Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
18.07.2021
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PARTE PRIMA:
Castelnuovo
di Quero e Montebelluna
(26 agosto
-12 settembre 1511)
Capitolo Primo
26-27
agosto 1511
L’ennesima
cannonata colpì a vuoto, il tiro ancora insufficiente
per far danni; ciononostante il viso gli si bagnò di acqua,
confermando i suoi
sospetti: si stavano avvicinando, era solo questione di tempo prima che
colpissero la fortezza. Potevano soltanto sperare che finissero prima
la
polvere da sparo.
Osservando
le file nemiche dinanzi a sé, Hironimo avvertì
uno
spaventevole gelo nelle viscere, l’armatura divenutagli
d’un tratto pesante
quanto un sudario.
Neppure
ad Agnadello aveva avuto tanta paura, quando
nell’infernale bailamme della rotta si era fatto strada verso
la fuga mulinando
alla cieca fendenti a destra e a manca e pure pugni e gomitate, mentre
scavalcava i cadaveri dei soldati di ambedue gli schieramenti e sempre
col
cuore in gola per il timore che qualche archibugiere o balestriere lo
puntasse.
Non gli fosse apparso all’improvviso il suo amato
Eòo, bestia nobilissima, che
gli aveva permesso di montargli in groppa e mettersi in salvo, a
quell’ora sarebbe
stato a far compagnia in Francia al Bortolo D’Alviano e tanti
altri prigionieri
– se gli fosse andata bene. In caso contrario, a mangiare
terra.
Non ebbe
così paura neppure durante la folle galoppata in fuga
fino a Treviso dopo essersi visto chiuso le porte di ogni
città, i vessilli
imperiali o francesi già svettanti sulle torri e sulle mura,
rinnegato dai suoi
compatrioti e braccato alla stregua di un criminale a casa sua, nella
sua
terra, il pensiero rivolto alla famiglia della cui sorte temeva.
Neanche in
quel frangente aveva osato sperare d’uscirne vivo, percependo
sul collo il
fiato dei nemici e distrutto dalla fatica. Sicché, ingoiato
l’orgoglio, come
tutti i pochi compagni rimastigli
anch’egli s’era messo ad implorare
davanti a Porta Santi Quaranta affinché la città
li offrisse la sua protezione.
“Verzé!
Verzé! Sun trevixan fio vostro!”, aveva
ruggito
disperato dietro di lui Donado Cimavin e la fortuna volle che a far da
sentinella in quel momento ci fossero stati proprio i suoi amici,
ché, ignorando
gli ordini, aprirono la porta cittadina e mai Hironimo poté
benedire a
sufficienza quel suo “colpo di matto”, come
l’avevano definito i suoi compagni,
quando a scapito della propria pelle era tornato indietro e caricando
aveva
impirato il lanzichenecco che si accingeva a finire il giovane
trevigiano, già
caduto per terra da una schioppettata fortunatamente di striscio.
Issatolo su
Eòo, i due erano poi ripartiti, forgiando
l’amicizia dei fuggitivi, anche
perché dovevano tenersi ambedue svegli in qualsiasi modo,
onde evitare la
cattura nel sonno. Il digiuno forzato non li aveva giovati, similmente
alle
ferite, non gravi ma lo stesso debilitanti.
Eppure,
neanche in quelle occasioni aveva mai provato una paura
così lacerante come ora sulla caminada di Castelnuovo di
Quero, quella paura
che non riusciva a dimenticare tramite l’ira,
l’ambizione e la smania di
combattimento come s’era imposto di domarla in quei due anni
di guerra; eccola
dunque, sottile e indescrivibile, quella di chi era braccato ma
soprattutto di
chi aveva un debito impossibile da sanare, un abisso dinanzi a
sé e con la sola
domanda: che faccio? per compagnia.
Hironimo
si girò, studiando i volti altrettanto tesi dei pochi
coraggiosi rimastigli, quei cinquanta civili bellunesi e feltrini che,
invece
d’imitare la vigliaccheria dei soldati e dei loro capitani
Andrea Arimondi e
Ludovico “Batagin” Bataja – serpi
malefiche, meriterebbero mille forche
e una tenaglia da ogni traghetto! – a loro
periglio avevano preferito
rimanere a difendere Castelnuovo pur consci di dar battaglia a 3000
fanti con
artigliere e 200 cavalli agli ordini del capitano Mercurio Bua, inviati
da La
Palice così da liberare al Re dei Romani la strada per
Treviso, l’antemurale
alla laguna di Venezia.
Ma per
raggiungere tale preda da Maximilian I. aus dem Haus
Habsburg a lungo ambita, i franco-imperiali dovevano passare
forzatamente per
Castelnuovo, da una parte serrato dallo strapiombo del massiccio del
Grappa,
dall’altra bagnato dall’irrequieta e vorticosa
Piave, cioè non permetteva ad
alcuno il passo se non tramite l’angusta porta. Un torrione
dall’altra parte
del fiume complimentava il Castello, poiché ad esso metteva
capo la lunga
catena di ferro destinata ad impedire il passaggio fluviale.
Due anni
addietro, il previo castellano di Castelnuovo, sier Moro
Donado, s’era arreso prima ancora d’ingaggiare
battaglia; per quel che lo
concerneva, il giovane Miani non avrebbe concesso tale favore agli
avversari.
Già
prima ancora del loro arrivo, colto da brutti presentimenti,
Hironimo aveva infatti dato l’ordine di alzare il ponte
levatoio e la catena,
specie dopo l’ignominiosa fuga dei suoi capitani e dei
soldati (tre volte
stramaledetti, se la scampo li apicho co le mie mani!) e
questo
li aveva immensamente aiutati, smorzando l’attacco e anche un
po’ l’iniziale
tracotanza dei nemici i quali si ritrovarono dinanzi ad una Piave
ingrossata e
cattiva, avendo avuto un’estate assai piovosa, e
perciò impossibilitati di
guadare il fiume senza correr il rischio d’annegare. I
franco-imperiali avevano
sudato freddo quando si resero conto d’essere finiti in una
gola, senza via
d’uscita se non quella d’arretrare e ritornare sui
loro passi. Pieni di
sconcerto avevano forzatamente appurato quanto gli assediati, nella
loro
disperazione, non avrebbero esitato a tirargli giù il
massiccio del Grappa con
tutte le sue cime, se ciò li avesse salvato la vita. Il
fatto, poi, che
piovesse a dirotto li aveva impantanati, rendendoli facile bersaglio
delle
bocche di fuoco marciane, impedendo lo strapiombo della montagna facile
riparo
nel bosco.
Contro
ogni prognostico, per quasi un giorno Castelnuovo aveva
resistito, i suoi difensori malgrado i piccoli successi col cuore
pesante: ogni
comunicazione con Feltre e Cividal di Belluno era stata interrotta; i
rinforzi
non sarebbero dunque arrivati e dal Castello ci sarebbero usciti
cadaveri.
Chissà, pensava Hironimo, se anche sier Zacharia Contarini
"dai
Scrigni" e suo figlio Piero s’erano sentiti così
impotenti e sdegnati,
quando a Cremona si videro disertati dai propri soldati?
L’unica
certezza rimaneva che il sole incominciava a calare anche
su quella giornata del 26 agosto e udendo dell’umiliante
situazione di stallo e
di come Mercurio Bua non si stesse neanche impegnando
nell’assedio (perché
poi?), il maresciallo La Palice decise inaspettatamente di presentarsi
per
intavolare le trattative, pur stando a debita distanza dal tiro dei
balestrieri
di Castelnuovo: ormai, quella guerra maledetta aveva assunto pieghe
troppo poco
cavalleresche per fidarsi della buona parola di chicchessia.
“Al
castellano di Castelnuovo di Quero - saluti. Riconosciamo il
vostro valore ed è per il rispetto guadagnatovi, che
l’Imperatore è disposto
alla clemenza: arrendetevi, consegnate la spada e il castello,
sottomettendovi
alla cesarea potestà e avrete salva la vita. Seguitate, e
continueremo finché
di questa fortezza non ne rimarrà che il ricordo e voi tutti
sarete preda del
nostro esercito. Sappiamo della vostra massiccia
inferiorità
numerica e non c’è bisogno che finisca per forza
in un inutile bagno di
sangue!”
Hironimo
rimase in silenzio, voltandosi di nuovo verso i suoi
compagni: i capitani bellunesi Paulo Doglioni, Christofal Colle e Vetor
dil Pozzo;
i due nobiluomini sier Michiel “Chiella” e sier
Benedeto Pagani; sier Vetor di
sier Francesco “Finotti” di Croxecalle; Zuane
Maresio; Hironimo di Batista Vezzan;
Vetor “Bragaza” Capitanei; Gotardo
dell’Agnella, Thomà nipote del Pigotin;
Bortolo Sassaio; Alexio detto “el Gobo da Salce”;
Andrea di Vitor Trepin; Zuam
Piero Vedestoni; Agustin di Antonio Becaria; Catarin di Longo Boato;
Francesco
“Pliz” di Batista; Christofal q. Cesare Tofol detto
“Mazaruol”; Piero e suo
figlio Sebastian Germini; Vetor Sofforzi; Simon Nogaredo; Gasparo
Vedestoni e
tutti gli altri soldati volontari bellunesi che lo fissavano a loro
volta
attenti e silenziosi, il volto sporco di polvere e di sudore. Accanto a
lui, i
suoi servitori Menego coi figli Trovaso e Vico e il nipote Nadalin, che
fedelissimi lo avevano seguito da Venezia. [1]
Pochi
giri di parole: avevano tutti una paura fottuta di morire
così, per niente, e per un momento Hironimo vi lesse nei
loro occhi la
tentazione d’accettare la proposta del francese. Poteva
biasimarli? Anche le
sue mani tremavano! Quale sventato si getta volontariamente nel grande
abisso?
Il
giovane castellano socchiuse allora le palpebre, respirando a
fondo, richiamando alla mente ogni ricordo, ogni sensazione che
cacciasse via
quella paura insidiosa per sostituirla con la più famigliare
ira e così
fortificarsi d’odio e determinazione.
Si
sforzò di ricordare lo stato pietoso in cui aveva trovato
Feltre dopo la riconquista, la città natale della sua
primissima infanzia [2]
quando suo padre ne era stato amatissimo podestà e capitano,
il cui nome era
ancora scritto su di una tabella commemorativa a Piazza Maggiore con lo
stemma
dei Miani, che i cittadini avevano voluto donargli per riconoscenza in
seguito
alla sua vittoriosa difesa contro il Duca d’Austria
nell’inverno del 1487,
nonché alla costruzione di nuove cinta
murarie e delle fontane
lombardesche rifornite da condutture di “cannoni”
di abete, l’acqua captata
sopra Pedavena.
Rivide
Hironimo la fuliggine dell’orribile incendio sugli edifici
un tempo riflettenti la brillante luce montana da sembrar diamanti; i
cumuli di
macerie alte fino alle finestre; i monasteri e le chiese profanate, gli
affreschi deturpati; il territorio guastato; le case gusci vuoti
similmente ai
sopravvissuti all’orribile saccheggio sia del 1509 e del
1510, facce di
cera, corpi da crudeli percosse ancor
tumefatti e donne pregne
di figli non voluti.
Ripensò
agli occhi arrossati e al volto cinereo di sua
madre Leonora Morexini Miani, alle lunghe notti insonni in preghiera a
piangere
in silenzio per non opprimere gli altri figli col suo dolore, il cuore
gonfio
di pena e angoscia al pensiero di Lucha in Alemagna, ferito e
prigioniero. Suo
fratello, il figlio primogenito ben più nobile e ben
più degno di lui, che le
era stato ritornato solo il novembre scorso, vivo sì ma
invalido col braccio
destro penzolante e inerte, avendogli i proiettili maciullato i nervi e
le ossa
del gomito durante la strenua difesa del Castello Della Scala. E
malgrado la
sua dedizione alla santa causa, comunque Lucha si era dovuto umiliare
dinanzi
al Maggior Consiglio, costretto per necessità a supplicarlo
per un mese
d’accordargli il permesso d’ottenere a
mo’ d’indennizzo la castellania di
Quero, anche se governata in sua vece da uno dei suoi fratelli,
incominciando
infatti a risentire le loro risorse economiche a causa della guerra.
E che
dire dell’enorme dispendio di energie e denari per
rinforzare Castelnuovo con una terza torre? Nonché degli
insulti iniziali dei
soldati e degli operai, non gradendo d’esser capitanati da un
“putachio
imberbe, polorbo” e divertendosi a
sottolineare con crudele gusto
ogni suo errore, finché, stufo marcio, Hironimo non aveva
preso di persona a
scudisciate i più insolenti a monito per gli altri?
S’era scordato delle
ingiurie al limite dell’assalto fisico della popolazione di
Quero, Alano e Vas,
che invece di comprendere la gravità della situazione,
preferivano poltrire,
neanche il Castello si potesse ricostruire da sé?
Si
sovvenne poi delle lunghe trattative coi podestà di Feltre e
di
Cividale di Belluno sulla necessità di stringere un patto di
reciproco sostegno
in caso d’attacco nemico. Hironimo si ricordò
delle sue insistenze sia col
Consiglio dei Dieci che col podestà di Treviso di
distruggere Scalon, situato
sulla forcella sopra Segusino e soprannominato “la mulattiera
dei
contrabbandieri”: oltre che a danneggiare l’erario,
esso corrispondeva ad un
passaggio ideale per le truppe avversarie. Nell’ansia aveva
venduto
l’argenteria, i tappeti e ogni suppellettile prezioso trovato
al Castello pur
d’assicurarsi fondi sufficienti: ora gli interni di
Castelnuovo parevano più
austeri della cella di un eremita.
Tanto
orrore, tanti sforzi, tante umiliazioni annullate da
un sì vigliacco?
Il
giovane Miani aprì gli occhi; per la terza volta si
girò verso
i compagni e molto probabilmente anch’essi dovettero aver
condiviso le medesime
riflessioni raffrontandole alle loro esperienze passate, sparita
infatti
l’ombra del dubbio dalla loro fronte. I franco-imperiali li
avrebbero ammazzati
comunque, che almeno chiudessero degnamente la partita come Sansone coi
Filistei.
Modulando
la voce in un tono fermo e deciso, egli rispose
pertanto: “Monsignor Gran Maestro di Francia
- saluti. Come mai
codesto bel discorso non viene il Re dei Romani a farcelo di persona? O
forse
gli brucia ancor la faccia, dopo lo schiaffo di Padova?”
Un rictus
nervoso piegò l’angolo della bocca del maresciallo
francese e suo malgrado, Mercurio Bua si lasciò sfuggire un
sogghigno
confermando quel nervo scoperto che tanto affliggeva il suo superiore:
effettivamente, da mesi l’Imperatore prometteva di scendere
per la Valsugana fino
a Treviso, rimpinguando le truppe di La Palice con uomini, armi,
cavalli,
rifornimenti e danari. Peccato che Maximilian parlasse e parlasse, ma
di fatti
concreti ben pochi. Lo confermava perfino l’irritato
Re di Francia, il
vero finanziatore di quell’impresa che gli stava costando
almeno più di 20,000
ducati aggiungendosi ai 50,000 d’arretrati già
dovutigli dal Re dei Romani, dei
quali da troppo tempo si prometteva il risarcimento. Voci indiscrete
sostenevano come Maximilian avesse chiesto in prestito soldi al suocero
Fernando el Católico. Cosa quella vecchia volpe gli avesse
risposto, non fu
dato conoscerlo.
“La
Cesarea Maestà non può venire di persona
giacché voi,
ostinandovi a non cedere il vostro Castello, glielo impedite.”
“Ah,
così la colpa è di noialtri? Meno male, qui
s’incominciava a
pensare che l’eccellente esercito dell’Imperatore
fosse bravo solo a
prendersela con le donne e i bambini, quando non troppo impegnato a
rubare, ben
inteso.”
“Ci
accusate di vigliaccheria? Suona grassa detta proprio da voi,
disertato dai vostri medesimi soldati!”
“D’inutili
palle al piede non so che farmene!”
“Tanta
cocciuta insolenza non difenderà queste mura! Arrendetevi e
cedete con onore, ciò che non poteste difendere con la
spada! Pensate alla
vostra gente e rimettevi alla clemenza
dell’Imperatore!”
Al che
Hironimo vide letteralmente rosso. “Oh, ma io ci penso alla
mia gente così come conosco la clemenza del Re dei Romani:
più volte ce l’ha
dimostrata al punto che mi par più misericordioso il Signor
Turco di lui!” E
levata ancor più in alto la voce: “Per quel che ci
riguarda, dai tempi di Santa
Giustina abbiamo consacrato la vita alla Signoria Nostra e fino
all’ultimo
respiro non cederemo il Castello e se persisterete a molestarci, vi
spediremo
tutti all’inferno da dove venite!”
La Palice
scosse il capo, indeciso se dispiacersi o meno per la
sorte che attendeva quei disgraziati. In ogni modo li aveva avvertiti,
la sua
coscienza era quindi a posto. “A piacer vostro”,
replicò incolore e assieme a
Mercurio Bua galopparono indietro verso il loro
campo. “Per oggi abbiamo
finito: lasciamoli un’ultima notte per confessare i loro
peccati.”
“E
dunque?”, chiese il capitano Paulo Doglioni ad Hironimo,
scrutandolo attendo.
Staccandosi
dal parapetto, il giovane patrizio gli rispose
seccamente: “Che andiamo a Patrasso [3] e facciamo la fine di
Leonida”, e scese
rapido la scalone di legno interno per imboccare il corridoio di pietra
in
direzione dei suoi appartamenti. Il tempo era poco, doveva sbrigarsi
prima che
riprendessero a bombardarli.
Spiando
di sottecchi la figura del castellano scomparire dalla
caminada, Thomà, un putto di sì e no dieci anni,
domandò sottovoce a Andrea
Trepin il bombardiere. “Ma chi xélo sto Liom Hida?
Lo cognosselo?”
L’uomo
fece spallucce. “Mah, sarà un che vien da Porto
Gruero.
Continua a smissiare ti!”, gli intimò, riferendosi
alla miscela di polvere da
sparo su cui stava lavorando per il cannone da caricare. Sei parti di
salnitro,
una di carbon dolce, uno di zolfo. “Fra puoco li avrem in
bocha, quei cancari
maladeti.”
“Andrea,
dime: sul serio andemo a morir tuti?”
L’espressione
del bombardiere si raddolcì, pur restando il suo
sorriso amaro. “Ne toleremo assa’ co nu”,
fu l’unica promessa che poté
garantire al suo giovanissimo assistente. “E
ch’ee zime dil Grappa et la
Piave fassano el resto!”
Apparentemente,
Castelnuovo di Quero si presentava una chiusa
insormontabile: la torre maggiore, inserita nella montagna, era coperta
da
terrazza, con perimetro esterno munito di piombatoie su cui
già i fanti s’erano
predisposti per versare al momento giusto del piombo fuso e altro
materiale
agli assalitori. Dalle strettissime feritoie, disposte a vari piani, i
soldati
avevano piazzato invece i loro archibugi. Dal lato opposto, la torre
minore
affondava nel greto della Piave, con fondamenta decisamente profonde.
Essa
serviva da abitazione al castellano, al capitano militare e ai loro
famigli;
anche questa torre era coperta da una massiccia terrazza, coperta da
grossi
merli di roccia viva, ideale per le bocche di fuoco. Un corridoio di
pietra
collegava le due torri nella parte alta del corpo centrale
più basso, dove i
soldati s’erano appostati dietro al muretto protettivo,
pronti a seconda della
necessità di respingere le scale appoggiate alle mura e di
tagliare le funi lasciate
cogli arpioni.
Allo
sbarramento della montagna si aggiungeva quello fluviale: la
Piave, a causa dei molti e ricchi affluenti, aveva un livello
d’acqua
costantemente alto e il suo impetuoso frastuono riecheggiava nella gola
di
Quero, il suo greto caratterizzato da rientranze, insenature, curve e
controcurve. Due soltanto erano i ponti che permettevano il suo
attraversamento: uno a Cividal di Belluno ed uno a Cesana.
Quest’unione
dunque – del massiccio del Grappa e della Piave –
rimaneva l’ultima speranza dei marciani, pregando Iddio di
contemplare un’altra
aurora.
Nel suo
appartamento spoglio, intanto, Hironimo fissava a lungo la
carta bianca su cui indugiava, due dita sotto il mento: cosa scrivere
alla sua
famiglia? Come accomiatarsi dai suoi cari? Con quali ultime parole lui,
castellano di Quero, sarebbe stato ricordato? Con che frasi avrebbe
potuto
consolare la madre, per rassicurarla che moriva con onore, da vero
patrizio
veneziano e che mitigasse la perdita del figlio con la consapevolezza
che aveva
adempiuto al suo dovere verso la Signoria? In che modo poteva
confortare
il Cor Suo, spronandolo a perseguire la
santa causa fino alla
vittoria e di non sentirsi schiacciato da quell’ennesimo
lutto, già di suo
oppresso dopo la cattura del padre e del fratello?
Un
fremito di collera portò la fronte del giovane castellano a
corrugarsi, le labbra martoriate dai denti e piegate
all’ingiù in una linea
dura.
Scrivere
alla famiglia … per cosa? A quale scopo? Per informarli
delle sue ultime angosciose ore di vita? Dei suoi timori? Della sua
impotenza?
Del suo spettacolare fallimento? Per farsi così deridere dai
fratelli maggiori?
Già li sentiva mormorare: Tipico del
Momolo di nascondersi dietro le
sottane della siora Mare, a piangere ogniqualvolta si trovi in
difficoltà.
No,
questo mai.
Intinta
la punta nel calamaio, scrisse invece:
“Di
Castel Novo di Quer, a dì 26 avosto 1511, sera. Informiamo
il magnifico provedador zeneral di Trevixo, sier Zuam Paulo
Gradenigo quondam sier
Justo, che Castel Novo di Quer, attaccata, si tiene ancora ma non si
pol
garantir per quanto, ergo si
prepari Trevixo. Si dubita
l’arrivo dei rinforzi – capetanij Andrea Rimondi e
Ludovico Bataja hanno
disertato el campo, ripiegando a Cividàl di Beluno. Nescio dei
podestà et capetanij sier Zuanne Dolfin et sier
Nicolò Balbi a Cividàl, la via
occupata da li inimici impedisce l’invio di qualsiasi
trombetta. Tamen si
è di bona voja, gli homeni qui tutti disposti a morir in
fede di San Marco.”
Sì,
decisamente meglio.
Deglutendo
la bile risalente su per l’esofago, Hironimo passò
la
polvere sull’inchiostro, asciugandolo e dopo averla soffiata
via chiuse la
missiva destinata al provveditore di Treviso: l’accampamento
a debita distanza
dalla fortezza per timore di bombardamenti notturni, aveva lasciato la
strada
per l’alto trevigiano ancora relativamente sgombra dalle
truppe nemiche per chi
conosceva bene il territorio – meditava. Se riuscivano a
resistere anche solo
per un altro giorno, almeno avrebbero evitato una sconfitta ben
più grave alla
Serenissima, allertando in tempo Treviso, i cui stradioti ed
esploratori
stavano sicuramente già pattugliando la Marca; inoltre, i
contadini del
Montello, a detta delle lettere dei podestà e provveditori,
erano
vigilantissimi, riparati strategicamente nei fitti boschi e pertanto,
se
avessero inviato un loro messaggero, le probabilità di
giungere in qualche modo
sano e salvo a Treviso, senza essere intercettato, erano buone. Certo,
la
scelta era stata tra la capitale della Marca e Feltre e Cividale di
Belluno,
quali avvertire per prima: qualcosa però suggeriva ad
Hironimo che quel
vigliacco del Bataja, ben al riparo a Miesna, avrebbe adempiuto
perfettamente
al suo nuovo ruolo di corriere, riferendo la situazione a sier Zuanne
Dolfin e
a sier Nicolò Balbi.
Magra
consolazione per loro e bisognava affrettarsi.
Portandosi
al caminetto, il giovane patrizio cercò a tentoni la
rientranza segreta sul raccordo della canna fumaria, estraendo una
piccola
borsa con 200 ducati, ciò che aveva faticosamente messo da
parte per le paghe
dei soldati. Un risolino isterico gli sfuggì di bocca: con
quei soldi ci
avrebbero pagato Caronte!
Dopodiché,
raccolti tutti i registri, le mappe del territorio
nonché l’intero pacco con la corrispondenza coi
podestà e i provveditori, il
Maggior Consiglio, il Collegio, i Dieci e i Pregadi, li
gettò uno ad uno nel
fuoco, assicurandosi che di essi non rimanesse altro se non
dell’inutile
cenere. Forse non sarebbe servito a nulla, nondimeno non poteva cavarsi
un
certo senso di soddisfazione nel privare il nemico di ogni qualsivoglia
forma
di bottino.
E a tal
proposito …
“Lo
so, dolcezza mia. Lo so. Non mi vuoi abbandonare, tu, più
fedele d’un cristiano.”
Oggettivamente
appariva logico affidare Eòo a Cabriel Germini, il
messaggero scelto per quella delicata missione e dunque bisognoso del
corsiero
più veloce e resistente, tutte qualità risiedenti
in quell’animale fedelissimo
da Hironimo amato più d’un essere umano, per il
quale era entrato in cavalleria
appunto per non doverlo cedere e al contempo evitare la multa di 25
ducati [4].
Ma il cuore, hé, il cuore gli aveva suggerito quella scelta
per non dover
sopportare il dolore di vedere il suo preziosissimo Eòo
ridotto a bottino,
finendo nelle cupide mani dei francesi o dei tedeschi.
Baciò
la fronte dell’adorato cavallo, suo compagno sia nelle
felici e spensierate cavalcate estive a Fanzolo sia nelle massacranti
missioni
notturne di disturbo operate dalla cavalleria
leggera. Hironimo lo
accarezzò tristemente, gli occhi fissi in
quelli grandi e liquidi
dell’animale che ricambiava solenne, quasi avesse compreso
trattarsi di un
addio.
“Hai
ben capito?”, si riprese, staccandosi a forza dal corsiero
per istruire Cabriel, montato timidamente in groppa, in quanto ben
conosceva la
protettività del suo castellano nei confronti
dell’animale, arrivando a
sfuriate tremende verso il malcapitato cui toccava ferrarlo se
l’operazione non
rientrava nei suoi gusti. “Questa lettera la consegni
direttamente in mano al
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, solo al sior provedador, a
nessun
altro! Manco al podestà! Al camerlengo [5], invece, gli
darai questa” e il
ragazzo si ritrovò la mano pesante col denaro. “E
mi raccomando: fatti
riconoscere sia dagli stradioti che dai villani, se vuoi evitare di
morir sul
posto, quelli prima t’assassinano e poi ti domandano il nome.
Comprendestu?”
Cabriel
annuì energicamente, tirando su col naso.
“E
non piangere, non sei un poppante!”, lo rimbeccò
aspramente
Hironimo, mentre faceva cenno a due soldati di aprire quanto
più discretamente
possibile l’entrata sud della fortezza, in direzione di
Treviso. L’ingresso non
era munito di saracinesche, bastando i ponti levatoi ad aprire e
bloccare il
passaggio, i quali vennero calatati lentamente, manovrando rapidi e
guardinghi
gli argani e le pulegge.
“Perdòname,
zelenza, pensavo al sior mio pare et a mio fradelo,
qui …”
Il
giovane patrizio si morse l’interno della guancia,
mascherando
la propria pena nel realizzare per colpa di quelle parole quanto poco
adeguatamente egli stesso si fosse congedato dalla sua famiglia. Sua
madre, la
sua roccia, lo aveva supplicato in ginocchio di ripensare alla sua
decisione,
quando Hironimo si era offerto volontario di sostituire Lucha. La donna
gli
aveva ricordato la sua inesperienza nel gestire una fortezza
così strategicamente
importante, concessa solo a reggenti di provata competenza e
fiducia. Essere
un valente cavaliere non fa di te necessariamente un buon
comandante, lo
aveva ammonito. Invece d’apprezzare il suo consiglio,
Hironimo s’era sentito
infantilmente offeso, ribattendo stizzito di non trattarlo alla stregua
di un
moccioso e ricordandole che qualcuno doveva pur onorare
quell’incarico ottenuto
a gran fatica, visto che né Carlo né Marco
avevano dimostrato sufficiente
fegato e amor patrio per rimpiazzare Lucha. E ciò lo aveva
affermato proprio
davanti a Marco, che s’era illividito a tal punto da
proferirgli i peggior
epiteti e Hironimo aveva realizzato come in un sol colpo, pur di
difendere la
sua vanità, avesse disprezzato il consiglio materno e
insultato i suoi fratelli
maggiori.
E questo
appena tornati dal funerale della loro sorellastra,
Crestina Miani da Molin "Murlon".
“Quando
sarai a Trevixo”, aggiunse il giovane Miani
all’ultimo
momento, costringendo Cabriel a fermarsi e girarsi, “porta
questo cavallo a mio
fratello Marco e riferiscigli che non avrà più da
invidiarmelo. Digli anche che
mi dispiace d’avergli dato del vigliacco.”
Anni
addietro, alla nascita di Eòo, lui e Marco accapigliandosi
avevano litigato come pazzi per decidere a chi sarebbe toccata quella
magnifica
creatura. Siccome Hironimo era il più testardo, con
più fiato nei polmoni e
ovviamente l’ultimogenito, sua madre aveva ceduto in suo
favore, al che Marco
s’era vendicato spingendolo dritto a faccia ingiù
nello sterco, sorprendendolo
di spalle nella scuderia mentre si godeva ignaro il suo ennesimo regalo.
Se
così poteva fare ammenda …
La porta
venne chiusa e con esso l’ultimo residuo dei tempi
passati.
Cor
mio, così dunque doveva finire la mia vita? In gabbia peggio
d’un sorcio? Fosse stato almanco in battaglia, in groppa al
mio Eòo e con te al
mio fianco …
“Domino
Vetor”, si scosse il giovane dal suo momentaneo
incantamento, raggiungendo rapido il capitano feltrino. Costui
s’era assai
distinto negli ultimi due anni di guerra, guidando coraggiosamente la
riconquista della sua città natale e bloccando
l’anno successivo le truppe del
principe di Noltz presso la Scala. Era stato il primo ad entrare a
Castelnuovo
di Quero – o quel che n’era rimasto –
dopo averlo espugnato di nuovo ai
tedeschi. Se c’era qualcuno di cui fidarsi per una sortita di
cavalleggeri,
Vetor dil Pozzo era il suo uomo. “Tenetevi pronti con la
vostra compagnia: in
caso il nemico dovesse entrare in questa fortezza, dobbiamo sbarrargli
la
strada per Feltre.”
“Non
proseguiranno per Trevixo?”, s’informò
il capitano, tirando
un intimo sospiro di sollievo nel sentire la sua città
natale fuori dalle brame
conquistatrici del nemico e pertanto la moglie e i figlioletti al
sicuro.
“Quello
è il loro piano, tuttavia hanno due città poco
distanti e
codesti branchi di cani sono perennemente affamati.”
“Provvedo
a radunare i miei uomini, allora”, concluse il feltrino,
proseguendo verso le scuderie.
“Eccellenza”,
si avvicinò il cappellano al giovane Miani,
prendendo il posto di Vetor dil Pozzo che s’era appena
allontanato, “stiamo per
celebrar Messa”, forse l’ultima, “non
desiderate venire a comunicarvi?”
Hironimo
lo fulminò con lo sguardo. “A che pro
pregare?”, chiese
sardonico, il bel volto distorto in una smorfia ferina. “A
meno che non faccia
scendere una legione d’angeli per tagliare a pezzi i
franco-imperiali, per me
si tratta d’una perdita di tempo.
D’altronde”, interruppe con veemenza
l’obiezione dell’uomo senza concedergli tempo
d’esprimersi, “se missier Domino
fosse veramente giusto e misericordioso, avrebbe fulminato
già da anni quel
cancaro fiorentino [6] bestemmiatore che siede a Roma, quel figlio di
femmina
pubblica che ci ha aizzato contro questi barbari maledetti, bravi solo
a
saccheggiare le nostre terre, a bruciar tutto, a sgozzare i nostri
fanciulli e
a violentare le nostre donne. No, Iddio se ne sta sul suo bel trono
d’oro a
guardare noialtri soffrire alla stregua di cani, permettendo che ogni
nefandezza in terra accada impunemente. In due anni di guerra, non
L’ho visto
difendere né la vedova né l’orfano,
né liberare nessuno dal nemico. Dio non ci
stima nulla, o avrebbe già provveduto.”
In altre
circostanze, ovvero come accaduto negli ultimi cinque
mesi, il religioso avrebbe ribattuto tenace il suo disappunto,
sospirando e
roteando gli occhi, ma fiducioso di possedere abbastanza tempo e
risorse onde
persuadere quell’ostinato castellano a riallacciare i
rapporti col Padreterno.
Adesso, a maggior ragione, non confidando nella sua salvezza terrena
malgrado
l’abito indossato, egli avvertiva l’impellente
necessità di concludere
quell’ultimo compito, così da presentarsi dinanzi
a San Pietro senza rimpianti.
“Capisco le vostre obiezioni, nondimeno considerando le
circostanze …”
“Colendissimo
padre, voi siete un uomo dabbene, non lo nego e vi
rispetto per la vostra devozione ed onestà. Se volete dir
Messa, fatevelo: se
può dar conforto a questi valent’uomini, ben
venga. Quanto a me, però, come vi
dissi al nostro primo incontro e come vi dico oggi, vi prego di non
costringetemi a partecipare.”
Il
cappellano scosse il capo e ritornò alla piccola cappella,
sconfitto e il cuore grave da tale ostinatezza, dispiacendosi per
quell’atteggiamento da turco del giovane patrizio. Un vero
peccato, cogitava
mesto, contemplare un’anima così passionale eppure
perduta …
Alle
prime luci dell’alba ripresero le cannonate e quindi altri
spruzzi in faccia.
***
Sier
Ferigo quondam sier Hironimo
Contarini di
San Cassian non si era mai fatto scrupoli di nascondere i suoi
pensieri: quando
c’era da mandare in malora, mandava in malora; quando
c’era da lodare, lodava.
Poco gli importava del suo interlocutore, se nobile o plebeo, la sua
filosofia
di vita si riassumeva nel chiamare sempre il diavolo col proprio nome.
Tale
sfrontata coerenza l’aveva portato a difendersi due anni
addietro con
disarmante schiettezza dinanzi ai Dieci, narrandogli di come avesse
evitato la
cattura a seguito della capitolazione di Asola travestendosi da soldato
mantovano e nascondendosi nell’ultimo posto, dove il marchese
Francesco Gonzaga
l’avrebbe cercato, cioè a Mantova stessa, da dove
Ferigo era tranquillamente
ripartito per Venezia in barca.
Senza
peli sulla lingua, audace ma non sventato, alla fresca età
di ventinove anni Ferigo malgrado la disfatta e rocambolesca fuga da
Asola
venne nominato ugualmente sulla fiducia provveditore di Cividale del
Friuli,
una scelta rivelatasi lungimirante ché il giovane si
dimostrò ben presto un
eccellente militare, collezionando spettacolari vittorie in Friuli, nel
Vicentino, nel Veronese e nel Polesine; si distinse mirabilmente a
Ficarolo,
Sassuolo e Mirandola. Al punto che si volle affidargli le truppe
più bellicose
e indisciplinate, cosicché appena trentenne divenne
provveditore degli
stradioti (un primato in assoluto considerata la giovane
età) che governava col
proverbiale bastone e carota, punendo in maniera esemplare ogni forma
d’insubordinazione ma al contempo lasciando ai suoi uomini
una ragionevole
libertà di far bottino, arrivando perfino a giustificarli
all’occasione.
Ovunque
andasse, il Contarini seminava il terrore tra i suoi
nemici e lo potevano ben testimoniare il Duca di Brunswick Erich I di
Brunswick-Lüneburg der Ältere o
il condottiero Andreas von
Liechtenstein che in più occasioni se lo videro piombare
addosso all’improvviso
peggio d’un rapace, incapaci di reagire al violento impeto
dei suoi attacchi e
la frase “vegliate, dunque, perché non sapete
né il giorno né l’ora”
assunse
per i suoi avversari un significato meno spirituale ma assai
più
terreno. Grazie alle sue imprese, la famiglia apostolica dei
Contarini a
gran voce poteva vantare con orgoglio la sua discendenza dagli Aurelii
Cotta,
prefetti del Reno [7]. Ferigo, al contrario, si schermiva con
pragmatica
modestia e a chi lo chiamava un Druso, un Germanico o un Ettore, egli
rispondeva con un sorrisetto sfottitore: “Puoah! Non avete un
miglior paragone?
Sono finiti tutti assai male!”
E sempre
con quel suo atteggiamento di chi sa ciò che vale e non
accetta contestazioni, egli si presentò a casa del
provveditore sier Andrea
Griti e perdiana stavolta l’avrebbero ricevuto.
“Me
spiace, missier provedador, ma la frebe di sier Griti non è
miorata, el sente fredo e caldo e anzi, el dotor è
lì per trar sangue.”
“Polelo
parlar?”
“Sì?”
“Donca,
cavate e lassame passar!”
Fortunatamente
per il povero segretario, già in posizione perfetta
per una solenne spintonata, gli comparve salvifico da dietro sier Polo
Malipiero, il fratellastro del Griti e i suoi occhi umidi ed arrossati
non
tradivano nulla di buono. “Sier Ferigo, prego,
entrate”, gracchiò, tirando su col
naso.
“Come
sta?”, s’informò sottovoce il giovane
provveditore,
scansando di malo modo il segretario, il quale giudicò
conveniente battere a
saggia ritirata, borbottando tuttavia come a furia di star cogli
stradioti
anche missier Contarini si comportasse in identica cafona maniera.
“Temo
che per mio fradelo sia la fine: il medico non porta buone
nuove. Ho tentato di persuaderlo a rientrare a Veniexia, ma lui non
vuole, non
con sier Christofal anch’egli in letto ammalato.”
“E
parrebbe tutta Italia con loro: il dottor Hironimo Donado ci ha
giusto confermato come a Roma anche il Papa stia giocando a dadi con la
morte.”
Polo
Malipiero assunse un’espressione disgustata. “Il
diavolo
volesse pigliarselo una volta per tutte …”,
mormorò rancoroso. “Adesso
s’è pentito
– el cancaro! – d’aver chiamato i barbari
in Italia, adesso che minacciano
i suoi di territori.”
“Il
mal italico”, sentenziò Ferigo, “sta nel
rimettersi nelle mani
degli stranieri per risolvere questione interne, manco fossero un
demiurgo che
agisce pel ben e gli interessi nostri, non capendo che così
facendo offriamo la
testa alla scure.”
“Voi
due là, avete finito di spettegolare fitto-fitto peggio
delle
lavandaie?”, li interruppe sier Andrea Griti dal letto,
nervoso quanto un leone
a digiuno in gabbia e malgrado il contesto non proprio roseo, quello
sfogo
provocò un risolino divertito nei due uomini, alleggerendo
la tensione vigente.
La stanza
puzzava dell’aria stantia tipica dell’ammalato, non
avendo infatti aperto le finestre sin dall’inizio della
malattia del
provveditore e ciò appariva più che
giustificabile considerato come l’intero
padovano pareva di recente flagellato da febbri improvvise e mortifere,
accarezzando l’ipotesi che si trattasse di malaria a causa
delle continue
deviazioni dei fiumi e rotture dei canali, perciò favorendo
l’elemento palustre
mai completamente debellato dalla pianura veneta.
Sier
Andrea giaceva in letto pallido quanto le lenzuola, forse
più
per il salasso cui il medico in quel momento lo stava sottoponendo che
per la
febbre di per sé, la quale comunque manifestava la sua salda
presa sull’uomo
sudato eppure tremante, il viso torvo per quella degenza forzata, un
insulto al
suo spirito attivo ed energico. Sedutagli accanto, la sua concubina
greca
Melpomeni [8] gli teneva la mano, tastando di tanto in tanto la fronte
che
inumidiva con un panno bagnato. Le sue nipotine Benedeta e Viena Griti
erano
già salite su di un burchiello diretto a Venezia,
accompagnate dalla madre
madona Maria Donado Contarini. Il loro nonno aveva veementemente
insistito,
poiché temeva il contagio se non da lui da qualcun altro,
essendo la febbre un
male sottile e vigliacco, rapidissimo ad ingoiarsi un’intera
città, come Padova
in quel momento. Inoltre, era giusto che ritornassero dal loro nuovo
patrigno,
sier Sebastian Contarini.
“Sier
Ferigo, mi consola saper almanco voi in piedi”, fu il saluto
del provveditore, contento sia di quella visita sia della fine del
salasso.
“Come si porta il magnifico provedador sier Christofal
Moro?”, s’informò,
invitandolo a sedersi seppur a debita distanza.
“Esattamente
come voi: un giorno migliora, l’altro peggiora. Anche
il governatore, il signor Lucio Malvezzi, si è buttato in
letto; è da ieri che
non si leva.”
Andrea
grugnì, puntellandosi sui gomiti e aiutato da Melpomeni, che
gli sistemò meglio il cuscino dietro la schiena.
“E la cagnara della notte
scorsa?”
“Un
falso allarme: le sentinelle credevano aver scorto dei cavalli
nemici. Ma il magnifico provedador sier Polo Capelo è
rimasto comunque al
bastione de Cao Longa per accertarsi.”
Sier
Griti annuì sollevato.
“Inoltre,
stamattina sono stati inviati alla volta di Trevixo i
3000 ducati assieme ai 500 fanti più gentiluomini a seguito,
come da voi
istruitomi. El vostro sior cugnado sier Zuam Paulo [9] sarà
contento, almanco
per qualche settimana”, aggiunse Ferigo, la cui venuzza
sardonica nel tono di
voce non sfuggì al suo collega più anziano, che
di fatti ribatté stancamente:
“Sier
Ferigo, già sappiamo la vostra opinione in materia
…”
“Dunque,
se si conosce la mia opinione, perché stiamo qui a
succhiarci il pollice, invece d’uscire alla volta di Vicenza
ed espugnarla? A
presidiarla è rimasta poca gente, non sarà
un’impresa impossibile! Mare de
diana!”, sbottò con veemenza, battendo i palmi
delle mani sulle cosce, “cosa
stiamo aspettando? Bassan, Axolo e Castel Francho si sono arrese senza
combattere! Se non reagiamo, i nemici non esiteranno ad attaccarci
perché ci
sapranno deboli!”
“Quindi,
secondo voi, Vicenza s’è svuotata
perché ci stanno
venendo in bocca?”, volle conferma sier Polo, lanciando
un’occhiata ansiosa al
fratellastro, che convenne:
“Corretto.
E senza Vicenza non avranno alcun luogo dove riparare,
dopo la sconfitta a Trevixo. Dico bene, sier Ferigo?”
“Sì,
ma chi ci assicura che l’impresa sarà a
Trevixo?”, insistette
Malipiero, anticipando l’altro provveditore. “Le
nostre spie ci hanno riferito
come la Peliza stia puntando invece qui a Padoa.”
“La
Peliza, come tutti i francesi, dice una cosa e ne fa
n’altra”,
gli spiegò il Contarini. “Se hanno messo questa
ciancia in giro, l’è per
confonderci. A tal proposito, abbiamo catturato una staffetta del gran
maestro
il signor Gastone de Foys: da Millan son partite 400 lance, 4000 fanti
e 12
bocche di cannone, tutte dirette a Marostega. Nella lettera
è stato scritto
chiaramente come l’Imperador debba trovarsi a Castel Novo de
Quer, se vuole che
il Roy di Franza continui a prestargli danaro. E dove conduce Castel
Novo?
Inoltre, da Marostega passando per Axolo, Castel Francho e Monte
Beluna, è
molto più facile e veloce puntare su Trevixo che su
Padoa.”
Meditando
in silenzio, Andrea Griti soppesò i pro e i contri.
“Ragionate pulito, ma dubito che il governatore vi
darà licenza de partir per
tale impresa. Troppo rischioso.”
Ferigo
serrò caparbio la bocca, raddrizzando il collo.
“Non fallirò,
se è questo ciò che teme.”
“Solo
perché siete sempre stato vittorioso in battaglia, non
significa che siete immortale”, gli ricordò
perentoriamente il Griti. “Un
assedio è rischioso e sussiste sempre la
possibilità, che da Marostega il
nemico cangi idea e ripieghi a Vicenza come campo. E se fosse
così? Che fareste
voi allora? No, spezzate le gambe ai rifornimenti per
l’impresa di Trevixo
mentre il nemico è in viaggio, ma non tentate né
un assedio né di dar battaglia
se non alla vostra portata. Non possiamo sguarnire troppo Padoa,
sbilanciandoci
in caso di centroattacco: ricordate, sier Ferigo, che la fortuna, gran
puttana,
potrebbe girar in malo modo anche per voi.”
Continuare
con azioni di disturbo, in modo da spingere via i
nemici dai confini del territorio padovano e al contempo ritardare il
cammino
di quella parte d’esercito già diretta alla Valle
della Piave.
Non
sarà stata quella la risposta che sier Ferigo Contarini
aveva
desiderato ottenere da quel colloquio col Griti - a
onor del vero
aveva sperato in un’intercessione del provveditore generale
presso il
governatore, sponsorizzandogli l’impresa. Tuttavia, la
prospettiva d’uscire per
una qualsiasi missione da quella città malata e
dall’aria mefitica finalmente
s’era concretizzata, liberandolo dal cruccio di dover
sprecare il suo tempo sia
a punire gli irrequieti stradioti (e giustamente, la paga era in
ritardo) sia a
fronteggiare giornate intere chiuso in ufficio a Palazzo della Ragione
a
scrivere, firmare e leggere lettere e documenti. Perfino aiutare sier
Polo
Capelo nella supervisione del rafforzamento del bastione di Codalunga
lo
annoiava.
Sospirando
pesantemente, il giovane provveditore si diresse quindi
verso Palazzo Contarini dietro al Duomo, sperando che la notizia
potesse
rallegrare in qualche modo il suo amico Marco di Zacharia Contarini
"dai
Scrigni", il quale versava in un umore nero bestemmia da quando aveva
appreso della presenza dell’Imperatore – vera o
pianificata che fosse – a
Castelnuovo di Quero, là dove si trovava a suo presidio il
loro comune amico e
parente alla lontana, Hironomo Miani. Dopodiché sarebbe
rincasato, così da
notificare anche suo fratello Marco Antonio delle ultime
novità.
Sennonché
…
“Ah!
E’ scappato via, quel mille volte ingrato! E senza dirmi
niente! Figlio mio, perché sei stato così crudele
verso di me?”
Ma che
diamine …?
“Toffolo,
cos’è questo carnevale? Che fa madonna ancora in
casa?
Non la doveva partire oggi per Veniexia?”
“Ah,
patron, zelenza, se vui savesse che tragedia! Altro che andar
a Veniexia: la mia povera patrona la more de doja, mezza
matta!”, gli rispose
mesto Toffolo, il servitore, aprendogli il portone e ad accogliere
l’uomo a
Palazzo furono le urla ferine miste ai pianti di madona Alba Donado
Contarini,
unite all’esclamazioni esasperate del figlio Francesco, che
tentando di
calmarla aumentavano per effetto contrario la sua isterica collera.
“Siora
Mare, calmatevi ve ne prego, o farete radunar tutta Padoa sotto i
nostri
balconi!”
“O
correte a riprender vostro fradelo o tacete, razza de polaco!”
Sorprendentemente,
a completare il giocondo quadretto si trovava
lì anche sua madre, madona Ysabela Falier relicta Contarini,
la quale osservava
il tutto attorcigliandosi le dita, indecisa se dar man forte o meno a
sier
Francesco in evidente difficoltà contro quella belva umana
di sua madre.
“Ah,
eccolo qua, el Juda Scariota!”, comparve a Ferigo
improvvisamente sotto il naso la donna, galoppando giù dalle
scale, gli occhi
iniettati di sangue e i capelli selvaggiamente in disordine, tanto che
lo
zendale in testa le penzolava negletto. “La xé
tutta colpa vostra se qui me
moro!”
Indicando
seccamente a Toffolo di serrare il portone onde non dar
spettacolo in strada, Ferigo domandò tra il confuso e lo
scocciato: “Mia, siora
Alba? E in che modo v’avrei strapazzata?”
Sua madre
afferrò madona Contarini per il braccio, allontanandola
dal figlio. “Alba, per carità, lasciate star. Non
è colpa di nessuno, se non
dello stesso Marcolino.”
“Ah,
no?”, ribatté l’altra, asciugandosi
furiosa le lacrime. “Chi
ha riferito a mio figlio, che l’Imperador si dirigeva verso
Trevixo? Chi gli ha
detto, che sicuramente avrebbe attaccato Castel Novo di Quer?”
“E
donca? Indove xélo el mal in zò?”
La mano
di Alba si mosse convulsamente, indecisa se schiaffeggiare
Ferigo o se cavargli gli occhi. “Indove xélo el
mal? Marcolin è partito stamane
coi 500 fanti e altri zentilomeni alla volta di Trevixo, e senza una
parola,
senza un saluto e soprattutto senza il mio permesso! Come avete potuto
perderlo
di vista così? E’ troppo giovane per un fronte
sì periglioso come quello di
Trevixo!”
Ah,
dunque tutti quei discorsi del suo amico non corrispondevano a
vuoti propositi, atti a metter solo in allarme la famiglia: alla fine
sul serio
aveva trovato il modo di partire anche se di nascosto,
checché ne pensasse sua
madre. Ah, borbotterebbero i vecchi moralisti, gioventù
discola sempre ad agir
di testa propria!
“Zovane
sì, siora Alba, ma non puto. Il Marcolin ha fatto la sua
scelta, voi fate la madre savia che la smette d’impicciarsi
nelle questioni
d’un uomo adulto!”
Se sua
madre e Francesco non si fossero praticamente gettati su di
lei, a quest’ora madona Alba avrebbe tenuto in mano lo scalpo
di Ferigo, il
quale comunque intuite le intenzioni della donna, aveva ugualmente
indietreggiato di qualche strategico passo.
“Can!
‘Ssassin! Vui me volé morta!”
Certo
però che madona Alba non imparava mai la lezione; insomma,
già Marco le era sfuggito una volta praticamente da sotto il
naso, quando
neppure ventenne era giunto volontario alla difesa di Padova nel
settembre del
1509. Perché stupirsi, quindi, di un bis
da parte sua? Gliel’aveva
perfino annunciato in più occasioni, peccato che nessuno dei
suoi l’avesse
preso sul serio, accusandolo di puerili millanterie.
Saggiamente,
Ferigo optò per un silenzio da sfinge (aveva promesso
all’amico di non tradire il vero motivo della sua partenza),
lasciando che
madona Alba si sfogasse ben bene su di lui, coprendolo
d’accuse e insulti. Non
glielo rimproverava, del resto: suo marito sier Zacaria e suo figlio
Piero da
ben due anni erano rispettivamente prigionieri a Parigi uno e a
Perpignan
l'altro, naturale che si preoccupasse a morte degli altri rimastole,
arrivando
a momenti a sequestrarli mettendoli sottochiave. Non c'era
però niente di cui
preoccuparsi: suo fratello sier Andrea Donado “dalle
Rose” era podestà a
Treviso e sicuramente avrebbe tenuto sott'occhio il nipote discolo.
Assordatosi
quindi convenientemente, Ferigo si distraeva invece
contando mentalmente il numero di stradioti necessari per cavalcare
rapidi in
direzione di Marostica ma sufficienti per sostenere un attacco
vincente. Magari
ne avrebbe discusso col conte Guido Rangoni, una volta tornato dalla
sua
missione a Longara per deviare il corso della Bacchiglione. Infatti,
aveva in
progetto una piccola modifica al piano originale approvato sia dai
provveditori
che dal governatore e cioè di non limitarsi a rallentare i
rinforzi per il
maresciallo, rubandogli soltanto qualche arma, ducato e vettovaglia.
No,
avrebbero al contrario ingaggiato le truppe nemiche in una vera e
propria
battaglia, annientandole.
La Palice
poteva anche marcire in loro attesa fino al Giudizio
Universale: a Castelnuovo non sarebbe arrivato nessuno.
***
“Sapristi,
capitaine Mercurio! Com’è possibile che una
fortezza difesa da un’accozzaglia di disperati riesca a
tenerci in scacco da
più di un giorno?”, si lamentava il maresciallo e
Gran Maestro di Francia
Jacques de La Palice nel suo accampamento di fortuna tra Quero e Vas.
Per
l’intera giornata la situazione era rimasta la stessa,
sfrontatamente
immutabile: Castelnuovo incassava i colpi dei cannoni, li
contraccambiava con
precisa e micidiale parsimonia, e non si riusciva ad avvicinarsi. Si
era
tentato un assalto, purtroppo fallito: ai franco-imperiali
s’era mozzato il
respiro non appena immersa una gamba nelle acque della Piave e alcuni
di loro
rischiarono d’annegare o annegarono proprio, avendo infatti
messo il piede in
un dislivello o scivolando su di una pietra erano inciampati, finendo
in acque
più profonde. I mulinelli, rapidi, avevano ghermito questi
malcapitati
trascinandoli seco e coloro che non erano stati prontamente afferrati
dei
compagni, ad un certo punto svanirono dalla superficie, invocando
inutilmente
soccorso. I pochi fortunati che riuscirono ad arrivare sotto il
Castello
divennero ben presto preda dei balestrieri marciani.
Dulcis in
fundo, aveva ripreso a piovere a dirotto e aumentò il
malumore dei soldati, assai frustrati da quell’affatto
gradito tiro al
bersaglio (dove loro erano il bersaglio); incominciarono di conseguenza
ad
eseguire di malavoglia gli ordini dei loro capitani, al punto da
considerare
l’opzione alternativa di prendere un’altra strada
per giungere a Treviso e
neppure la prospettiva delle più vicine Feltre e Cividal di
Belluno più li
allettava. Meglio impiegarci più tempo e vivere, che
pigliare una scorciatoia e
lasciarci nel tentativo le penne.
Sfortunatamente
per loro, un messo dell’Imperatore recava la
notizia di come Maximilian si stesse dirigendo da Bolzano per scendere
a
Castelnuovo di Quero, dove avrebbe sostato in attesa di ricongiungersi
con le
truppe provenienti o da Vicenza o Marostica inviatigli dal governatore
di
Milano, il duca Gaston de Foix-Nemours.
Et
à propos du Duc de Nemours, si
sovvenne all’improvviso il maresciallo La Palice, come mai
quell’inusuale
silenzio da parte sua? Neanche due righe di biglietto! A
quest’ora il
contingente doveva essere già in marcia, eppure non una
lettera di conferma,
non un messaggero. Tali negligenze non erano da lui. Bizarre,
très
bizarre …
“Se
si mette un gatto all’angolo, pur sapendosi fisicamente
più
debole esso soffia e cogli artigli punta agli occhi del suo
opponente”, lo
distolse il capitano Mercurio Bua dalle sue elucubrazioni,
rispondendo
alla sua frustrata domanda. Seduto sul bivacco accanto
lui, l’intera
postura del greco-albanese si presentava talmente rilassata, da
sembrare più a
riposo da una partita di caccia che nel bel mezzo di un assedio.
Dinanzi
all’espressione accigliata de La Palice, il mercenario
precisò: “Il punto è,
monseigneur, che non a tutte le città e castelli
basta la vista delle
nostre insegne per arrendersi. Fortunatamente alcuni
s’ostinano nella difesa,
rendendo questa guerra un po’ meno monotona.”
Il
francese lo guardò come se si fosse ammattito.
“Trovate dunque
diletto in tutto questo?”, inquisì scandalizzato,
ripensando agli eventi di
quell’infruttuosa giornata, a quella bolgia infernale di
spari, sibilo di
frecce e scatti di balestre, boati di cannoni e urla quasi
animalesche tra
imprecazioni e bestemmie.
Fu il
turno del Bua d’indurire la sua espressione. “Ho i
miei
motivi per non aver ancora disertato l’Imperatore”,
disse e de La Palice si
domandò se stesse forse alludendo al cambio di bandiera
avvenuto esattamente un
anno fa da parte di suo fratello Teodoro Bua, servendo ora
quest’ultimo con
gran fervore la Serenissima.
“Lo
dimostrate molto male, capitaine. Sembra quasi che non
v’interessi prendere Castelnuovo.”
Il
greco-albanese gli rise in faccia beffardo: “Quando la
Cesarea
Maestà mi pagherà come voglio io, allora
combatterò come vuole lei.”
Il
maresciallo si rilassò: in fin dei conti i mercenari erano
anime davvero semplici! “Et bien, una volta espugnato
Castelnuovo, potrete
appropriarvi di qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo
interno.”
L’intera
postura del capitano di ventura si rianimò, scattante e
sull’attenti, mentre un’espressione feroce gli
contorceva i lineamenti: “Qualsiasi cosa?”,
esigette conferma, sporgendosi famelico verso il maresciallo e
fissandolo
intensamente.
“Avete
la mia parola. Posso fidarmi?”
“Jamais,
monseigneur, jamais! La mia gente si fidò della clemenza
dei turchi, per finire poi impalata sugli spiedi come fagiani o segata
in due.
Per questo, io rispetto di più chi resiste fino alla morte
piuttosto che fidarsi dell’onore
vero o presunto del suo avversario”, gli confidò
tra il sincero e il sardonico,
esibendosi per l’ennesima volta in quel suo tipico altalenare
d’umori che
applicato in battaglia lo rendeva imprevedibile, ingestibile e
inarrestabile.
“Abbiamo
dunque un accordo, monseigneur de La Palice”,
rimarcò
solerte il Bua, istruendo a Zilio Madalo, suo
luogotenente,
acciocché alle prime luci dell’alba chiamasse a
raccolta i suoi stradioti. E
rivolgendosi poi alla loro guida, Borlholamio, domandò in
veneziano: “Donca, sto passajo dil qual ti
me parlavi e che porta
all’entrada dil Castelo, indove se trova?”
Nemmeno
in mill’anni avrebbe potuto Hironimo immaginare, quanto il
suo paragone con Leonida calzasse a pennello con la situazione sua e
dei
cinquanta difensori di Castelnuovo di Quero: oltre ad aver praticamente
gridato
al de La Palice un inequivocabile “Molon
labe!” [10], come il
re spartano anche loro dovettero subire il tradimento di un Efialte,
tal
Borlholamio, il quale conosceva un altro sentiero di montagna assai
ideale per
il contrabbando e che aggirava il Castello, talmente ben nascosto da
sembrare
innocuo ad occhi profani e pertanto sfuggito alla pur meticolosa
ricognizione
del territorio da parte del giovane castellano.
Non
ebbero neppure il tempo di voltarsi, che la porta sud esplodeva
in un enorme boato e in una grassa nuvola scura di polvere e pietre,
seguita da
un istante di mortifero silenzio che poi sfociò nelle urla
bellicose degli
assedianti pronti all’irruzione attraverso la breccia.
Il loro
arrivo, però, sortì l’effetto
d’innescare una piccola
accortezza preparata da Hironimo come ultima spes la notte precedente,
memore
della lezione appresa a Padova dal condottiero Zitolo da Perugia:
all’ingresso
del cortile interno avevano piazzato della polvere da sparo e i primi
malcapitati
fecero la medesima fine della porta, rallentando per un istante
l’impeto
dell’assalto, ma ben presto una seconda ondata si
riversò dalla parte opposta e
gli assediati adesso erano pronti a puntargli addosso balestre e gli
schioppi. Non soddisfatti, a quelli che la
scamparono vennero
gettati addosso i fuochi ardenti, trasformando gli assedianti in torce
umane e
così illuminando la sera già di suo di un bel
rosso vermiglio. Il fuoco faceva
esplodere i loro schioppi e archibugi, coinvolgendo in piccole
esplosioni non
soltanto chi lo reggeva ma anche chi gli stava accanto in una mortifera
reazione a catena.
“Bruseli
tutti! Bruseli tutti!”
Piccoli
stratagemmi, però, buoni a ritardare l’inevitabile
ché non
si poteva trattenere l’acqua con le mani e
appunto passati gli
iniziali momenti di sconcerto e smarrimento, i nemici impiegarono
maggior
vigore nell’assalto, bramosi di sfogare i giorni di
frustrazione e pioggia
battente in testa, senza un granché di cibo e senza paga.
Francia!
Impero! -
gridavano quelli, arrampicandosi
quasi pur di raggiungere i soldati marciani.
Marco!
Marco! –
replicarono i difensori del
castello, venendogli incontro con le armi in pugno.
Dopodiché,
fu l’inferno del corpo-a-corpo e l’aria
s’ammorbò di
sangue.
***
A
Domenico da Modone con uomini 189 era stato incaricato di
sorvegliare il tratto di mura che dalla cittadella conduceva al
bastione del
Sile; da lì, in direzione di Santa Maria fino alla Porta di
San Tomaso con
uomini 221 se ne sarebbe preso cura Carlo Corso. Dalla porta di San
Tomaso fino
al ponte della Botteniga ci sarebbe stato a presidiare Paulo Baxilio
con uomini
100 e da quel punto fino al lazzaretto Cipriano da Forlì
avrebbe provveduto
alla difesa con uomini 238 per concludere il cerchio con Vigo da
Perugia e i suoi
fino alla cittadella.
Queste
erano state le disposizioni di sier Zuam Paulo Gradenigo,
provveditore generale di Treviso, e dal signor Renzo Orsini di Ceri,
capitano
di fanteria per le pattuglie sia diurne che notturne delle mura. I due
avevano
in aggiunta ordinato che anche i gentiluomini giunti da Padova e
Venezia
contribuissero dandosi il turno nella ronda. Quanto
all’Orsini e al Gradenigo,
erano lì ogni notte o a consultarsi coi capitani e i
connestabili sulla
caminada o a cavallo a controllare che le ronde si svolgessero in
ordine senza
intoppi.
Quella
mattina del 27 agosto, tuttavia, l’energico provveditore si
trovava in compagnia del capitano Vitello Vitelli e di sier Lunardo
Zustignan
q. sier Unfrè e nipote del Doge, avendo avuto infatti al
pomeriggio scorso un
acceso diverbio con Renzo di Ceri circa il comportamento affatto
consono dei
suoi fanti alloggiati nelle case dai recalcitranti trevigiani, i quali
contraccambiavano la loro maleducazione finendo spesso alle mani e il
povero
auditore sier Piero Antonio Morexini stava impazzendo per il numero
crescente
di querele di padri, fratelli, mariti e fidanzati esasperati per le
continue e
volgari avances fatte alle loro donne, quest’ultime in
realtà non tanto
indifese quanto si lasciasse adombrare, anzi, se ogni tanto volava un
soldato
dalla porta di casa, a corrergli dietro con insulti ancor
più prosaici era una
florida matrona munita di secchia e scopa o la pentola per le castagne.
“La
prossima volta che te ripeti ste sporcarie a me fia,
t’amazaré!” Affacciatesi
alle finestre, le vigilantissime vicine di casa davano manforte e
terminavano
l’opera innaffiando il reo coi fetenti contenuti dei pitali
loro e dei
congiunti. Coloro che invece erano stati alloggiati nelle case
abbandonate dai
trevigiani rifugiatisi a Venezia, ugualmente si sollazzavano senza
tregua con
prostitute, mentre alcuni fanti senza né Dio né
Madonne tentavano tramite ogni
inganno d’infilarsi nel letto delle monache.
Più
volte sier Zuam Paulo aveva rimproverato la fastidiosa
malcostume dei soldati e più volte Renzo Orsini aveva
promesso di porvi
rimedio, ma sia lui sia l’altro Orsini, Troilo, alla fine
lasciavano
palesemente correre. Il podestà, sier Andrea Donado
“dalle Rose” q. sier
Antonio el cavalier, neanche ci metteva becco, ripiegando su di una
conveniente
neutralità. Purtroppo, quest’impasse non stava che
peggiorando il temperamento
sanguigno dei trevigiani, già di suo pungolato dalla
decisione di abbattere la
chiesa e monastero di Santa Maria Maggiore – la loro
amatissima Madona Granda –
per creare l’indispensabile difensivo guasto interno. Il
giorno prima, il 26
agosto, si era incominciata in quel quartiere la demolizione di tutte
le case
fuori e attaccate alle mura, nonché del campanile della
Madona Granda tra gli
ululati dolenti della gente, che si batteva il petto invocando perdono
alla
Madre di Dio per quel sacrilegio. Di conseguenza, le
mani
pizzicavano e quel pomeriggio accadde, infatti, che un soldato della
compagnia
di Troilo Orsini avesse allungato le mani sulla moglie di Donado
Cimavin,
mentre questa usciva dalla chiesa e infischiandosene dello stato di
palese
gravidanza di madona Felicita (avendo capito ormai i luoghi dove le
donne si
riunivano, i soldati non ci avevano messo molto per appostarsi
strategicamente
e lì aspettarle).
Non
calcolò l’uomo come anche il signor marito si
trovasse alla
funzione con lei, rimasto indietro a parlare col prete.
Sicché, testimone di
tanta sozza tracotanza, Donado aveva ruggito paonazzo in volto:
“Coss’elo sto
porco negozio?” e afferrato lo zendale della moglie,
arrotolandolo lo strinse a
mo’ di corda attorno al collo del soldato, trascinandolo
lungo il sagrato della
chiesa alla ricerca di un palo, incoraggiato dagli astanti che
gridavano in
estasi feroce: “Apichalo! Apichalo!”
E quando
il capitano Troilo Orsini ebbe pure la faccia tosta di
querelare Donado Cimavin, l’auditore Morexini esplose,
sbraitando
spaventosamente: “El gh’ha fatto ben, el
gh’ha fatto!”, assolvendo il marito
oltraggiato da ogni accusa.
Al che il
provveditore Gradenigo aveva aggiunto: “Se voi non
mettete un guinzaglio a quei cani in calore dei vostri uomini, li
impiccherò io
stesso, saveu? Io stesso!” e peccato che a presenziare ci
fosse stato anche
Renzo di Ceri, che subito tentò di calmare gli animi per poi
finire di litigare
a voce ancor più grossa col provveditore, minacciandolo di
percuoterlo con la
sua spada e di impiccarlo.
“Una
cheba di matti”, borbottava sier Zuam Paulo, sfogandosi in un
irato andirivieni sulla caminada delle mura. “Una vera cheba
di matti …”
“E
fra poco lo diverrete anche voi, se non la smettete
d’agitarvi
manco foste un diavol ne l’acqua santa!”
Il
provveditore, bloccandosi, si voltò e per la prima volta in
tutta la giornata il suo volto si distese alla vista della moglie,
madona Maria
Malipiero Gradenigo, avvolta in un pesante zendale. Poi,
però, ritornò la sua
fronte ad accigliarsi: “Non sarebbe questo posto per voi,
siora mojer.
Rincasate, ché l’aria stanotte è umida
e fredda.”
Più
che altro, sin dal giorno in cui gli era stata assegnata la difesa
di Treviso, l’uomo temeva costantemente in un attacco da
parte dei
franco-imperiali, specie notturno, e il pensiero che potesse avvenire
perfino
in quel momento, con la moglie così esposta, lo preoccupava
assai. Aveva in più
occasioni insistito acciocché ella restasse al sicuro a
Venezia coi loro
figlioli, ma lei era stata irremovibile: “Nella buona e
cattiva sorte, sior
marido mio”, gli aveva ricordato e intimamente Gradenigo
gliene era grato, non
potendo sfogare con nessun se non con Maria i suoi crucci e
l’ansia di
quell’incarico ogni giorno sempre più oneroso.
Degna
sorella del Griti, Maria non si lasciò scoraggiare dalle
parole brusche del consorte. “Sì, avete ragione:
vengo solo a portarvi un po’
di cena- o meglio, la colazione vista l’ora
- considerato che siete
scappato via peggio di un lievero, senza cenare” e gli
cedette poco
elegantemente una piccola cesta, girando subito sui tacchi.
“E comunque”,
esclamò perentoria, voltandosi all’ultimo mentre
scendeva la scalinata.
“Andando avanti così, credo che prima dei
franco-imperiali v’ammazzerà la
fatica! Va ben stare dietro a tutto e tutti, ma dormir e mangiare,
anche le
bestie lo fanno! Poi, arrangiatevi, io v’ho
avvertito” e lasciò un impacciato
marito lì, fermo immobile, in mezzo alla caminada con la
cesta in mano.
“In
effetti, se posso dir, vostra siora mojer avrebbe ragione”,
commentò sier Lunardo Zustignan, con cui quella notte
condivideva la
supervisione della ronda. “Vi state strapazzando troppo, sier
Zuam Paulo, non
avete più vent’anni, potete anche riposare una
notte.”
“Quando
avremo vinto sta maledetta guerra, dormirò per una
settimana intera – solo allora!”,
dichiarò serissimo sier Zuam Paulo, cedendo
il cesto ad una sentinella che non ci pensò due volte a
farne bottino.
Da un
po’ di tempo l’uomo sentiva delle fitte
all’altezza del
fegato e la bile gli risaliva acida lungo l’esofago,
levandogli l’appetito,
molto probabilmente dovute all’ansia di ritrovarsi a
difendere una città-chiave
della Serenissima sia dalle truppe franco-imperiali sia dai propri
disordini
interni. Non giovava il fatto, poi, che le sue richieste di rinforzi e
denari o
non ricevessero risposta o che gli venissero centellinate; ovvio che,
senza
paga, i soldati stessero dirigendo altrove le loro attenzioni, se alle
donne o
all’argenteria di chi doveva ospitarli forzatamente in casa.
La questione poi
della Madona Granda non aiutava, anzi, sua moglie stessa in uno scatto
di nervi
gli aveva dato del turco, mentre cercava di spiegarle il motivo di
quella
drastica scelta.
Fortunatamente,
il podestà era talmente incompetente e di
conseguenza malvoluto da attirarsi la stragrande maggioranza delle
antipatie
dei trevigiani; ciononostante, il Gradenigo non dormiva sonni
tranquilli,
addirittura lavorava più del dovuto per dimostrare la sua
totale dedizione alla
santa causa, da cui le lodi da parte di tutti.
Ma fino a
quando?
State
attento, sier Zuam Paulo, o metteranno la vostra testa su di
una picca, come fecero con Batiano, il trombetta di Leonardo Trissino.
Il
racconto di sier Hironimo Marini, il podestà in carica il
fatidico 10 giugno del 1509, ancora l’ossessionava,
portandolo a scrutare di
tanto in tanto dalla finestra del Palazzo dei Trecento la folla in
apparenza
tranquilla e dedita ai fatti suoi, in realtà un maremoto
umano pronto a colpire
al primo suo passo falso.
“Fuogi!
Fuogi dal Montelo!”
Il
provveditore Gradenigo e Zustignan scattarono in avanti verso
il parapetto, allungando il collo e gli occhi sgranati alla vista di
piccole
luci simili a torce illuminare i rimasugli della chiaria.
“Non
possono esser già qui!”, esclamò sier
Lunardo sconcertato,
“L’avremmo saputo!”
Sier Zuam
Paulo scosse il capo. “Saccomanni a cavalo, senza
dubbio. O cercano i villani … o i villani cercano
loro”, asserì concisamente e
si staccò dal parapetto, scendendo rapido le scale onde
salire a cavallo e
raggiungere il capitano Vitelli. “In ogni caso,
sarà meglio inviare domani
degli esploratori per degli accertamenti. Se i saccomanni si son spinti
fin
qua, significa soltanto una cosa: che la Valle della Piave è
stata invasa!”
E
– Dio li scampasse – che la fortezza di Castelnuovo
di Quero era
caduta.
Continua …
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Piccola
nota: alcuni fiumi in veneto sono al femminile: la Piave,
la Botteniga, la Brenta, etc. perciò ho deciso di tenere
questo “venetismo”
nella scrittura anche per fedeltà filologica: soltanto nel
XIX secolo il fiume
Piave diverrà maschile.
A parte
questo, come Mercurio Bua abbia espugnato Castelnuovo,
purtroppo non si sa con certezza. Un poema greco scritto su di lui
nell’Ottocento narra di come, davanti alle lagnanze del
Principe di Anhalt,
egli si sia messo a nuotare coi suoi stradioti il Piave, assalendo di
spalle i
marciani.
Ovviamente,
si tratta di una narrazione un po’ troppo fantasiosa,
poiché attraversare il Piave ingrossato è da
sventati in costume da bagno,
figurarsi con armature. Eppoi, cosa voleva fare senza armi? In aggiunta
nel
poema il povero de La Palice è messo da parte, senza contare
come il Principe
di Anhalt fosse già morto da un anno ai tempi
dell’espugnazione di Castelnuovo.
Tuttavia, io sono convinta che la parte del giungere alle loro spalle
sia
plausibile, pertanto ho preso quello spunto e sviluppato con una
strategia un
po’ meno romanzata.
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] questi sono i nomi dei militari a presidio
della fortezza, che sono giunti fino a noi grazie alle cronache
bellunesi del
Giampiccoli. I nomi degli altri, così come degli uomini di
scorta e dei famigli
sia del Nostro che dei suoi capitani, purtroppo, sono rimasti
sconosciuti.
[2] Feltre città natale
della primissima
infanzia = stando alla biografia
ufficiale, il Nostro
è nato nel 1486 a Venezia nella
parrocchia di San Vidal, dove presso
il ponte Vitturi si trova il palazzo della sua famiglia.
Tuttavia,
in quell’anno suo padre, Angelo/ Anzolo Miani era
podestà e capitano di Feltre e secondo il “Liber
juramenti rettorum et
officialium de extra” e le prescrizioni degli
“Statutorum magnificae civitatis
et communis Feltriae”, gli ufficiali di Stato erano tenuti a
trasferirsi con
tutta la famiglia sul luogo del loro incarico, essendo
anch’essi compartecipi
dei doveri e dei diritti del podestà al momento del
giuramento della presa di
possesso della podesteria.
Considerando
il viaggio Venezia-Feltre troppo faticoso per un
neonato, gli storici di recente hanno avanzato l’ipotesi che
forse il Nostro
sia nato a Feltre invece che a Venezia; non è da escludere
che sua madre,
incinta, abbia viaggiato per burchio risalendo il Piave. Purtroppo,
sono
soltanto speculazioni visto che non sappiamo tutt’oggi il
mese e il giorno
esatto della nascita del Nostro. Per la storia, ho scelto dunque questa
teoria
più recente, collocando la sua nascita a
Feltre.
[3] andar a Patrasso =
finire
male, morire.
[4]
multa di 25 ducati =
Nell’estate del 1509 venne
emanata una grida che chiunque possedesse cavalli doveva cederli alla
Serenissima ad uso dell’esercito o incorrere in una multa di
25 ducati per
ciascun cavallo trattenuto. Vista la loro importanza, quando si faceva
bottino,
i cavalli erano le prime prede su cui ci si buttava.
[5] camerlengo = da non confondere coll’omonima
carica nelle gerarchie ecclesiastiche. Nel sistema amministrativo della
Serenissima, il camerlengo era colui che amministrava le finanze
pubbliche di
una città.
[6]
fiorentino =
fiorentino, in questo caso sodomita.
Di sodomia (o “vizio
fiorentino”) s’additava Giulio II stando a
certe voci di corridoio riguardo ai suoi gusti effettivamente un
po’ ambigui.
[7]
famiglia apostolica = per
famiglia apostolica
s’intendono le 12 famiglie (come gli Apostoli) che si dice
fondarono Venezia,
tra cui appunto i Contarini, i Morosini (o Morexini) di cui faceva
parte la
madre del Nostro, i Giustiniani, i Gradenigo e i Corner, etc. Erano
anche dette
“Case Vecchie”, ovvero esponenti del patriziato
più antico. Le “Case Nuove”,
invece, erano le famiglie patrizie aggiuntesi o per meriti verso la
Repubblica
o per ricchezza prima della Serrata, tra cui ad
esempio i Miani, i
Gritti, i Malipiero, i Loredan, i Tron (o Trum), etc.
(…)
Aurelii Cotta prefetti del Reno =
il
clan dei Contarini vantava la propria discendenza dalla gens romana
degli
Aurelii Cotta e in particolare i prefetti del Reno, soprannominati
Cotta Rheni,
da cui Contareni, venezianizzati in Contarini. Ovviamente, non
è storicamente
dimostrato, però segue di sicuro la tradizione tutta
aristocratica d’inventarsi
origini illustri. I Miani, ad esempio, si vantavano di discendere dalla
gens
Emilia, da cui la latinizzazione (e conseguente italianizzazione) del
loro
cognome in Emiliani.
Stando
alle genealogie, la prozia del Nostro, Elena Miani, aveva
sposato nel 1428 Alvise Contarini, prozio di Federico, imparentandoli
seppur
alla lontana.
[8] prima di dare del fedifrago sporcaccione
ad Andrea Gritti, sottolineiamo che egli era rimasto vedovo
già dal 1476, anno
in cui gli era morta di parto la moglie Benedetta Vendramin, dandogli
l’unico
figlio legittimo, Francesco, che a sua volta morirà nel
1506, affidando al
padre la moglie Maria Donà e le due figlie Benedetta e
Viena. Poco più tardi,
Maria si risposerà con Sebastiano Contarini, amico del
Nostro. Vedovo a soli
ventun anni, Andrea decise allora di salpare per Costantinopoli e
lì si prese
in casa questa donna greca (il nome è inventato, purtroppo
lei è rimasta
anonima) con cui convisse in monogamia, bisogna dargli credito, e che
gli diede
quattro figli naturali: Alvise (o Ludovico), Pietro, Giorgio e Lorenzo.
[9] Gian Paolo Gradenigo aveva sposato Maria
Malipiero, figlia di secondo letto di Viena Zane vedova Gritti e di
Giacomo
Malipiero, quindi sorellastra di Andrea. Oltre a lei, Viena ebbe anche
due
maschi, Paolo e Michele Malipiero. Il rapporto tra i
fratellastri fu
sempre ottimo, anzi, in più occasioni Andrea diede prova di
grande affetto
verso i minori e viceversa.
[10]
Molon labe! =
Vieni a prenderle!, la famosa risposta
di Leonida all’intimazione di Serse di consegnargli le armi.