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Autore: The Custodian ofthe Doors    07/10/2019    5 recensioni
[ AU!Police| Seguito di Una pista che scotta| II| Detective!Alec| PoliceOfficer!Simon| SemiCriminal!Magnus| AlecSimonMagnus!squad]
Alexander Lightwood è un Tenente della Omicidi di New York City a capo di una squadra a dir poco particolare e se un tempo era famoso per la sua pazienza e la sua calma imperturbabile, oltre che per la sua sfortuna, ora lo è anche per aver risolto il grande Caso Circle a trent'anni dalla sua archiviazione.
Ma i problemi non sono finiti e non arrivano mai da soli.
Dopo il ritrovamento del quaderno del Circolo di Asmodeus vecchi mostri sacri della criminalità risorgono dalle loro ceneri, attirati dalla consapevolezza che il proprio nome risulti su quelle pagine assieme a tutti i loro segreti più grandi.
New York apre il sipario e mette in scena, per l'ultima volta, l'ennesimo atto di uno spettacolo che in troppi temevano di rivedere, in cui troppi saranno costretti a recitare di nuovo o per la prima volta.
I demoni stanno tornando, crimine e giustizia saranno ancora costretti a combattere assieme questa battaglia che nasconde più di quanto non possano credere.
La chiamata è stata fatta e nessuno potrà ignorarla.
Che gli piaccia o meno.
Genere: Azione, Commedia, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Simon Lewis, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XII
Petali bruciati.






Due colpi secchi, il rumore sordo delle nocche che impattano contro una superficie solida.
Il suono si propagò per l'anticamera e poi per la sala, raggiungendo appena l'unica stanza occupata. Ci fu una pausa di pochi minuti e poi altri due colpi, in sequenza, più forti dei primi.
Nella camera una figura distesa mugugnò qualcosa, la voce soffocata dalla stoffa che gli copriva la bocca, il buio delle finestre chiuse e delle tende tirate che impedivano anche a qual si voglia stimolo luminoso di giungere all'occupante di quelle quattro mura.
Altri colpi, quattro, poi uno più pesante.
Ma nessuno poteva sentirli.







C'era stato un tempo in cui le strade di New York City erano state calcate da vere e proprie razze di diversa provenienza. Non ci si riferiva alle invasioni, ai coloni e agli stranieri, ma ad Americani, o persone che lo sarebbero diventate prima o poi, che si erano giurate fedeltà e sterminio sull'asfalto rovente e crepato della Grande Mela, sotto l'ombra dei palazzi popolari, dei mastodontici ponti e degli edifici storici.
C'era stato un tempo in cui vedere una vistosa pelliccia era stato sinonimo di Branco, vedere lunghi trench neri simbolo di Clan, vaporose vesti velate e fiorite indice di Popolo.Non era più così, non lo era dagli anni '80, quando Asmodeus aveva lasciato quelle terre per andare altrove, a gestire traffici più importanti, più pericolosi, più redditizi.
Alexei si sistemò con un gesto lento la cravatta attorno al collo, facendo attenzione a non tirar troppo il tessuto perfettamente stirato della camicia. Livellò i due lembi e compì le stesse mosse che ripeteva ogni mattina da anni: afferrò la parte più corta con la sinistra e la più lunga con la destra, le invertì. Passò la destra sopra la compagna e poi sotto, controllando che non si piegasse, poi un altro giro, l'indice sinistro premuto sopra il primo intreccio. Il lembo squadrato passò nel cappio e poi tra il primo ed il secondo giro di stoffa. Tirò con attenzione e sistemò il suo semplicissimo nodo, elegante e sobrio.
Il tessuto vinaccia, lucido di raso, brillò alla luce naturale che entrava nella stanza.
Gettò un occhio fuori dalla finestra, respirando piano: il cielo era di un azzurro tenue ma non prometteva neve, il che era già un enorme passo avanti.
Non aspettò che qualcuno entrasse nella stanza per avvertirlo che la macchina fosse arrivata, l'ora era quella prestabilita ed Alexei sapeva di poter contare su poche costanti nella vita, tra le quali rientrava la puntualità dei Corvi.
Scese ad agio le scale che l'avrebbero condotto fuori dal Club, lontano dai suoi collaboratori nella carrozza nera che l'attendeva con pazienza.
Lo accolse il silenzio della Hall, la sala vuota, il personale tutto indaffarato nei propri compiti. Non si sprecò d'avvertire qualcuno e a mala pena rivolse uno sguardo d'intesa al portiere.
Sotto il sole pallido di fine Marzo l'uomo s'avvicinò alla macchina di lusso, concedendosi un sorriso appena accennato quando vide chi gli stava tenendo la portiera aperta.
Un uomo adulto, anziano avrebbero detto altri, ma Alexei sapeva che solo otto anni li dividevano e quindi non aveva tutta questa gran voglia di etichettarlo come tale.
Alto e distinto, con i capelli grigi pettinati con cura, così come i baffi ed il pizzetto che gli copriva il mento. La pelle chiara era appena colorita dal freddo, il lungo cappotto nero ed opaco, di spesso panno felpato, gridava la sua appartenenza ad un determinato status così come un tempo avevano fatto i loro trench di pelle.
Indossava dei guanti bianchi, da maggiordomo, così tipici da identificarlo subito come la figura perfetta di un personaggio conosciuto. I suoi occhi erano schiariti dal tempo, li ricordava di un marrone denso, che infondevano sicurezza, efficienza. Era ancora così, ma ora sopra quella corteccia di quercia si era depositato uno strato di ghiaccio che la rendeva opaca.

<< Timothy. >> salutò solo l'uomo.
L'altro gli sorrise. << Alexei.>> fece un cenno con il capo e poi lo invitò a salire in macchina.





<< Hanno risposto tutti alla chiamata.>> asserì con sicurezza De Quincey, comodamente seduto sul sedile posteriore della vettura.
Davanti a lui Timothy stirò appena le labbra. << Avevi forse qualche dubbio?>>
<< Non mancano i pazzi a questo mondo. Ci sono persone che, come me, hanno risposto per educazione, chi l'ha fatto per fedeltà e chi per timore, ma non dubito che ci sia qualcuno così sciocco da sentirsi superiore e credere di poter evitare questo impaccio.>>
<< Tu l'avresti potuto evitare?>> domandò l'altro.
<< Se avessi voluto sì, ma perché perdermi lo spettacolo? Il nostro Clan è sempre stato in buoni rapporti con Asmodeus, fin dagli albori. Siamo ben organizzati, sappiamo come muoverci, possono crollare le torri ma questo non indebolirà le mura. Lo sai tu, lo so io, lo sa Asmodeus.>>
<< Posso concedertelo, ma sono ugualmente convinto del fatto che avrebbe trovato un modo per farti partecipare.>>
<< Con le buone o con le cattive, lo so. Ma non vado sottovalutato neanche io.>>
<< Assolutamente.>> sorrise gentile il maggiordomo.
Alexei scrutò quello che, ad occhio e croce, poteva definire suo amico, ma non disse null'altro. Lo ricordava ancora Tim, quando l'aveva conosciuto, quando era arrivato dall'Inghilterra negli anni sessanta. Ricordava quel giovane con i capelli scuri che gli arrivavano alle spalle, la frangia che oscurava a tratti la vista ed i perenni guanti senza dita indosso.
Aveva un'immagine impressa a fuoco nella mente, quella di un Tim di vent'anni che estraeva dalla tasca del giaccone un accendino argentato, sulla superficie impresso un disegno intricato che, ad oggi, sapeva perfettamente cose fosse ma al tempo non riuscì a cogliere.
Se lo vedeva ancora davanti mentre si chinava verso un ragazzetto poco più giovane, con un ciuffo sparato in aria di capelli neri e lucidi, permettendogli di accendere la sigaretta che teneva tra le labbra. Lo sguardo si concentrava sulla bocca del giovane, dove una macchia sbafata di rossetto segnava una linea verso il mento.
Le dita gentili e chiare di Tim erano andate a togliere con delicatezza quel residuo e Asmodeus – ancora Adam all'ora- gli aveva sorriso grato, gli occhi luminosi come quelli di tutti i giovani appena usciti dall'adolescenza e convinti di avere il mondo ai propri piedi, di averlo in pugno.
Solo che Adam non lo credeva semplicemente, lui lo progettava.
Ora quel ragazzino con una macchia di rossetto sul mento era un uomo che intimoriva interi Stati e che mai era stato catturato: il giovane che si prendeva cura di lui era un vecchietto che ancora stringeva saldamente tra le proprie mani le redini di tutti i cavalli del Principe.
Alexei passò la mano sul sedile senza neanche rendersene conto.
Tim era stato il loro guidatore, il loro “pilota”, quello che sfrecciava tra le strade con la sua macchina nera come un carro funebre, pronto a trasportare chiunque ovunque. Pronto a giungere in soccorso del suo capo ad un solo cenno, come una divinità pagana che faceva emergere la propria biga dalle ombre del sottosuolo.
Ne era passato di tempo, ne erano cambiate di cose. Non sapeva da quanto Timothy avesse smesso di guidare, quando avesse iniziato a sedere semplicemente vicino all'autista o al fianco del passeggero. Probabilmente quando Adam se n'era andato e solo il piccolo Magnus Bane era rimasto nella Grande Mela, forse aveva rinunciato al volante per tener compagnia a quel ragazzino sui sedili ora vuoti e silenziosi di quelle macchine troppo lussuose e troppo protette.

<< Siamo i primi a tornare ad Edom House, è cambiato qualcosa?>> chiese d'improvviso.
Timothy scosse la testa. << Assolutamente nulla.>>
<< Ci degnerà della sua presenza o se ne uscirà con un'altra stupida telefonata alla Charlie's Angels?>>
Ci furono lunghi minuti di silenzio, interrotti solo dai vaghi suoni che provenivano dall'esterno della vettura.
Poi un rumore indistinto, come d'aria che sfuggiva da una fine apertura. Sempre più forte, mentre Tim abbassava la testa e Alexei si apriva in un sorriso divertito.
<< Dio Tim, non avremmo mai dovuto fargli vedere quel dannatissimo telefilm.>> disse ghignando. L'altro non si trattenne più e scoppiò definitivamente a ridere. << Era il suo preferito, come avremmo potuto impedirlo?>>
<< Andò anche a letto con una delle attrici, no?>>
<< Andò a letto con tutte e tre e tutte rigorosamente vestite come i loro personaggi!>>
<< Era un fatish puro quello. Guardando indietro non mi sorprende minimamente di come sia venuto fuori il figlio!>>
<< Ci siamo illusi che il sangue di Ann avrebbe un po' mitigato quello di Adam, ma non ha minimamente funzionato.>>
I due continuarono a ridere allegri, come non succedeva loro da tanto, troppo tempo.
Fu Alexei il primo a riprendersi, cercando di scacciare dalla mente tutti i ricordi che per quanto piacevoli ora stonavano con le tinte cupe che stava prendendo quella storia.
<< Cos'ha in mente, Tim? Perché proprio ora?>> domandò a bassa voce.
Il sorriso sul volto dell'altro uomo si spinse ma non andò via, rimase una piega triste e pallida sotto i baffi chiari.
<< Credo che tu lo sappia, o quanto meno lo possa intuire.>> disse mesto.
<< Allora è vero? Ho sentito girare delle voci, molte voci, ma nessuna conferma definitiva. Volevo la tua parola.>>
<< L'hai avuta, Alexei, è esattamente quello che si dice in giro.>>
<< Questo è il motivo, è l'incipit della storia, ma la trama? >>
Timothy sospirò, sistemandosi i guanti bianchi col fare distratto di chi è abituato a ripetere da anni la stessa azione.
<< Purtroppo, la trama è la più vecchia del mondo. Due esseri si incontrano all'albore della loro vita ed intrecciano un qualche tipo di legame, non importa di che genere esso sia, l'importante è che questo li unisca inevitabilmente. Con il proseguire degli anni questi due esseri si dividono, finendo su fronti diversi, animati da spiriti e desideri diversi, o forse dal medesimo rielaborato con altre parole. Il tempo continua a scorrere, i due fanno la loro vita, creano il proprio impero, il proprio esercito, fino a quando non si giunge alla resa dei conti. Uno dei due inizia a spegnersi e l'altro capisce che è giunto il momento di tirare le somme e chiudere la partita.>> raccontò con la voce di un saggio cantastorie.
Ma Alexei queste cose le sapeva, le sapeva benissimo. C'era anche lui, quarant'anni prima, quando la storia era arrivata al bivio ed i protagonisti avevano scelto strade differenti, l'altro non gli aveva detto nulla di nuovo.
<< Vuole sacrificarci tutti?>> chiese con un fil di voce.
Tim scosse la testa. << No, Alexei, non vuole sacrificarci tutti. Vuole solo muoverci contro le pedine del suo nemico e vedere se saranno i nostri pedoni, le nostre torri, i nostri cavalli ed alfieri a cadere, o se saranno i suoi.>>
<< Ha così tante persone al suo seguito?>>
<< Ne ha poche ma devote e la devozione spesso è un'arma molto più potente della paura. Se chi ti comanda lo fa con il terrore non può non aspettarsi un tradimento alla prima buona occasione, ma se invece chi ti è servo lo è in modo devoto… >>
<< Questo servo farà di tutto per te, anche se non glielo chiederai.>> annuì mesto. << E il Clan è la prima fila a muovere.>> concluse.
Tim fece un cenno con la testa, accondiscendente. << Siete il gruppo meglio organizzato, siete anche il più stabile, per di più, l'uccellino di uno dei vostri luogotenenti è stato così stupido, o sfortunato, da ottener l'incarico di uccidere proprio Magnus Bane.>> fece notare con una strana inclinazione dura nella voce.
Alexei sorrise. << Mi pare che tuo nipote stia bene, che non si sia fatto neanche troppo male. So che deve la vita ad un poliziotto, e che poliziotto…ha tenuto testa a Morgenstern, ha scoperto il marcio che aveva coperto anni addietro. È stato davvero un peccato, per quel diavolo bianco, se solo Raphael fosse stato in affari anche al tempo… >>
<< Probabilmente non sarebbe morto nessuno. Rimane il fatto che uno dei vostri- >>
<< Non era dei nostri. Sai come funziona il Clan, ognuno pensa ai suoi famigliari, ognuno pensa alla sua bottega. Quel tipo, era uno degli uccellini della Rosa Nera.>> disse secco.
<< Oh, lo so, ne sono ben consapevole. È anche per questo che siete stati chiamati subito.>>
<< Quindi non mi sbagliavo, non è solo cortesia.>>
<< Anche. Avremmo dovuto disinfettare tutta la casa per convincervi ad entrare dopo il Branco.>>
Una smorfia schifata tirò le labbra dell'uomo. << Quella gentaglia. Sono persone di quel tipo che infangano i nostri commerci ed i nostri lavori, quelli che contrattano con chiunque, che non hanno uno stile, una morale...>> lasciò la frase in sospeso, come se non trovasse altre parole per definire quelle persone, ma Timothy sorrise divertito scuotendo piano la testa.
<< Perché Alexei, voi avete una morale?>> chiese beffardo.
<< Di certo ne abbiamo più di quei cani.>>
<< Certo, certo.>> fece l'altro alzando le mani in segno di resa. << Inizierete ugualmente voi, siete la prima e più scintillante pedina.>>
<< Non mi adulare. >> rispose stando al gioco. Reclinò leggermente la testa sino a poggiarla contro il sedile, la postura più rilassata, un curioso controsenso visto ciò che stava per chiedere al suo compagno. << Ma contro chi giochiamo? Chi è che l'altro ci muoverà contro per primo?>>
La macchina svoltò con un movimento fluido, Alexei avrebbe saputo dire con certezza dove fossero in quel momento ma non era ciò che gli interessava, non era il tempo che aveva ancora a disposizione per parlare con il vecchio amico e non lo era neanche il traffico della city.
Sul sedile davanti al suo Timothy intrecciò le dita, i guanti bianchi opposero una mera resistenza, una frizione che scivolò via sotto la forza della stretta delle falangi.
<< Questa, amico mio, è una domanda a cui non sarò io a rispondere.>






Nel grande ufficio arioso non c'era mai stata tutta la confusione che regnava in quel momento.
La porta era chiusa a chiave, vietando l'accesso a chiunque, persino per le questioni più urgenti. Non era professionale, non lo era minimamente, ma non le importava, non le importava nulla.
Aprì la cornice e quasi lanciò a terra il riquadro di sughero che teneva la fotografia ferma. Dopo di quello non vi era altro se non la liscia e bianca superficie plastificata, una scritta a penna un po' sbafata che recava l'anno, il luogo e le persone ritratte nella foto.
Con un moto di rabbia scagliò anche la parte in vetro contro il pavimento, il rumore della lastra che andava in frantumi non era nulla paragonato alla rabbia che le stava mondando dentro.
Non poteva essere, nessuno sapeva che aveva quelle fotocopie, nessuno sapeva che il Quaderno era stato duplicato, nessuno!
Ma invece qualcuno c'era, si era accorto del trucco ed era andato a recuperare il doppio. Ogni singolo nascondiglio era stato scovato, tutti i fogli rubati senza lasciar alcuna traccia.
Aveva controllato bene, eccome se l'aveva fatto: la maniglia della porta priva di graffi, la serratura non forzata, le finestre chiuse. Nessun altro documento era stato trafugato, il ché la diceva lunga sull'importanza che quei quattro fogli avevano per il ladro: si sarebbe potuto impossessare di informazioni riservate e pericolose, di accordi con criminali, di pagamenti indebiti, di scandali politici… invece aveva ignorato la sua scrivania e a colpo sicuro aveva trovato tutte le copie del Quaderno di Asmodeus, tutte, dalla prima all'ultima, tranne …
La donna sospirò pesantemente passandosi una mano sulla fronte e poggiando l'altra sul fianco. Rilassò la schiena lasciando che si ingobbisse sotto il peso della stanchezza, della frustrazione e dell'ira cocente che le stava bruciando in petto come fuoco vivo. Volse di poco la testa, senza abbandonare la sua posa, ma individuando subito quei fogli piegati in quattro che ora giacevano mezzi aperti sul piano di legno.
Gli anni '80. Tutto ciò che le rimaneva erano gli anni '80 della vita di un criminale raccolta per massimi capi e abbreviazioni al limite del possibile, piena di lettere puntate, di parole in altre lingue, di simboli che, palesemente, non potevano significare ciò che la gente comune attribuiva loro. La cosa più frustrante era che quegli anni erano anche gli unici che lei già conosceva, di cui sapeva di più.
Le era rimasto solo un ricordo striminzito e neanche lontanamente degno dei reali fatti accaduti di una vicenda che lei stessa aveva vissuto in prima persona.
No, a lei interessavano gli anni '70, le interessavano i '60, i '90 e gli anni 2000. Sì, perché su quel dannato quaderno c'erano anche gli albori di quel nuovo secolo che aveva promesso tanto e mantenuto praticamente nulla.
Espirò pesantemente dal naso e si piegò sulle ginocchia per recuperare la foto ora in frantumi.
Scostò con attenzione i frammenti di vetro e tirò su il foglio, girandolo per poter osservare personaggi di una vita passata usciti di scena da troppo tempo.
Un sorriso triste le tirò le labbra, un mormorio impercettibile che sarebbe potuto essere un ennesimo sospiro o uno “scusa” soffiato al nulla.
Non si curò di raccogliere la cornice, o di ammucchiare i vetri, si limitò a poggiare la foto sulla scrivania, vicino ai fogli mal piegati, e lanciare un'occhiata valutativa alla stanza: doveva decisamente mettere in ordine prima che qualcuno avesse bisogno di chiederle consiglio.
Avrebbe passato tutta la mattinata a rimettere a posto quelle carte con tutta probabilità, ma il fatto che fosse domenica l'aiutava in qualche modo. Sperava vivamente che nessuno l'andasse a cercare in ufficio, malgrado la presenza del Capo in un giorno feriale avrebbe potuto insospettire qualcuno.






Quando il cellulare aveva preso a vibrare Simon non aveva capito immediatamente cosa fosse successo. Poi si era ricordato improvvisamente della sveglia, posta alla spaventosa ora delle dieci di mattina di domenica, e se in un primo momento si era anche maledetto di averla impostata ben presto si era ricreduto ed era caracollato fuori dal letto alla velocità della luce.
Dei suoi coinquilini neanche l'ombra, ma Simon certo non li poteva biasimare: era il loro unico giorno libero, anzi, per Jordan non era neanche così scontato avere una domenica di pace, così come non sarebbe dovuto esser scontato per loro.

Ma stiamo seguendo un caso un po' così, che non necessita di correre dietro ad un assassino pronto a svanire nel nulla, quindi il nostro giorno di riposo settimanale ce lo possiamo anche prendere senza vergogna.

Lui, dal canto suo, aveva tutta l'intenzione di godersi a pieno quella giornata, iniziando nel migliore dei modi: doccia, colazione e poi un consulto telefonico con Clary per del sano trainig psicologico e per decidere cosa mettersi per quella sera.
Oh, sì, perché non voleva sbagliare, non ad un primo appuntamento.
Se quando era un adolescente con gli occhiali da nerd – che aveva ancora- e i segni dell'acne – che aveva ancora anche loro- gli avessero detto che una bella ragazza bionda, dal volto gentile, i modi timidi ed il sorriso imbarazzato gli avrebbe chiesto esplicitamente un appuntamento perché si era presa una sbandata per lui quando l'aveva visto suonare con i ragazzi un pezzo dei Beatles, beh… non c'avrebbe minimamente creduto. Ma tant'era che una bella ragazza bionda, dolce e timida gli aveva proprio chiesto un appuntamento perché aveva una cotta storica per lui dai tempi della band. Così adesso Simon si trovava sotto la doccia, tutto allegro e fischiettante, a prepararsi per quell'incontro inaspettato ma molto, molto gradito.
Da quanto tempo era che non usciva più con una ragazza? Che non ci usciva seriamente e non ci flirtava blandamente? Davvero troppo. Probabilmente da prima del Caso Fell, quando quella con cui si sentiva l'aveva piantato in asso perché non pensava fosso il tipo giusto per lei.
Già, Simon non aveva mai avuto troppa fortuna con le ragazze, non aveva avuto molta fortuna con le storie romantiche in generale: prima Clary, di cui era stato innamorato all'incirca dall'asilo sino ai suoi sedici anni, un tempo davvero notevole e ammirevole per cui sperava almeno di ricevere un riconoscimento, non diceva una medaglia o una coppa, ma diamine, almeno un attestato di resistenza!
Poi c'era stata Izzy, ma non prendersi una sbandata per Izzy era impossibile. Simon ci scommetteva che un tempo anche un giovane Jace si fosse detto che, se non fosse stata sua sorella, si sarebbe preso una mezza cotta per lei. I fratelli Lightwood erano schifosamente belli, tutti in modo diverso ed ugualmente affascinante: c'era lo sbruffone, il figo della situazione, quello bello e impossibile che aveva tutte ma non era di nessuno. C'era la pantera nera, ammaliatrice, sensuale e seduttiva, una dominatrice con la frusta ed i tacchi a spillo che si vestiva di un abitino bianco succinto con tanto d'aureola e ali piumate. E poi c'era il bello e tenebroso, quello scostante, intoccabile, su cui si vociferava tanto ma che nessuno aveva mai avuto il privilegio, la fortuna o anche solo la forza di sfiorare.
A pensarci a mente fredda Simon si domandava come avesse fatto a sbavare dietro ad Izzy e non anche ad Alec. A Jace era ovvio, si era posto subito come persona insopportabile, come uno di quei classici bulli che a scuola lo spingevano contro gli armadietti, ma Alec era pure un ninja!
Okay, forse era rimasto più colpito da Izzy perché aveva sedici anni e le tette di una di venti, ma quelli erano dettagli, la ragazza metteva sempre quelle magliettine così scollate, così aderenti… chissà come riusciva a passare sotto il naso di Maryse… e sotto quello di Alec anche. Un Alec che probabilmente era stato il principio e la cagione della sua bisessualità nel momento in cui aveva cominciato a frequentare loro due, anche se Simon cominciava a credere che interrogarsi sull'origine della propria sessualità e ragionare su cosa del suo amico – e capo- avrebbe potuto ispirarlo non era una buona idea. Non la mattina del giorno del suo appuntamento, no signore.
Forse avrebbe potuto parlarne con Magnus, insomma, lui c'era pure andato a letto con Alec, avrebbe capito la sua cotta platonica per il loro comune amico e ne avrebbe discusso con serietà e fervore. Ed una buona dose di malizia, ma poco contava.
Pensandoci si disse che non avevano mai finito, o anche iniziato, il discorso sulla sua bisessualità. Ad essere onesti Simon non poteva proprio definirsi bisessuale, sia perché non era mai stato con un uomo, sia perché quando gli si presentava l'occasione oltre a sbavare un po' dietro a muscoli e phisique du role aveva sempre preferito approcciarsi alle ragazze. Che fosse quindi bicurioso? Forse doveva definirsi così, sì, o magari etero insicuro. Oh! Al diavolo, che gliene poteva fregare di aver un etichetta? Insomma, sarebbe stato bello poter sfoggiare la propria bandiera al prossimo Pride, che non si sarebbe perso per niente al mondo perché ci sarebbe stata anche Sua Grazia Suprema, Sua Altezza Reale Phoebe Lightwood, ma questi, ancora una volta, non erano altro che dettagli. Avrebbe rubato la bandiera bi a Magnus, o se ne sarebbe comprato una sua… ma perché pensava a queste cose proprio il giorno in cui doveva uscire con Maureen Brown?
Sospirando pesantemente spense l'acqua e cercò a tentoni l'accappatoio fuori dalla doccia.
Dove diamine era? Eppure gli era parso di averlo lasciato sul lavandino…
Forse stava ragionando così tanto sulla propria sessualità solo per colpa di quella ragazza.
Era imbarazzante anche solo da pensare, ma se era davvero tanto che non usciva seriamente con qualcuno era altrettanto il tempo passato dall'ultima sana nottata di divertimento vissuta con un volto sconosciuto random.
A Simon non piaceva aver rapporti occasionali, si sentiva in difetto, in imbarazzo, non sapeva dove mettere le mani, se una cosa sarebbe stata gradita o meno, ma ogni tanto, un puro sfizio sessuale, ci stava. Solo che non faceva per lui, proprio no.
Certo, pensare al sesso ad un primo appuntamento non era proprio il massimo, non era certo Jace lui, e non pensava neanche che la dolce e timida Maureen fosse una del genere, però…
Sbatté la testa contro il muro piastrellato della doccia: doveva assolutamente chiamare Clary e farsi una chiacchierata come si deve con lei, di certo l'avrebbe aiutato a dissipare tutti quei dubbi e tutte quelle stupide fisime che gli stavano venendo.
Il panico da primo appuntamento non era proprio quello che gli serviva.
Sperava solo vivamente che non fosse con Jace…







Edom House era esattamente come se la ricordava. Pulita, linda, luminosa, perfetta.
Se si osservava con attenzione il pavimento si poteva quasi vedere il riflesso fumoso e sfocato di chi vi camminava sopra.
Alexei aveva passato anni in quella casa, accumulando giorni su giorni sino alla chiusura di quei battenti, all'abbandono del castello da parte del re.
Quando ciò era avvenuto il piccolo principino aveva lasciato da molto il nido paterno e si era ritirato nel suo attico a Brooklin, Greenpoint, non troppo lontano dalla casa base che invece si trovava dietro al grande parco del quartiere. Non c'era rimasto davvero nessuno ad abitare quelle mura così sfarzose e magnifiche, pregne di ricordi, di voci, di colori. Soprattutto il rosso.
La casa era stata comprata negli anni settanta, pronta ad ospitare quello che sarebbe diventato un impero senza precedenti nella storia di New York City, un regno sterminato fatto di patti di sangue e giuramenti di fedeltà eterna e servile. La ricordava vuota, sgombra di ogni mobilio, ricordava ancora i muratori portar via i loro attrezzi, il piastrellista posare l'ultima riga del mosaico della cucina, l'idraulico salire veloce la scalinata coperta di celofan per poter andar a controllare che le tubature fossero tutte pronte per il montaggio della vasca.
La ridicola vasca di Adam fatta a diamante. Dio...quanto ce lo avevano preso in giro, un enorme blocco di pietra viola. Erano tutti sicuri che avrebbe sfondato il pavimento e sarebbe crollata per tre piani sino al seminterrato. Lilith aveva riso così forte quando lui aveva chiesto ad Adam se almeno avesse fatto rinforzare il pavimento, con conseguente sguardo interrogativo dell'altro, che Tim aveva dovuto batterle una mano sulla schiena per non farla soffocare con la sua stessa saliva. Erano bei tempi quelli, a ricordarli così, quando tutti loro erano ancora giovani e pieni di vita, di idee, di speranze, di voglia di fare.
Volevano essere grandi, essere i migliori, diventare conosciuti, temuti, ottenere finalmente quel potere che non avevano avuto da piccoli, sollevasi dalla polvere, dalla miseria e dall'anonimato in cui erano nati e cresciuti.
Com'era finita poi?
I loro affarucci da niente si erano trasformati ben presto in qualcosa di importante, di serio, di pericoloso. Erano arrivati i primi ingaggi, i lavori in collaborazione, i rischi, le lotte, le perdite, la morte… ben presto quello sparuto gruppetto di ragazzini cresciuti nel Bronks, troppo vicini al Westchester e troppo lontani dalla scintillante Manhattan, immigrati in America come i clandestini durante la Seconda Guerra Mondiale, che per tutto quel tempo avevano fatto fronte comune, aveva iniziato a sciogliersi.
Lui e Tim erano i più grandi, era stato semplice, logico, se l'erano aspettato tutti che sarebbero stati i primi a trovare una propria professione, un proprio impiego, lontano dalla banda. Ma se lui era riuscito a comprare il suo Club, se era riuscito ad aver sotto di sé tutti quei collaboratori, a diventare il capo di sé stesso, Tim non aveva avuto il minimo interesse nel farlo.
La verità era che come tutti si erano aspettati che Alexei sarebbe stato il primo a volar via - “voli via dal nido, uccellino?”- tutti erano certi che Timothy mai e poi mai avrebbe lasciato il fianco di Adam. L'aveva protetto sin da quando era piccolo, non l'avrebbe abbandonato neanche quando sarebbe diventato il più potente uomo della terra. E così era stato.
C'era una nostalgia sottile e tetra che permeava quei pavimenti, le immagini che riflettevano non gli parevano quelle di chi vi camminava sopra ma i fantasmi di una vita passata, una vita in cui scappare e fregare la polizia era il gioco del venerdì sera, dove incontravi la pattuglia di turno e l'avvertivi che avrebbero trovato un cadavere perché qualche stronzo aveva avuto la cattiva idea di mettere le mani addosso alla donna del tuo amico e loro non facevano una piega. La giustizia legale era per la gente comune, la giustizia privata era per gente come loro, una semplice e mai scritta legge che tutti accettavano e rispettavano.
Poteva quasi vedere tutti coloro che negli anni si erano affrettati per quelle sale, per quei corridoi, dalla servitù ai membri dei vari gruppi. Se socchiudeva un po' gli occhi poteva vedere il riflesso di un uomo sulla trentina, pallido e stempiato, con i capelli cortissimi e gli occhi di ghiaccio, una croce appesa al collo ed una fialetta con il suo sangue subito appesa sotto.
L'anima maledetta di Dracula si aggirava per quelle stanze come quella di altri centinaia di dannati che avevano avuto la sfortuna di legarsi al Principe.
Se poi avesse gettato uno sguardo alle sue spalle, spiando quella porzione di lucido marmo con la coda degli occhi, avrebbe potuto vedere i passi infermi di un bambino che ben presto sarebbero diventati quelli insofferenti di un adolescente al cui seguito avrebbero trottato un ragazzo serio ed alto, una ragazzina albina, una piccola cinesina con un coltellino rosa in mano. Si sarebbe aggiunto il passo lento, cadenzato ma sicuro di un ragazzetto dai ricci neri, affiancato da un bel giovane biondo e da un'altra biondissima e bellissima ragazza stretta al braccio di questo. Dietro di loro li avrebbero seguiti una giovane donna dai capelli rossi, un giovane uomo dagli occhiali in corno ed il ciuffo castano striato di biondo. Avrebbe visto quella che si preannunciava essere la prossima grande guardia dell'Edom House. Quella che una mattina di primavera aveva distrutto brutalmente con un colpo al cuore di quel gruppo che tanto aveva promesso e che poi, un po' come loro, si era sciolto come la neve a Marzo.
Quanto aveva brillato nel loro futuro, quando di quell'oro scintillante non si era rivelato che mero riverbero di una luce infame ed ustionante.
Ma ora era lì e presto ogni cosa si sarebbe risolta. Forse era finalmente giunto il momento di dar pace agli spiriti, di lasciar riposare una volta per tutte i morti.
La porta di legno chiaro si aprì davanti a lui, i due battenti si schiusero rivelando la sala delle riunioni che spesso era stata luogo di gioie e di risa ma che ora emanava la stessa luce fredda delle cripte, lo stesso aroma fumoso di cera ed incenso, proprio come ci si sarebbe aspettati che fosse la tana di un demone, il luogo ideale dove accogliere una setta di vampiri, di creature oscure che scappavano la luce ed il calore, la gioia e la vita.
Figli della Notte pronti ad affrontare l'inizio di quell'alba.
L'inizio della fine.








Il locale era buio e silenzioso, erano giorni che non apriva le imposte e la cosa non lo infastidiva minimamente.
Aveva passato mesi interi rintanato in casa, nella sua camera ad esser precisi, quell'enorme sala di un ancor più enorme appartamento a due piani che era sempre sembrato troppo vuoto e che ora lo era davvero.
Sua madre gli aveva detto di venderlo, di usare i soldi che ne avrebbe ricavato per comprarsi un appartamento tutto suo, magari più piccolo, magari meno freddo ed asettico. Doveva averla guardata con un'occhiata davvero spaventosa perché la donna si era fatta piccola, chiudendosi nelle spalle ed abbassando la testa.
Non avrebbe mai venduto casa sua, i suoi ricordi, il suo passato. Non l'avrebbe fatto solo per liberarsi del fantasma di suo padre che ancora aleggiava su di lui.
Jonathan poteva giurare di sentirlo ancora, di vedere la sua ombra strisciare silenziosa sulle pareti del corridoio, lungo la scalinata che portava alle camere. Poteva sentire i suoi passi felpati in cucina e se fissava per abbastanza tempo la soglia della sua porta, sino a farsi sfocare la vista, poteva vederlo comparire lì con una tazza di caffè in mano, lasciargliela sul bordo del tavolo ed andarsene silenzioso com'era arrivato.
Mai una volta che lo avvertisse, mai una volta che volesse un grazie, pareva quasi che non volesse dimostrare troppo affetto, troppa attenzione. Non si voleva esporre suo padre, non voleva diventare come Lucian, ecco cosa.
Molte volte si era domandato come fosse stato l'uomo prima di tutto quel casino, prima che suo padre, suo nonno, morisse in quella cantina. Si era chiesto che vita avrebbe vissuto, come sarebbe stato, come sarebbe diventato. Erano tutti interrogativi a cui non avrebbe mai dato una risposta ma erano lì, che lo aspettavano nel buio delle ombre di quei mobili costosi e lucidi.
Nella casa c'era un vago odore stantio di alcol e polvere, residui dei suoi pasti precotti o del takeaway e– e l'odore di casa, l'odore che aveva sempre associato a sé stesso e suo padre.
Valentine era stato un bastardo senza possibilità di redenzione, aveva tradito la bandiera, aveva tradito la patria, il distintivo, i suoi amici.

Ha tradito me, era pronto ad uccidermi se mi fossi messo contro di lui.

Eppure non poteva far a meno di sentirne la mancanza.
Non voleva ammetterlo davanti a sua madre e sua sorella, non voleva dirlo a Lucian, non ne aveva parlato con nessuno dei suoi amici. Aveva spiccicato due parole in croce con Lightwood e qualcosa in più con il terapeuta ma… Dio, se ne vergognava così tanto. Gli mancava un criminale, gli mancava un assassino.
Seduto sul divano di pelle bianca, che aveva convinto lui suo padre a comprare, perché Valentine ne voleva uno in tessuto e soprattutto lo voleva verde, Jonathan si passò le mani sulla faccia e sospirò pesantemente. Non sapeva che ore fossero, non sapeva neanche se era già sorto il sole o meno, probabilmente sì. Se ne stava lì da un tempo indefinito a fissare quel rettangolino di carta con quella stupida rosa disegnata sopra.
L'aveva riconosciuta appena l'aveva vista, non l'avrebbe scambiata per nulla al mondo, neanche fosse stata fatta dalla mano di un grande artista.
In sé per sé la rosa era anche banale, la cosa che saltava di più all'occhio era la mancanza di foglie, ma per il resto nulla di eclatante: una stupidissima rosa fatta in grafica e stampata in rilievo su un cartoncino.
Una rosa nera.
Quanti anni erano passati? Davvero un'infinità visto che risaliva ai suoi tempi da agente semplice. Quasi sei anni prima. Una vita. Un tempo in cui tutto era diverso e nulla pareva sul punto di distruggersi, quando le crepe non si vedevano e neanche si intuivano ed il ghiaccio pareva più solido della terra stessa.
La sua prima azione come agente in prova alla OCCB, allora non era altro che un agente di pattuglia assegnato a supporto in previsione di entrare nella divisione giusta, quella che desiderava più di ogni altra.
Era stato così emozionato per tutto il tempo che persino suo padre gli aveva detto di darsi una calmata, ridendo in quel modo basso e quieto che gli era proprio. Il caso poi sembrava piuttosto semplice: un sito internet, ai suoi albori, che prometteva servigi di ogni tipo, compresi quelli che implicavano l'eliminazione di una persona.
A pensarci ora avrebbe dovuto far quel collegamento non appena si era iniziato a parlare di omicidi su commissione, ma la storia della rosa nera gli era passata completamente di mente, o forse aveva solo deciso di spingerla più in là possibile, nei meandri nel suo passato, per dimenticarla, per non dover più affrontare quei fantasmi.
Non era colpa sua, di questo Jonathan ne era perfettamente consapevole, lo sapeva con certezza anche perché non era stato lui ad indagare, non gli era stato permesso di far altro se non di eseguire gli ordini, vista la sua posizione poi, eppure… eppure gli pesava ancora, dopo tutti quegli anni ancora faceva male guardare indietro e rivivere quella notte, rivedere quel lago rosso su cui galleggiavano corpi esanimi e che inevitabilmente si collegava ad un'altra notte, dove sempre il sangue ed il pallore della morte avevano fatto da protagonisti.
Chiudendo gli occhi e facendo scrocchiare il collo con un suono sinistro e secco, Jonathan si impose di prendere un respiro profondo, come gli aveva insegnato il medico, e di far mente locare, di ricordare anche quello che non voleva ricordare perché sarebbe stato essenziale, tutto lo sarebbe stato.



Sei anni prima.



Aprile era agli sgoccioli, la giornate cominciavano a farsi sempre più calde ma il vento continuava a tirare freddo.
Sua sorella si lamentava in continuazione del fatto che il sole la illudesse, che si potesse star così caldi alla luce della stella maggiore ma che non appena si finiva all'ombra arrivava immediatamente il freddo. Ad esser onesti Jonathan non avrebbe però saputo dire se quelle lagne provenissero proprio da quell'anno o da altri, da tutti o da uno in particolare, Clary si lamentava sempre delle temperature, non gliene andava mai bene una e agognava sempre quella della stagione successiva. Anche se poi, arrivata quella tanto attesa, stava di nuovo lì a sbuffare perché il sole le faceva uscire troppe lentiggini, il sudore era insopportabile, si bruciava subito, quando poi finiva l'estate era tutto un piagnistero su come l'umidità le rendesse i capelli ancora più crespi, come la pioggia non cessasse mai, come le temperature si fossero abbassate troppo in fretta. Clary Fray e le stagioni non andavano d'accordo o più semplicemente a sua sorella piaceva lamentarsi di tutto, anche se all'apparenza non sembrava e si spacciava per una piccola ed adorabile fatina dei boschi.

Jonathan sospirò scuotendo la testa, infastidito dal ricordo della voce petulante della ragazza che gli perforava il timpano dal telefono.

<< I miei capelli sono un disastro! Perché deve piovere così tanto? Sai come diventano i miei ricci? Non è giusto, perché sono stata l'unica ad ereditarli?>>

Ringraziando il cielo! avrebbe voluto urlargli, se fosse toccato a lui avere i capelli della madre sarebbe sembrato un ballerino da disco dance, o un putto, dipendeva dai punti di vista.
Come per rassicurarsi su quei pensieri si passò una mano tra la zazzera perfettamente liscia e setosa, appena lavata e pronta per ospitare il cappello blu della sua divisa da agente.
Malgrado le lamentele della sorella, quelle giornate per lui era davvero importanti, che piovesse o ci fosse il sole, erano la sua prova, la prova generale per vedere se sarebbe potuto finalmente entrare nella Crimine Organizzato.
Era da più di due settimane che girava per la città cercando informazioni utili, guidando come un autista professionista per detective e agenti di grado superiore. Gli piaceva farlo? Non molto.
L'avrebbe comunque fatto? Certo che sì.
Alla gavetta non si scappa, glielo ripeteva anche suo padre e se lo diceva lui…
Jonathan sorrise al suo riflesso nello specchio, raddrizzando la targhetta con il suo nome, già perfettamente dritta, e aprendo ancora di più le spalle, preso da un moto d'orgoglio.
Stava lavorando per ottenere il lavoro dei suoi sogni, non poteva che esserne fiero, malgrado la fatica e i compiti del tutto inutili che gli venivano affidati. E nessuno poteva dire che non stesse dando il suo meglio o che fosse avvantaggiato: si era ritrovato a portare fotocopie, a preparare caffè, a fare tutto ciò che ogni agente avrebbe fatto, non era un privilegiato, o meglio, lo era di certo, ma faceva ugualmente tutto ciò che gli chiedevano. Non aveva ricevuto nessuna grazia, nessun calcio in culo per arrivare dove voleva, se lo stava guadagnando, con le sue sole forze, non con una raccomandazione di suo padre o del suo patrigno, era solo merito suo.
Un'altra ventata di puro orgoglio gli smosse il petto e fece allargare il suo sorriso.
Sì, stava andando dove sarebbe voluto rimanere per sempre, quella non era altro che la prima parete su sui si sarebbe arrampicato per arrivare al suo obiettivo.

Peccato che non avesse messo in conto quanto fosse pericolosa la scalata, quanti alpinisti, anche esperti, erano caduti e sarebbero continuati a cadere nella continua lotta contro la gravità, le intemperie e la malvagità umana.

I problemi erano iniziati con il ritrovamento di un corpo un un vicolo di Red Hook, Brooklin.
A primo impatto non era parso nulla di strano, il cadavere era di un maschio bianco, trentadue anni, un uomo anonimo, che lavorava in un grande magazzino come contabile da circa cinque anni. Non aveva precedenti se non qualche multa per aver parcheggiato nel posto sbagliato ed una per esser passato con il rosso. Non era sposato, si vedeva con una ragazza ma non era ancora nulla di serio, non aveva figli, non aveva problemi finanziari, era una persona nella norma, che guidava una macchina di seconda mano e metteva da parte i soldi per andare in vacanza. Non aveva nemici, non aveva avuto problemi con gente poco raccomandabile… eppure era steso a terra, il torace crivellato di colpi, portafogli, soldi, carta di credito, documenti, tutto era al suo posto.
I detective della Omicidi erano stati piuttosto chiari a riguardo, le uniche opzioni che avevano erano tre: o il ragazzo era capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato, magari scambiato per un altro; o era stata la vittima di un'iniziazione di qualche gang del luogo; o senza rendersene conto aveva fatto un torto a qualche pazzo.
La storia della rapina finita male era ovviamente da escludere visto che nessuno dei beni della vittima era stato preso. Era da escludersi anche una resa dei conti, il ragazzo non era un drogato che doveva soldi allo spacciatore. Avrebbero indagato in modo più approfondito ma il Detective lo escludeva.
Non poteva essere un serial killer?

<< Un serial killer? No ragazzo, non penso, o per lo meno al momento non abbiamo in mano prove che lo dimostrino, né per quanto riguarda la vittima né per crimini avvenuti nelle vicinanze. Di casi simili ce ne sono a milioni purtroppo ma per nostra fortuna non stiamo parlando di un pazzo che va in giro ad ammazzare gente per gusto.>> aveva detto l'uomo.
<< E su commissione, invece?>>
Berry Petter, un Tenente di quelli con i fiocchi a sentir in giro, aveva buttato lì la domanda come se fosse stata del tutto casuale, ma Jonathan aveva imparato, e sicuramente così avevano fatto anche tutti gli altri agenti che avevano avuto il piacere di conoscere l'uomo, che quanto il Tenente Petter ipotizzava qualcosa, lanciava una parola nel vento, era meglio prestagli ascolto.

Di lì a poco la caccia ad un assassino si era trasformata in qualcosa che nessuno di loro si sarebbe mai aspettato e che costrinse la Omicidi a cedere il caso alla OCCB.
Davanti agli occhi degli agenti della Crimine Organizzato si era svelata una fitta trama di contatti informatici, nascosti nelle profondità di quello che qualcuno chiamava deepweb e che agli agenti più anziani non piaceva per niente. L'idea di una rete di criminali che si tenevano in contatto tramite siti internet a cui era difficile accedere, che nessuno conosceva e che permetteva loro anonimato e sicurezza aveva gettato nel panico non poche persone.
Era la prima volta che una cosa del genere accadeva? No, certo che no, ma se ne era sempre sentito parlare in modo astratto, quasi come fosse una leggenda metropolitana. Nell'epoca in cui il mondo informatico diventava più forte ogni giorno forse non si era ancora ben capito quanto questo grandissimo meccanismo avrebbe potuto portar del male assieme a tutto il bene che già aveva fatto. Jonathan non se ne interessava poi molto, era nato al passo con la tecnologia, aveva studiato, imparato ad usare un computer, ma attualmente ciò che più gli premeva era entrare in azione, scoprire chi fossero i membri di questo sito, del “Night's Children”, che sfoggiava temi scuri ed icone semplici, stupide immagini di profilo con riproduzioni caricaturali di vampiri fatti di pixel bianchi e goccioline di sangue che apparivano e scomparivano ad intermittenza. Non gli interessava tanto il catalogo delle offerte, voleva i clienti ed i venditori.
Per giorni aveva ascoltato rapito ed affascinato le ipotesi dei suoi superiori, aveva osservato ogni singolo movimento, ogni parola, si era comportato come un vero agente della OCCB avrebbe dovuto fare, era stato esemplare ed aveva seguito gli ordini con una puntualità ed uno zelo che non erano passati inosservati.
Forse, si sarebbe detto in seguito, se all'ora non fosse stato così intraprendente, se non fosse stato l'agente perfetto, non sarebbe finito lì quella notte, non l'avrebbero scelto come agente di supporto, non avrebbe visto quello che aveva visto, non avrebbe provato la cocente e dolorosa sensazione della sconfitta, della distruzione totale del proprio lavoro, non avrebbe morso la polvere e non avrebbe mai assaggiato il sapore del sangue. Forse se non fosse stato l'agente perfetto non gli avrebbero concesso quel privilegio, forse non avrebbe mai visto quella dannata rosa, forse non avrebbe mai serbato nella mente quel ricordo così preciso, così fresco.
Ma le cose non vanno mai come dovrebbero.

Quella notte del 28 Aprile Jonathan non sarebbe neanche dovuto esser in servizio.
Aveva avuto il turno di mattina, dalle sei alle cinque, preciso come un orologio svizzero e ad esser onesti cominciava a sentire il peso della giornata sulle spalle.
Suo padre si era affacciato in ufficio solo per chiedergli come stesse andando, una cosa che succedeva di rado vista l'alta possibilità di incontrare Lucian per quei corridoi. Che i due avessero litigato era cosa risaputa, ma Jonathan non aveva mai ottenuto una risposta sufficientemente appropriata, solo vaghi rimandi ad un caso troppo pesante, che aveva mandato in fumo la vita di molti. Se ci si aggiungeva il fatto che Luke e Valentine erano stati migliori amici, che il primo aveva fatto da testimone al matrimonio del secondo con la donna con cui poi si sarebbe sposato lui anni addietro… beh, Jon era rimasto piacevolmente sorpreso dalla visita del padre e sapere tutte quelle cose, tutte quelle informazioni al momento inutili, rendeva solo più speciale il gesto dell'uomo. E non c'entrava nulla quella piccola scintilla di boriosa soddisfazione che gli aveva fatto pensare che suo padre facesse certe cose solo per lui e non per sua sorella; non era più un bambino di dieci anni che gongola perché è il preferito di uno dei genitori, doveva lasciar perdere quegli stupidi pensieri infantili e decidersi ad andare a casa, in tempo per la cena che Valentine si era proposto di fare lui stesso, evento davvero raro visto quanto fosse maniacalmente perfezionista l'uomo in cucina e quanto questo portasse a tempi di realizzazione lunghissimi. Per fortuna suo padre se ne era andato due ore prima di lui.

<< C'è una buona possibilità che oggi riesca a mangiare prima delle dieci.>> aveva detto con un ghigno divertito al suo collega.
Il giovane aveva ridacchiato aprendo la porta dell'ufficio. << Non so se mi diverta più l'idea di te che aspetti la cena con il broncio di un poppante affamato o immaginare il Vice Commissario che prepara la cena e si incazza se sbaglia di qualche grammo una dose.>>
Jonathan avrebbe voluto replicare dicendogli che sicuramente era molto più divertente vedere suo padre minacciare di morte la bilancia o domandare con un filo di voce alla carne perché fosse così ostinata a perdersi la panatura, ma fu interrotto dal suono secco della porta antincendio che si spalancava.
Direttamente dalla tromba delle scale uscì un ragazzetto affannato, la divisa da recluta stropicciata dalla corsa. Percorse a gran velocità il corridoio fiondandosi nella stanza del Capo Garroway senza neanche bussare e se tutto il casino che aveva fatto non era bastato ad attirare l'attenzione su di sé, quell'unico gesto così insubordinato ebbe il potere di congelare l'intero piano.
Pochi minuti, voci concitate ma non abbastanza alte da essere intese, poi la porta dell'ufficio si era spalancata di nuovo e Lucian Garroway era apparso sulla soglia come un militare pronto all'assalto, la posa rigida delle spalle, il petto ampio a tirar la camicia chiara e lo sguardo duro e deciso.

<< Tutti coloro che si stanno occupando del caso del Night's Children, chiamate a casa e dite che farete tardi, abbiamo una pista.>>



Una soffiata, era questo che avevano ricevuto. Il ragazzo aveva avuto la sfortuna di capitare al reparto mobile nel momento in cui una delle volanti aveva telefonato per avvertire della cosa.
Avevano arrestato un teppistello di una banda locale più che nota, gente abituata ad entrare ed uscire di prigione almeno due volte a settimana festivi compresi. Il giovane doveva aver sentito qualcosa, lo stralcio di una conversazione tra i due poliziotti che aspettavano rinforzi per poterlo portare alla centrale, e a quanto pareva aveva deciso di buttar finalmente un fiammifero su quella scia di benzina che il caso del sito internet stava lasciando dietro di sé da mesi.
Visti gli interessi della banda probabilmente quei “Night's Children” dovevano esser loro rivali, in ogni caso l'arrestato aveva gentilmente e candidamente consigliato alla polizia di mandare delle pattuglie a Murray Hill, nel Queens, e di farlo anche piuttosto in fretta: se fossero arrivati in tempo avrebbero potuto vedere con i loro occhi uno dei “bambini della Notte” in azione.
Tutte le volanti della zona, con personale qualificato ad ogni evenienza, quindi con i più alti in grado, erano state dirottate verso il quartiere indicato per aver conferma della soffiata ed accertarsi che non fosse solo una trovata per allontanare gli agenti da possibili zone calde. Il fatto che Lucian avesse ordinato a tutti di recarsi nella zona era stato piuttosto indicativo.
Quando Jonathan era salito in macchina non aveva pensato neanche per un secondo di avvisare suo padre: Valentine probabilmente aveva saputo della cosa prima ancora del suo Capo, alzare la cornetta sarebbe stato solo uno spreco di tempo.

<< Almeno quanto tornerai a casa sarai sicuro di aver la cena pronta.>> aveva scherzato il suo amico.
In quel momento Jon gli aveva sorriso divertito.
Qualche ora dopo avrebbe preferito rimaner a digiuno per settimane.



Erano arrivati sul luogo in venti minuti scarsi, correndo come matti per le strade della città ad un orario in cui tutti staccavano dal lavoro e tornavano a casa. Era un momento propizio quello, c'era più gente del dovuto in giro ma il risvolto positivo dell'aver così tanti occhi ed orecchie a disposizione era anche quello di generare disordine ordinato, flussi di persone che seguivano le linee guida delle arterie stradali per ritornare in centro o uscirvene. Jon aveva imprecato a mezza bocca ed il Sergente seduto di fianco a lui, uno dei principali detective di quel caso, aveva annuito concorde. Il suo collega, sul sedile posteriore, aveva rincarato la dose quando la radio aveva cominciato a gracchiare ordini di spartizione degli agenti.

<< La prossima a destra, Agente, veloce, con la sirena accesa ce lo perdoneranno un rosso ignorato.>>

Un altro rumore gracchiante e dal centro di comando avvertirono di una possibile sparatoria in corso nella zona.
Jonathan pigiò il piede sull'acceleratore e sfrecciò via sulla strada trafficata, i suoni dei clacson a seguirlo come la scia delle grida indignate lanciate dai guidatori. In quel momento lo scontento dei cittadini era l'ultimo dei loro problemi.

Come si fosse ritrovato dal superare una berlina bianca che gli aveva fatto un dito medio molto poco elegantemente, al ritrovarsi in un vicolo secondario di Murray Hill, circondato da case apparentemente tranquille e del tutto normali, Jonathan non l'aveva capito. Gli mancava il passaggio dall'essersi fermato vicino ad una delle volanti già presenti, tre, al momento in cui si era accucciato dietro allo sportello aperto della propria macchina per evitare dei proiettili vaganti.
Nella penombra del pomeriggio, stesi sull'asfalto freddo e macchiato di rosso, ben quattro poliziotti apparivano immobili.
Era una scia di cadaveri che portava fin dentro ad una casa a tre piani, con i muri azzurrini ed il tetto bianco. Le luci nell'abitazione erano spente, le tende tirate così come quelle degli edifici vicini. Jonathan aveva riflettuto al volo sull'opzione di andare a controllare che nessuno del vicinato fosse ferito o uscisse di casa, ma aveva sperato anche nel buon senso della gente e nel rumore sordo e penetrante di colpi d'arma da fuoco provenienti da quella piccola villetta innocente.
Aveva parcheggiato velocemente, la macchina di traverso per ostruire maggiormente la strada, aveva staccato le chiavi dal quadro senza neanche tirare il freno a mano ed era uscito dalla vettura con già la mano sulla pistola e la fondina aperta.
Avrebbero dovuto aspettare rinforzi, la SWAT magari, ma il Sergente ordinò loro di star in guardia e coprirgli le spalle mentre lui si avvicinava per controllare i corpi a terra.
Ciò che ne era conseguito era avvenuto in un battito di ciglia. La porta principale si era spalancata, una forma indefinita si era affacciata sulla soglia ed uno scintillio cupo aveva preannunciato lo scoppio del proiettile che aveva preso alla nuca l'uomo.
Il susseguirsi d'eventi era stato fulmineo, l'altro Sergente aveva ordinato di chiamare rinforzi, aveva alzato la pistola e sparato sicuro verso l'aggressore, costringendolo a rientrare in casa e chiudersi con forza la porta alle spalle.
Jonathan era scattato in avanti, pronto a soccorrere il suo superiore malgrado sapesse già che non ci fosse più niente da fare. Il suo collega invece era corso alla radio, chiedendo immediato supporto, la voce piena di un panico che non avrebbe dovuto provare ma in cui ogni persona sarebbe caduta alla vista di quella carneficina.

<< Morgenstern!>> tuonò l'altro. << Copri l'uscita posteriore, non possiamo lasciare che quel bastardo scappi!>> nella sua voce si poteva sentire tutta la rabbia, la frustrazione ed il dolore di qualcuno che aveva appena perso un amico caro, più di uno. << Non muoverti per nessun motivo al mondo, non lasciar passare nessuno e se quel figlio di puttana esce, spara per uccidere. >> concluse con ferocia.
Senza neanche rispondere Jonathan era corso sul retro, i piedi ben piazzati a terra e la pistola puntata contro la porta perfettamente illesa.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato, se il Sergente avesse deciso di fare irruzione o aspettare i rinforzi.
Ciò che avrebbe ricordato per il resto della sua vita sarebbe stato la sequenza di colpi, troppi, forse di una semiautomatica. Aveva sentito i brividi scuotergli i muscoli, aveva visto la pistola tremare leggermente ed aveva rafforzato la presa. Respiri profondi e lenti, svuotare i polmoni prima di sparare, tenere gli occhi puntati sull'uscita.
Urla, non capì se del Sergente o del suo collega e poi dei movimenti, passi che si avvicinavano alla sua postazione. Subito dopo la porta si aprì e quando gli venne chiesto Jonathan non seppe dire cosa avesse detto in quel momento, se avesse intimato all'uomo di fermarsi o se avesse fatto fuoco nell'immediato.
Un colpo secco gli arrivò alla testa, sopra l'orecchio, fu così violento che un attimo prima premeva il grilletto e l'attimo dopo era a terra, una figura scura ad incombere sopra di lui.
<< È ancora vivo?>>
<< Sì, ho lisciato la tempia, deve essersi mosso per sparare.>>
<< Quello che è, finisci il lavoro.>>

Erano più di uno? Quindi il bastardo era rientrato per chiedere aiuto, per chiamare i suoi. Allora era vero, erano un'organizzazione ben strutturata, non erano dei criminali di bassa categoria.
Le loro voci sembravano abbastanza giovani, potevano avere la sua età, forse qualcosa in più o in meno ma Jonathan non riusciva ad aprire gli occhi, per quanto ci provasse sentiva le palpebre troppo pesanti, la testa pulsava, il mondo girava.
Ma anche se fosse riuscito a vederli non sarebbe cambiato nulla, non avrebbe potuto mai raccontare a nessuno.
Sentì un suono metallico che identificò subito come una sicura disinserita, avrebbero sparato anche a lui alla nuca, proprio come al Sergente.
A cosa dovrebbe pensare una persona prima di morire? Non dovrebbe rivedersi tutta la vita? O forse quello valeva solo se si stava morendo lentamente?
In ogni caso, l'avrebbe scoperto a breve.

<< No.>>

No?
Una terza voce si aggiunse alle altre, questa però era diversa, più bassa, più acuta, ma anche più delicata era… femminile?

<< Come no?>>
<< No. Lui non lo toccate.>>

Altri movimenti indefiniti, qualcuno lo sfiorò, una mano piccola e morbida, decisamente appartenente ad una donna.

<< Ma è- >>
<< Ho detto di no. L'incarico è mio, decido io e l'agente… J.C. Morgenstern, non lo toccherà nessuno.>>
<< Perché? >> chiese solo una quarta voce.

La mano delicata gli spostò qualche ciocca dal viso, lasciandogli una leggera carezza sulla fronte.

<< Diciamo che… sto contraccambiando una vecchia gentilezza. I debiti vanno estinti il prima possibile.>>

Cosa? Lui aveva un debito con quella ragazza? Ma la sua voce… non la ricordava, poteva essere quella di una persona qualunque, dove l'aveva incontrata? Perché gli aveva fatto una gentilezza?

<< Come ti pare, ma lo dici tu agli altri.>>
<< Ovviamente.>> un'altra carezza, << Stammi bene J.C. >>


Era riuscito a mala pena a socchiudere gli occhi, scorgendo un gruppo di figure scure, tre più grandi di una, la donna probabilmente.
Non era riuscito a vedere i loro volti, non era riuscito a vedere il colore della pelle degli uomini, aveva visto solo delle mani piccole e pallide tirare su la felpa nera ed infilare una pistola nel bordo dei pantaloni. Vicino al calcio, al centro della fascia renale, una piccola rosa nera senza foglie.
Poi la rosa era diventata una macchia indistinta ed il riverbero di luce delle sei di pomeriggio si era trasformato nel buio della sera.


Quel caso era finito così, con otto agenti e tre civili morti, nessuno era mai riuscito a trovare l'aggressore, la ragazza con la rosa sulla schiena pareva essersi volatilizzata nel nulla.



Presente.



Non avevano mai trovato il colpevole. Quella era stata la sua prima grande sconfitta e lui ne era uscito vivo solo ed unicamente perché era stato mandato sul retro perché miglior tiratore della squadra, solo perché il suo comportamento al limite della perfezione era stato ammirato dai due Sergenti che l'avevano preso come agente personale. Solo ed unicamente perché la ragazza con la rosa nera aveva deciso di pagare un debito di cui lui non aveva memoria.
Non gli costava minimamente ammettere che in tutta la sua onorevole vita non si era proprio fatto araldo di buone azioni dei confronti degli altri. Certo, aveva sempre protetto sua sorella e quel coglione di Lewis come meglio poteva, aveva dato una mano a Rebecca quando gli serviva perché all'atto pratico erano cresciuti assieme. Aveva aiutato qualcuno dei suoi amici, ma tutti, dal primo all'ultimo, li conosceva così bene da poterli identificare anche solo dalla voce e tutti avrebbero potuto giurare che fosse estremamente difficile ricevere un atto di gentilezza disinteressata da parte sua a meno che non ci fosse dietro un qualche tipo di legame. Quindi cosa gli sfuggiva?
Per anni si era interrogato su chi potesse essere la ragazza, quando, dove e cosa poteva aver fatto per lei e quando il caso era stato ufficialmente archiviato come “Irrisolto”, dopo un paio di sedute di routine dallo psicologo, Jonathan aveva accantonato quel pensiero martellante per ritirarlo fuori solo di tanto in tanto, spesso quando si riavvicinava la data di quel massacro da cui lui era uscito come unico superstite.
Ma ora, dopo così tanto tempo, a distanza di una vita, aveva iniziato a porsi un'altra domanda: e se il debito non l'avesse avuto con lui ma con suo padre?
Riconoscere Valentine Morgenstern non era così difficile, lo si vedeva sui giornali, alla TV… lo scorso anno non si sarebbe mai posto il problema, ma dopo quello che era successo, ora che sapeva… suo padre era corrotto, lo era stato prima ancora che lui nascesse, possibile che avesse avuto qualcosa a che fare con quella donna, quell'assassina, che magari l'avesse lasciata andare per soldi, per informazioni, perché gli conveniva e che quella, riconoscendo al volo il nome, la somiglianza, avesse deciso di togliersi quel conto in sospeso in quel modo?
E se lui fosse stato l'unico sopravvissuto di un massacro solo perché suo padre aveva lasciato libera un'omicida che, se invece fosse stata messa in prigione, non avrebbe ucciso nessuno?
Era questo? Lui era vivo solo ed unicamente per questo motivo?

<< Cazzo.>>

Ringhiò tra i denti mettendosi le mani in faccia. Premette le dita sugli occhi sino a cominciar a sentire un fastidioso formicolio e poi, con uno scatto di pura rabbia, afferrò la prima cosa che gli capitò sotto mano e la scagliò verso il centro del salone.
L'urlo mal trattenuto che eruppe dalle sue labbra fu seguito subito da un altro e un altro ancora, finché Jonathan non tirò un violento calcio al tavolino posto davanti al divano mandandolo a gambe all'aria.
Il silenzio che ne seguì fu lo stesso che aveva avvolto la casa per tutti quei mesi, la stessa aria stantia lo attendeva dopo quell'inutile sfogo, lo stesso buio, lo stesso divano di pelle bianca che in quel momento avrebbe solo voluto pugnalare sino a farlo scoppiare, esattamente come si sentiva lui in quel momento.
Con lo sguardo fisso nel vuoto Jonathan si ritrovò a sorridere tetramente: aveva due possibilità, entrambe molto valide, ma che necessitavano d'esser attuate in una precisa sequenza. Si era giocato la terza opzione andando a vedere quel dannato palazzo e ora non gli rimaneva altro da fare se non fare quella chiama. Non aveva la minima voglia di parlare con quella donna, non di nuovo, non dopo tutto quello che era successo, ma proprio come aveva pensato la notte prima era giunto il momento di mettere il punto definitivo a quella storia, di saldare del tutto il suo debito con il karma e pagare le conseguenze di un altro che invece era stato saldato sei anni prima.
Si alzò dal divano di scatto e si diresse verso l'angolo bar: gli serviva decisamente qualcosa di forte per calmare i nervi ed evitare di mandare a 'fanculo anche la Herondale.





Le sedie erano comode, ben distanziate le une dalle altre per dar un vago senso di spazio ma anche per far sentire tutti i membri del Clan abbastanza vicini da potersi spalleggiare a vicenda.
Era una pura ed effimera impressione, null'altro che una condizione mentale ma Tim lo sapeva, sapeva che questo genere di cose era proprio quello che piaceva al suo Capo.
Teatralità. Inganni visivi, olfattivi, sensoriali, psicologici.
Seduti attorno alla lunga tavolata c'erano tutti i membri di spicco del Clan dei Figli della Notte, ognuno araldo incrollabile di una delle tante isole che componevano quel gruppo così ben assortito, una di quelle corde che creavano la rete perfetta che in tutti quegli anni non si era mai sciolta, non aveva mai ceduto ai pesi che vi erano stati caricati sopra. Oh, ce n'erano stati di nodi che erano saltati, Timothy ne aveva visti così tanti, ma la bravura dei Figli della Notte era proprio tutta lì: riparare la ragnatela prima che un'altra mosca potesse passarci in mezzo indenne, prima che un passo mal calibrato facesse cedere un altro filo. Come ragni di una sola nidiata correvano a metter in salvo le proprie tele e a creare nuovi collegamenti con quelle dei loro vicini, espandendosi, tessendo la trama fitta di un disegno che, alle volte, neanche Asmodeus era riuscito a vedere. Alzò lo sguardo opaco verso il capo opposto della tavolata, lì dove sedeva tranquillo e rilassato il Ragno Re, il primo di quelle bestie sanguinarie che avevano imparato a vivere con i buio e a vederci attraverso.
Alexei non batteva ciglio, sorrideva affascinante come sempre ai suoi colleghi, seduti al suo fianco per la metà del tavolo che era stato loro destinato, lasciando i consueti tre, quattro posti vuoti per distanziare gli ospiti dal padrone di casa.
Non pareva minimamente turbato, sicuro di sé come forse pochi altri potevano esserlo in quella sala, per i peccati che si portavano dietro, per l'inesperienza e la giovane età. Quelli erano pesci piccoli ma velenosi, che nascondevano i loro uncini avvelenati sotto le spoglie di giovani ancora non adulti o di adulti ancora troppo giovani, gente che non aveva ancora avuto modo di fare la muta e poter finalmente esporre le proprie armi.
E poi c'erano i pesci di mare aperto, quelli che avevano indosso più cicatrici che armi ma la cui corazza risplendeva come la più lucida delle armature, intonsa e perfetta. Coloro che erano stati i primi ad affiancarsi al Ragno, a cui lui stesso aveva insegnato a tessere le fitte trame dei loro loschi affari.
Li contò uno ad uno, controllando che non vi fosse nessun ritardatario o magari qualcuno da andar a recuperare perché se l'era fatta sotto.
Che Alexei ci sarebbe stato non ne aveva dubbi, era andato lui stesso a prenderlo senza dirgli nulla e l'aveva ugualmente trovato pronto ad attenderlo, come ai vecchi tempi, stesso orario, stesso luogo, stessa strada, stessa meta.
A capo del Clan e anche del suo Club, il luogo del peccato di New York City, un piccolo angolo di LasVegas nella Grande Mela, di perdizione e di oblio. Tutto era concesso nel Club, ogni desiderio, anche il più perverso, poteva esser realizzato alla giusta cifra ed era così famoso per i suoi servigi che da tutti gli States gli uomini più facoltosi volavano sino a lì per aver ciò che volevano.
Al suo fianco stava poi Saint Cloud, perfetto nel suo completo ghiaccio, con gli occhi azzurri tanto simili a quelli della nipote puntati sulle candele al centro della tavolata, perfettamente a suo agio con l'attesa.
I Belcourt, di cui Saint Cloud aveva iniziato a farne parte quando più di trent'anni prima sua sorella maggiore sposò il rampollo della famiglia, avevano questa innata e magnifica capacità d'attesa.
Timothy aveva avuto modo di apprezzarlo già anni addietro, quando durante le prime azioni da poco conto, quelle tipiche che si affidavano ai novellini, mentre tutti quanti si guardavano intorno ansiosi, impazienti, con i nervi a fior di pelle, Camille era l'unica calma, l'unica che poteva attendere anche ore e ore senza impazzire, senza doversi fare una passeggiata, con l'unico bisogno di accavallare e scavallare le gambe di tanto in tanto per cambiare posizione.
Inizialmente ne era rimasto sorpreso, poi si era dato dello sciocco, immaginando che fin da piccola alla bionda fosse stata insegnata l'importanza dell'attesa.
Una volta Adam gli aveva confessato come ammirasse quella loro dote, perché sì, anche lui era paziente, ma di certo non riusciva a star fermo come un morto a fissare il nulla come facevano loro.
Allora gli aveva chiesto secondo lui come ci riuscissero e Tim si era stretto nelle spalle:

“ Quando si parla di vita non si può essere impazienti credo. Penso che ce l'abbiano nel sangue.”

Il suo capo aveva riso moltissimo per quella battuta anche se in realtà non era altro che una costatazione. Rimaneva però la pura e semplice verità: tutti i membri del Sang Vivant conoscevano il valore dell'attesa, sapevano come rapportarsi al tempo che passava lento ed inesorabile. Era la vita quella che i Sang Vivant vendevano, era la promessa di giorni in più, di giri d'orologio da sommare a quelli che il proprio quadrante malandato avrebbe potuto ancora offrire. Più ore, più mesi, più anni, una seconda possibilità di vivere fino a quando il creatore non sarebbe arrivato a bussare alla loro porta perché ormai vecchi e non perché malati.
Quella che un tempo era stata la piccola e dolce Camille ora sedeva alla sinistra dello zio, vestita di rosa, un contrasto così femminile con il completo azzurro dell'uomo da sembrare quasi forzato. Erano colori tenui, un rosa cipria che la faceva sembrare ancor di più una bambolina di porcellana, ormai cresciuto ma ancora ugualmente delicata e bellissima.
Teneva lo sguardo sulle sue unghie perfette, il capo leggermente chinato verso il basso, ma Tim non aveva il minimo dubbio che malgrado le apparenze, il disinteresse che emanava, la donna tenesse ugualmente le orecchie tese. Se era rimasta anche solo un poco ciò che era da bambina, da adolescente, non sarebbero riusciti a prenderla di sorpresa neanche se avessero fatto scoppiare un petardo sotto la sua sedia, probabilmente ne sarebbe solo stata infastidita.
Direttamente davanti a Saint Cloud c'era un vecchietto tutto curvo, con il volto rugoso e gli occhi a mandorla così fini da sembrar quasi chiusi. Uno spicchio di luce tagliava la pelle grinzosa, come il personaggio di una storia mistica, la caricatura del classico vegliardo cinese nei film di serie b. Il signor Chen, il capofamiglia Chen, era seduto al fianco di suo figlio maggiore, Heiji Chen, il padre della dolce Lily.
Loro rappresentavano un'altra faccia del Clan, così simile al Club di De Quincey ma al contempo così diverso da sembrare tutto un altro mondo. Proprio come Alexei vendevano un pezzo di LasVegas ma non quella viziosa e maledetta, quella dei peccati di gola, di lussuria e di ira, L'Impero era la società di gioco più redditizia del paese, che gestiva un giro di tornei di ogni tipo.
Se il Club dava l'opportunità di fare tutto, l'Impero ti dava l'opportunità di permetterti tutto.
E se in tutti questi anni nessuno era ancora riuscito a capire come la loro rete riuscisse a riciclare tutto il denaro sporco che girava tre le loro ragnatele, forse ciò che si diceva sugli asiatici e sulla loro precisione maniacale non era così lontano dalla realtà.
Alla destra dei Chen Raphael Santiago fissava con serietà il centrotavola, lo sguardo concentrato sul nulla proprio come Belcourt e Saint Cloud, ma non c'era di ché stupirsi visto che, a suo tempo, il ragazzo fu assegnato proprio ad un membro dei Sang Vivant per il suo “tirocinio”.
Un membro di quella famiglia di cui ancora si sentiva la mancanza, il vuoto del suo posto pesante e palese malgrado fosse occupato da una bellezza letale come Camille.
E per finire, alla destra dei Chen, l'ultimo anello di quella catena perfetta che formava il grande Clan.
Vestita completamente di nero e di pelle, proprio come un tempo si vestivano tutti i suoi simili, se ne stava una giovane dall'aria infastidita, le sopracciglia chiare aggrottate, forse perché non era solita fare questi incontri, forse perché consapevole che quella era una riunione ufficiale che dava finalmente inizio alle fasi finali di una partita iniziata prima ancora che lei nascesse.
O magari perché l'uomo che tra poco si sarebbe seduto all'altro capo del tavolo non era semplicemente uno dei criminali più proliferi del mondo, ma anche il padre del tipo che uno dei suoi uccellini aveva cercato d'uccidere.

Se Magnus è vivo lo dobbiamo solo ad uno stupido riflesso e al poliziotto con cui stava al telefono.

Probabilmente il tipo che aveva sparato, quel Potter, era strafatto di qualcosa quel giorno e aveva sbagliato mira, o Magnus era stato davvero in grado di muoversi in tempo per far sì che quel proiettile lo prendesse solo di striscio, ma rimaneva il fatto che per ben due volte il figlio del capo aveva rischiato di morire e che in entrambi i casi i responsabili erano stati fatti fuori da altri e la vita del futuro erede del principe la dovevano solo ed unicamente all'intervento di un uomo di legge.

E ovviamente di tutti coloro che potevano capitarti, Magnus, ti è toccato proprio quel ragazzo.

Timothy sospirò chiudendo un attimo gli occhi stanchi, sapeva perfettamente che nessuno dei presenti avrebbe osato far nulla anche se li avesse lasciati tutti soli per un'ora intera. Probabilmente avrebbe ritrovato Camille e Saint Cloud nella stessa identica posizione in cui li aveva lasciati, il Signor Chen a meditare, Heiji a chiacchierare con Alexei, Raphael ad imprecare in spagnolo contro qualcuno che non stava facendo il suo lavoro e la Rosa Nera a giocare con il suo cellulare. Ma era sicuro, sicurissimo, che nessuno avrebbe osato crear noie di ogni sorta, chi per disinteresse, chi per rispetto e chi, semplicemente, perché non ne aveva motivo. Forse solo il vecchio ragno si sarebbe divertito ad infastidire la scorta, come aveva sempre fatto anche in passato.
Il vecchio autista si sgranchì le ossa delle mani come era solito fare da ragazzo, ricevendo in cambio un leggero bruciore che una volta non avrebbe mai avvertito ma che ormai non gli dava pace. Erano le giunture a fregarlo, la cartilagine stava cominciando a cedere come in ogni buon settantenne che si rispetti. C'erano alte probabilità che se Adam non si fosse deciso ad arrivare al più presto Timothy si sarebbe visto costretto a sedersi, cominciavano a dargli fastidio anche le ginocchia.

Il suono deciso di una porta che si apriva attirò immediatamente l'attenzione di tutti, una donna dai lunghi capelli neri tenuti legati in una coda morbida si avvicinò a Tim e gli sussurrò qualcosa all'orecchio, poi sorrise ai presenti e se ne andò veloce com'era arrivata.

<< Ci sono problemi?>> domandò la Rosa Nera incuriosita.
Alexei abbozzò un sorriso indulgente. << Nulla di cui preoccuparsi, se fossero stati problemi seri non avresti visto lei qui.>> disse tranquillo.
La ragazza si girò verso di lui, togliendosi dalla fronte qualche ciuffo della frangia. << Non credo di averla mai vista.>> ammise senza vergogna.
<< Certo che no, non eri neanche nel giro quando fece le sue ultime apparizioni pubbliche. Ti basti sapere che è una stretta collaboratrice di Asmodeus.>>
<< Come una segretaria?>>
L'uomo rise e persino Camille non riuscì a trattenersi dall'arricciare le labbra divertita.
<< Oh, cherie, direi che ci sei andata molto vicino e che hai anche fatto un colossale buco nell'acqua. Ma credimi sulla parola: se c'è anche lei, allora sarà tutto molto più interessante del previsto.>>

E se c'era un'altra cosa che Timothy aveva sempre apprezzato enormemente di Camille era la sua capacità di fiutare i guai, i guai grossi, anche a chilometri di distanza.
Ancora una volta, non si era sbagliata.




Il tonfo, quella volta, fu più forte e potente. Sordo e secco. Preciso e sicuro.
Decisamente scocciato e con una vaga nota di frustrazione di sottofondo.

<< Ora gliela sfondo questa cazzo di porta.>>

Erano le undici di mattina, aveva saltato il suo solito giro per presentarsi lì e quel deficiente neanche si degnava di aprirgli.
Con un respiro profondo Alexander chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro la porta, ancora viola ma non della stessa sfumatura che aveva l'anno precedente.
Ce la poteva fare, doveva solo prendere un altro respiro e suonare di nuovo il campanello. Se non avesse funzionato quello avrebbe bussato, se no si sarebbe attaccato al telefono o avrebbe denunciato un possibile infarto e avrebbe aspettato l'arrivo dei vigili del fuoco e dell'ambulanza pronta per portare quel grandissimo coglione fuori dalla sua dannatissima casa.
La verità era che stava passando troppo tempo con Jonathan, con Magnus e soprattutto con Jonathan e Magnus assieme, e che questo si traduceva con un esplosione di cattiverie e battute acide che ormai lo avevano contagiato. Ma era anche altrettanto vero che tutta quella situazione cominciava ad avere del ridicolo.E che lui di cattiveria e battute acide ne aveva già di suo più di quanto non si potesse immaginare.
Si rimise dritto in piedi e premette con forza il pollice sul campanello, come se la spinta supplementare avesse potuto farlo suonare ad un volume più alto.
Dall'interno dell'appartamento tutto ciò che ricevette fu il tonfo, palesemente Presidente Miao, di qualcosa che saltava in aria e poi riatterrava sul parquet.
Almeno uno dei due inquilini di quella casa era sveglio.

<< Ti prego Miao, vai a svegliare quell'altro deficiente.>> mormorò scoraggiato.

Gli diede altri cinque minuti di grazia e poi picchiò contro la porta, ancora. E ancora.
Se ci fosse stato suo fratello al posto suo probabilmente gli sarebbe scoppiata una vena, ma Alec aveva anni ed anni di addestramento da primogenito e sapeva che in questi casi la cosa giusta da fare fosse solo una: se con i pugni non funziona, vacci di calci. E probabilmente la pedata che rifilò alla porta non la scardinò solo ed unicamente perché aveva mirato appositamente al lato posto alla serratura. Così come sicuramente era stata avvertita da tutta la palazzina.
Quando non ricevette ancora risposta sospirò, dispiaciuto di dover far alla fine una cosa del genere. Non era proprio da lui, ma se Magnus aveva la testa così dura.
Prese un bel respiro, posò i cartoni con la colazione a terra e prese il suo portafogli, estraendone due ferretti con cui riuscì facilmente ad aprire la porta. Avrebbe dovuto dire a Magnus di prendere qualche sicura in più, si aspettava almeno altri due blocchi dopo quello che era successo quell'estate.
Entrò con disinvoltura, come se non avesse appena scassinato la porta di casa di uno dei suoi sottoposti, posando le bevande sul mobiletto all'ingresso e avanzando verso la camera da letto.
Presidente Miao era fermo lì davanti, palesemente infastidito sia dalla quantità inaudita di rumore fatto da Alec sia dal fatto che il suo umano lo avesse chiuso fuori.

<< Perdona il caos di prima, Miao, adesso gli diamo una bella lezione, che dici?>>

Abbassandosi per grattare velocemente la testolina del felino Alec aprì la porta della camera da letto come se dentro non vi fosse dovuto essere nessuno, e in effetti era così visto che, tecnicamente, l'uomo che se ne stava sprofondato nel letto, con una bella mascherina sugli occhi e i tappi alle orecchie, avrebbe dovuto esser in piedi, in cucina, a far colazione con lui.
Non era andato a correre per andare da lui a portargli il dannato caffè, non era andato a correre per evitare di arrivare lì con i morsi della fame e lo stomaco che chiacchierava da solo e Magnus cosa faceva? Sceglieva proprio quel giorno per mettersi i tappi.
Scrollando la testa l'uomo avanzò verso l'altro, scostandogli qualche ciuffo dalla faccia e osservando perplesso la mascherina su cui erano disegnati un paio d'occhi decisamente da manga… forse avrebbe dovuto fare una foto e mandarla a Simon? Forse sì, magari ora lo faceva.
Tirò fuori il cellulare dal giaccone e scattò una foto al volo, giusto per aver materiale di ricatto in futuro.
Ad essere onesti, ora che si trovava nella camera da letto di Magnus, mentre lui dormiva, intrufolatosi come un ladro, si sentiva un po' in colpa. Ma gli bastò sentire un grugnito dell'uomo per far passare tutto: dormiva alla grossa mentre lui era stato lì fuori ad aspettare per ore. Senza più un briciolo di pietà Alec cercò il cellulare di Magnus, lo sbloccò facilmente con la stessa identica password che aveva da minimo un anno e smanettò un po' sul dispositivo. La gente era abbastanza convinta che oltre le banali azioni utili per il proprio lavoro, Alec non fosse minimamente portato per la tecnologia ma le cose erano ben diverse, semplicemente, i computer, lo annoiavano. Era cresciuto nell'epoca dei primi cervelloni, ricordava schermate scure e scritte chiare, anche se solo vagamente, aveva assistito alla nascita e l'ascesa dei pc portatili e tante di quelle altre tecnologie che a pensarci lo facevano sentire più vecchio di quanto non fosse. Anche se ormai andava per i trenta… Dio santissimo, c'era già arrivato? Com'era successo?
In ogni caso, anche se non gli piacevano, se preferiva leggere, nuotare, correre, tirare con l'arco o farsi i beneamati fatti suoi, Alec un computer lo sapeva usare, non ai livelli di Simon, ma ne era perfettamente capace. Così com'era capace di giostrarsi si un qualunque cellulare e far rimpiangere al suo proprietario di non avergli risposto, soprattutto dopo il polverone che si era alzato tra di loro e la guerra civile che aveva creato. Almeno quello glielo doveva no? Ne aveva fatti di passi in avanti, ne aveva ingoiati di rospi.
Annuendo alle sue stesse argomentazioni Alec mise il cellulare vicino a Magnus, spalancò le tende, tirò su le serrande, accese tutte le luci e, poco onorevolmente c'è da dire sfilò un solo tappo dall'orecchio dell'uomo, trattenendo il fiato quando lo vide muoversi e schiacciare la guancia contro il telefono. Oh beh, quello era il karma.
Uscì dalla stanza, facendo attenzione a riportar fuori Presidente Miao e spingendolo in cucina, dove avrebbe sentito il meno possibile la confusione che si sarebbe propagata a breve per la casa.
Prese la colazione, uscì e si richiuse la porta alle spalle. Poi prese un respiro profondo e chiamò Magnus.
Uno squillo. Due squilli.
Un rumore sordo scoppiò da dentro l'appartamento e Alec trovò che quello fosse il momento opportuno per suonare il campanello e bussare alla porta.

Quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi, aveva rinunciato ai suoi soliti giri, aveva cambiato caffetteria perché Magnus ne preferiva un'altra, il Dottor Lawson l'aveva chiamato per prendere appuntamento il prima possibile e il prima citato deficiente si era messo i tappi per non essere disturbato quando gli aveva palesemente detto che quel fine settimana avrebbero fatto colazione assieme.

Il grido acuto che sovrastò l'allarme antiaereo ed il tonfo che ne conseguì gli diedero un minimo di sollievo e di pace.

<< I miei occhi! Chi cazzo ha acceso la luc- AH!>>

Magnus che cadeva a terra, probabilmente inciampando nel casino che lasciava sul pavimento e nelle troppe coperte tutte di seta e tutte scivolose, fu solo l'ennesima prova che il karma esisteva davvero.

E che era una puttana.



Massaggiandosi ancora la spalla Magnus tenne lo sguardo fisso su Alexander che tranquillo si aggirava per la cucina, scaldando cornetti e cercando fazzoletti.

<< Una volta erano qui, sbaglio?>> gli chiese aprendo una delle tante ante della dispensa. Magnus mugugnò, aveva messo a posto un po' di cose durante la sua degenza, o per dirla con le parole di Catarina: si stava talmente tanto annoiando chiuso lì dentro senza poter far nulla di divertente che aveva finito per farsi prendere dalla sindrome della casalinga disperata. E purtroppo Magnus aveva visto Desperate Housewives e sapeva perfettamente quanto la sua cara amica avesse ragione.
Quindi aveva ragione anche Alexander, i tovaglioli una volta erano lì, ma visto quanto li usasse di solito Magnus, li aveva spostati più in basso.
Non che avesse comunque voglia di dirglielo, era ancora profondamente arrabbiato con sé stesso, per aver lasciato le serrande aperte, le luci accese e per essersi messo male i tappi, e con Sidmund, che probabilmente era il responsabile del cambio della sua suoneria, una di quelle cose profondamente infantili che sicuramente gli aveva fatto per ripicca per… uno dei dodicimila motivi per cui bisticciavano costantemente come mocciosi.
Gli avrebbe messo qualcosa di assolutamente imbarazzante come colonna sonora alla prima occasione.
In ciò almeno c'era una cosa positiva: il culo di Alec era sempre bello.
Inclinando leggermente la testa Magnus studiò con attenzione il modo in cui i jeans si tiravano proprio lungo la cucitura centrale delle gambe, chissà come ci sarebbe stato Fiorellino con un perizoma, magari poteva chiedergli di indossare uno dei suoi… magari quando sarebbero tornati ad avere un rapporto più intimo… e non poteva neanche rinfacciargli nulla di passato per colpa delle stupide regole! Almeno gli aveva portato la colazione, ma non gli avrebbe ugualmente detto dove si trovavano i tovaglioli.

<< Ah, eccoli.>>

Troppo tardi, dannazione.
Alexander si voltò verso di lui con tranquillità, come se fosse normale per lui stare lì, muoversi in quegli ambienti, ed in effetti così era stato, per tutta la durata del caso di Ragnor, ma poi era successo tutto quello che era successo…
Magnus aggrottò le sopracciglia e si mise seduto in modo più composto: dopo la volta in cui si era presentato in casa sua per attendere la telefonata degli Affari Interni Alec non era più rientrato lì dentro. Non gli aveva chiesto all'ora come si sentisse, se tornare di nuovo sul luogo in cui, all'atto pratico, era morto gli avesse fatto venir ancora qualche brivido o se Natale gli fosse bastato e avanzato come “momento di debolezza”. Se era così, beh, cazzo, l'agente A era davvero più cazzuto del previsto.

<< Non sei vestito da Man in Black oggi.>> fu la prima, intelligentissima, cosa che riuscì a dire.
Alec si voltò a guardarlo, la sua solita espressione pacata ed inespressiva. << Non sono in servizio.>>
<< Quindi ammetti di essere un Man in Black?>>
<< No.>>
<< Mi è venuto in mente ora che sei l'agente A. O forse L… non me lo ricordo, come si chiamavano per iniziale del nome o del cognome?>>
<< Nome, J era James. >> rispose tornando a controllare i cornetti nel forno. Chissà perché non aveva usato il microonde.
<< Ho pensato “diamine, è più cazzuto del previsto”, poi mi sono ricordato che non solo so perfettamente quanto sei tosto, ma che ho anche visto che sei decisamente cazzuto e che quindi sto facendo pensieri assolutamente inutili.>> continuò con disinvoltura.
Un leggero rossore si allargò sugli zigomi di Alec, che pensò bene di non voltarsi e renderlo palese.
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. << Magnus hai bevuto ieri?>> chiese piuttosto.
<< Io bevo sempre. Minimo due litri al giorno, rendono la pelle giovane e tonica, contrastano le rughe ed evitano la possibilità di redenzione idrica.>>
<< Di alcolico.>>
<< Anche quello, gli alcolici sono una mano santa per la redenzione idrica, ti mandando di continuo in bagno, anche se il fegato a lungo andare non apprezza molto.>> e prima che Alec potesse replicare. << Mi sento un po' stordito in effetti, ma conto sul fatto che dopo aver mangiato e aver guardato per un altra mezz'ora il tuo bel fondo schiena mi sarò ripreso a pieno. Devo comprare un perizoma blu.>> annuì a sé stesso.
Ci fu un lungo momento di silenzio, il timer del forno suonò ed Alec tolse i cornetti dalla teglia, lì poggiò nel piatto e poi si sedette davanti a Magnus, la faccia inespressiva e perfettamente calma. Afferrò il suo cornetto e vi diede un morso, staccandone all'incirca un terzo in un solo colpo.
Masticò con calma, prese un sorso di cappuccino e si asciugò la bocca.
<< Non ti chiederò perché, quindi mangia.>> sentenziò in fine spingendo il piatto verso Magnus.
L'uomo annuì. << Non te lo saprei neanche spiegare, forze. Mi ero quasi dimenticato delle magnifiche performance della tua bocca.>>
<< Magnus, ti avverto- >>
<< Intendevo a livello… culinario? No, nutrizionale? A livello di mangiare? Sono più dislessico del solito questa mattina, è che svegliarmi in modo così violento mi destabilizza… Ma te lo godi mai un cornetto? Lo finisci sempre in tre morsi?>>
Alec si strinse nelle spalle e staccò un altro morso abnorme. << Alle volte me ne bastano due.>>
Magnus annuì. << Le sveglie violente mi distruggono.>>
<< Lo hai già detto.>>
<< Simon la pagherà cara.>>
<< Lo hai chiamato con il nome giusto.>>
<< Ma bevi anche le cose in due sorsi?>>
<< Io e i ragazzi facevamo a gara a chi riusciva a bere tutto d'un fiato una bottiglietta d'acqua, in genere Izzy si strozzava dopo tre sorsi, Jace finiva per ingoiare l'acqua in blocco e farsi male, Max se la sbrodolava a dosso e io vincevo. >>
<< Perché hai la gola larga.>>
<< Grazie per averlo ricordato senza fare battute.>> gli sorrise alzando di poco il bicchiere di carta verso di lui.
Magnus annuì ancora. << Le sveglie violente mi distruggono.>>
<< Mags, lo hai già detto, di nuovo.>> gli fece notare aggrottando le sopracciglia.
<< Ho bisogno di una doccia, ghiacciata.>>
<< Sembra sensato.>>
<< Le sveglie violente fanno schifo.>> mormorò ancora alzandosi dallo sgabello e strusciando i piedi verso il bagno. << Schifo.>> ripeté come in trance.
Alec sorrise dietro il cartone della tazza. << Come il karma.>>
<< Uh?>>
<< Nulla, vatti a fare quella doccia, facciamo due passi poi, vuoi?>> domandò con fare angelico.
In ogni caso, Magnus era troppo tramortito per poter notare quella palese presa in giro.


L'aveva fatto aspettare quasi venti minuti, il che era un tempo ridicolo rispetto a quello che impiegava di solito, ma quando era uscito dal bagno, con un turbante azzurro in testa e l'accappatoio giallo canarino Alec si era detto che forse, il tempo d'attesa, era compensato da quella cacofonia di colori.
E poi era lui quello che non sapeva abbinarli.
<< Ora, Fiorellino bello, mi sento rinato.>> disse allargando le braccia ed entrando in sala neanche fosse una star di Hollywood.
<< Vuoi fare colazione, finalmente?>> gli chiese di rimando l'altro continuando a grattare la schiena a Presidente Miao.
Magnus lo guardò male, decisamente infastidito dalla poca attenzione che Alec stava dedicando alla sua magnifica persona quasi seminuda.
<< Davvero? Sono in accappatoio, appena uscito dalla doccia, tutto bagnato, e tu mi parli di colazione?>> domandò scettico.
Alec si strinse nelle spalle. << Ho fame, se non mangi tu il tuo cornetto lo farò io.>>
<< E lo farai in due morsi perché hai la bocca grande. E larga. E profonda.>>
Il moro alzò a mala pena un sopracciglio. << Sto per chiamarti e far ripartire la sirena antiaereo.>>< lo minacciò senza muovere un muscolo.
In broncio di Magnus fu degno di quello di un bambino, mentre marciava in cucina per prendere il suo caffè, borbottando sulle ingiustizie della vita.
<< Non lo accetto Alexander, sappi che non lo accetto.>> continuò a mugugnare, tornando in salotto con la sua colazione in mano.
Si sedette di peso vicino ad Alec, facendo scappar via Presidente Miao alla velocità della luce, e tutto incartato nel suo asciugamano giallo prese un lungo sorso della bevanda ancora calda. << Ma di che sono fatti questi bicchieri? Brucia ancora.>> si lamentò.
<< Vuol dire che la prossima volta lascerò che ti si freddi.>>
Magnus si voltò a guardare il compagno fingendo la sua miglior espressione sorpresa.
<< Alexander! Mi tieni in caldo la colazione, ma questo è amore vero!>> disse portandosi la mano con il cornetto alla fronte in modo teatrale. << Per questo tuo grande ed onorevole servizio alla patria, ti concederò un morso della mia brioche.>> proseguì allungando il dolce verso di lui. << A patto che tu riesca a mangiarne metà in un colpo.>> concluse ammiccando.
Alec lo fissò indeciso se alzarsi ed andarsene o rispondere a tono, lasciando il tempo a Magnus per sorridere con fare divertito e sventolargli ancora il cornetto sotto il naso.
<< Ho scoperto di recente che ami far colazione ad ogni ora, quindi ora ti chiedo, gentilmente, invece di fare la persona matura ed educata, quello coscienzioso dei due e tutte quelle cose lì, agisci come faresti con Jace, o con i tuoi amici. Che per altro, Fiorellino, scoprire che hai una vita sociale che esula dalla tua famiglia e dagli accolli epici che sono gli amici dei tuoi fratellini mi ha sorpreso tantissimo, non credevo tu avessi queste capacità!>>
Il moro continuò a fissarlo, ora palesemente sorpreso. << Intendi stringere amicizia con la gente? Per chi mi hai preso? Per un asociale?>>
<< Esattamente! Sono piacevolmente stupito del contrario.>> e prima che potesse dir altro. << Cornetto? Come se fossimo vecchi amici?>> propose ancora.
Ad Alec non rimase altro che sospirare e scuotere la testa. << Sicuro? Vuoi davvero che ti risponda come farei con uno dei miei amici?>>
Magnus annuì e Alexander non poté far altro che stringersi nelle spalle. << Okay.>>
Si sistemò meglio sul divano, girandosi verso l'altro e guardandolo con serietà. << Ma sappi che è a tuo rischio e pericolo.>>
<< Perché?>> chiese quello curioso e divertito.
<< Perché potrei staccarti un dito.>> rispose con tranquillità Alec, prima di afferrare il polso di Magnus e dare un morso al cornetto, lasciando a mala pena la base del dolce tra le mani del proprietario.
Magnus fissò quello che rimaneva della sua colazione, alternando lo sguardo dalla crosta del croissant ad Alec con le guance piene come quelle di un criceto.
<< Mi hai divorato il cornetto!>> strepitò indignato Magnus, poi si bloccò, ammiccando al moro. << Ehi, mi hai divorato il cornetto… >> sorrise sornione alzando le sopracciglia. << Gran Canyon… Ouch!>> si ritrasse di colpo dopo lo scappellotto di Alec.
<< Niente riferimenti sessuali!>>
<< Mi hai fatto male!>> si lamentò Magnus rimettendosi dritto il turbante.
L'altro alzò le sopracciglia. << Me lo hai chiesto tu.>> sentenziò sicuro.
<< Non di picchiarmi! Diamine, se avessi saputo prima che ti piaceva il sadomaso mi sarei portato qualche gioco in vali- AHIO!>> ripeté a voce più alta.
<< Non quello e niente-riferimenti-passati.>> Lo fulminò. << Hai detto tu: come se fossimo vecchi amici. Per una volta che faccio quello che mi chiedi ti lamenti anche.>>
Magnus lo guardò sbalordito. << Aspetta, quindi tu, con i tuoi amici, ti rubi il cibo, li colpisci nel momento in cui sono più vulnerabili, li maltratti e ci fai a pugni? Alexander! Ma allora ti comporti proprio da maschio! Hai delle amicizie maschili normali!>> disse battendo le mani allegro.
Alec continuò a guardarlo con la stessa espressione burbera. << Lo sai che ciò che hai appena detto e profondamente omofobo e che è una battuta che mi sarei aspettato da un uomo etero con palese paura di sembrare gay? >>
Magnus storse la bocca. << Dio… sono sembrato etero per un po', no no no. Scusa dolcezza, il mio bispirt mi sta prendendo a calci.>>
<< Meriteresti di peggio.>> Annuì. << E poi certo che ci faccio a pugni con i miei amici, cos'altro dovrei farci? >>
<< Parlare?>>
<< Facciamo anche questo, anche se non troppo… in genere Seth parla abbastanza anche per me, è una cosa comprovata dal liceo, ci siamo allenati molto per questo. >>
Al sentir nominare una persona nuova Magnus si tirò su a sedere, dandosi una spinta con la schiena contro i cuscini del suo morbido e nuovissimo divano ed osservando con avida attenzione il moro. D'altro canto Alexander aveva parlato senza riflettervi troppo sopra, esattamente come avrebbe fatto con chiunque gli avesse posto quella domanda.
L'asiatico fissò l'amico per una manciata di secondi, annuendo ai suoi stessi pensieri. Gli diede una poderosa pacca sulla coscia, che fece saltare Alec che non se l'aspettava minimamente, e poi saltò in piedi.
<< Facciamo così: adesso io vado a vestirmi, poi andiamo a prendermi la colazione, visto che qualcuno se l'è mangiata al posto mio, e mi racconti un po' di questo Seth, ti va?>> chiese ammiccando.
Alexander lo guardò senza batter ciglio, un po' crucciato da quell'improvvisa voglia di vestirsi che gli era presa. Non che desiderasse che Magnus rimanesse in accappatoio tutto il giorno, buon Dio, assolutamente no o l'avrebbe tormentato di continuo, però di solito rimandava all'infinito la cosa. Annuì comunque, visto che l'altro era ancora fermo ad aspettare una sua risposta, e lo seguì con lo sguardo quando Magnus scomparve oltre il muro.
Che forse l'uomo avesse deciso di smetterla di fare l'adolescente gongolante e pieno di dubbie battute a doppio senso e di iniziare a fare quella maledetta cosa che tutti continuavano a dirgli di fare?
Alec si lasciò cadere contro i cuscini, sempre troppi, che occupavano quel divano, gettando indietro la testa e fissando il soffitto chiaro senza reale interesse.
Si sentiva come se improvvisamente gli fosse calata addosso una strana stanchezza, come se non andare a corre quella mattina non lo avesse avviato a dovere. Gli tornarono in mente i giorni della degenza, quando si svegliava presto ma sempre stanco, quando si riaddormentava in ogni momento sfiaccato dall'assenza stessa di fatica.
Ecco, in quel momento Alec si sentiva proprio sfiaccato e non aveva la minima idea del perché. Probabilmente se alla prossima seduta ne avesse parlato con il Dottor Lawson lui sarebbe stato in grado di dargli una spiegazione più che soddisfacente, ma per ora, solo con sé stesso, poteva solo ipotizzare che l'avvicinarsi della tanto decantata “chiacchierata per conoscersi” gli stesse facendo venire voglia di andarsene, di non farlo, di rimanere rintanato nel suo bel mondo fatto di lavoro, famiglia, guai della famiglia, amici e guai degli amici. Poche persone, che comunque erano troppe, e sempre gli stessi eventi che ben o male si ripetevano.
Solo pochi minuti prima aveva detto a Magnus che lui non era un asociale ed era vero, Alec non aveva problemi a parlare con la gente… a patto che vi fosse qualcosa da dire. Non amava molto le folle, non sopportava le persone urlanti, non tollerava le urla e basta e di certo non attaccava bottone con il primo capitato solo perché era lì e gli andava di fare due chiacchiere, ma questo non significava che fosse asociale, no?
Quello che tutto il mondo gli aveva sempre rimproverato d'essere invece era distante. Alec era fatto così, prima che qualcuno potesse dirsi davvero suo amico, potesse davvero avvicinarsi a lui, doveva passare molto tempo o doveva succedere qualcosa che li rendeva più uniti di quanto non avrebbero potuto essere. Lavoro, casualità, disgrazie… nelle disgrazie Alec ci sguazzava, era lì che spesso trovava gli amici migliori, vedi il suo primo giorno di liceo, la storia della palestra, gli amici dei suoi fratelli e poi i ragazzi della missione. Poteva inserirci senza ombra di dubbio anche Mangus nel reparto “disgrazie”, perché conoscersi a causa della morte del migliore amico di lui non poteva che essere reputata tale. Eppure… eppure poteva bastare, poteva andar bene anche così, anche con quello che avevano. Perché era seduto su quel divano? Perché aveva scassinato la porta di un uomo e gli aveva combinato quel casino solo per far colazione e conoscerlo? Perché non potevano restare a quello che erano stati in quei mesi di calma piatta?
Un prurito fastidioso si sostituì alla stanchezza, un nervosismo che non era da lui ma al contempo lo era maledettamente.
Ne aveva parlato fin troppo con tutti e sapeva che, logicamente, era la cosa giusta da fare, ma ora che si avvicinava quel fatidico momento, ora che avrebbe dovuto parlare a Magnus di Seth… era il suo migliore amico, era la prima persona che aveva saputo, dalle sue stesse labbra, che era gay, la prima che era venuta a conoscenza di tutte le sue paure, dei suoi dubbi, del terrore che lo attanagliava ogni qual volta qualcuno lo guardasse più a lungo. La paura che potessero vedere, che la gente lo sentisse, lo percepisse… Seth era un tassello importante della sua vita, era stato il primo ragazzo, dopo Jace, con cui aveva sentito un legame forte e stretto, speciale. Stava davvero per raccontare chi fosse quello che, all'atto pratico, considerava come un fratello?
Diamine, eppure con i ragazzi non era stato così difficile, anzi, era risultato del tutto naturale parlare di loro. Forse perché c'era anche Simon e lui non era materialmente capace di tenere quella bocca chiusa?
La verità sconcertante che gli si aprì davanti agli occhi, mentre senza pensarci prendeva a sfregare tra pollice e indice il bordo della sua maglia, era che finalmente, dopo tutto quello che era successo, dopo tutte le belle parole, Alec avrebbe dovuto parlare, non di un caso, non di un evento distaccato, non di un protocollo, di una logica decisione, oh no, Alec avrebbe dovuto parlare di sé. E sì, doveva raccontare chi era Seth, ma dirlo a Magnus non sarebbe stato l'equivalente di dirgli qualcosa sul proprio conto? Aveva imparato quanto l'uomo fosse sensibile sotto quell'aspetto, come riuscisse a comprendere al meglio gli animi, le situazioni, i legami, le sensazioni. Lo aveva guardato in faccia e gli aveva letto la mente, lo aveva affiancato, gli aveva sorriso riconoscente e gentile, conscio che in determinati momenti, delicati più di altri, per Alec più del contatto fisico era importante quello visivo. Magnus lo aveva capito, esteriormente, in modi che molte persone non erano mai state in grado di fare, ma farlo entrare anche sottopelle, sotto le sue squame, alzando un poco una delle placche della sua corazza per far si che l'altro potesse spiarci attraverso… era davvero quello che voleva?
Deglutì a vuoto: stava davvero per ricominciare tutto quel calvario? Quello in cui si sarebbe mostrato frammento per frammento finché di lui non sarebbe rimasto che lo scheletro macilento che si portava dietro da una vita? Avrebbe davvero dovuto ricominciare tutto da capo?
Conoscere sé stessi, accettarsi, aver coscienza di sé, quello era un conto… ma le opinioni degli altri? Non che Magnus avrebbe mai potuto criticare le sue, esigue, bravate giovanili, ma quando sarebbe arrivato a raccontargli le cose più pesanti? La domanda era: la vita del figlio di un boss, anzi, Del Boss della malavita, del Re dei Demoni, ere peggiore, aveva più macchie della sua? Mentre ascoltava il suono secco dell'armadio chiudersi, avvertendolo dell'imminente arrivo di Magnus, Alec sapeva già la risposta.

<< Pronto e operativo, Capitain! Hai ancora quella fame pazzesca che rischierà di farmi perdere un dito?>> domandò allegro l'altro.
Alec scosse la testa e si tirò a sedere, senza ascoltare minimamente lo sproloquio dell'amico che faceva la paternale al gatto e si lamentava di non aver chiuso quella finestra o quella tenda. Non gli prestò la minima attenzione neanche quando uscirono sul pianerottolo e Magnus si fermò a chiudere la porta a tripla mandata. Rimase in religioso silenzio, a fissarlo, a fissare la sua schiena ed il cappotto nero con quell'enorme pellicciotto sul cappuccio.
Sembrava la figura di un personaggio dei cartoni, del classico cattivo vestito di pelle, con gli stivaloni ed i modi ambigui, avvolto nella sua lunga cappa che celava armi di ogni genere. Ma Alec era perfettamente consapevole che quella fosse pura apparenza, che Magnus non era assolutamente come suo padre, non era un “cattivo”.
Mentre si avviavano verso l'ascensore, mentre l'altro continuava a parlare e lui continuava ad annuire, Alec si disse che se qualcuno li avesse visti da fuori non avrebbe capito assolutamente nulla di loro.
Un poliziotto ed un criminale.
Uno vestito di blu, l'altro di nero.
Una corazza inscalfibile che nascondeva il suo proprietario ed un corpo esposto alla luce, senza la minima protezione.
Uno scheletro secco e tremante, fragile come il cristallo ed una perfetta struttura di diamante. Perché forse era la carne morbida quella che vestiva Magnus, ma Alec sapeva che dentro di lui c'era la forza devastante di un sole, della natura, della vita.
Lui non era così, forse la sua corazza poteva brillare come una stella, ma il brutto di quei bellissimi e lontanissimi astri non è solo nella distanza che li separa da chi li ammira. La tristezza si annida nella consapevolezza che di essi si può ammirare solo la luce riflessa, quella che un tempo avevano sprigionato con tanta forza e che ora non esiste più, ultimo brandello rimasto di un'esistenza finita di cui solo i posteri conosceranno la veridicità.
Se qualcuno li avesse potuti vedere davvero, ma davvero, avrebbe scorto un'armonia di pietre inondata di luce e null'altro che una fredda roccia che ormai, da tempo, aveva cessato di emanare la propria.
Se solo qualcuno fosse stato in grado di vedere davvero, si sarebbe accorto che mentre Magnus camminava su un sentiero di smeraldi Alec lasciava dietro di sé solo impronte insanguinate.

La vita del figlio del Re dei Demoni era peggiore, aveva più macchie della sua?

Sul riflesso delle lucide porte di metallo Alec fissò il denso liquido rosso che lo imbrattava da testa a piedi.
Un sorriso obliquo ed inquietante gli tirò le labbra.


Ovviamente la risposta era no.





Quella stanza non gli era mai piaciuta per fin troppe ragioni: per prima cosa si trovava sopra a tutto, isolata quasi fosse una cella di detenzione e non l'ufficio del Commissario della Polizia di New York City o quello del Direttore degli Affari Interni.
La seconda cosa che l'aveva sempre infastidito era il lungo corridoio vuoto che bisognava percorrere per arrivarvi, abbellito, se così si poteva dire, da freddi e seriosi ritratti di grandi agenti del passato e di eroi morti in servizio. C'era solo la scrivania della segretaria, annessa al piccolo ufficio aperto alle sue spalle, che dava un minimo di senso di “vita” in quel luogo.
L'ufficio in sé, poi, lo odiava ancora di più. Probabilmente il suo strizzacervelli gli avrebbe detto che lo odiava inconsciamente perché era il ruolo a cui suo padre aveva sempre ambito, per sé nel futuro immediato e per lui in quello a venire.
Che andasse a fottersi, lo strizzacervelli e pure suo padre: il suo odio era perfettamente conscio e quel posto, a capo di tutti, come burattinaio supremo, lui non lo voleva e mai l'avrebbe voluto.
Il fatto poi che fosse un ufficio estremamente formale, dotato di quel sottile lusso che i capi dovevano assolutamente dimostrare neanche fossero nel settecento e dovessero impressionare tutti con un cazzo di muro di porcellana in stile barocco – e che sua sorella e sua madre non rompessero le palle se quello non era il periodo giusto, era solo un dannato esempio – non migliorava la situazione.
La verità estremamente ironica e divertente era che Jonathan era cresciuto nel lusso, aveva deciso di abbandonare la confortevole casetta nei sobborghi di Brooklin, dove aveva tutto quello che gli serviva, per andarsi ad arrampicare sull'alto nido di un condor imponente e magnifico con le manie di una gazza ladra. Jon era uscito dalle case più popolari per stare nell'oro, per stare con suo padre, il suo vero padre, quello che capiva i suoi ragionamenti, i suoi scatti d'ira, la sua mente contorta tanto quanto la propria. Ma quanto lo disgustava ora… quanto lo disgustava quell'eccesso sul posto di lavoro, ecco.
In più ci si metteva quella stronza della Herondale, che lo guardava sempre come se fosse la reincarnazione di suo padre, del demonio, del diavolo, di Belzebù e di Mefisto in persona. Non lo aveva mai chiamato figlio di Satana ma probabilmente solo perché un minimo di religiosità l'aveva anche lei. Si poteva dire così? Era una parola esistente? Che cazzo! Non gli interessava neanche quello. Era solo arrabbiato, innervosito oltre ogni limite perché stava per andare di nuovo a parlare con lei, stava per andare di nuovo a confessarle quanto le sue azioni, le sue idee e la sua storia si fossero rivelate fallate, marce, sbagliate. Certo, quella volta non era stata colpa sua, non completamente, il problema non era nel fatto che molti erano morti e lui invece era rimasto in piedi, il problema era che probabilmente Jonathan si trovava ancora a questo mondo solo ed unicamente perché suo padre aveva fatto un favore ad una criminale.
Era vivo perché Valentine aveva fatto una delle sue deplorevoli azioni, era vivo solo perché c'era stato un torto, c'era stata un'ingiustizia. Chi era il morto che non aveva avuto giustizia? Chi il delinquente che non era finito dietro le sbarre? Era stata davvero la malavita che cercava di combattere da quando si era arruolato che gli aveva concesso la grazia di un'esistenza lunga e – quasi – felice?
Non lo voleva sapere, più si avvicinava all'ufficio della Herondale e più c'era una parte di lui che, come un bambino, batteva i piedi e diceva che non voleva, che doveva tornare indietro, che non gli sarebbe piaciuto quello che gli sarebbe stato detto, quindi tanto valeva non ascoltarlo. Ma dall'altro lato c'era anche quella sottile passione per il macabro, per l'orrore, per le cose brutte che tutti quanti covano in sé, ciò che spinge le persone ad interessarsi così tanto alla cronaca nera, a voler sapere tutti i dettagli di quella morte scabrosa, di quel delitto violento… era un'ossessione che ogni essere umano portava nel suo patrimonio genetico, la violenza aveva forgiato il loro mondo e continuava ad essere il fulcro e Jonathan, umano come ogni altro suo simile, viveva tra il desiderio infantile di fuga e quello sadico, masochistico di sapere, di sentirsi dire da un'altra persona che era ancora vivo solo perché suo padre era stato un mostro.
Quello era un punto che anche il suo analista aveva toccato, l'uomo gli aveva fatto notare, con finta leggerezza ben ponderata, che spesso quando ci capita qualcosa di brutto, quando ci viene fatto un torto o quando ci sentiamo in colpa, oscilliamo tra il non volerne più parlare e il volerlo fare in continuazione. Jonathan non poteva in alcun modo ripagare tutti degli sbagli di suo padre, ma si incolpava di non aver capito e come punizione aveva scelto proprio quella: l'infinito ripetersi di accuse, di ingiurie, di insulti non tanto contro suo padre quanto contro lui stesso.
Era nocivo forse a lungo andare, una cosa sciocca e autodistruttiva ma alle volte gli pareva così giusto, così… catartico…
Forse era solo lui ad essere pazzo e questo non era altro che l'ennesimo comportamento malato che suo padre gli aveva passato… o forse, visto come erano andate a finire le cose, quella era una tara genetica tutta di sua madre.
Jonathan espirò fortemente dal naso, gettando uno sguardo alla scrivania vuota e ricordandosi che sì, erano le fottute dodici di domenica mattina e non c'era nessuno dei lavoratori d'ufficio, ma contava che la Herondale, stronza come solo lei poteva esserlo, fosse lì anche quel giorno per guardarlo malignamente e infilare ancora di più il coltello nella piaga, anzi, in quella ferita aperta su cui già da solo aveva versato sale e acqua ossigenata.
Bussò alla porta senza neanche preoccuparsi di farlo piano, due colpi secchi e senza pietà, esattamente come sarebbe stata la donna con lui.
Quando la voce del Commissario lo esortò ad entrare Jonathan sorrise cupamente.

Era ora di riaffacciarsi sul patibolo per una nuova prova della sua impiccagione.


Il silenzio che l'aveva accompagnato per il corridoio ora si era impossessato della stanza.
Il Commissario Herondale l'aveva lasciato parlare senza mai interromperlo, neanche per qualche delucidazione o quando lui stesso si era reso conto di aver sbagliato orari o nomi.
L'aveva accolto con freddezza, come sempre d'altronde, guardandolo come se da un momento all'altro si sarebbe potuto aprire una zip sulla schiena e rivelare che il suo aspetto non era altro che un fantoccio dentro cui si nascondeva il caro vecchio Valentine.
Jonathan aveva sorriso beffardo a quel pensiero, mentre lei lo scrutava attentamente: Lightwood aveva avuto ragione da vendere quando gli aveva detto che loro non erano i loro stessi padri, ma che avrebbero pagato sempre i loro errori.
Di certo, quella stronza della Herondale non gli avrebbe mai permesso di dimenticare le colpe del suo.
Ma c'era da dire che quella mattina sembrava decisamente presa da altri problemi.
Entrando Jonathan non aveva potuto far a meno di notare che nessuna delle foto che di solito adornavano la libreria a parete era al suo posto. Erano invece tutte ammucchiate le une sopra le altre sul tavolino basso davanti al divanetto che si trovava sul lato opposto e solo una, voltata a faccia in giù, era posta sulla sua scrivania. Un'altra cosa che Jon non aveva potuto ignorare erano i vetri a terra. Non ci voleva un genio per fare due più due, ovviamente, ma la domanda principale non era “perché si sono rotte le fotografie”, quando più: Cosa era successo di così terribile da far andare su tutte le furie la Herondale fino a spingerla a gettare a terra le sue preziosissime foto?
Probabilmente non avrebbe mai avuto risposta a questa domanda, anche se un fastidioso prurito gli suggeriva che era una cosa importante, qualcosa da non dimenticare. Anche se gli scocciava ammetterlo, e doveva farlo solo a sé stesso al momento, quindi la cosa era davvero fastidiosa, Jonathan si disse che la cosa migliore da fare era accennare l'accaduto a Lightwood, magari quando sarebbe andato a dirgli che cosa ci faceva nell'ufficio del Commissario a mezzogiorno di domenica mattina del loro primo fottutissimo giorno libero dopo settimane ininterrotte di lavoro.
La donna davanti a lui continuava a non aprir bocca, presa da ragionamenti suoi che Jonathan non sapeva se volesse o meno venirne a conoscenza.
La risposta era, prevedibilmente, no.

<< Ricordo il caso, non è facile dimenticare la carneficina che ci fu. Ricordo anche la tua deposizione ma non ricordo assolutamente l'accenno ad un tatuaggio. Perché?>> chiese con calma.

Leggasi tra le righe: “lo raccontasti per primo a tuo padre e lui ti disse di non dire nulla, so che è così, ma voglio sentirlo dire da te”.

Sta' stronza…


Purtroppo però, Jonathan non poteva accontentarla e farla godere ancora di più di quel sadico piacere nel sapere che Valentine era stato immischiato anche in quella faccenda. O per lo meno, non in quel modo, per il resto Jon credeva fermamente lo stesso.

<< La mia prima deposizione fu al Capo Garroway, mi chiese più e più volte se fossi sicuro di aver visto una rosa, ma una volta fatto il sopralluogo, controllato la visibilità all'ora dell'accaduto e tenendo conto del colpo alla testa che avevo ricevuto, tutti furono più che concordi nel dire che me lo dovevo esser immaginato, che magari ho sovrapposto qualche ricordo a quel momento. Mi dissero che ne avrebbero tenuto conto ma che probabilmente avevo preso un abbaglio.>>
Lei rimase impassibile. << E lo hai dimenticato.>>
<< L'ho messo da parte. I miei superiori dicevano che non era importante, che non era possibile che avessi visto una cosa del genere malgrado sapessi perfettamente cosa avevo visto.>>
<< Fino a quando non hai trovato un biglietto da visita, viola, con su quella stessa rosa durante i controlli di routine per il nuovo Caso Congiunto tra Antidroga e Omicidi.>> continuò quasi sembrasse scettica.
Jonathan annuì solo.
<< Quello che non capisco, agente Morgenstern, è perché sei qui solo a parlarmene, devo dedurre che hai tenuto la cosa nascosta al suo superiore? Per quale motivo?>>
Oh, era questo il gioco a cui voleva giocare? Perché non lo hai detto ad Alexander? Okay, allora avrebbe giocato, ma non le sarebbe piaciuta per niente la sua risposta.
Jonathan si mise più comodo sulla sedia, pronto a sganciare quella bomba che lo rendeva segretamente tronfio di quanto accaduto:
<< Ho detto a Lightwood che avevo un sospetto, ma che era una cosa decisamente incerta e che non potevo assicurargli che c'entrasse effettivamente con il caso. Lui mi ha guardato in faccia, ha annuito e mi ha detto di muovere il culo e portargli dei risultati.>> disse ghignando.
La Herondale sorvolò molto elegantemente sul suo linguaggio scurrile e alzò un sopracciglio.
<< Ebbene? Hai ottenuto dei risultati?>>
Questa volta Jonathan dovette scuotere la testa. << Non dove sono andato a cercare ed era il posto in cui avrebbero potuto darmi più informazioni. >> cominciò tenendosi sul vago. Se la Herondale era anche solo un po' il poliziotto che tutti credevano fosse, e se avesse per un attimo accantonato l'odio abbastanza immotivato che provava nei suoi confronti, forse non gli avrebbe chiesto nulla in più. In effetti lo lasciò continuare con un cenno del capo.
<< Perciò sono venuto direttamente qui, a chiederle se quel vecchio caso dell'omicidio senza movente, secondo lei, possa essere in un qualche modo collegato a quello recente che ci è stato affidato.>>
<< Perché non sei andato da Garroway?>>
<< Perché mi avrebbe detto che sono paranoico. >>


E mi avrebbe anche costretto a dirgli perché mi sta andando il sangue al cervello. Avrei dovuto per forza accennargli almeno qualcosa per togliermelo dal cazzo e poi avrebbe capito tutto, chiamato Lightwood, dettogli che non ero affidabile sotto questo punto di vista, che la stavo prendendo sul personale… mi avrebbe tolto dal caso credendo di farmi un favore ma complicandomi invece la vita.


La Herondale fece una smorfia, come se quella, effettivamente fosse la risposta più ovvia del mondo. Poi si poggiò con le spalle allo schienale della poltrona ed intrecciò e dita.
<< Ti parlerò molto francamente, Morgenstern: questi due casi hanno molte cose che coincidono tra di loro, il sospetto di una rete di criminalità organizzata ma con membri non dipendenti gli uni dagli altri, omicidi senza risoluzione, senza senso e senza giustificazione. Figure misteriose che fanno il loro lavoro e poi scompaiono, come killer su commissione, impossibili da ricollegare al loro reato perché privi di movente. Ci sono le basi affinché si possa dire che sono collegati e se così fosse - >> disse fissandolo dritto negli occhi. << sono più che certa che l'uomo giusto per scoprirlo sia colui che è a capo della tua squadra. Parlane con il Tenente Lightwood, indagate, arrivate a delle conclusioni e comunicatemele, di qualunque genere esse siano. È tutto.>> concluse secca.

Jonathan la guardò per un attimo interdetto, nascondendo tutta la sua frustrazione dietro alla famigerata faccia da poker che suo padre gli aveva dato la grazia di ereditare.
Non gli aveva detto nulla su di lui, non gli aveva detto che probabilmente era vivo solo per merito delle malefatte di Valentine, non aveva infierito e al contempo non gli aveva detto che cazzo fare. Era stata solo un enorme perdita di tempo, gli aveva detto di andare da Alexander e basta, di fare esattamente ciò che avrebbe comunque fatto.
E se ci fosse andato il moro a chiedere informazioni? Se fosse andato Alec a chiedere un consiglio, a spiegare la situazione? Lo avrebbe liquidato in due minuti come aveva fatto con lui o sarebbe stata più gentile, più empatica? Jonathan poteva perfettamente immaginare la risposta, poteva tranquillamente figurarsi la scena di una Imogen Herondale rilassata e piacevolmente colpita dal fatto che il ragazzo avesse deciso di chiedere a lei e non al padre.
Ma Jonathan non poteva più farlo, non poteva più andare a chiedere a suo padre un consiglio, non poteva andare neanche da Luke perché- perché non era più la stessa cosa, non lo sarebbe mai più stata e questo era quando.
Con un moto di rabbia silenziosa Jonathan si alzò dalla poltrona ed annuì, dandole le spalle e avviandosi a passi decisi verso la porta.
Un suono sinistro lo fece fermare, quando si rese conto di aver calpestato un frammento di una delle cornici.
Rimase fermo, immobile a fissare quella polvere lucida e bianca.

<< Ha ancora dei vetri per terra, stia attenta.>> disse con freddezza. Poi aprì la porta e ne uscì lasciando che sbattesse contro lo stipite immacolato.

Dentro l'ufficio Imogen sollevò delicatamente la foto che aveva sulla scrivania, suo figlio e suo nipote la fissavano seri, impettiti il giorno del loro diploma.
Negli occhi azzurri di Stephen poté quasi leggere un ammonimento severo, qualcosa che le fece scivolare nello stomaco una sensazione simile al disagio.
William invece le trasmetteva tutt'altra sensazione, nei suoi di occhi leggeva rimorso, forse perché sapevano tutti quanto, a suo tempo, Will riuscì ad essere disgustosamente duro con quella che, con tutta probabilità, era la persona che aveva meno colpe di chiunque altro in quella storia.
Suo nipote, dai lontani anni settanta, la pregava di non fare il suo stesso errore, di non partire prevenuta verso qualcuno che non aveva fatto nulla, il cui unico crimine risedeva in colui che gli aveva dato i natali.
E forse Imogen era sempre stata troppo dura con quel ragazzo, forse non essendo riuscita ad avere la sua vendetta su Valentine si accaniva su Jonathan, così dannatamente simile a suo padre, con quello sguardo fiero, strafottente… era il completo opposto di Alexander, un ragazzo tanto a modo, rispettoso, gentile e- e con gli occhi blu così simili a quelli dei suoi ragazzi…
Come se avesse dovuto mandar giù un boccone amaro, Imogen ammise a sé stessa che più del comportamento esemplare di Alexander Lightwood, più del coraggio che aveva avuto nell'andare a farle le domande più fastidiose ma giuste, più del modo in cui trattava tutti, per la sua idea che non si era colpevoli fino a prova contraria quando lei, oh, lei lo sapeva che spesso non c'erano prove per la cattiveria e l'orrore della gente… più di tutto questo, quello che lo aveva resto a conti fatti il suo preferito era ciò che, a suo tempo, aveva fatto in modo che Imogen perdonasse immediatamente Robert.
Gli occhi blu più sconvolgenti che avesse mai visto, divenuti in un attimo solo il mero fantasma di ciò che erano stati. Occhi tanto blu che neanche il suo Steph aveva, neanche quel piccolo terremoto di Will.
Jonathan non meritava tutto il suo odio, questo era certo, ma lei era una vecchia stronza e ormai era troppo tardi per cambiare.
Fissando il pavimento, lì dove il frammento di vetro si era polverizzato, Imogen si disse che, almeno, qualcuno che guardasse con imparzialità quel ragazzo c'era e anche se era triste che fosse una persona tanto giovane a riuscirci e non lei, sperò ugualmente che potesse bastare.




Stare stravaccati su una panchina al centro di Central Park non era proprio la sua idea di “fare una passeggiata”, ma Alec pensò che, dopotutto, con Magnus non si poteva mai dire quanto i piani fatti sarebbero stati seguiti o meno. O se sarebbero anche solo stati presi in considerazione, c'era da dire. L'uomo se ne stava tranquillamente seduto con le gambe allungate verso il bordo del laghetto, il cartone vuoto del caffè in una mano, l'altra sprofondata nella tasca del piumino.
Non avevano parlato di molto se non della sua apparentemente insaziabile fame, cosa del tutto giustificata, secondo Alec, dal suo continuo movimento. Le battute su quell'affermazione si erano sprecate, ma un paio di richiami all'ordine ed un sonoro schiaffone sul ginocchi, dritto sul nervo, avevano zittito Magnus con estrema facilità.
Ora se ne stavano lì, in silenzio, in attesa di cosa Alec non lo sapeva. O meglio: lo sapeva ma sperava di non arrivarci. Evidentemente Magnus era di tutt'altro avviso.

<< Allora. Tu conosci molti dei miei amici, o per lo meno io ne parlo in continuazione e quindi all'atto pratico è come se li conoscessi di persona, mentre per te, beh, la storia è decisamente diversa, vero fiorellino?>> iniziò ammiccando.
Alec alzò gli occhi al cielo. << Ce la fai a chiamarmi con il mio nome di battesimo?>>
<< Intendi dire che ti piace “Alexander”? Non ricordo chi, se te o Sonny, una volta mi diceste che lo reputavi un nome da vecchio e che preferivi di gran lunga “solo Alec”. È cambiato qualcosa o sono io che sono speciale?>> chiese battendo le ciglia con fare teatrale.
L'altro rimase impassibile. << È cambiato che un deficiente mi chiama in modi estremamente imbarazzanti ed un nome che sembra provenire dritto dal settecento è meglio di “fiorellino”.>>
Magnus sbuffò. << Ogni tanto potresti reggermelo il gioco.>>
<< Poi non sarebbe più divertente però.>>
Sorrise. << Touché.>> si stiracchiò un po' sulla panchina, poggiò il cartone al suo fianco e volse la testa verso il poliziotto. << Quindi? >>
<< Cosa?>>
<< Oh, non usare questo trucchetto con me tesoro, sai di cosa parlo.>>
Alec si strinse nelle spalle. << Non credo ci sia nulla da dire.>> fece evasivo.
L'asiatico non se la bevve minimamente. << Alexander, dolcezza, chiunque ti vede a primo colpo pensa che tu sia un automa, e non lo dico con cattiveria eh, ma sei così rigido e formale… poi ti conoscono un po' meglio, così chiuso e riservato come appari, e tutti pensano che sicuramente sei una di quelle persone che alle feste rimaneva addosso al muro, cercando di sparire nella tappezzeria. Uno di quelli che ha degli amici solo perché quelli sono talmente tanto dei rompicoglioni che non gli hanno dato la possibilità effettiva di scegliere se essere o meno amici davvero o che sono degli sfigati che nessuno si calcolava. Quindi, ora, per difendere il tuo onore e anche perché dobbiamo “conoscerci” - gli fece l'occhiolino – tu mi racconti come hai conosciuto i tuoi besties. >> concluse sorridendo.
Alec si accigliò, decisamente contrariato da quella terribile definizione di sé. << Tanto per cominciare, non cercavo di sparire nella tappezzeria.>> disse serio sotto lo sguardo scettico di Magnus. << Ci riuscivo perfettamente. Tantissime volte i ragazzi sono usciti a cercarmi mentre io ero sempre nello stesso identico punto in cui mi avevano lasciato. Una volta hanno anche fatto spegnere la musica e accendere le luci perché nessuno, nessuno, riusciva a capire dove fossi.>>
Lo sguardo di Magnus passò da scettico e divertito. << E dimmi, dove ti nascondevi? Tanto per sapere i tuoi posti preferiti e quindi andare a colpo sicuro nel caso in cui dovessi cercarti, sai.>> disse con un ampio sorriso che a stento riusciva a trattenere la risata che gli stava salendo dalla gola. Alec riassunse la sua espressione seria, quella degli interrogatori, il che rendeva tutto ancora più comico. Prese un respiro e:
<< Esattamente dove mi avevano lasciato: su una sedia vicino alla finestra che dava sul giardino. Sono rimasto immobile per un'ora e spicci mentre tutti continuavano a cercarmi. Ma il fatto che molti di loro non avessero la più pallida idea di come fosse fatta la mia faccia ha aiutato molto, probabilmente quei due che mi hanno visto mi avranno scambiato per uno troppo ubriaco per aiutare con le ricerche.>> annuì convinto.
A quello Magnus non si trattenne più e gli scoppiò a ridere in faccia.
<< Andiamo! Io sono fiero dei danni che facevo alle feste, del fatto che tutti si ricordassero di me per quanto fossi magnifico! E tu mi dici che sei fiero di come nessuno ti notasse?>>
Con il suo volto impassibile una faccia da poker fenomenale che però, Magnus ne era ben consapevole, il detective non sfruttava mai per giocare a carte visto ciò che era in grado di fare, quello lo trapassò con un solo sguardo.
<< Ti sei mai reso conto, durante il caso, di quante volte io sia entrato ed uscito da casa tua senza che te ne accorgessi?>>
Magnus smise di ridere. << Come potrei essermene reso conto se non me ne sono accorto? >>
chiese retorico. Poi si bloccò. << Aspetta: entravi ed uscivi da casa mia? Senza dirmi nulla?>>
<< Ero in casa quando tu e Simon avete fatto quella maratona dei Power Ranger.>>
L'altro lo guardò allibito. << Non ci credo, stai bluffando! Eravamo soli.>>
<< Hai detto “Io porto decisamente meglio sia il rosa che il giallo, perché poi devi essere così banale da dare il giallo alla ragazza asiatica e il rosa alla bianca?”>>
Che fosse rimasto a bocca aperta, a fissarlo senza parole, Alec ebbe il tatto di non farglielo notare. << Porco cazzo! Ma cosa sei? Uno stalker?!>> gracchiò.
<< Secondo te come facevamo io e Jace a sapere sempre tutto dei ragazzi di Izzy? Lui la teneva d'occhio da vicino e io pedinavo il tipo.>>
<< Mi sai prendendo per il culo.>>
<< L'ho fatto anche con Jace quando cambiava ragazza ogni giorno, avevo paura che andasse in un bordello o che ci lavorasse magari.>>
<< Cazzo!>>
<< E con Clary una volta. Perché non mi fidavo di lei.>>
<< E lei lo sa?>>
<< Ovviamente.>> disse come se la cosa fosse scontata. << No.>>
Magnus annuì, pensieroso. << Perché so per certo che questa cosa dovrebbe inquietarmi mentre invece mi fa solo venir voglia di ridere e di sapere tutte le storie di pedinamenti che hai alle spalle? Ti è stato utile per la polizia di certo.>>
<< Non sai quanto. E credo che ti faccia ridere perché lo avrai fatto anche tu.>>
<< Yup, ma il novanta percento delle volte mi beccavano. A meno che non fossi “in missione segreta”, in quei casi avevo sempre qualcuno vicino a me che mi riprendeva per un orecchio. C'era Camille… lei è spaventosa, rimane ferma immobile per ore e ore, in attesa, sembra una pianta carnivora che attende solo che un insetto le si posi tra le fauci… sì, fa davvero paura.>> disse rabbrividendo.
Alec lo guardò interessato, completamente dimentico del fatto che avrebbe dovuto parlare lui quella volta e non l'altro.
<< La conosci da tanti anni, vero? Avete… lavorato assieme?>> domandò con cautela.
Magnus annuì. << Da quando avevo diciassette anni. Dio… sembra un'eternità.>>
<< Lo è, è una vita fa ormai, davvero una vita fa. Quasi non mi ricordo com'ero a quell'età.>>
Gli occhi felini dell'uomo saettarono su di lui con la stessa curiosità di un animale. << Perché dici così? È stato un brutto periodo per te?>>
Alexander si prese il suo tempo per rispondere, pensandoci con attenzione, valutando quanto quelle parole potessero contenere del vero e del falso.
<< Non proprio. >> si risolse a dire in fine, cullato nel silenzio fittizio che li aveva avvolti.
Di fianco a lui Magnus attendeva con pazienza, conscio che con le persone come lui bisognava aspettare che si aprissero quando e come volevano loro. Con un sorriso beffardo si disse che forse, tra tutti i suoi amici, Raphael era di certo quello che più somigliava al Detective per tanti motivi diversi.
Forse un giorno anche quel cretino di un un messicano si sarebbe aperto con lui con la lentezza e l'incertezza con cui lo stava facendo Alexander, anche se con anni e anni di ritardo.
<< Non proprio in che senso?>> chiese per incoraggiarlo.
Alec si strinse nelle spalle. << Non avevo detto ai miei che ero gay, non ancora. Papà di certo già lo sapeva, mamma invece aveva iniziato a parlarmi dei corsi di preparazione per l'università e per il college. Però… avevo superato uno scoglio abbastanza alto, era già un passo avanti.>>
<< In che senso?>>
<< Io- >> la parole gli morirono in gola quando si rese conto di cosa stava per dire, di cosa stava per confessare.
Dio santissimo, come erano arrivati lì? La fascia che andava dai suoi quindici ai diciannove anni non doveva neanche essere nominata e invece… cosa poteva dirgli? Che a diciassette anni si era messo l'anima in pace, aveva accettato di farsi portare in locali “misti”, lo disgustava anche solo pensarlo, non erano più ai tempi della segregazione razziale, non c'erano più locali “misti” o per “bianchi o neri”-


No, però ci sono ancora i gay pub, i luoghi in cui si riuniscono solo i membri della comunità LGBT e quelli in cui ci vanno solo “gli etero” per rimorchiare, siamo ancora più divisi di quanto non crediamo, solo che ora puntiamo più sui nostri gusti che sul colore della pelle. Non che questo non sia ancora un grande classico. Dio, che schifo.


Voleva dirgli davvero che in uno di quei locali aveva rincontrato la ragione e il principio di tutti i suoi effettivi problemi? Che fino all'anno prima si era vomitato l'anima in bagno ogni settimana tormentato e disgustato da sé stesso e da ciò che credeva di provare? Voleva davvero cominciare così?


Una mezza verità Alec, ometti, non mentire, ometti solo.


<< Diciamo che era da poco che l'avevo detto ai miei amici, un vero caos all'inizio, poi si è sistemato tutto. >> sorrise con affetto a quel pensiero. << Una manica di deficienti, pare che io non sia in grado di scegliermi persone normali da aver vicine.>>
<< Ehi!>> protestò Magnus punto sul vivo.
Alec lo liquidò con una smorfia. << A te non ti ho scelto e non sei neanche normale, non azzardarti a dire nulla.>>
<< Okay, non interromperò il racconto. È qui che conosci Seth?>>
<< No, Seth l'ho conosciuto molto prima. Compagni di banco, era l'unico posto libero credo, non ho controllato sinceramente. Speravo vivamente che fossimo dispari e che nessuno si sedesse vicino a me, ero già abbastanza inquietante all'ora perché succedesse.>>
<< Che qualcuno ti evitasse?>>
Alec annuì. << L'estate tra i miei tredici e quattordici anni mi ha fatto diventare più alto, più pallido e più cupo, come sia stato possibile poi è un mistero, Jace diceva sempre che se fossi diventato un po' più serio mi sarei trasformato in una statua.>>
<< La solita delicatezza… >>
<< Aveva ragione, alle medie non ho brillato per carattere o per gioia, anzi ero- sono stato per molto tempo piuttosto timido.>>
Magnus alzò un sopracciglio. << Ma dai, non l'avrei mai detto, tu timido, assurdo!>> fece ironico.
<< Fai poco lo spiritoso, sono migliorato tantissimo.>>
<< Perché sei cresciuto, funziona così.>> disse con tono più dolce.
Ma Alec scosse la testa. << Ho solo visto che fine fa la gente timida a questo mondo. Ti auguro di non vederlo mai.>>
L'uomo si accigliò, lo sguardo di Alec era perso in ricordi che lui non poteva vedere, non poteva sapere. Aveva davvero molta voglia di chiedergli di più, di domandargli a cosa si riferisse, anche se poteva immaginarlo, ma si frenò. Un passo alla volta, un anno di vita alla volta, anche un mese alla volta, o un giorno se avesse voluto. Magnus aveva tutto il tempo del mondo per scoprire il passato di Alexander e se questo gli avrebbe dato la possibilità d'ascoltarlo Magnus sarebbe stato capace di tacere per sempre. Perché anche se nessuno ci scommetteva un soldo lui era più che bravo ad ascoltare, lo era sempre stato, sin da bambino quando sua madre gli ripeteva quanto fosse basilare per un rapporto di qualunque tipo, specie per il matrimonio.


Amare una persona significa ascoltarla anche quando l'unica cosa che vorresti fare è urlarle contro che ha torto marcio, qualunque sia la motivazione.


E a Magnus piaceva ascoltare, ascoltare e aggiungere dettagli, fare domande, limare i particolari e creare una storia, un futuro, assieme.
Non aveva mai avuto una famiglia di sangue molto numerosa, i genitori di sua madre erano morti prima che lui nascesse, il padre di suo padre non se lo ricordava neanche lui tra un po' e la nonna… lei la ricordava vagamente, giusto un poco. La sua famiglia erano i suoi amici, gente che aveva camminato da sempre con lui, gente che aveva imparato a camminare con lui, Lily aveva imparato anche a gattonare per inciso, e gente che invece gli si era affiancata con gli anni. Di questi non sapeva tutto, non al principio, ma poi aveva chiesto, si era fatto raccontare, si era immerso in un mondo che era il suo ma visto da un'altra prospettiva, la stessa scenografia vissuta da personaggi diversi e così aveva imparato a vedere le persone, a conoscerle, a capirle.
Di Alexander aveva capito che dietro alla facciata del poliziotto senza macchia e senza paura c'erano decisamente più macchie e più paure del previsto e la cosa, in parte, lo lasciava perplesso, con uno strano disagio in petto. Era ovvio che il giovane non volesse mostrarsi troppo, era ovvio che ci fossero cose del suo passato di cui si vergognava ancora, di cui aveva ancora timore, di cui si portava addosso la croce senza un motivo apparente. Ma era anche ovvio che avesse un cuore grande, un animo gentile, altruista e sì, timido di sicuro e non la timidezza dolce dei bambini, la sua era proprio quella scaturita dal non sentirsi a posto, nel luogo giusto.


Non sentirsi giusti.


Che sensazione orribile doveva essere…
Senza incrociare il suo sguardo gli diede un leggero colpo di gomito, attirando la sua attenzione e richiamandolo dai luoghi sperduti in cui si stava lentamente calando.

<< Cosa faceva al tempo una persona timida? Come hai conosciuto davvero Seth?>>
Alec sorrise con un pizzico di nostalgia. << Si nascondeva, soprattutto. Cercavo di essere invisibile, a pensarci ora è una cosa assurda ma al tempo avevo il terrore che qualcuno potesse rendersi conto che ero gay anche solo standomi vicino. Così il primo giorno di liceo mi misi al secondo banco, vicino alla finestra, e pregai con tutto me stesso che la classe fosse dispari, in modo da metter abbastanza paura agli altri per non farli sedere vicino a me.>>
Magnus ridacchiò. << Perché ho la vaga sensazione che non funzionò?>>
<< Perché fu così. Seth entrò poco dopo di me, si guardava attorno titubante, credo che entrambi avevamo la stessa identica faccia. È rimasto un po' a controllare i banchi, a decidere dove sedersi, poi ha puntato dritto verso di me e mi ha chiesto se il posto fosse libero o se lo stessi tenendo per qualcuno. Il resto, come molte altre situazioni, è storia.>> concluse stringendosi nelle spalle.
<< Siete diventati amici così? Sedendovi allo stesso banco?>>
Alec annuì. << Gli dico sempre che se avesse avuto un po' più di coraggio e si fosse andato a sedere vicino ad una ragazza o a quelli che poi sarebbero diventati i “fighi” della classe io e lui non ci saremo mai conosciuti.>>
<< Ed è vero?>>
<< Probabilmente. Seth è una persona comune, come molte altre – non te lo immaginare come Simon, so che lo stai facendo, ma non è un imbranato nerd che straparla a buffo. È una persona allegra, positiva, che ha una gran pazienza ma quando la perde non ragiona più. Sappi che è l'unico in grado di terrorizzare Jace con un piatto e che sa affilare benissimo i coltelli.>>
Magnus rabbrividì. << Dio santissimo, non dovremmo mai fargli conoscere Lily allora.>>
<< Una Lily già la conosce, la mia Lily intendo.>>
<< Altri amici? Alexander, sei l'amico gay di qualcuno?>> chiese alzando un sopracciglio.
Alec però lo guardò scettico. << Non sono neanche l'amico gay di mia sorella, posso esserlo di qualcun altro? È vero che le ragazze mi raccontano cose più imbarazzanti rispetto a quelle che raccontano agli altri, ma alla fine sappiamo sempre tutto di tutti.>>
Con un sorriso morbido a piegargli le labbra Magnus si voltò meglio di fianco, poggiando un braccio allo schienale della panchina e reggendosi la testa guardò Alec colpito da un leggero e piacevole calore.
Era strano, terribilmente strano, sentire Alexander parlare della sua vita privata. Di certo il suo era uno dei ragionamenti più assurdi del mondo, ma aveva quasi sempre avuto l'impressione che oltre la sua vita lavorativa, oltre i suoi fratelli, i colleghi e gli amici dei fratelli Alec non avesse nessuno. Aveva sentito il nome di Seth, aveva sentito un accenno ad altri nomi ma non aveva mai chiesto nulla, non sapeva quanti fossero i suoi amici, non sapeva a che livello fossero quelle amicizie e neanche se c'era qualche suo ex tra di loro. Ma sentirlo parlare, scoprire piccoli frammenti, tessere di un puzzle ancora troppo grande perché potesse vederlo nella sua interezza, gli scaldava il cuore, lo riempiva di un'oncia di orgoglio e qualche spruzzo di felicità.
Dopotutto, conoscere nuovi amici, distribuire il proprio amore fra la gente, era una delle cose che gli riusciva meglio, quando poi questo amore in un qualche modo era ricambiato, le cose miglioravano incredibilmente.
<< Quanti siete?>> domandò allora sorprendendo il ragazzo. << Intendo, noi siamo: io, Caterina, Raphael, Lily, Malcom, Quinny, Mel, c'era Ragnor, ci sono alcuni amici un po' meno stretti di cui non ti ho ancora parlato ma di cui saprai presto vita morte e miracoli… Voi quanti siete?>>
Con sua sorpresa Alec ridacchiò divertito.
<< Che c'è di tanto divertente?>> chiese ancora.
<< Quanti siamo… quando ero più piccolo non avrei mai creduto di poter dire di aver molti amici, non ero minimamente capace di far conoscenza con gli altri e ora- ora se non conto Simon e Clary, che purtroppo non posso più far a meno di catalogare come tali, se non conto i ragazzi del Dipartimento o te. >> e qui accennò uno dei suoi soliti sorrisetti storti. << Beh, siamo un bel po'. C'è Seth, Piper, Dawson, Howard, Sabrina, Christoper, Lily, Andy, Georgina e Carla. Siamo una decina alla fine, ma la verità è che qui, a New York, siamo rimasti davvero in pochi.>>
Il volto disteso del giovane lasciava trasparire una leggera nostalgia ed un affetto ben più forte. Magnus l'osservò senza sapere cosa dire, non credeva che fossero così tanti gli amici di Alexander e non riusciva a capire se lo sconvolgesse più il numero, il tono con cui aveva detto i loro nomi o il sorriso soffice che gli piegava le labbra. No, era decisamente una sorpresa, perché si era sempre immaginato l'adolescenza di Alec come un luogo buio e solitario, un cammino privo di luci, di compagni con cui percorrerlo?
Continuando a tenere gli occhi puntati sul viso dell'amico – Alec stesso lo aveva appena definito così, ah! - Magnus cercò di carpire anche la più piccola informazione dalla sua postura, dalla sua espressione.
Era rilassato, a suo agio, esattamente com'era lui stesso quando parlava dei suoi di amici.
Allora perché quella sensazione d'inquietudine, di disagio, di malessere, non voleva saperne di scollarsi dal fondo del suo stomaco?
<< Ad essere onesti,>> proseguì di punto in bianco Alec senza notar minimamente quegli occhi indagatori che lo scrutavano, << Carla, Andy e Georgina sono più piccoli di noi, di quattro anni, ma spesso quando uscivamo tutti assieme loro venivano con noi, anche solo per poi andarsene per fatti loro. Alla fine sono diventati… parte del gruppo? Non so come spiegartelo, ad un certo punto non era più “ Ma ci dobbiamo portare dietro i ragazzini?” ma un “ Ehi, dove sono i ragazzini?” >>
<< E che fine anno fatto? Hai detto che siete rimasti in pochi.>>
Alec annuì. << Proprio qui in città siamo solo io, Seth, Piper, Sabrina e Chris, ma gli ultimi due sono spesso fuori per lavoro, NYC è solo “la casa base”, poi sono sempre in volo.>>
Magnus sorrise. << Letteralmente o in modo figurato?>>
<< Letteralmente. Sabrina è l'assistente di un fotografo, quindi lo segue di continuo nei suoi viaggi. Chris invece più in modo figurato, è un macchinista, guida i treni delle linee intercontinentali. La beffa sta nel fatto che sua madre voleva che facesse il medico.>> ammiccò.
L'altro lo guardò perplesso: per cos'era quel alzare di sopracciglia?
Il poliziotto sembrò notare la sua faccia interrogativa. << Voleva che facesse il medico. >> ripeté piano, con tono ovvio. << Christopher.>> sottolineò. Poi vedendo la sua faccia ancora confusa sospirò. << Passi troppo tempo con Simon ma ugualmente non ce ne passi abbastanza. Chris è il fratello maggiore di Carla.>> concluse come se quello avrebbe potuto spiegare tutto. << Continuo a non capire. Tutte le madri vorrebbero un figlio medico.>>

<< La mia no, o avvocato o giudice.>> si strinse nelle spalle. << Ma non te la spiego se non la capisci, sappilo.>>
Ci fu un attimo di silenzio, poi Alec cedette. << Va bene, ascolta, è nero.>>
<< Cosa? Il tuo humor?>>
<< No, cretino, Chirs, è di colore, è afroamericano.>>
<< E questo mi aiuta perché?>>
L'altro sospirò pesantemente. << Mi stai deludendo Magnus, te lo dico fin da subito. Andiamo! È di colore, si chiama Christopher, sua sorella si chiama Carla e sua madre voleva che facesse il medico! Chi è?>>
<< Il tuo amico?>>
Alec lo guardò con la sua solita faccia impassibile, scuotendo impercettibilmente la testa.
<< Non ti facevo così stupido.>>
Magnus spalancò le labbra in una smorfia assolutamente indignata, pronto a lanciarsi in un'arringa lunghissima e infervorata su quanto in verità lui fosse un genio, di troppe cose e decisamente incompreso, e che solo perché non capiva i suoi stupidi indovinelli, fatti su persone che non conosceva, non significava che fosse stupido. Ma ancora una volta il karma, la fortuna, la Dea bendata o chi per lei aveva deciso di posare una mano sulla fronte di Alec e di risparmiargli le certe due ore di sibili, gridolini indignati e sproloqui sulla sua magnifica persona.
Il telefono del detective squillò in quel preciso momento, facendo muovere il proprietario dalla sua immobilità da delusione.
Alec infilò la mano nella tasca esterna del giaccone e ne estrasse il cellulare. Sullo schermo un numero senza nome che fece alzare un sopracciglio al moro.

<< Pronto?>>
<< Salve, sto cercando Mr Night.>> disse sicura la voce dall'altra parte.
Magnus, aveva avvicinato l'orecchio al telefono venne spinto indietro da una gomitata. Alec lo guardò male, intimandogli di farsi gli affari suoi e di non impicciarsi.
<< Mi scusi, potrebbe ripetere?>>
<< Non ci posso credere, ti sei salvato con una chiamata sbagliata?>> chiese l'altro scocciato.
<< Starei cercando Mr Night, il suo superiore mi ha detto di chiamarla per parlarle direttamente.>>
Con un'espressione dispiaciuta, che non fece altro che far alzare a Magnus gli occhi al cielo, Alec scosse la testa.
<< Mi spiace, temo che abbia sbagliato numero.>>
<< Oh, mi scusi per il disturbo allora.>> rispose lo sconosciuto con tono morbido e basso.
Chiunque fosse quell'uomo doveva esser abituato a parlare con gli altri, al suo posto probabilmente Alec si sarebbe maledetto una decina di volte e poi avrebbe borbottato qualche scusa mista ad insulti verso sé stesso.
<< Nessun problema signore, le auguro buona giornata.>>
<< Anche a lei, Sir.>> e attaccò.
Staccando il telefono dall'orecchio Alec aggrottò le sopracciglia.
<< Che c'è? Non dirmi che era una cosa seria.>> sbuffò Magnus stravaccandosi sulla panchina.
Alec scosse la testa. << Aveva sbagliato numero.>>
<< E allora cosa ti ha fatto rimanere di sasso così?>>
Il moro si voltò lentamente verso il compagno, l'espressione ancora perplessa. << Mi ha chiamato “Sir”. >>
Sbuffando ancora l'asiatico si strinse nelle spalle. << Non ti ci hanno mai chiamato? Tipo, sei mai stato in Inghilterra? Lì può capitare ogni tanto, se sei nell'ambiente giusto. Magari era proprio inglese.>>
Anche Alec si strinse nelle spalle. << Mai uscito dall'America.>> e prima che un Magnus scioccato potesse replicare. << Non per vacanze o per andare in Inghilterra almeno, dove sono stato non venivi certo chiamato “signore”. Mi ha fatto strano, tutto qui, non è tipo un titolo nobiliare?>>
<< Non proprio, non è Lord o cose simili, è più un titolo di rispetto, dato a persone facoltose.>>
<< Capito. Spero riesca a trovare il numero giusto allora, a quanto pare aveva urgenza di parlare con questo Mr. Night.>>
<< Uh-uh che nome losco! Fa tanto spia, o a gente segreto!>>
Alec sospirò si batté la mani sulle cosce e fece forza per alzarsi. << Curioso che a dirlo sia qualcuno che di cognome fa Bane.>>
Magnus gli sorrise. << Disse Mr Light- wood. >> ammiccò balzando in piedi. << Dove si va ora?>>
Il volto del giovane ebbe un guizzo che l'altro non riuscì ben ad identificare: piacere? Felicità? Impazienza? Fame?
<< Al Nascosto ovviamente.>> rispose con la sua solita voce monocorde.
Fame, decisamente.
L'uomo alzò gli occhi al cielo sbuffando. << Quando eri un adolescente dovevi essere il tormento di tua madre.>> poi si rese conto di ciò che aveva detto e si voltò di scatto verso il collega. << Non- non in quel senso! Nel senso che scommetto fossi un pozzo senza fondo al tempo.>>
Alexander lo guardò per un attimo senza dir nulla, poi scosse la testa. << Non sono un pozzo senza fondo, è che con il lavoro che faccio consumo moltissimo. Tu non hai fame ora?>>
<< Fiorellino mio bello, ti rendi conto che hai fatto colazione due volte e l'ultima neanche un'ora fa?>>
Alec scrollò la testa e gli diede le spalle, avviandosi verso l'uscita del parco. << È questo il mio segreto Mags, io ho sempre fame.>>

Magnus lo fissò per un interminabile minuto, rimanendo fermo immobile. Quando poi scattò verso di lui un sorriso beffardo gli illuminava il volto.
<< Questa di citazione l'ho capita! Altro che “non posso che considerarli amici quei due rompipalle” sei assolutamente l'amico ideale di Stewy! Sei un nerd! Un nerd con i fiocchi dire!>>
<< Chi fa citazioni ora? Non avevamo detto che quelle a tema potteriano erano bandite?>>
<< No, hai detto che non dovevamo più far battute sul magico Potter che sniffava metropolvere.>>
<< Dio… ma non poteva cercare di ammazzarti uno con un nome più banale?>>
<< Solo il meglio per Magnus Bane!>>
<< Se fosse stato il meglio a quest'ora non saresti qui.>>
<< Alexander!>>




La donna aprì con tranquillità la porta, rimanendo per un attimo sull'uscio per ascoltare ciò che le stavano dicendo dal corridoio. Annuì un paio di volte e sorrise gentile, congedandosi con un cenno del capo ed entrando nella stanza mezza oscurata.
L'unica fonte di luce proveniva da un grande schermo piatto su cui era trasmessa in tempo reale la ripresa di una stanza dei piani interrati, dei sotterranei, come preferiva chiamarli Lui.
L'immagine era chiara e nitida, i colori risaltavano brillanti, le luci attaccate ai muri generavano curiosi giochi d'ombre su tutti i presenti. Nessuno di loro pareva intenzionato a muoversi o ad andarsene: c'era una ragazzetta che giocava con il telefono, due uomini che chiacchieravano a bassa voce coinvolgendo di tanto in tanto un vecchietto dagli occhi socchiusi, altri tre in perfetto silenzio e inquietante immobilità.
Senza battere le palpebre la donna volse il capo verso l'unico spettatore di quel programma, seduto comodamente sul lato destro del divanetto, poggiato con un'eleganza che gli era innata al bracciolo squadrato.

<< Ti stai godendo lo spettacolo?>> chiese andandosi a sedere al suo fianco.
L'uomo annuì. << Sei stata fantastica, ti hanno riconosciuto quasi tutti, tranne la Rosa Nera.>>
<< Mi pare abbastanza ovvio, non mi ha mai vista, non può sapere chi sono e che ruolo ho.>>
<< No. >> ammise lui senza staccare gli occhi dal televisore. << Non può. Non sarebbe così tranquilla se no, non credi?>>
Con un sospiro annoiato si lasciò cadere contro la spalliera. << Anche se, tecnicamente, era un suo sottoposto, la colpa non è sua. Sappiamo come funziona il Clan, sappiamo che ogni membro è responsabile delle proprie attività ma che non sono tutti strettamente controllati. Tutti hanno dei pesci piccoli che servono solo a far numero e che, a conti fatti, non sono neanche stati menzionati ai capi.>>
L'altro sorrise. << Come sei magnanima. >>
<< Sono solo realista.>> si strinse nelle spalle. << Gli altri stanno per arrivare.>> disse poi d'improvviso, cambiando completamente argomento.
<< Avremo modo di vedere anche loro, uno per volta.>> con un cenno della mano indico pigramente lo schermo. << Per ora abbiamo altro a cui pensare, le prime pedine si devono muovere o il gioco rimarrà per sempre fermo al via.>>
<< Ci sono direttive precise?>> chiese lei voltando il capo verso l'uomo.
Questo annuì. << La Rosa Nera tira per prima, se fa un buon punteggio di dado potrebbe anche vincere questo turno, ma non sarei così ottimista.>>
<< Perché dici questo? Mi pare sia piuttosto brava in quello che fa.>>
<< Vero, ma non ha la stessa esperienza degli altri. Guarda Camille. >> gliela indicò. << Se lei e la Rosa Nera dovessero trovarsi faccia a faccia sarebbe il cadavere della più piccola quello su cui la sua rivale ballerebbe. È brava, ha spirito d'iniziativa, non ha paura di sporcarsi le mani e di dire ciò che pensa, di dirlo nel modo giusto. Ma non ha alle spalle lo stesso bagaglio che si porta la principessa. Camille se la mangerebbe viva.>>
<< E pensi che potrebbe farlo anche chi le verrà messo contro in questa partita?>>
L'uomo sorrise divertito. << Oh, assolutamente sì. Deve giocarsi bene le sue carte o rischierà che la sconfitta, per lei, coinciderà con la fine della sua libertà, se non della sua vita. >> disse in tono vago, senza distogliere lo sguardo. Sulla cornea lucida brillava il riflesso freddo dello schermo.
<< Però? Sento che c'è un “però”.>>
<< Però potrebbe darci anche tante soddisfazioni, ha deciso di fare un gioco pericoloso.>>
<< Tutto qui lo è, non c'è nulla di semplice in questa guerra.>> gli fece notare lei.
Ma l'altro scosse ancora la testa, sempre più divertito dalla piega che avrebbe potuto prendere quella storia. Era ovvio che sapesse qualcosa che la sua compagna non sapeva e lei se ne era resa perfettamente conto.
<< Cosa non mi stai dicendo?>> chiese con voce calma, senza fretta, così come aveva imparato ad essere, nervi saldi e sangue freddo.
<< Che la ragazzina, lì, ha deciso che la sua prima e ultima battaglia se la gioca contro due giocatori diversi.>>
Al silenzio che ricevette l'uomo si girò finalmente verso la sua interlocutrice.
<< Non so ancora dirti se sia pura ingenuità, stupidità o un grande colpo di genio, ma pare che la nostra cara Rosa Nera sia riuscita a mettersi contro la sua pedina avversaria e un giocatore aggiuntivo.>>
<< Non si batterà in un uno contro uno come previsto?>>
<< No, c'era un altro segugio che ha fiutato il suo odore ed è stata lei stessa a lasciargli una traccia.>>
<< E dove sarebbe la possibile intelligenza?>>
<< Sta nel fatto che se dovesse batterli entrambi avrebbe eliminato due pedine molto forti.>>
ghignò. << Ma non credo succederà.>>
<< Sono troppo forti?>> domandò l'altra con una nota di stupore nella voce gentile.
I suoi occhi apparivano quasi bianchi, il riflesso dello schermo inghiottiva l'iride e la pupilla come il buio fa con ciò che lo circonda.
<< Sono i mastini dell'angelo.>>





Si mosse nervoso sulla panca del locale. Era arrivato con quasi mezz'ora d'anticipo e malgrado si fosse ripetuto più volte di rimanere ad aspettare fuori, il freddo di Marzo l'aveva fatto desistere. Battendo le dita sul piano graffiato del tavolino Simon si allungò leggermente sopra la marea di persone che quel giorno affollavano il bar in cui si era dato appuntamento con Maureen. Piccola com'era, così timida e tremante, la ragazza si sarebbe potuta tranquillamente mimetizzare con la folla e non trovarlo mai.
Stava quasi pensando di uscire fuori ma questo avrebbe implicato la perdita del tavolo e fare una fila chilometrica per poi sedersi al bancone dove non c'era un minimo di intimità era davvero l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Già si sentiva abbastanza in ansia così come stava, figurarsi poi dover parlare con una ragazza che, tecnicamente, aveva avuto una cotta per lui proprio davanti a baristi e persone in genere di certo più spigliate di lui.
Sospirando si disse che il training con Clary non era servito proprio a nulla. Che tristezza.
Un guizzo color crema attirò però la sua attenzione: muovendosi con fare titubante, stretta nel suo cardigan chiaro quella che aveva tutta l'aria di essere Maureen si guardava attorno come se stesse cercando qualcosa.
Simon rimase imbambolato senza saper cosa fare. Doveva chiamarla? Non l'avrebbe mai sentito in tutto quel frastuono. Forse sbracciarsi? Sarebbe passato per un cretino però
Indeciso sul da farsi si tirò in piedi e alzò un braccio, in attesa che i loro sguardi s'incontrassero in quel locale strapieno.
A vederla così, tutta chiusa in sé stessa, con il maglione che le arrivava alle ginocchia e la giacca di pelle di almeno due taglie più grande indosso, probabilmente anche di taglio maschile da come le stava larga sulle spalle, pareva una bambina che aveva perso di vista i genitori.
Quello era senza ombra di dubbio un pensiero davvero poco gentile, ma non appena la ragazza riuscì a scorgerlo Simon si disse di accantonare le sue inopportune considerazioni e di concentrarsi solo sul suo appuntamento.
Con un sorriso impacciato i due si salutarono, mentre il giovane poliziotto invitava l'altra a sedere e già balbettava qualche frase sconnessa su quando fosse stato difficile vederla tra tutti, se avesse trovato parcheggio o su cosa volesse da bere.
Seduti l'uno davanti all'altra rimasero tutta la serata a chiacchierare di tutto e nulla, dei bei vecchi tempi della Band-dai-mille-nomi, a conoscere frammenti di quel passato che entrambi avevano vissuto sulle stesse scene ma con copioni diversi.



La luna calava su New York City, lo skyline s'illuminava come il cielo stellato che la Grande Mela non poteva vedere, le nuvole coprivano di tanto in tanto il pallido astro gettando macchie d'ombra sull'asfalto ormai freddo.


Il telefono squillò insistentemente, costringendo la giovane donna a non ignorarlo.
Con tono freddo ed infastidito rispose al suo interlocutore.

<< A te la prima mossa. Iniziano le danze.>>



E in quelle ombre, in quelle pozze d'oscurità che s'alternavano sulle strade della città che non dorme mai, il Clan tornava a camminare, a cacciare, a vivere.












   
 
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