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Autore: ireturner    06/10/2019    0 recensioni
La perdita della persona amata, nei pensieri di una donna ormai anziana, e il rivivere della stessa nel suo cuore.
“Quante volte t’ho ricreato, con sguardo e memoria, il volto, pensando tra me e me – mentre battevo giù le palpebre – a com’era posizionato l’angolo del tuo baffo, o la ruga tra le tue sopracciglia, prima di rialzare le pupille e verificare la correttezza delle mie supposizioni. Non sbagliavo mai: ti sapevo a memoria.”
[ Questo breve racconto si ispira al #Writober indetto da @fanwriter.it. ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Il preludio, signore mio, e il finale


 
«Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.»
E. Montale, “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”.
 
C’era un sole che coceva tutti i sensi del corpo. Sulla sedia a dondolo, sfilavi le spine dalla spiga di grano, con le tue mani lavorate dalla fatica, levigate sulle unghie, sporche sui polpastrelli. Non c’era altra mano da cui avrei voluto farmi toccare: le tue, imperfette, compivano i tratteggi più belli sulla mia pelle. Mi dicevi che somigliavo a tua madre, in qualche strano modo, come quando appiattivo l’impasto col mattarello, in cucina, e trovavo il grembiule sparpagliato di farina; come quando passavo il rastrello sull’erba in giardino, dando troppa forza, spellando il povero prato fino all’osso. Mi veniva da arrossire, nel sentirtelo dire, e mi pareva un complimento migliore di qualunque rosa in vaso: somigliavo a tua madre, in qualche strano modo. La nostra campagna torinese sorrideva sotto il trotto dei cavalli, con quell’odore di letame e primule giovani, che pareva quasi un peccato soffermarsi a pensare che avremmo potuto avere di meglio, io e te. Ma non sono mai riuscita a distrarti dalla tua terra, quella che coltivavi con la dedizione d’un Malavoglia, fondendoti la fronte di sudore, prima di rincasare e gocciare sull’asciugamano di lino. Amavo prepararti, allora, la vasca colma fino all’orlo d’acqua calda, tanto che, nel sedertici dentro, facevi strabordarne un po’ fuori, lambendo con l’eccesso il pavimento del bagno. Chiudevi gli occhi, riposavi la schiena, e chissà se ricordavi mai che fossi ancora lì con te, seduta poco lontano a spazzolarmi silentemente i capelli, mentre risonavi con un fischiettio il motivetto della tua opera lirica preferita. Io me ne rimanevo zitta, come incantata, e quante volte t’ho ricreato, con sguardo e memoria, il volto, pensando tra me e me – mentre battevo giù le palpebre – a com’era posizionato l’angolo del tuo baffo, o la ruga tra le tue sopracciglia, prima di rialzare le pupille e verificare la correttezza delle mie supposizioni. Non sbagliavo mai: ti sapevo a memoria. Mi struggeva il cuore richiamarti all’attenti, poi, ché quasi t’addormentavi, in quella vasca calda, e mi toccava la brutta pena di avvicinarmi, in un certo momento, e picchiarti appena la spalla per farti rialzare, raccogliendoti dalle dita ormai raggrinzite. E tu sapevi bene che, ogni volta, sarebbe giunta l’ora di recarti a letto, eppure non mancavi mai di tirare un sospiro amareggiato, come volessi sedimentare a vita laggiù, sul fondo della ceramica. Cosa darei per rivederti ancora lì, a scolpire i tuoi pensieri senza farne parola, ma d’un tratto ci siam fatti vecchi, con lo spirar di quel sole, e adesso son sola, in questa casa che a tratti ho detestato, poiché tanto piccina. Rideresti, forse, nel sapere che ad oggi mi appare troppo grande, troppo grande per questi soli due piedi. Cammino e non ti trovo: sei sepolto là, in fondo alla valle, dove neppure i corvi osano planare, dove nessuno sciacallo raschierebbe la tua purezza. E il cuore mio che fa? Ti cerca, ti cerca in ogni angolo di stanza, in ogni omelia in Chiesa, in quei gesti che mi fermano, d’improvviso, per dirmi “Oh! Ricordi quando lo faceva anche lui?”. Ero lì, sul tuo letto di morte, a stringerti la mano. Chi accoglierà la mia, quando Dio lo vorrà? Dovresti tornare a casa, che ne pensi? Come la prima volta che ci incontrammo, e ti domandai se fosse forse il preludio di qualcosa, emerito signore; non mi hai mai informata sul finale, però. E quando mi dirigo sul retro, per osservare il vigneto che con tanto amore hai distribuito sul terriccio, sento, come fosse primordiale, il respiro delle tue narici, soffio nell’aria, che mi porta talvolta via il cappello, che scompiglia i lenzuoli stesi ad asciugare. Torni qui, non è forse vero? Non te ne sei mai andato? Mi guardi, e ridi d’affetto, e così scateni quest’alito di vento, non è così? E mi stringerai pure tu la mano, allora, sul capezzale, e stringerai tanto forte da portarmi via con te, verso campi nuovi.
   
 
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