe migliorata: le belle fanciulle dei racconti non facevano mai niente di interessante. Aspettavano, di solito. A volte venivano rapite e venivano salvate e sempre si innamoravano.

Innamorarsi, a Giulietta, sembrava una terribile fregatura, erano sempre coinvolti pianti e sospiri e spesso dei morti e quando le storie finivano con si sposarono e vissero felici e contenti, Giulietta era piuttosto sicura che fosse un modo per dire che, da allora in poi, avrebbero vissuto come sua padre e sua madre, che non le parevano né molto felici, né molto contenti e, di certo, non particolarmente felici e contenti quando erano insieme.

La nutrice e suo marito non erano belli  ma sembravano più allegri. A Giulietta, però, la vita della nutrice, che passava tutto il suo tempo a correre dietro ai bambini suoi e altrui e a parlare di bei giovanotti e di belle fanciulle e di quanto poco dura la giovinezza e quanto una come Giulietta non doveva perdere tempo a trovarsi un marito e approfittare della sua bellezza per divertirsi che gli uomini son uno dei pochi piaceri di una donna – che cosa intendesse con queste parole a Giulietta sfuggiva, ma la nutrice sembrava trovarlo molto divertente – e a sfornare tanti marmocchi belli come lei, causava un rigetto che la rendeva ostile con quel donnone, che si occupava di lei da sempre e, a cui, in fondo, in fondo, Giulietta sapeva di voler bene. Ma per quanto le volesse bene, non riusciva a non rispondere con aggressività alle sue moine, a sfuggire ai suoi abbracci e ad atteggiare il suo viso a un broncio ai suoi scherzi grossolani e alle sue risate grottesche – il suo visino, tanto grazioso, soprattutto quando sorrideva, modestamente come devono sorridere le brave bambine, sorridi Giulietta, sei una brava bambina, sorridi Giulietta, sei una bella bambina, le belle bambine devono sorridere.

Giulietta non aveva voglia di sorridere, aveva voglia di ridere, correre nell’aia in mezzo alle oche, cavalcare il grande stallone sauro di suo padre, arrampicarsi fino alla colombaia per spiare i suoi occupanti e avere avventure.
Alcune ragazze avevano avuto avventure. I grandi non ne parlavano mai volentieri, ma Giulietta aveva spiato gli spettacoli degli attori in strada e ascoltato con attenzione i menestrelli e sapeva che c’erano state delle ragazze che, invece di aspettare, venire rapite, salvate e innamorarsi, si vestivano da uomo e avevano avventure. Alcune erano state piratesse, alcune andavano a cavallo come gli uomini, a cavalcioni e non con tutte e due le gambe da una parte –Giulietta trovava scomodissimo e molto stupido cavalcare all’amazzone, le sembrava ovvio che una cadesse, se doveva stare in sella in quel modo –, alcune ragazze sapevano perfino tirar di spada.

Nessuno sembrava però intenzionato a insegnarle nessuna di queste cose e per quanto Giulietta spiasse i suoi fratelli e i suoi cugini, ci sono dei campi in cui la conoscenza teorica e quella pratica difficilmente si equivalgono. E le avventure tardavano ad arrivare. Giulietta temeva che quando si fossero presentate, non l’avrebbero trovata pronta.
Perciò Giulietta, tre giorni prima del suo settimo compleanno, decise, un’avventura, di procurarsela da sola.

Da quello che aveva imparato sulle avventure c’erano due passaggi fondamentali per iniziarne una, travestirsi da ragazzo e scappare di casa – o fare naufragio e perdersi, ma questo a Giulietta pareva più complesso da organizzare.
Aspettò che la nutrice si distraesse, per sottrarre timidamente un paio di calzoni e una giubba dal bucato e, con quel gesto, si sentì già catapultata nel mondo affascinante del crimine. Era una fuorilegge adesso! Con molta più baldanza si impossessò di una cappa e di un cappello, lasciati in un angolo da uno dei cugini e, resa impudente da quei successi, si portò in camera, in rapida successione, una camicia con ampie maniche, una cintura e, tesoro dei tesori, un pugnale spezzato un palmo sotto l’elsa, ma dotato di fodero, che nascose sotto il letto con reverenza.

Giulietta meditò sulla possibilità di tagliarsi i capelli, odiava la sua chioma dorata e odiava quando la nutrice la pettinava tirandole i capelli e avvolgendoli stretti, stretti intorno alla testa. L’ira di sua madre, quando avesse scoperto un gesto del genere la faceva rabbrividire, ma d’altra parte stava per scappare di casa e sarebbe passato molto tempo prima che tornasse, i capelli avrebbero fatto in tempo a ricrescere. Probabilmente un paio di giorni dopo la sua fuga i suoi genitore, distrutti dal dolore, sarebbero stati disposti a perdonarle tutto, pur di riaverla indietro, ma lei non sarebbe tornata, finché non avesse compiuto gesta degne di Bradamante.
Come tagliarli era un ostacolo quasi altrettanto ostico del senso di colpa. Dopo un pomeriggio di riflessione, Giulietta si risolse a dare un colpo netto alla sua folta treccia con le forbici da cucito, appena sua madre le avesse augurato buona notte e la nutrice se ne fosse andata a letto lasciandola finalmente sola. Di colpi ce ne vollero diversi, in verità e il risultato fu piuttosto sbilenco. Giulietta si studiò cinicamente, alla luce della candela davanti allo specchio della camera. Non sembrava un cavaliere, né un paggio o un gentiluomo, piuttosto un ragazzino della città bassa. Assomigliava a Nicolò, che aiutava il cuoco in cucina, lavando le pentole e correndo su e giù tutto il giorno. Ma Giulietta era annoiata di essere una bella bambina e trovava persino la vita di Nicolò più divertente della sua.

Indossò le calze solate, si infilò la camicia e si strinse la giubba in vita con la cintura, nascose alla meno peggio i capelli straziati sotto il cappello e, con grande fierezza, si mise il coltello alla cintura. Non era proprio una spada, ma era a quanto di più simile Giulietta potesse aspirare. Per il momento.
E si preparò ad attendere. Non poteva uscire troppo presto, molti adulti sarebbero stati ancora svegli, Né nel cuore della notte, avrebbe attirato troppo l’attenzione. Il momento migliore era un’oretta prima dell’alba, quando paggi e servitori iniziavano a entrare e uscire dal palazzo.

Guardò la luna alzarsi e calare e, quando sparì alla vista, sgattaiolò nelle scuderie, sorprendendosi della facilità con cui passava inosservata, era convinta di dover superare una guardia molto più serrata, ma forse, rifletté amaramente, nessuno credeva che lei avrebbe mai potuto mai ordire un piano del genere. Lei era la bella bambina, la brava bambina, la bambina che avrebbe combinato guai con i cuori dei giovanotti, l’unico rischio da cui si doveva proteggerla – o verso cui si doveva spingerla, a secondo di chi parlava – era l’amore.
L’offesa alla sua scaltrezza la rese ancor più decisa. Spiò i cavalli da sopra le porte delle stalle. Il sauro di suo padre sbuffò facendo fremere le froge. Lo guardò affascinata. Giulietta aveva sempre desiderato cavalcarlo, pensò di aprire la porta, spingere la sella sulla sua schiena ampia, fargli scivolare la testiera sopra il capo. Ma Giulietta non era solo una bella bambina, era anche una bambina pratica e sapeva che il sauro era troppo focoso, potente e grande per lei. Non senza dispiacere, ripiegò sulla sua minuta giumenta grigia, che dopo aver rinculato sospettosa davanti al suo aspetto inusuale, le annusò il viso e le strofinò affettuosamente la fronte piatta contro la testa. Giulietta, fatta astuta dalle altrui avventure, le fasciò gli zoccoli con degli stracci, quindi la sellò orgogliosamente con i finimenti da uomo, mentre l’animale fissava incuriosito.
Guidò la giumenta fuori dalla scuderia e scrutò intorno per accertarsi che non ci fossero sentinelle, ma, ancora una volta, la sua speranza di iniziare subito le avventure venne delusa. A casa Capuleti dormivano tutti della grossa. Dopo aver giudicato l’altezza delle staffe irraggiungibile per lei, spinse, non senza un certo scorno, uno sgabelletto vicino alla cavalla e si trascinò faticosamente in sella, cercando di buttare al di là del dorso la gamba destra, con il gesto atletico che compivano tutti i suoi parenti maschi. Il gesto non fu particolarmente atletico, ma Giulietta giudicò il risultato sufficiente, in fondo era la sua prima volta. Infilò entrambi i piedi nelle staffe e si sentì subito forte e sicura come le eroine che desiderava imitare.
Attraversò il cortile, all’uscita del palazzo finalmente una sentinella si accorse della sua presenza e le gridò qualcosa, che Giulietta non capì. Il petto le vibrò di timore e di piacere. Agitò una mano in un gesto vago verso il portone, “Commissioni per la padrona” borbottò, la guardia non chiese altro, annuì e aprì la porta quanto bastava perché la giumenta e il suo cavaliere potessero uscire.

Giulietta si avviò lentamente per le strade di Verona, cercando di prendere confidenza con il nuovo modo di stare in sella. Si sentiva sbilanciata e non capiva bene come usare le gambe, ma Danae, oltre a essere una cavalla di buon carattere, era anche ben addestrata e rispondeva obbedientemente ai suoi comandi. Così Giulietta, la non più così bella bambina, Giulietta l’avventuriera, anzi, Giulio l’avventuriero, poté godersi la vista dei vicoli di Verona che si svegliavano, le drogherie che aprivano, gli sguatteri che correvano, il profumo del pane appena sfornato, il chioccolio delle galline e le grida dei mercanti che esponevano la merce.

L’aria iniziava appena a scolorare e ascoltando il canto dell'allodola che annunciava l'alba, Giulio, che era stato Giulietta, prese sufficiente coraggio da attraversare la porta est della città e avviarsi al piccolo trotto per la strada che si dipanava da lì.

 
 
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