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Autore: Hoel    05/10/2019    5 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato 18.07.2021

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PARTE PRIMA:

Castelnuovo di Quero e Montebelluna

(26 agosto -12 settembre 1511)

 

 

 

Capitolo Primo

26-27 agosto 1511

 

 

 

 

L’ennesima cannonata colpì a vuoto, il tiro ancora insufficiente per far danni; ciononostante il viso gli si bagnò di acqua, confermando i suoi sospetti: si stavano avvicinando, era solo questione di tempo prima che colpissero la fortezza. Potevano soltanto sperare che finissero prima la polvere da sparo.

Osservando le file nemiche dinanzi a sé, Hironimo avvertì uno spaventevole gelo nelle viscere, l’armatura divenutagli d’un tratto pesante quanto un sudario.

Neppure ad Agnadello aveva avuto tanta paura, quando nell’infernale bailamme della rotta si era fatto strada verso la fuga mulinando alla cieca fendenti a destra e a manca e pure pugni e gomitate, mentre scavalcava i cadaveri dei soldati di ambedue gli schieramenti e sempre col cuore in gola per il timore che qualche archibugiere o balestriere lo puntasse. Non gli fosse apparso all’improvviso il suo amato Eòo, bestia nobilissima, che gli aveva permesso di montargli in groppa e mettersi in salvo, a quell’ora sarebbe stato a far compagnia in Francia al Bortolo D’Alviano e tanti altri prigionieri – se gli fosse andata bene. In caso contrario, a mangiare terra.

Non ebbe così paura neppure durante la folle galoppata in fuga fino a Treviso dopo essersi visto chiuso le porte di ogni città, i vessilli imperiali o francesi già svettanti sulle torri e sulle mura, rinnegato dai suoi compatrioti e braccato alla stregua di un criminale a casa sua, nella sua terra, il pensiero rivolto alla famiglia della cui sorte temeva. Neanche in quel frangente aveva osato sperare d’uscirne vivo, percependo sul collo il fiato dei nemici e distrutto dalla fatica. Sicché, ingoiato l’orgoglio, come tutti i pochi compagni  rimastigli anch’egli s’era messo ad implorare davanti a Porta Santi Quaranta affinché la città li offrisse la sua protezione.

“Verzé! Verzé! Sun trevixan fio vostro!”, aveva ruggito disperato dietro di lui Donado Cimavin e la fortuna volle che a far da sentinella in quel momento ci fossero stati proprio i suoi amici, ché, ignorando gli ordini, aprirono la porta cittadina e mai Hironimo poté benedire a sufficienza quel suo “colpo di matto”, come l’avevano definito i suoi compagni, quando a scapito della propria pelle era tornato indietro e caricando aveva impirato il lanzichenecco che si accingeva a finire il giovane trevigiano, già caduto per terra da una schioppettata fortunatamente di striscio. Issatolo su Eòo, i due erano poi ripartiti, forgiando l’amicizia dei fuggitivi, anche perché dovevano tenersi ambedue svegli in qualsiasi modo, onde evitare la cattura nel sonno. Il digiuno forzato non li aveva giovati, similmente alle ferite, non gravi ma lo stesso debilitanti.

Eppure, neanche in quelle occasioni aveva mai provato una paura così lacerante come ora sulla caminada di Castelnuovo di Quero, quella paura che non riusciva a dimenticare tramite l’ira, l’ambizione e la smania di combattimento come s’era imposto di domarla in quei due anni di guerra; eccola dunque, sottile e indescrivibile, quella di chi era braccato ma soprattutto di chi aveva un debito impossibile da sanare, un abisso dinanzi a sé e con la sola domanda: che faccio? per compagnia.

Hironimo si girò, studiando i volti altrettanto tesi dei pochi coraggiosi rimastigli, quei cinquanta civili bellunesi e feltrini che, invece d’imitare la vigliaccheria dei soldati e dei loro capitani Andrea Arimondi e Ludovico “Batagin” Bataja – serpi malefiche, meriterebbero mille forche e una tenaglia da ogni traghetto! – a loro periglio avevano preferito rimanere a difendere Castelnuovo pur consci di dar battaglia a 3000 fanti con artigliere e 200 cavalli agli ordini del capitano Mercurio Bua, inviati da La Palice così da liberare al Re dei Romani la strada per Treviso, l’antemurale alla laguna di Venezia.

Ma per raggiungere tale preda da Maximilian I. aus dem Haus Habsburg a lungo ambita, i franco-imperiali dovevano passare forzatamente per Castelnuovo, da una parte serrato dallo strapiombo del massiccio del Grappa, dall’altra bagnato dall’irrequieta e vorticosa Piave, cioè non permetteva ad alcuno il passo se non tramite l’angusta porta. Un torrione dall’altra parte del fiume complimentava il Castello, poiché ad esso metteva capo la lunga catena di ferro destinata ad impedire il passaggio fluviale.

Due anni addietro, il previo castellano di Castelnuovo, sier Moro Donado, s’era arreso prima ancora d’ingaggiare battaglia; per quel che lo concerneva, il giovane Miani non avrebbe concesso tale favore agli avversari.

Già prima ancora del loro arrivo, colto da brutti presentimenti, Hironimo aveva infatti dato l’ordine di alzare il ponte levatoio e la catena, specie dopo l’ignominiosa fuga dei suoi capitani e dei soldati (tre volte stramaledetti, se la scampo li apicho co le mie mani!) e questo li aveva immensamente aiutati, smorzando l’attacco e anche un po’ l’iniziale tracotanza dei nemici i quali si ritrovarono dinanzi ad una Piave ingrossata e cattiva, avendo avuto un’estate assai piovosa, e perciò impossibilitati di guadare il fiume senza correr il rischio d’annegare. I franco-imperiali avevano sudato freddo quando si resero conto d’essere finiti in una gola, senza via d’uscita se non quella d’arretrare e ritornare sui loro passi. Pieni di sconcerto avevano forzatamente appurato quanto gli assediati, nella loro disperazione, non avrebbero esitato a tirargli giù il massiccio del Grappa con tutte le sue cime, se ciò li avesse salvato la vita. Il fatto, poi, che piovesse a dirotto li aveva impantanati, rendendoli facile bersaglio delle bocche di fuoco marciane, impedendo lo strapiombo della montagna facile riparo nel bosco.

Contro ogni prognostico, per quasi un giorno Castelnuovo aveva resistito, i suoi difensori malgrado i piccoli successi col cuore pesante: ogni comunicazione con Feltre e Cividal di Belluno era stata interrotta; i rinforzi non sarebbero dunque arrivati e dal Castello ci sarebbero usciti cadaveri. Chissà, pensava Hironimo, se anche sier Zacharia Contarini "dai Scrigni" e suo figlio Piero s’erano sentiti così impotenti e sdegnati, quando a Cremona si videro disertati dai propri soldati?

L’unica certezza rimaneva che il sole incominciava a calare anche su quella giornata del 26 agosto e udendo dell’umiliante situazione di stallo e di come Mercurio Bua non si stesse neanche impegnando nell’assedio (perché poi?), il maresciallo La Palice decise inaspettatamente di presentarsi per intavolare le trattative, pur stando a debita distanza dal tiro dei balestrieri di Castelnuovo: ormai, quella guerra maledetta aveva assunto pieghe troppo poco cavalleresche per fidarsi della buona parola di chicchessia.

“Al castellano di Castelnuovo di Quero - saluti. Riconosciamo il vostro valore ed è per il rispetto guadagnatovi, che l’Imperatore è disposto alla clemenza: arrendetevi, consegnate la spada e il castello, sottomettendovi alla cesarea potestà e avrete salva la vita. Seguitate, e continueremo finché di questa fortezza non ne rimarrà che il ricordo e voi tutti sarete preda del nostro esercito.  Sappiamo della vostra massiccia inferiorità numerica e non c’è bisogno che finisca per forza in un inutile bagno di sangue!”

Hironimo rimase in silenzio, voltandosi di nuovo verso i suoi compagni: i capitani bellunesi Paulo Doglioni, Christofal Colle e Vetor dil Pozzo; i due nobiluomini sier Michiel “Chiella” e sier Benedeto Pagani; sier Vetor di sier Francesco “Finotti” di Croxecalle; Zuane Maresio; Hironimo di Batista Vezzan; Vetor “Bragaza” Capitanei; Gotardo dell’Agnella, Thomà nipote del Pigotin; Bortolo Sassaio; Alexio detto “el Gobo da Salce”; Andrea di Vitor Trepin; Zuam Piero Vedestoni; Agustin di Antonio Becaria; Catarin di Longo Boato; Francesco “Pliz” di Batista; Christofal q. Cesare Tofol detto “Mazaruol”; Piero e suo figlio Sebastian Germini; Vetor Sofforzi; Simon Nogaredo; Gasparo Vedestoni e tutti gli altri soldati volontari bellunesi che lo fissavano a loro volta attenti e silenziosi, il volto sporco di polvere e di sudore. Accanto a lui, i suoi servitori Menego coi figli Trovaso e Vico e il nipote Nadalin, che fedelissimi lo avevano seguito da Venezia. [1]

Pochi giri di parole: avevano tutti una paura fottuta di morire così, per niente, e per un momento Hironimo vi lesse nei loro occhi la tentazione d’accettare la proposta del francese. Poteva biasimarli? Anche le sue mani tremavano! Quale sventato si getta volontariamente nel grande abisso?

Il giovane castellano socchiuse allora le palpebre, respirando a fondo, richiamando alla mente ogni ricordo, ogni sensazione che cacciasse via quella paura insidiosa per sostituirla con la più famigliare ira e così fortificarsi d’odio e determinazione.

Si sforzò di ricordare lo stato pietoso in cui aveva trovato Feltre dopo la riconquista, la città natale della sua primissima infanzia [2] quando suo padre ne era stato amatissimo podestà e capitano, il cui nome era ancora scritto su di una tabella commemorativa a Piazza Maggiore con lo stemma dei Miani, che i cittadini avevano voluto donargli per riconoscenza in seguito alla sua vittoriosa difesa contro il Duca d’Austria nell’inverno del 1487, nonché  alla costruzione di nuove cinta murarie e delle fontane lombardesche rifornite da condutture di “cannoni” di abete, l’acqua captata sopra Pedavena.  

Rivide Hironimo la fuliggine dell’orribile incendio sugli edifici un tempo riflettenti la brillante luce montana da sembrar diamanti; i cumuli di macerie alte fino alle finestre; i monasteri e le chiese profanate, gli affreschi deturpati; il territorio guastato; le case gusci vuoti similmente ai sopravvissuti all’orribile saccheggio sia del 1509 e del 1510, facce di cera, corpi da crudeli percosse ancor tumefatti  e donne pregne di figli non voluti.

Ripensò agli occhi arrossati  e al volto cinereo di sua madre Leonora Morexini Miani, alle lunghe notti insonni in preghiera a piangere in silenzio per non opprimere gli altri figli col suo dolore, il cuore gonfio di pena e angoscia al pensiero di Lucha in Alemagna, ferito e prigioniero. Suo fratello, il figlio primogenito ben più nobile e ben più degno di lui, che le era stato ritornato solo il novembre scorso, vivo sì ma invalido col braccio destro penzolante e inerte, avendogli i proiettili maciullato i nervi e le ossa del gomito durante la strenua difesa del Castello Della Scala. E malgrado la sua dedizione alla santa causa, comunque Lucha si era dovuto umiliare dinanzi al Maggior Consiglio, costretto per necessità a supplicarlo per un mese d’accordargli il permesso d’ottenere a mo’ d’indennizzo la castellania di Quero, anche se governata in sua vece da uno dei suoi fratelli, incominciando infatti a risentire le loro risorse economiche a causa della guerra.

E che dire dell’enorme dispendio di energie e denari per rinforzare Castelnuovo con una terza torre? Nonché degli insulti iniziali dei soldati e degli operai, non gradendo d’esser capitanati da un “putachio imberbe, polorbo”  e divertendosi a sottolineare con crudele gusto ogni suo errore, finché, stufo marcio, Hironimo non aveva preso di persona a scudisciate i più insolenti a monito per gli altri? S’era scordato delle ingiurie al limite dell’assalto fisico della popolazione di Quero, Alano e Vas, che invece di comprendere la gravità della situazione, preferivano poltrire, neanche il Castello si potesse ricostruire da sé?

Si sovvenne poi delle lunghe trattative coi podestà di Feltre e di Cividale di Belluno sulla necessità di stringere un patto di reciproco sostegno in caso d’attacco nemico. Hironimo si ricordò delle sue insistenze sia col Consiglio dei Dieci che col podestà di Treviso di distruggere Scalon, situato sulla forcella sopra Segusino e soprannominato “la mulattiera dei contrabbandieri”: oltre che a danneggiare l’erario, esso corrispondeva ad un passaggio ideale per le truppe avversarie. Nell’ansia aveva venduto l’argenteria, i tappeti e ogni suppellettile prezioso trovato al Castello pur d’assicurarsi fondi sufficienti: ora gli interni di Castelnuovo parevano più austeri della cella di un eremita.

Tanto orrore, tanti sforzi, tante umiliazioni annullate da un  vigliacco?

Il giovane Miani aprì gli occhi; per la terza volta si girò verso i compagni e molto probabilmente anch’essi dovettero aver condiviso le medesime riflessioni raffrontandole alle loro esperienze passate, sparita infatti l’ombra del dubbio dalla loro fronte. I franco-imperiali li avrebbero ammazzati comunque, che almeno chiudessero degnamente la partita come Sansone coi Filistei.

Modulando la voce in un tono fermo e deciso, egli rispose pertanto: “Monsignor Gran Maestro di Francia -  saluti. Come mai codesto bel discorso non viene il Re dei Romani a farcelo di persona? O forse gli brucia ancor la faccia, dopo lo schiaffo di Padova?”

Un rictus nervoso piegò l’angolo della bocca del maresciallo francese e suo malgrado, Mercurio Bua si lasciò sfuggire un sogghigno confermando quel nervo scoperto che tanto affliggeva il suo superiore: effettivamente, da mesi l’Imperatore prometteva di scendere per la Valsugana fino a Treviso, rimpinguando le truppe di La Palice con uomini, armi, cavalli, rifornimenti e danari. Peccato che Maximilian parlasse e parlasse, ma di fatti concreti ben pochi. Lo confermava perfino l’irritato Re di Francia, il vero finanziatore di quell’impresa che gli stava costando almeno più di 20,000 ducati aggiungendosi ai 50,000 d’arretrati già dovutigli dal Re dei Romani, dei quali da troppo tempo si prometteva il risarcimento. Voci indiscrete sostenevano come Maximilian avesse chiesto in prestito soldi al suocero Fernando el Católico. Cosa quella vecchia volpe gli avesse risposto, non fu dato conoscerlo.

“La Cesarea Maestà non può venire di persona giacché voi, ostinandovi a non cedere il vostro Castello, glielo impedite.”

“Ah, così la colpa è di noialtri? Meno male, qui s’incominciava a pensare che l’eccellente esercito dell’Imperatore fosse bravo solo a prendersela con le donne e i bambini, quando non troppo impegnato a rubare, ben inteso.”

“Ci accusate di vigliaccheria? Suona grassa detta proprio da voi, disertato dai vostri medesimi soldati!”

“D’inutili palle al piede non so che farmene!”

“Tanta cocciuta insolenza non difenderà queste mura! Arrendetevi e cedete con onore, ciò che non poteste difendere con la spada! Pensate alla vostra gente e rimettevi alla clemenza dell’Imperatore!”

Al che Hironimo vide letteralmente rosso. “Oh, ma io ci penso alla mia gente così come conosco la clemenza del Re dei Romani: più volte ce l’ha dimostrata al punto che mi par più misericordioso il Signor Turco di lui!” E levata ancor più in alto la voce: “Per quel che ci riguarda, dai tempi di Santa Giustina abbiamo consacrato la vita alla Signoria Nostra e fino all’ultimo respiro non cederemo il Castello e se persisterete a molestarci, vi spediremo tutti all’inferno da dove venite!”

La Palice scosse il capo, indeciso se dispiacersi o meno per la sorte che attendeva quei disgraziati. In ogni modo li aveva avvertiti, la sua coscienza era quindi a posto. “A piacer vostro”, replicò incolore e assieme a Mercurio Bua galopparono indietro verso il loro campo. “Per oggi abbiamo finito: lasciamoli un’ultima notte per confessare i loro peccati.”

“E dunque?”, chiese il capitano Paulo Doglioni ad Hironimo, scrutandolo attendo.

Staccandosi dal parapetto, il giovane patrizio gli rispose seccamente: “Che andiamo a Patrasso [3] e facciamo la fine di Leonida”, e scese rapido la scalone di legno interno per imboccare il corridoio di pietra in direzione dei suoi appartamenti. Il tempo era poco, doveva sbrigarsi prima che riprendessero a bombardarli.

Spiando di sottecchi la figura del castellano scomparire dalla caminada, Thomà, un putto di sì e no dieci anni, domandò sottovoce a Andrea Trepin il bombardiere. “Ma chi xélo sto Liom Hida? Lo cognosselo?”

L’uomo fece spallucce. “Mah, sarà un che vien da Porto Gruero. Continua a smissiare ti!”, gli intimò, riferendosi alla miscela di polvere da sparo su cui stava lavorando per il cannone da caricare. Sei parti di salnitro, una di carbon dolce, uno di zolfo. “Fra puoco li avrem in bocha, quei cancari maladeti.”

“Andrea, dime: sul serio andemo a morir tuti?”

L’espressione del bombardiere si raddolcì, pur restando il suo sorriso amaro. “Ne toleremo assa’ co nu”, fu l’unica promessa che poté garantire al suo giovanissimo assistente. “E ch’ee zime dil Grappa et la Piave fassano el resto!”

Apparentemente, Castelnuovo di Quero si presentava una chiusa insormontabile: la torre maggiore, inserita nella montagna, era coperta da terrazza, con perimetro esterno munito di piombatoie su cui già i fanti s’erano predisposti per versare al momento giusto del piombo fuso e altro materiale agli assalitori. Dalle strettissime feritoie, disposte a vari piani, i soldati avevano piazzato invece i loro archibugi. Dal lato opposto, la torre minore affondava nel greto della Piave, con fondamenta decisamente profonde. Essa serviva da abitazione al castellano, al capitano militare e ai loro famigli; anche questa torre era coperta da una massiccia terrazza, coperta da grossi merli di roccia viva, ideale per le bocche di fuoco. Un corridoio di pietra collegava le due torri nella parte alta del corpo centrale più basso, dove i soldati s’erano appostati dietro al muretto protettivo, pronti a seconda della necessità di respingere le scale appoggiate alle mura e di tagliare le funi lasciate cogli arpioni.

Allo sbarramento della montagna si aggiungeva quello fluviale: la Piave, a causa dei molti e ricchi affluenti, aveva un livello d’acqua costantemente alto e il suo impetuoso frastuono riecheggiava nella gola di Quero, il suo greto caratterizzato da rientranze, insenature, curve e controcurve. Due soltanto erano i ponti che permettevano il suo attraversamento: uno a Cividal di Belluno ed uno a Cesana.

Quest’unione dunque – del massiccio del Grappa e della Piave – rimaneva l’ultima speranza dei marciani, pregando Iddio di contemplare un’altra aurora.

Nel suo appartamento spoglio, intanto, Hironimo fissava a lungo la carta bianca su cui indugiava, due dita sotto il mento: cosa scrivere alla sua famiglia? Come accomiatarsi dai suoi cari? Con quali ultime parole lui, castellano di Quero, sarebbe stato ricordato? Con che frasi avrebbe potuto consolare la madre, per rassicurarla che moriva con onore, da vero patrizio veneziano e che mitigasse la perdita del figlio con la consapevolezza che aveva adempiuto al suo dovere verso la Signoria? In che modo poteva confortare il Cor Suo, spronandolo a perseguire la santa causa fino alla vittoria e di non sentirsi schiacciato da quell’ennesimo lutto, già di suo oppresso dopo la cattura del padre e del fratello?

Un fremito di collera portò la fronte del giovane castellano a corrugarsi, le labbra martoriate dai denti e piegate all’ingiù in una linea dura.

Scrivere alla famiglia … per cosa? A quale scopo? Per informarli delle sue ultime angosciose ore di vita? Dei suoi timori? Della sua impotenza? Del suo spettacolare fallimento? Per farsi così deridere dai fratelli maggiori? Già li sentiva mormorare: Tipico del Momolo di nascondersi dietro le sottane della siora Mare, a piangere ogniqualvolta si trovi in difficoltà.

No, questo mai.

Intinta la punta nel calamaio, scrisse invece:

“Di Castel Novo di Quer, a dì 26 avosto 1511, sera. Informiamo il magnifico provedador zeneral di Trevixo, sier Zuam Paulo Gradenigo quondam sier Justo, che Castel Novo di Quer, attaccata, si tiene ancora ma non si pol garantir per quanto, ergo si prepari Trevixo. Si dubita l’arrivo dei rinforzi – capetanij Andrea Rimondi e Ludovico Bataja hanno disertato el campo, ripiegando a Cividàl di Beluno. Nescio dei podestà et capetanij sier Zuanne Dolfin et sier Nicolò Balbi a Cividàl, la via occupata da li inimici impedisce l’invio di qualsiasi trombetta. Tamen si è di bona voja, gli homeni qui tutti disposti a morir in fede di San Marco.”

Sì, decisamente meglio.

Deglutendo la bile risalente su per l’esofago, Hironimo passò la polvere sull’inchiostro, asciugandolo e dopo averla soffiata via chiuse la missiva destinata al provveditore di Treviso: l’accampamento a debita distanza dalla fortezza per timore di bombardamenti notturni, aveva lasciato la strada per l’alto trevigiano ancora relativamente sgombra dalle truppe nemiche per chi conosceva bene il territorio – meditava. Se riuscivano a resistere anche solo per un altro giorno, almeno avrebbero evitato una sconfitta ben più grave alla Serenissima, allertando in tempo Treviso, i cui stradioti ed esploratori stavano sicuramente già pattugliando la Marca; inoltre, i contadini del Montello, a detta delle lettere dei podestà e provveditori, erano vigilantissimi, riparati strategicamente nei fitti boschi e pertanto, se avessero inviato un loro messaggero, le probabilità di giungere in qualche modo sano e salvo a Treviso, senza essere intercettato, erano buone. Certo, la scelta era stata tra la capitale della Marca e Feltre e Cividale di Belluno, quali avvertire per prima: qualcosa però suggeriva ad Hironimo che quel vigliacco del Bataja, ben al riparo a Miesna, avrebbe adempiuto perfettamente al suo nuovo ruolo di corriere, riferendo la situazione a sier Zuanne Dolfin e a sier Nicolò Balbi.  

Magra consolazione per loro e bisognava affrettarsi.

Portandosi al caminetto, il giovane patrizio cercò a tentoni la rientranza segreta sul raccordo della canna fumaria, estraendo una piccola borsa con 200 ducati, ciò che aveva faticosamente messo da parte per le paghe dei soldati. Un risolino isterico gli sfuggì di bocca: con quei soldi ci avrebbero pagato Caronte!

Dopodiché, raccolti tutti i registri, le mappe del territorio nonché l’intero pacco con la corrispondenza coi podestà e i provveditori, il Maggior Consiglio, il Collegio, i Dieci e i Pregadi, li gettò uno ad uno nel fuoco, assicurandosi che di essi non rimanesse altro se non dell’inutile cenere. Forse non sarebbe servito a nulla, nondimeno non poteva cavarsi un certo senso di soddisfazione nel privare il nemico di ogni qualsivoglia forma di bottino.

E a tal proposito …

“Lo so, dolcezza mia. Lo so. Non mi vuoi abbandonare, tu, più fedele d’un cristiano.”

Oggettivamente appariva logico affidare Eòo a Cabriel Germini, il messaggero scelto per quella delicata missione e dunque bisognoso del corsiero più veloce e resistente, tutte qualità risiedenti in quell’animale fedelissimo da Hironimo amato più d’un essere umano, per il quale era entrato in cavalleria appunto per non doverlo cedere e al contempo evitare la multa di 25 ducati [4]. Ma il cuore, hé, il cuore gli aveva suggerito quella scelta per non dover sopportare il dolore di vedere il suo preziosissimo Eòo ridotto a bottino, finendo nelle cupide mani dei francesi o dei tedeschi.

Baciò la fronte dell’adorato cavallo, suo compagno sia nelle felici e spensierate cavalcate estive a Fanzolo sia nelle massacranti missioni notturne di disturbo operate dalla cavalleria leggera.  Hironimo lo accarezzò  tristemente, gli occhi fissi in quelli grandi e liquidi dell’animale che ricambiava solenne, quasi avesse compreso trattarsi di un addio.

“Hai ben capito?”, si riprese, staccandosi a forza dal corsiero per istruire Cabriel, montato timidamente in groppa, in quanto ben conosceva la protettività del suo castellano nei confronti dell’animale, arrivando a sfuriate tremende verso il malcapitato cui toccava ferrarlo se l’operazione non rientrava nei suoi gusti. “Questa lettera la consegni direttamente in mano al provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, solo al sior provedador, a nessun altro! Manco al podestà! Al camerlengo [5], invece, gli darai questa” e il ragazzo si ritrovò la mano pesante col denaro. “E mi raccomando: fatti riconoscere sia dagli stradioti che dai villani, se vuoi evitare di morir sul posto, quelli prima t’assassinano e poi ti domandano il nome. Comprendestu?”

Cabriel annuì energicamente, tirando su col naso.

“E non piangere, non sei un poppante!”, lo rimbeccò aspramente Hironimo, mentre faceva cenno a due soldati di aprire quanto più discretamente possibile l’entrata sud della fortezza, in direzione di Treviso. L’ingresso non era munito di saracinesche, bastando i ponti levatoi ad aprire e bloccare il passaggio, i quali vennero calatati lentamente, manovrando rapidi e guardinghi gli argani e le pulegge.

“Perdòname, zelenza, pensavo al sior mio pare et a mio fradelo, qui …”

Il giovane patrizio si morse l’interno della guancia, mascherando la propria pena nel realizzare per colpa di quelle parole quanto poco adeguatamente egli stesso si fosse congedato dalla sua famiglia. Sua madre, la sua roccia, lo aveva supplicato in ginocchio di ripensare alla sua decisione, quando Hironimo si era offerto volontario di sostituire Lucha. La donna gli aveva ricordato la sua inesperienza nel gestire una fortezza così strategicamente importante, concessa solo a reggenti di provata competenza e fiducia. Essere un valente cavaliere non fa di te necessariamente un buon comandante,  lo aveva ammonito. Invece d’apprezzare il suo consiglio, Hironimo s’era sentito infantilmente offeso, ribattendo stizzito di non trattarlo alla stregua di un moccioso e ricordandole che qualcuno doveva pur onorare quell’incarico ottenuto a gran fatica, visto che né Carlo né Marco avevano dimostrato sufficiente fegato e amor patrio per rimpiazzare Lucha. E ciò lo aveva affermato proprio davanti a Marco, che s’era illividito a tal punto da proferirgli i peggior epiteti e Hironimo aveva realizzato come in un sol colpo, pur di difendere la sua vanità, avesse disprezzato il consiglio materno e insultato i suoi fratelli maggiori.

E questo appena tornati dal funerale della loro sorellastra, Crestina Miani da Molin "Murlon".

“Quando sarai a Trevixo”, aggiunse il giovane Miani all’ultimo momento, costringendo Cabriel a fermarsi e girarsi, “porta questo cavallo a mio fratello Marco e riferiscigli che non avrà più da invidiarmelo. Digli anche che mi dispiace d’avergli dato del vigliacco.”

Anni addietro, alla nascita di Eòo, lui e Marco accapigliandosi avevano litigato come pazzi per decidere a chi sarebbe toccata quella magnifica creatura. Siccome Hironimo era il più testardo, con più fiato nei polmoni e ovviamente l’ultimogenito, sua madre aveva ceduto in suo favore, al che Marco s’era vendicato spingendolo dritto a faccia ingiù nello sterco, sorprendendolo di spalle nella scuderia mentre si godeva ignaro il suo ennesimo regalo.

Se così poteva fare ammenda …

La porta venne chiusa e con esso l’ultimo residuo dei tempi passati.

Cor mio, così dunque doveva finire la mia vita? In gabbia peggio d’un sorcio? Fosse stato almanco in battaglia, in groppa al mio Eòo e con te al mio fianco …

“Domino Vetor”, si scosse il giovane dal suo momentaneo incantamento, raggiungendo rapido il capitano feltrino. Costui s’era assai distinto negli ultimi due anni di guerra, guidando coraggiosamente la riconquista della sua città natale e bloccando l’anno successivo le truppe del principe di Noltz presso la Scala. Era stato il primo ad entrare a Castelnuovo di Quero – o quel che n’era rimasto – dopo averlo espugnato di nuovo ai tedeschi. Se c’era qualcuno di cui fidarsi per una sortita di cavalleggeri, Vetor dil Pozzo era il suo uomo. “Tenetevi pronti con la vostra compagnia: in caso il nemico dovesse entrare in questa fortezza, dobbiamo sbarrargli la strada per Feltre.”

“Non proseguiranno per Trevixo?”, s’informò il capitano, tirando un intimo sospiro di sollievo nel sentire la sua città natale fuori dalle brame conquistatrici del nemico e pertanto la moglie e i figlioletti al sicuro.

“Quello è il loro piano, tuttavia hanno due città poco distanti e codesti branchi di cani sono perennemente affamati.”

“Provvedo a radunare i miei uomini, allora”, concluse il feltrino, proseguendo verso le scuderie.

“Eccellenza”, si avvicinò il cappellano al giovane Miani, prendendo il posto di Vetor dil Pozzo che s’era appena allontanato, “stiamo per celebrar Messa”, forse l’ultima, “non desiderate venire a comunicarvi?”

Hironimo lo fulminò con lo sguardo. “A che pro pregare?”, chiese sardonico, il bel volto distorto in una smorfia ferina. “A meno che non faccia scendere una legione d’angeli per tagliare a pezzi i franco-imperiali, per me si tratta d’una perdita di tempo. D’altronde”, interruppe con veemenza l’obiezione dell’uomo senza concedergli tempo d’esprimersi, “se missier Domino fosse veramente giusto e misericordioso, avrebbe fulminato già da anni quel cancaro fiorentino [6] bestemmiatore che siede a Roma, quel figlio di femmina pubblica che ci ha aizzato contro questi barbari maledetti, bravi solo a saccheggiare le nostre terre, a bruciar tutto, a sgozzare i nostri fanciulli e a violentare le nostre donne. No, Iddio se ne sta sul suo bel trono d’oro a guardare noialtri soffrire alla stregua di cani, permettendo che ogni nefandezza in terra accada impunemente. In due anni di guerra, non L’ho visto difendere né la vedova né l’orfano, né liberare nessuno dal nemico. Dio non ci stima nulla, o avrebbe già provveduto.”

In altre circostanze, ovvero come accaduto negli ultimi cinque mesi, il religioso avrebbe ribattuto tenace il suo disappunto, sospirando e roteando gli occhi, ma fiducioso di possedere abbastanza tempo e risorse onde persuadere quell’ostinato castellano a riallacciare i rapporti col Padreterno. Adesso, a maggior ragione, non confidando nella sua salvezza terrena malgrado l’abito indossato, egli avvertiva l’impellente necessità di concludere quell’ultimo compito, così da presentarsi dinanzi a San Pietro senza rimpianti. “Capisco le vostre obiezioni, nondimeno considerando le circostanze …”

“Colendissimo padre, voi siete un uomo dabbene, non lo nego e vi rispetto per la vostra devozione ed onestà. Se volete dir Messa, fatevelo: se può dar conforto a questi valent’uomini, ben venga. Quanto a me, però, come vi dissi al nostro primo incontro e come vi dico oggi, vi prego di non costringetemi a partecipare.”

Il cappellano scosse il capo e ritornò alla piccola cappella, sconfitto e il cuore grave da tale ostinatezza, dispiacendosi per quell’atteggiamento da turco del giovane patrizio. Un vero peccato, cogitava mesto, contemplare un’anima così passionale eppure perduta …

Alle prime luci dell’alba ripresero le cannonate e quindi altri spruzzi in faccia.

 

***

 

Sier Ferigo quondam sier Hironimo Contarini di San Cassian non si era mai fatto scrupoli di nascondere i suoi pensieri: quando c’era da mandare in malora, mandava in malora; quando c’era da lodare, lodava. Poco gli importava del suo interlocutore, se nobile o plebeo, la sua filosofia di vita si riassumeva nel chiamare sempre il diavolo col proprio nome. Tale sfrontata coerenza l’aveva portato a difendersi due anni addietro con disarmante schiettezza dinanzi ai Dieci, narrandogli di come avesse evitato la cattura a seguito della capitolazione di Asola travestendosi da soldato mantovano e nascondendosi nell’ultimo posto, dove il marchese Francesco Gonzaga l’avrebbe cercato, cioè a Mantova stessa, da dove Ferigo era tranquillamente ripartito per Venezia in barca.

Senza peli sulla lingua, audace ma non sventato, alla fresca età di ventinove anni Ferigo malgrado la disfatta e rocambolesca fuga da Asola venne nominato ugualmente sulla fiducia provveditore di Cividale del Friuli, una scelta rivelatasi lungimirante ché il giovane si dimostrò ben presto un eccellente militare, collezionando spettacolari vittorie in Friuli, nel Vicentino, nel Veronese e nel Polesine; si distinse mirabilmente a Ficarolo, Sassuolo e Mirandola. Al punto che si volle affidargli le truppe più bellicose e indisciplinate, cosicché appena trentenne divenne provveditore degli stradioti (un primato in assoluto considerata la giovane età) che governava col proverbiale bastone e carota, punendo in maniera esemplare ogni forma d’insubordinazione ma al contempo lasciando ai suoi uomini una ragionevole libertà di far bottino, arrivando perfino a giustificarli all’occasione.   

Ovunque andasse, il Contarini seminava il terrore tra i suoi nemici e lo potevano ben testimoniare il Duca di Brunswick Erich I di Brunswick-Lüneburg der Ältere o il condottiero Andreas von Liechtenstein che in più occasioni se lo videro piombare addosso all’improvviso peggio d’un rapace, incapaci di reagire al violento impeto dei suoi attacchi e la frase “vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” assunse per i suoi avversari un significato meno spirituale ma assai più terreno. Grazie alle sue imprese, la famiglia apostolica dei Contarini a gran voce poteva vantare con orgoglio la sua discendenza dagli Aurelii Cotta, prefetti del Reno [7]. Ferigo, al contrario, si schermiva con pragmatica modestia e a chi lo chiamava un Druso, un Germanico o un Ettore, egli rispondeva con un sorrisetto sfottitore: “Puoah! Non avete un miglior paragone? Sono finiti tutti assai male!” 

E sempre con quel suo atteggiamento di chi sa ciò che vale e non accetta contestazioni, egli si presentò a casa del provveditore sier Andrea Griti e perdiana stavolta l’avrebbero ricevuto.

“Me spiace, missier provedador, ma la frebe di sier Griti non è miorata, el sente fredo e caldo e anzi, el dotor è lì per trar sangue.”

“Polelo parlar?”

“Sì?”

“Donca, cavate e lassame passar!”

Fortunatamente per il povero segretario, già in posizione perfetta per una solenne spintonata, gli comparve salvifico da dietro sier Polo Malipiero, il fratellastro del Griti e i suoi occhi umidi ed arrossati non tradivano nulla di buono. “Sier Ferigo, prego, entrate”, gracchiò, tirando su col naso.

“Come sta?”, s’informò sottovoce il giovane provveditore, scansando di malo modo il segretario, il quale giudicò conveniente battere a saggia ritirata, borbottando tuttavia come a furia di star cogli stradioti anche missier Contarini si comportasse in identica cafona maniera.

“Temo che per mio fradelo sia la fine: il medico non porta buone nuove. Ho tentato di persuaderlo a rientrare a Veniexia, ma lui non vuole, non con sier Christofal anch’egli in letto ammalato.”

“E parrebbe tutta Italia con loro: il dottor Hironimo Donado ci ha giusto confermato come a Roma anche il Papa stia giocando a dadi con la morte.”

Polo Malipiero assunse un’espressione disgustata. “Il diavolo volesse pigliarselo una volta per tutte …”, mormorò rancoroso. “Adesso s’è pentito – el cancaro! – d’aver chiamato i barbari in Italia, adesso che minacciano i suoi di territori.”

“Il mal italico”, sentenziò Ferigo, “sta nel rimettersi nelle mani degli stranieri per risolvere questione interne, manco fossero un demiurgo che agisce pel ben e gli interessi nostri, non capendo che così facendo offriamo la testa alla scure.”

“Voi due là, avete finito di spettegolare fitto-fitto peggio delle lavandaie?”, li interruppe sier Andrea Griti dal letto, nervoso quanto un leone a digiuno in gabbia e malgrado il contesto non proprio roseo, quello sfogo provocò un risolino divertito nei due uomini, alleggerendo la tensione vigente.

La stanza puzzava dell’aria stantia tipica dell’ammalato, non avendo infatti aperto le finestre sin dall’inizio della malattia del provveditore e ciò appariva più che giustificabile considerato come l’intero padovano pareva di recente flagellato da febbri improvvise e mortifere, accarezzando l’ipotesi che si trattasse di malaria a causa delle continue deviazioni dei fiumi e rotture dei canali, perciò favorendo l’elemento palustre mai completamente debellato dalla pianura veneta.

Sier Andrea giaceva in letto pallido quanto le lenzuola, forse più per il salasso cui il medico in quel momento lo stava sottoponendo che per la febbre di per sé, la quale comunque manifestava la sua salda presa sull’uomo sudato eppure tremante, il viso torvo per quella degenza forzata, un insulto al suo spirito attivo ed energico. Sedutagli accanto, la sua concubina greca Melpomeni [8] gli teneva la mano, tastando di tanto in tanto la fronte che inumidiva con un panno bagnato. Le sue nipotine Benedeta e Viena Griti erano già salite su di un burchiello diretto a Venezia, accompagnate dalla madre madona Maria Donado Contarini. Il loro nonno aveva veementemente insistito, poiché temeva il contagio se non da lui da qualcun altro, essendo la febbre un male sottile e vigliacco, rapidissimo ad ingoiarsi un’intera città, come Padova in quel momento. Inoltre, era giusto che ritornassero dal loro nuovo patrigno, sier Sebastian Contarini.

“Sier Ferigo, mi consola saper almanco voi in piedi”, fu il saluto del provveditore, contento sia di quella visita sia della fine del salasso. “Come si porta il magnifico provedador sier Christofal Moro?”, s’informò, invitandolo a sedersi seppur a debita distanza.

“Esattamente come voi: un giorno migliora, l’altro peggiora. Anche il governatore, il signor Lucio Malvezzi, si è buttato in letto; è da ieri che non si leva.”

Andrea grugnì, puntellandosi sui gomiti e aiutato da Melpomeni, che gli sistemò meglio il cuscino dietro la schiena. “E la cagnara della notte scorsa?”

“Un falso allarme: le sentinelle credevano aver scorto dei cavalli nemici. Ma il magnifico provedador sier Polo Capelo è rimasto comunque al bastione de Cao Longa per accertarsi.”

Sier Griti annuì sollevato.

“Inoltre, stamattina sono stati inviati alla volta di Trevixo i 3000 ducati assieme ai 500 fanti più gentiluomini a seguito, come da voi istruitomi. El vostro sior cugnado sier Zuam Paulo [9] sarà contento, almanco per qualche settimana”, aggiunse Ferigo, la cui venuzza sardonica nel tono di voce non sfuggì al suo collega più anziano, che di fatti ribatté stancamente:

“Sier Ferigo, già sappiamo la vostra opinione in materia …”

“Dunque, se si conosce la mia opinione, perché stiamo qui a succhiarci il pollice, invece d’uscire alla volta di Vicenza ed espugnarla? A presidiarla è rimasta poca gente, non sarà un’impresa impossibile! Mare de diana!”, sbottò con veemenza, battendo i palmi delle mani sulle cosce, “cosa stiamo aspettando? Bassan, Axolo e Castel Francho si sono arrese senza combattere! Se non reagiamo, i nemici non esiteranno ad attaccarci perché ci sapranno deboli!”

“Quindi, secondo voi, Vicenza s’è svuotata perché ci stanno venendo in bocca?”, volle conferma sier Polo, lanciando un’occhiata ansiosa al fratellastro, che convenne:

“Corretto. E senza Vicenza non avranno alcun luogo dove riparare, dopo la sconfitta a Trevixo. Dico bene, sier Ferigo?”

“Sì, ma chi ci assicura che l’impresa sarà a Trevixo?”, insistette Malipiero, anticipando l’altro provveditore. “Le nostre spie ci hanno riferito come la Peliza stia puntando invece qui a Padoa.”

“La Peliza, come tutti i francesi, dice una cosa e ne fa n’altra”, gli spiegò il Contarini. “Se hanno messo questa ciancia in giro, l’è per confonderci. A tal proposito, abbiamo catturato una staffetta del gran maestro il signor Gastone de Foys: da Millan son partite 400 lance, 4000 fanti e 12 bocche di cannone, tutte dirette a Marostega. Nella lettera è stato scritto chiaramente come l’Imperador debba trovarsi a Castel Novo de Quer, se vuole che il Roy di Franza continui a prestargli danaro. E dove conduce Castel Novo? Inoltre, da Marostega passando per Axolo, Castel Francho e Monte Beluna, è molto più facile e veloce puntare su Trevixo che su Padoa.”

Meditando in silenzio, Andrea Griti soppesò i pro e i contri. “Ragionate pulito, ma dubito che il governatore vi darà licenza de partir per tale impresa. Troppo rischioso.”

Ferigo serrò caparbio la bocca, raddrizzando il collo. “Non fallirò, se è questo ciò che teme.”

“Solo perché siete sempre stato vittorioso in battaglia, non significa che siete immortale”, gli ricordò perentoriamente il Griti. “Un assedio è rischioso e sussiste sempre la possibilità, che da Marostega il nemico cangi idea e ripieghi a Vicenza come campo. E se fosse così? Che fareste voi allora? No, spezzate le gambe ai rifornimenti per l’impresa di Trevixo mentre il nemico è in viaggio, ma non tentate né un assedio né di dar battaglia se non alla vostra portata. Non possiamo sguarnire troppo Padoa, sbilanciandoci in caso di centroattacco: ricordate, sier Ferigo, che la fortuna, gran puttana, potrebbe girar in malo modo anche per voi.”

 

 

Continuare con azioni di disturbo, in modo da spingere via i nemici dai confini del territorio padovano e al contempo ritardare il cammino di quella parte d’esercito già diretta alla Valle della Piave.

Non sarà stata quella la risposta che sier Ferigo Contarini aveva desiderato ottenere da quel colloquio col Griti -  a onor del vero aveva sperato in un’intercessione del provveditore generale presso il governatore, sponsorizzandogli l’impresa. Tuttavia, la prospettiva d’uscire per una qualsiasi missione da quella città malata e dall’aria mefitica finalmente s’era concretizzata, liberandolo dal cruccio di dover sprecare il suo tempo sia a punire gli irrequieti stradioti (e giustamente, la paga era in ritardo) sia a fronteggiare giornate intere chiuso in ufficio a Palazzo della Ragione a scrivere, firmare e leggere lettere e documenti. Perfino aiutare sier Polo Capelo nella supervisione del rafforzamento del bastione di Codalunga lo annoiava.

Sospirando pesantemente, il giovane provveditore si diresse quindi verso Palazzo Contarini dietro al Duomo, sperando che la notizia potesse rallegrare in qualche modo il suo amico Marco di Zacharia Contarini "dai Scrigni", il quale versava in un umore nero bestemmia da quando aveva appreso della presenza dell’Imperatore – vera o pianificata che fosse – a Castelnuovo di Quero, là dove si trovava a suo presidio il loro comune amico e parente alla lontana, Hironomo Miani. Dopodiché sarebbe rincasato, così da notificare anche suo fratello Marco Antonio delle ultime novità. 

Sennonché …

“Ah! E’ scappato via, quel mille volte ingrato! E senza dirmi niente! Figlio mio, perché sei stato così crudele verso di me?”

Ma che diamine …?

“Toffolo, cos’è questo carnevale? Che fa madonna ancora in casa? Non la doveva partire oggi per Veniexia?”

“Ah, patron, zelenza, se vui savesse che tragedia! Altro che andar a Veniexia: la mia povera patrona la more de doja, mezza matta!”, gli rispose mesto Toffolo, il servitore, aprendogli il portone e ad accogliere l’uomo a Palazzo furono le urla ferine miste ai pianti di madona Alba Donado Contarini, unite all’esclamazioni esasperate del figlio Francesco, che tentando di calmarla aumentavano per effetto contrario la sua isterica collera. “Siora Mare, calmatevi ve ne prego, o farete radunar tutta Padoa sotto i nostri balconi!”

“O correte a riprender vostro fradelo o tacete, razza de polaco!”

Sorprendentemente, a completare il giocondo quadretto si trovava lì anche sua madre, madona Ysabela Falier relicta Contarini, la quale osservava il tutto attorcigliandosi le dita, indecisa se dar man forte o meno a sier Francesco in evidente difficoltà contro quella belva umana di sua madre.

“Ah, eccolo qua, el Juda Scariota!”, comparve a Ferigo improvvisamente sotto il naso la donna, galoppando giù dalle scale, gli occhi iniettati di sangue e i capelli selvaggiamente in disordine, tanto che lo zendale in testa le penzolava negletto. “La xé tutta colpa vostra se qui me moro!”

Indicando seccamente a Toffolo di serrare il portone onde non dar spettacolo in strada, Ferigo domandò tra il confuso e lo scocciato: “Mia, siora Alba? E in che modo v’avrei strapazzata?”

Sua madre afferrò madona Contarini per il braccio, allontanandola dal figlio. “Alba, per carità, lasciate star. Non è colpa di nessuno, se non dello stesso Marcolino.”

“Ah, no?”, ribatté l’altra, asciugandosi furiosa le lacrime. “Chi ha riferito a mio figlio, che l’Imperador si dirigeva verso Trevixo? Chi gli ha detto, che sicuramente avrebbe attaccato Castel Novo di Quer?”

“E donca? Indove xélo el mal in zò?”

La mano di Alba si mosse convulsamente, indecisa se schiaffeggiare Ferigo o se cavargli gli occhi. “Indove xélo el mal? Marcolin è partito stamane coi 500 fanti e altri zentilomeni alla volta di Trevixo, e senza una parola, senza un saluto e soprattutto senza il mio permesso! Come avete potuto perderlo di vista così? E’ troppo giovane per un fronte sì periglioso come quello di Trevixo!”

Ah, dunque tutti quei discorsi del suo amico non corrispondevano a vuoti propositi, atti a metter solo in allarme la famiglia: alla fine sul serio aveva trovato il modo di partire anche se di nascosto, checché ne pensasse sua madre. Ah, borbotterebbero i vecchi moralisti, gioventù discola sempre ad agir di testa propria! 

“Zovane sì, siora Alba, ma non puto. Il Marcolin ha fatto la sua scelta, voi fate la madre savia che la smette d’impicciarsi nelle questioni d’un uomo adulto!”

Se sua madre e Francesco non si fossero praticamente gettati su di lei, a quest’ora madona Alba avrebbe tenuto in mano lo scalpo di Ferigo, il quale comunque intuite le intenzioni della donna, aveva ugualmente indietreggiato di qualche strategico passo.

“Can! ‘Ssassin! Vui me volé morta!”

Certo però che madona Alba non imparava mai la lezione; insomma, già Marco le era sfuggito una volta praticamente da sotto il naso, quando neppure ventenne era giunto volontario alla difesa di Padova nel settembre del 1509. Perché  stupirsi, quindi, di un bis da parte sua? Gliel’aveva perfino annunciato in più occasioni, peccato che nessuno dei suoi l’avesse preso sul serio, accusandolo di puerili millanterie.

Saggiamente, Ferigo optò per un silenzio da sfinge (aveva promesso all’amico di non tradire il vero motivo della sua partenza), lasciando che madona Alba si sfogasse ben bene su di lui, coprendolo d’accuse e insulti. Non glielo rimproverava, del resto: suo marito sier Zacaria e suo figlio Piero da ben due anni erano rispettivamente prigionieri a Parigi uno e a Perpignan l'altro, naturale che si preoccupasse a morte degli altri rimastole, arrivando a momenti a sequestrarli mettendoli sottochiave. Non c'era però niente di cui preoccuparsi: suo fratello sier Andrea Donado “dalle Rose” era podestà a Treviso e sicuramente avrebbe tenuto sott'occhio il nipote discolo.

Assordatosi quindi convenientemente, Ferigo si distraeva invece contando mentalmente il numero di stradioti necessari per cavalcare rapidi in direzione di Marostica ma sufficienti per sostenere un attacco vincente. Magari ne avrebbe discusso col conte Guido Rangoni, una volta tornato dalla sua missione a Longara per deviare il corso della Bacchiglione. Infatti, aveva in progetto una piccola modifica al piano originale approvato sia dai provveditori che dal governatore e cioè di non limitarsi a rallentare i rinforzi per il maresciallo, rubandogli soltanto qualche arma, ducato e vettovaglia. No, avrebbero al contrario ingaggiato le truppe nemiche in una vera e propria battaglia, annientandole.

La Palice poteva anche marcire in loro attesa fino al Giudizio Universale: a Castelnuovo non sarebbe arrivato nessuno.

 

***

 

Sapristi, capitaine Mercurio! Com’è possibile che una fortezza difesa da un’accozzaglia di disperati riesca a tenerci in scacco da più di un giorno?”, si lamentava il maresciallo e Gran Maestro di Francia Jacques de La Palice nel suo accampamento di fortuna tra Quero e Vas.

Per l’intera giornata la situazione era rimasta la stessa, sfrontatamente immutabile: Castelnuovo incassava i colpi dei cannoni, li contraccambiava con precisa e micidiale parsimonia, e non si riusciva ad avvicinarsi. Si era tentato un assalto, purtroppo fallito: ai franco-imperiali s’era mozzato il respiro non appena immersa una gamba nelle acque della Piave e alcuni di loro rischiarono d’annegare o annegarono proprio, avendo infatti messo il piede in un dislivello o scivolando su di una pietra erano inciampati, finendo in acque più profonde. I mulinelli, rapidi, avevano ghermito questi malcapitati trascinandoli seco e coloro che non erano stati prontamente afferrati dei compagni, ad un certo punto svanirono dalla superficie, invocando inutilmente soccorso. I pochi fortunati che riuscirono ad arrivare sotto il Castello divennero ben presto preda dei balestrieri marciani.

Dulcis in fundo, aveva ripreso a piovere a dirotto e aumentò il malumore dei soldati, assai frustrati da quell’affatto gradito tiro al bersaglio (dove loro erano il bersaglio); incominciarono di conseguenza ad eseguire di malavoglia gli ordini dei loro capitani, al punto da considerare l’opzione alternativa di prendere un’altra strada per giungere a Treviso e neppure la prospettiva delle più vicine Feltre e Cividal di Belluno più li allettava. Meglio impiegarci più tempo e vivere, che pigliare una scorciatoia e lasciarci nel tentativo le penne.

Sfortunatamente per loro, un messo dell’Imperatore recava la notizia di come Maximilian si stesse dirigendo da Bolzano per scendere a Castelnuovo di Quero, dove avrebbe sostato in attesa di ricongiungersi con le truppe provenienti o da Vicenza o Marostica inviatigli dal governatore di Milano, il duca Gaston de Foix-Nemours. 

Et à propos du Duc de Nemours, si sovvenne all’improvviso il maresciallo La Palice, come mai quell’inusuale silenzio da parte sua? Neanche due righe di biglietto! A quest’ora il contingente doveva essere già in marcia, eppure non una lettera di conferma, non un messaggero. Tali negligenze non erano da lui. Bizarre, très bizarre …

“Se si mette un gatto all’angolo, pur sapendosi fisicamente più debole esso soffia e cogli artigli punta agli occhi del suo opponente”, lo distolse il capitano Mercurio Bua dalle sue elucubrazioni, rispondendo alla sua frustrata domanda. Seduto sul bivacco accanto lui,  l’intera postura del greco-albanese si presentava talmente rilassata, da sembrare più a riposo da una partita di caccia che nel bel mezzo di un assedio. Dinanzi all’espressione accigliata de La Palice, il mercenario precisò: “Il punto è, monseigneur, che non a tutte le città e castelli basta la vista delle nostre insegne per arrendersi. Fortunatamente alcuni s’ostinano nella difesa, rendendo questa guerra un po’ meno monotona.”

Il francese lo guardò come se si fosse ammattito. “Trovate dunque diletto in tutto questo?”, inquisì scandalizzato, ripensando agli eventi di quell’infruttuosa giornata, a quella bolgia infernale di spari, sibilo di frecce e scatti di balestre, boati di cannoni e urla quasi animalesche tra imprecazioni e bestemmie.

Fu il turno del Bua d’indurire la sua espressione. “Ho i miei motivi per non aver ancora disertato l’Imperatore”, disse e de La Palice si domandò se stesse forse alludendo al cambio di bandiera avvenuto esattamente un anno fa da parte di suo fratello Teodoro Bua, servendo ora quest’ultimo con gran fervore la Serenissima.

“Lo dimostrate molto male, capitaine. Sembra quasi che non v’interessi prendere Castelnuovo.”

Il greco-albanese gli rise in faccia beffardo: “Quando la Cesarea Maestà mi pagherà come voglio io, allora combatterò come vuole lei.”

Il maresciallo si rilassò: in fin dei conti i mercenari erano anime davvero semplici! “Et bien, una volta espugnato Castelnuovo, potrete appropriarvi di qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo interno.”

L’intera postura del capitano di ventura si rianimò, scattante e sull’attenti, mentre un’espressione feroce gli contorceva i lineamenti: “Qualsiasi cosa?”, esigette conferma, sporgendosi famelico verso il maresciallo e fissandolo intensamente.

“Avete la mia parola. Posso fidarmi?”

“Jamais, monseigneur, jamais! La mia gente si fidò della clemenza dei turchi, per finire poi impalata sugli spiedi come fagiani o segata in due. Per questo, io rispetto di più chi resiste fino alla morte piuttosto che fidarsi dell’onore vero o presunto del suo avversario”, gli confidò tra il sincero e il sardonico, esibendosi per l’ennesima volta in quel suo tipico altalenare d’umori che applicato in battaglia lo rendeva imprevedibile, ingestibile e inarrestabile.

“Abbiamo dunque un accordo, monseigneur de La Palice”, rimarcò solerte il Bua,  istruendo a Zilio Madalo, suo luogotenente, acciocché alle prime luci dell’alba chiamasse a raccolta i suoi stradioti. E rivolgendosi poi alla loro guida, Borlholamio, domandò in veneziano:  “Donca, sto passajo dil qual ti me parlavi e che porta all’entrada dil Castelo, indove se trova?”

 

Nemmeno in mill’anni avrebbe potuto Hironimo immaginare, quanto il suo paragone con Leonida calzasse a pennello con la situazione sua e dei cinquanta difensori di Castelnuovo di Quero: oltre ad aver praticamente gridato al de La Palice un inequivocabile “Molon labe!” [10], come il re spartano anche loro dovettero subire il tradimento di un Efialte, tal Borlholamio, il quale conosceva un altro sentiero di montagna assai ideale per il contrabbando e che aggirava il Castello, talmente ben nascosto da sembrare innocuo ad occhi profani e pertanto sfuggito alla pur meticolosa ricognizione del territorio da parte del giovane castellano.

Non ebbero neppure il tempo di voltarsi, che la porta sud esplodeva in un enorme boato e in una grassa nuvola scura di polvere e pietre, seguita da un istante di mortifero silenzio che poi sfociò nelle urla bellicose degli assedianti pronti all’irruzione attraverso la breccia.

Il loro arrivo, però, sortì l’effetto d’innescare una piccola accortezza preparata da Hironimo come ultima spes la notte precedente, memore della lezione appresa a Padova dal condottiero Zitolo da Perugia: all’ingresso del cortile interno avevano piazzato della polvere da sparo e i primi malcapitati fecero la medesima fine della porta, rallentando per un istante l’impeto dell’assalto, ma ben presto una seconda ondata si riversò dalla parte opposta e gli assediati adesso erano pronti a puntargli addosso balestre e gli schioppi.  Non soddisfatti, a quelli che la scamparono vennero gettati addosso i fuochi ardenti, trasformando gli assedianti in torce umane e così illuminando la sera già di suo di un bel rosso vermiglio. Il fuoco faceva esplodere i loro schioppi e archibugi, coinvolgendo in piccole esplosioni non soltanto chi lo reggeva ma anche chi gli stava accanto in una mortifera reazione a catena.

“Bruseli tutti! Bruseli tutti!”

Piccoli stratagemmi, però, buoni a ritardare l’inevitabile ché non si poteva trattenere l’acqua con le mani e appunto  passati gli iniziali momenti di sconcerto e smarrimento, i nemici impiegarono maggior vigore nell’assalto, bramosi di sfogare i giorni di frustrazione e pioggia battente in testa, senza un granché di cibo e senza paga.

Francia! Impero!  - gridavano quelli, arrampicandosi quasi pur di raggiungere i soldati marciani.

Marco! Marco! – replicarono i difensori del castello, venendogli incontro con le armi in pugno.

Dopodiché, fu l’inferno del corpo-a-corpo e l’aria s’ammorbò di sangue.

 

***

 

A Domenico da Modone con uomini 189 era stato incaricato di sorvegliare il tratto di mura che dalla cittadella conduceva al bastione del Sile; da lì, in direzione di Santa Maria fino alla Porta di San Tomaso con uomini 221 se ne sarebbe preso cura Carlo Corso. Dalla porta di San Tomaso fino al ponte della Botteniga ci sarebbe stato a presidiare Paulo Baxilio con uomini 100 e da quel punto fino al lazzaretto Cipriano da Forlì avrebbe provveduto alla difesa con uomini 238 per concludere il cerchio con Vigo da Perugia e i suoi fino alla cittadella.

Queste erano state le disposizioni di sier Zuam Paulo Gradenigo, provveditore generale di Treviso, e dal signor Renzo Orsini di Ceri, capitano di fanteria per le pattuglie sia diurne che notturne delle mura. I due avevano in aggiunta ordinato che anche i gentiluomini giunti da Padova e Venezia contribuissero dandosi il turno nella ronda. Quanto all’Orsini e al Gradenigo, erano lì ogni notte o a consultarsi coi capitani e i connestabili sulla caminada o a cavallo a controllare che le ronde si svolgessero in ordine senza intoppi. 

Quella mattina del 27 agosto, tuttavia, l’energico provveditore si trovava in compagnia del capitano Vitello Vitelli e di sier Lunardo Zustignan q. sier Unfrè e nipote del Doge, avendo avuto infatti al pomeriggio scorso un acceso diverbio con Renzo di Ceri circa il comportamento affatto consono dei suoi fanti alloggiati nelle case dai recalcitranti trevigiani, i quali contraccambiavano la loro maleducazione finendo spesso alle mani e il povero auditore sier Piero Antonio Morexini stava impazzendo per il numero crescente di querele di padri, fratelli, mariti e fidanzati esasperati per le continue e volgari avances fatte alle loro donne, quest’ultime in realtà non tanto indifese quanto si lasciasse adombrare, anzi, se ogni tanto volava un soldato dalla porta di casa, a corrergli dietro con insulti ancor più prosaici era una florida matrona munita di secchia e scopa o la pentola per le castagne. “La prossima volta che te ripeti ste sporcarie a me fia, t’amazaré!” Affacciatesi alle finestre, le vigilantissime vicine di casa davano manforte e terminavano l’opera innaffiando il reo coi fetenti contenuti dei pitali loro e dei congiunti. Coloro che invece erano stati alloggiati nelle case abbandonate dai trevigiani rifugiatisi a Venezia, ugualmente si sollazzavano senza tregua con prostitute, mentre alcuni fanti senza né Dio né Madonne tentavano tramite ogni inganno d’infilarsi nel letto delle monache.

Più volte sier Zuam Paulo aveva rimproverato la fastidiosa malcostume dei soldati e più volte Renzo Orsini aveva promesso di porvi rimedio, ma sia lui sia l’altro Orsini, Troilo, alla fine lasciavano palesemente correre. Il podestà, sier Andrea Donado “dalle Rose” q. sier Antonio el cavalier, neanche ci metteva becco, ripiegando su di una conveniente neutralità. Purtroppo, quest’impasse non stava che peggiorando il temperamento sanguigno dei trevigiani, già di suo pungolato dalla decisione di abbattere la chiesa e monastero di Santa Maria Maggiore – la loro amatissima Madona Granda – per creare l’indispensabile difensivo guasto interno. Il giorno prima, il 26 agosto, si era incominciata in quel quartiere la demolizione di tutte le case fuori e attaccate alle mura, nonché del campanile della Madona Granda tra gli ululati dolenti della gente, che si batteva il petto invocando perdono alla Madre di Dio per quel sacrilegio.  Di conseguenza, le mani pizzicavano e quel pomeriggio accadde, infatti, che un soldato della compagnia di Troilo Orsini avesse allungato le mani sulla moglie di Donado Cimavin, mentre questa usciva dalla chiesa e infischiandosene dello stato di palese gravidanza di madona Felicita (avendo capito ormai i luoghi dove le donne si riunivano, i soldati non ci avevano messo molto per appostarsi strategicamente e lì aspettarle).

Non calcolò l’uomo come anche il signor marito si trovasse alla funzione con lei, rimasto indietro a parlare col prete. Sicché, testimone di tanta sozza tracotanza, Donado aveva ruggito paonazzo in volto: “Coss’elo sto porco negozio?” e afferrato lo zendale della moglie, arrotolandolo lo strinse a mo’ di corda attorno al collo del soldato, trascinandolo lungo il sagrato della chiesa alla ricerca di un palo, incoraggiato dagli astanti che gridavano in estasi feroce: “Apichalo! Apichalo!”

E quando il capitano Troilo Orsini ebbe pure la faccia tosta di querelare Donado Cimavin, l’auditore Morexini esplose, sbraitando spaventosamente: “El gh’ha fatto ben, el gh’ha fatto!”, assolvendo il marito oltraggiato da ogni accusa.

Al che il provveditore Gradenigo aveva aggiunto: “Se voi non mettete un guinzaglio a quei cani in calore dei vostri uomini, li impiccherò io stesso, saveu? Io stesso!” e peccato che a presenziare ci fosse stato anche Renzo di Ceri, che subito tentò di calmare gli animi per poi finire di litigare a voce ancor più grossa col provveditore, minacciandolo di percuoterlo con la sua spada e di impiccarlo.

“Una cheba di matti”, borbottava sier Zuam Paulo, sfogandosi in un irato andirivieni sulla caminada delle mura. “Una vera cheba di matti …”

“E fra poco lo diverrete anche voi, se non la smettete d’agitarvi manco foste un diavol ne l’acqua santa!”

Il provveditore, bloccandosi, si voltò e per la prima volta in tutta la giornata il suo volto si distese alla vista della moglie, madona Maria Malipiero Gradenigo, avvolta in un pesante zendale. Poi, però, ritornò la sua fronte ad accigliarsi: “Non sarebbe questo posto per voi, siora mojer. Rincasate, ché l’aria stanotte è umida e fredda.”

Più che altro, sin dal giorno in cui gli era stata assegnata la difesa di Treviso, l’uomo temeva costantemente in un attacco da parte dei franco-imperiali, specie notturno, e il pensiero che potesse avvenire perfino in quel momento, con la moglie così esposta, lo preoccupava assai. Aveva in più occasioni insistito acciocché ella restasse al sicuro a Venezia coi loro figlioli, ma lei era stata irremovibile: “Nella buona e cattiva sorte, sior marido mio”, gli aveva ricordato e intimamente Gradenigo gliene era grato, non potendo sfogare con nessun se non con Maria i suoi crucci e l’ansia di quell’incarico ogni giorno sempre più oneroso.

Degna sorella del Griti, Maria non si lasciò scoraggiare dalle parole brusche del consorte. “Sì, avete ragione: vengo solo a portarvi un po’ di cena- o meglio, la colazione vista l’ora -  considerato che siete scappato via peggio di un lievero, senza cenare” e gli cedette poco elegantemente una piccola cesta, girando subito sui tacchi. “E comunque”, esclamò perentoria, voltandosi all’ultimo mentre scendeva la scalinata. “Andando avanti così, credo che prima dei franco-imperiali v’ammazzerà la fatica! Va ben stare dietro a tutto e tutti, ma dormir e mangiare, anche le bestie lo fanno! Poi, arrangiatevi, io v’ho avvertito” e lasciò un impacciato marito lì, fermo immobile, in mezzo alla caminada con la cesta in mano.

“In effetti, se posso dir, vostra siora mojer avrebbe ragione”, commentò sier Lunardo Zustignan, con cui quella notte condivideva la supervisione della ronda. “Vi state strapazzando troppo, sier Zuam Paulo, non avete più vent’anni, potete anche riposare una notte.”

“Quando avremo vinto sta maledetta guerra, dormirò per una settimana intera – solo allora!”, dichiarò serissimo sier Zuam Paulo, cedendo il cesto ad una sentinella che non ci pensò due volte a farne bottino.

Da un po’ di tempo l’uomo sentiva delle fitte all’altezza del fegato e la bile gli risaliva acida lungo l’esofago, levandogli l’appetito, molto probabilmente dovute all’ansia di ritrovarsi a difendere una città-chiave della Serenissima sia dalle truppe franco-imperiali sia dai propri disordini interni. Non giovava il fatto, poi, che le sue richieste di rinforzi e denari o non ricevessero risposta o che gli venissero centellinate; ovvio che, senza paga, i soldati stessero dirigendo altrove le loro attenzioni, se alle donne o all’argenteria di chi doveva ospitarli forzatamente in casa. La questione poi della Madona Granda non aiutava, anzi, sua moglie stessa in uno scatto di nervi gli aveva dato del turco, mentre cercava di spiegarle il motivo di quella drastica scelta.

Fortunatamente, il podestà era talmente incompetente e di conseguenza malvoluto da attirarsi la stragrande maggioranza delle antipatie dei trevigiani; ciononostante, il Gradenigo non dormiva sonni tranquilli, addirittura lavorava più del dovuto per dimostrare la sua totale dedizione alla santa causa, da cui le lodi da parte di tutti.

Ma fino a quando?

State attento, sier Zuam Paulo, o metteranno la vostra testa su di una picca, come fecero con Batiano, il trombetta di Leonardo Trissino.

Il racconto di sier Hironimo Marini, il podestà in carica il fatidico 10 giugno del 1509, ancora l’ossessionava, portandolo a scrutare di tanto in tanto dalla finestra del Palazzo dei Trecento la folla in apparenza tranquilla e dedita ai fatti suoi, in realtà un maremoto umano pronto a colpire al primo suo passo falso.

“Fuogi! Fuogi dal Montelo!”

Il provveditore Gradenigo e Zustignan scattarono in avanti verso il parapetto, allungando il collo e gli occhi sgranati alla vista di piccole luci simili a torce illuminare i rimasugli della chiaria.

“Non possono esser già qui!”, esclamò sier Lunardo sconcertato, “L’avremmo saputo!”

Sier Zuam Paulo scosse il capo. “Saccomanni a cavalo, senza dubbio. O cercano i villani … o i villani cercano loro”, asserì concisamente e si staccò dal parapetto, scendendo rapido le scale onde salire a cavallo e raggiungere il capitano Vitelli. “In ogni caso, sarà meglio inviare domani degli esploratori per degli accertamenti. Se i saccomanni si son spinti fin qua, significa soltanto una cosa: che la Valle della Piave è stata invasa!”

E – Dio li scampasse – che la fortezza di Castelnuovo di Quero era caduta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua  …

 

 

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Piccola nota: alcuni fiumi in veneto sono al femminile: la Piave, la Botteniga, la Brenta, etc. perciò ho deciso di tenere questo “venetismo” nella scrittura anche per fedeltà filologica: soltanto nel XIX secolo il fiume Piave diverrà maschile.

A parte questo, come Mercurio Bua abbia espugnato Castelnuovo, purtroppo non si sa con certezza. Un poema greco scritto su di lui nell’Ottocento narra di come, davanti alle lagnanze del Principe di Anhalt, egli si sia messo a nuotare coi suoi stradioti il Piave, assalendo di spalle i marciani.

Ovviamente, si tratta di una narrazione un po’ troppo fantasiosa, poiché attraversare il Piave ingrossato è da sventati in costume da bagno, figurarsi con armature. Eppoi, cosa voleva fare senza armi? In aggiunta nel poema il povero de La Palice è messo da parte, senza contare come il Principe di Anhalt fosse già morto da un anno ai tempi dell’espugnazione di Castelnuovo. Tuttavia, io sono convinta che la parte del giungere alle loro spalle sia plausibile, pertanto ho preso quello spunto e sviluppato con una strategia un po’ meno romanzata.

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] questi sono i nomi dei militari a presidio della fortezza, che sono giunti fino a noi grazie alle cronache bellunesi del Giampiccoli. I nomi degli altri, così come degli uomini di scorta e dei famigli sia del Nostro che dei suoi capitani, purtroppo, sono rimasti sconosciuti.

 [2] Feltre città natale della primissima infanzia =  stando alla biografia ufficiale, il Nostro è  nato nel 1486 a Venezia nella parrocchia di San Vidal, dove presso il ponte Vitturi si trova il palazzo della sua famiglia.

Tuttavia, in quell’anno suo padre, Angelo/ Anzolo Miani era podestà e capitano di Feltre e secondo il “Liber juramenti rettorum et officialium de extra” e le prescrizioni degli “Statutorum magnificae civitatis et communis Feltriae”, gli ufficiali di Stato erano tenuti a trasferirsi con tutta la famiglia sul luogo del loro incarico, essendo anch’essi compartecipi dei doveri e dei diritti del podestà al momento del giuramento della presa di possesso della podesteria. 

Considerando il viaggio Venezia-Feltre troppo faticoso per un neonato, gli storici di recente hanno avanzato l’ipotesi che forse il Nostro sia nato a Feltre invece che a Venezia; non è da escludere che sua madre, incinta, abbia viaggiato per burchio risalendo il Piave. Purtroppo, sono soltanto speculazioni visto che non sappiamo tutt’oggi il mese e il giorno esatto della nascita del Nostro. Per la storia, ho scelto dunque questa teoria più recente, collocando la sua nascita a Feltre.   

[3] andar a Patrasso = finire male, morire.

[4] multa di 25 ducati = Nell’estate del 1509 venne emanata una grida che chiunque possedesse cavalli doveva cederli alla Serenissima ad uso dell’esercito o incorrere in una multa di 25 ducati per ciascun cavallo trattenuto. Vista la loro importanza, quando si faceva bottino, i cavalli erano le prime prede su cui ci si buttava.

[5]  camerlengo = da non confondere coll’omonima carica nelle gerarchie ecclesiastiche. Nel sistema amministrativo della Serenissima, il camerlengo era colui che amministrava le finanze pubbliche di una città.

[6] fiorentino = fiorentino, in questo caso sodomita. Di sodomia (o  “vizio fiorentino”) s’additava Giulio II stando a certe voci di corridoio riguardo ai suoi gusti effettivamente un po’ ambigui.

[7] famiglia apostolica = per famiglia apostolica s’intendono le 12 famiglie (come gli Apostoli) che si dice fondarono Venezia, tra cui appunto i Contarini, i Morosini (o Morexini) di cui faceva parte la madre del Nostro, i Giustiniani, i Gradenigo e i Corner, etc. Erano anche dette “Case Vecchie”, ovvero esponenti del patriziato più antico. Le “Case Nuove”, invece, erano le famiglie patrizie aggiuntesi o per meriti verso la Repubblica o per ricchezza prima della Serrata,  tra cui ad esempio i Miani, i Gritti, i Malipiero, i Loredan, i Tron (o Trum), etc.

(…) Aurelii Cotta prefetti del Reno = il clan dei Contarini vantava la propria discendenza dalla gens romana degli Aurelii Cotta e in particolare i prefetti del Reno, soprannominati Cotta Rheni, da cui Contareni, venezianizzati in Contarini. Ovviamente, non è storicamente dimostrato, però segue di sicuro la tradizione tutta aristocratica d’inventarsi origini illustri. I Miani, ad esempio, si vantavano di discendere dalla gens Emilia, da cui la latinizzazione (e conseguente italianizzazione) del loro cognome in Emiliani.

Stando alle genealogie, la prozia del Nostro, Elena Miani, aveva sposato nel 1428 Alvise Contarini, prozio di Federico, imparentandoli seppur alla lontana.

[8] prima di dare del fedifrago sporcaccione ad Andrea Gritti, sottolineiamo che egli era rimasto vedovo già dal 1476, anno in cui gli era morta di parto la moglie Benedetta Vendramin, dandogli l’unico figlio legittimo, Francesco, che a sua volta morirà nel 1506, affidando al padre la moglie Maria Donà e le due figlie Benedetta e Viena. Poco più tardi, Maria si risposerà con Sebastiano Contarini, amico del Nostro. Vedovo a soli ventun anni, Andrea decise allora di salpare per Costantinopoli e lì si prese in casa questa donna greca (il nome è inventato, purtroppo lei è rimasta anonima) con cui convisse in monogamia, bisogna dargli credito, e che gli diede quattro figli naturali: Alvise (o Ludovico), Pietro, Giorgio e Lorenzo.

[9] Gian Paolo Gradenigo aveva sposato Maria Malipiero, figlia di secondo letto di Viena Zane vedova Gritti e di Giacomo Malipiero, quindi sorellastra di Andrea. Oltre a lei, Viena ebbe anche due maschi, Paolo e Michele Malipiero. Il rapporto tra i fratellastri fu sempre ottimo, anzi, in più occasioni Andrea diede prova di grande affetto verso i minori e viceversa.

[10] Molon labe! = Vieni a prenderle!, la famosa risposta di Leonida all’intimazione di Serse di consegnargli le armi.

 

  
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