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Autore: ireturner    06/10/2019    2 recensioni
Il Minotauro ricorda Dedalo, che ha osservato durante la lavorazione delle famose ali piumate, rendendosi conto che un futuro simile – e quindi la libertà – non può appartenergli.
“Mai più egli sarebbe tornato addietro, a salutare per un poco quel mostro, quell’animale, quella bestia una volta soltanto domata.”
[ Questo breve racconto si ispira al #Writober indetto da @fanwriter.it. ]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Animale io, animali voi


 
«E se non potrò correre
e nemmeno camminare
imparerò a volare

R. Vecchioni & F. Guccini, “Ti insegnerò a volare”.
 
La fugacità degli uomini io l’addento: strappo con morsi voraci il braccio, dall’ascella al polso, e sanguinolento, crudo e melenso, butto a gran bocconi, giù per la gola, le membra di questi mortali. Me ne portate a decine, di giovini pronti e robusti, talvolta sudici di paura, e qualcuno di loro, ancora, prova a fuggire; ecco allora che io, con gran balzo, mi accosto al loro ansimare. Attendo un attimo, perché sono crudele, e mi piace scorgere nelle gote bianche il cominciare di una preghiera. Mi chiamano mostro, per il resto dell’anno, ed è soltanto in quel momento lì, quello preciso, che mi innalzano a Dio glorioso: sanno che è mia facoltà ucciderli o risparmiarli—ed è nei più prostrati che piego maggiormente la mia ascia di denti, racchiudendo nella bocca questi codardi, digrignando finché non esalano l’ennesimo, sciatto respiro, l’ultimo che concedo loro. Corrono in lungo e in largo, e forse non hanno ben chiaro che in questo labirinto c’è solo un’entrata e neppure un’uscita: a spiegarlo è impossibile, non ascoltano altro che il loro rantolio sommesso, quando acquietano l’affanno sull’angolo di un vicolo cieco, nella speranza che non fiuti il loro disprezzo. E invece quello s’ode anche nel silenzio più estremo, e allora cammino sulla punta dello zoccolo, piano e ancor piano, per coglierli di sorpresa, di spalle, e calunniare la carne del loro collo. Nulla di più sacro della morte: non vi resta che capirlo.

Ma cosa potrete mai capire, voi uomini balordi, voi che vantate le filosofie più recondite nell’orazione in tribunale!, voi che gioite dei banchetti più ebbri!, voi che, infimi, tradite la prole più giovane, la spedite qui, a morire di stenti! Sciocchi e brevi su questo globo, eppure tanto coraggiosi, tanto ciechi da chiamarmi animale! Animale io! Io, animale, solo perché porto peluria bovina fin sulla schiena! Io, animale, e non voi, che m’avete fatto carnivoro, che mi mandate, per vendetta, il più vile pasto umano!

Lasciate, allora, che vi racconti una favella. Che impariate dall’ingegno degli altri, se siete capaci ancora d’intendere, o se lo siete mai stati. Imparate da un uomo che m’ha costruito le pareti di casa, che ha scolpito la mia condanna, la mia libertà: mi ha donato un giaciglio, un muro da chiamare appoggio, dove m’hanno rinchiuso, trappola e cordoglio. Un uomo barbuto, dall’occhio furbo e marmo nel muscolo: lo spiavo, quando sedeva assieme a quel suo figlioccio, dallo spigolo d’un’ansa, zitto e paziente, perché volevo a lui bene. Spiavo quel gran daffare che ebbe nello spennare cento e più uccelli, nel porre in ordine le loro piume, laccarle con cera e vibrarle nell’aria, pesando con forte volontà l’ampiezza del raggio. Vedevo passione sui suoi occhi fiammeggianti, non odio, non timore: anzi la forza, quella forza che rende eroico un uomo, e non quel modo pigro di fingersi grandiosi, come fosse pignoletto il sangue d’ogni corpo versato. Spiavo Dedalo, nel mio silenzio stoico, e mai ho osato avvicinargli il passo. Guardavo, guardavo da lontano, spento e vivo di continuo, come mi accendesse e fugasse, continuamente, la speranza di aver finalmente un amico. Durò come un battito di ciglia, fin nelle calcagna: un giorno l’uomo potente s’attaccò quelle ali di piume, le mise sul figlio, ed imparò a volare, come solo uno dell’Olimpo può pensare di fare. Ghiotto d’amore, in frantumi il cuore, piansi, feroce, la dipartita. Mai più egli sarebbe tornato addietro, a salutare per un poco quel mostro, quell’animale, quella bestia una volta soltanto domata, ma donò dell’altro a quello scempio della natura: mi donò la forza di sognare il cielo, incatenato per sempre al morbo di questa Terra. Voi che avete potuto, volate lontano, volate finché vi aggrada, e approdate sul lido più dolce che incontriate, quello che più meriterete. Le ali vi saranno lievi, amici miei, e lievi sono i miei sogni, nella notte splendente, mentre conto le stelle, senza abaco, e cerco in quale di esse siete seduti, un attimo lì per riprender fiato.

E date ragione a me, per una buona volta! Non scendete mai più, ma date aria alla luna! Lasciatemi qui, lasciatemi tra gli stracci di questi sacrifici dissimili da voi, a tagliuzzar le ossa delle vergini, a far mandibola di nuovo, sui quattordici, di anno in anno! Lasciatemi qui! Che fate! Pensate a me? No, no, non pensatemi! Misericordia! , lasciatemi qui, non pensatemi neppure per un attimo: c’è il guaio, altrimenti, che io diventi troppo umano!
   
 
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