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Autore: wanderingheath    09/10/2019    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 7.
 
 
Closer
 
 

 
«Oh, I’m scared to see the ending
why are pretending this is nothing?
I’d tell you I miss you but I don’t know how

I’ve never heard silence quite this loud.

(…) And I’m dying to know
is it killing you like it’s killing me?»


 
 
 
10:14 a.m. - Turtle Rill Reserve
 
 
 
 
La Turtle Rill Reserve si mostrava esattamente come l’aveva descritta il professor Jeggins, assieme al suo collega di biologia, nel tragitto in pullman dall’Arcadian fino alla loro destinazione.
Avevano anticipato la storia del luogo, la leggenda sulla liberazione delle tartarughe e la fuga che svuotava di significato il nome della riserva. L’insegnante di biologia aveva definito il posto un tempio scoperchiato, un vero gioiello di Madre Natura, emozionandosi ancor prima di arrivare.
Sembrava fin troppo entusiasta per lasciar credere di non aver preso parte alla manifestazione dell’86, quando un gruppo di ecologisti, provenienti da tutto il Connecticut, si era riunito davanti alla riserva per impedirne la chiusura.
Daphne aveva seguito in dormiveglia, accuratamente nascosta dalla pesante tenda del finestrino, mentre attraversavano le strade semideserte che conducevano a Nord-Ovest dello Stato.
Si era talmente unita al veicolo da non saper distinguere dove finisse la propria pelle e dove iniziasse il vetro. A malapena aveva chiuso occhio, la notte precedente.
Insieme al fratello si era dedicata alle parole crociate, fingendo che il mondo al di fuori della stanza di Isaac non esistesse. Nel loro piccolo castello di carte le lenzuola assorbivano ogni rumore, il calore annullava brividi agghiaccianti, mentre i lemmi del cruciverba erano l’unica preoccupazione ad occupare il cervello, a tenere ancorati gli occhi sulle pagine in bianco e nero; parole che ne scacciavano altre, molto più forti e grondanti rancore, a rincorrersi e sovrapporsi nelle loro menti.
La mattina aveva tagliato quell’illusione a metà.
Rapida, decisa, indolore. La lama che recideva ogni posticipazione.
Volenti o nolenti, oltre la porta chiusa a chiave un mondo c’era e avrebbero dovuto confrontarlo, affrontarlo.
Quando Daphne era entrata in cucina, ricordava vagamente un pensiero che l’aveva attraversata – una coincidenza quasi ironica – proprio nel momento in cui schiacciava sotto al piede i resti del servizio di bicchieri preferito da Emma Barnett: quello scricchiolio, la percezione di collasso, il vuoto abissale all’altezza dello stomaco, li aveva avvertiti anche durante la sparatoria al Galaxy Hotel.
Le faceva strano ritrovarsele lì, emozioni che aveva pensato – e sperato – di non dover rincontrare a breve.
Per la durata della visita, il professor Jeggins li aveva condotti lungo dei sentieri abbastanza impervi, a tratti fagocitati da piante e arbusti, oppure sconnessi per le radici imponenti di alberi storici che si snodavano tutt’intorno. Il cielo, da qualunque punto di osservazione, sembrava scomparso, chiuso dietro la coltre di fronde.
A seguito di richieste pressanti, aveva concesso alla scolaresca un break, raccomandandosi di non allontanarsi troppo e, soprattutto, di non infrangere la quiete del “tempio sacro di Madre Natura”.
«Ci rivediamo al punto di raccolta tra una mezz’oretta», aveva dichiarato con tono grave. «Puntuali, perché il pullman non attende.»
Alyssa si era eclissata con il gruppo di ragazze che aveva viaggiato insieme a loro all’andata. Voleva comprare qualcosa da mangiare al chiosco sul piazzale, fuori dalla riserva.
Anche lei, in realtà, avrebbe voluto aggiungersi alla spedizione, ma l’idea dell’ennesima merendina o di street food la nauseava. E poi, non sarebbe riuscita a mandare giù niente comunque, con quel gruppo di sconosciute attorno, a commentare e scrutare ogni sua mossa.
«Daffie, vieni con noi?»
Logan la stava osservando insieme a Jason, aspettandola per incamminarsi.
Di fronte ad un suo tentennamento, James le avvolse le spalle e la trascinò con sé davanti alla comitiva.
«Certo che viene con noi! Che altro deve fare? Catalogare le erbacce?»
«Conoscendola, ne sarebbe capace», ironizzò l’altro.
Daphne gli lanciò un’occhiata da sopra una spalla: «La recensione te la scrivi da solo, Logan. Ti ho visto con le cuffiette, prima».
Quello si difese con una smorfia da infante, rifacendole il verso. «Mi scusi tanto, prof
Fu Ethan a interrompere la discussione, dando voce ad un dubbio condiviso: «Dove siamo diretti?»
James parve rifletterci qualche istante sopra, per poi scrollare le spalle e riprendere il cammino a passo ancora più spedito. «Non lo di preciso, ma ho visto un fiumiciattolo prima, che sembrava carino.»
«Il fiume della Liberazione?»
«Credo di sì. Come lo conosci?»
Ethan allargò appena le braccia con l’ombra di un sorriso: «Ho solo ascoltato la spiegazione di Jeggins».
Una decina di minuti dopo, guidati dall’istinto e dal fiuto di James – che sosteneva di essere certo di sentire l’odore del fiume nella direzione in cui si muoveva – erano finiti nel cuore della radura, senza cartelli, senza piantine, senza neppure più un sentiero da seguire. L’ultima stradina l’avevano abbandonata per inerpicarsi tra tronchi rasi al suolo e terreno fangoso.
James inchiodò infine tra un paio di querce, tastando la corteccia di entrambe con aria da esperto. Voltatosi verso il resto del gruppo, decretò: «Direi che non è qui, il fiume».
L’affermazione mandò in agitazione Daphne. «Significa che ci siamo completamente persi?»
«No,» un dito alzato per rettificare, «non completamente. Solo un pochino.»
«James!»
«Se ci fosse stato Travor, avrebbe saputo come orientarsi», osservò Jason.
Logan sembrò illuminarsi. «Provo a chiamarlo.»
Aveva già estratto il cellulare, quando un urlo lo fece sobbalzare.
«Non c’è campo nella riserva, Logan!» esplose Daphne. «Se avessi seguito, lo sapresti anche tu.»
A propria volta, Ethan, nella disperazione generale, stava smanettando con il telefono, provando ad avviare la geolocalizzazione, mentre gli altri attendevano in fibrillazione. Il ragazzo scosse la testa, affranto. «Confermato. Nessun segnale.»
A Daphne sfuggì un grugnito esasperato.
«Dato che hai ascoltato tutto, perché non ci guidi tu all’uscita, studentessa modello?»
«Ti torna utile, però, la studentessa modello, eh? Opportunista del cazzo.»
Ethan si frappose fra i due, che si stavano avvicinando quali cani rabbiosi pronti a sgozzarsi. Con una mano premuta sul petto dell’amico, sospinse Logan, sperando anche nel sostegno dei presenti, che invece rimanevano immobili a valutare il territorio. «Ragazzi, non c’è bisogno di scaldarsi in questo modo.»
«Ha cominciato lui», ringhiò Daphne.
«È lei quella sempre incazzata!»
Ethan sospirò con pazienza. «D’accordo, ma rimandate a dopo la questione. Ora dobbiamo uscire da qui.»
I due ignorarono apertamente qualunque tentativo di pacificazione.
«Io sarei quella incazzata? Sono giorni che mi provochi.»
«Sì, incazzata,» Logan stava annuendo convulsamente, «non si capisce mai cosa diamine hai, cosa ti passa per la testa, e all’improvviso sbotti, diventi aggressiva. Riversi odio addosso agli altri, senza motivo.»
L’eco delle loro voci si amplificava di angolo in angolo, riflesso dai tronchi, spezzato dai massi, ingabbiandoli in una pesantezza disarmante.
Daphne sentiva scricchiolare le nocche, le dita sprofondate in pugni ferrei.
Nella mente scorrevano solo immagini spezzate, ritagli di memoria reclusi in un cantuccio, che qualcuno adesso riversava tutt’insieme, in un calderone di emozioni singhiozzanti.
Lasciò che le ribollisse il sangue, senza cedere al sottobosco di sensazioni incatenate. 
«Un motivo c’è, evidentemente.»
«Sì, ma dovresti esternarlo! Almeno le persone normali si comportano così.»
Lei spalancò la bocca.
«Normale?» Amareggiata, una risatina le raschiò la gola. «Cos’è? Il manuale dell’esistenza ideale?»
Logan era impassibile, di una serietà disarmante, impiegata poche volte nella propria vita. Lo sguardo freddo, la fronte distesa, il tono incolore. «No. È quel che significa essere amici.»
«Bene.»
L’altra raccolse il proprio zainetto da terra, infilando in fretta un solo spallaccio.
Asciutta, meccanica, tagliente.
«Mi spiace non essere un’amica, o anche solo una persona, normale
S’incamminò in una direzione casuale, la prima salita ripida che le si parava davanti, avanzando ad ampie falcate tra l’erba alta che lambiva gambe e fianchi, simile ad una pianta rampicante.
«Daphne! E dai, Daphne, non fare l’immatura», le urlò dietro Jason.
James sbuffò, pestando i piedi in terra. «Fantastico. Tanti saluti alla “sacra quiete” del tempio di Jeggins.»
Intanto, la figura della ragazza si defilava sempre di più, risucchiata dal luogo come se ne avesse da sempre fatto parte e fosse semplicemente tornata al proprio habitat originario.
«Qualcuno dovrebbe seguirla», osservò Ethan, meditabondo.
Gli sguardi di tutti i presenti collimarono su Logan, che se ne stava in disparte con le mani affondate nelle tasche della felpa. Lasciare che si perdesse ulteriormente nella radura sarebbe stata una punizione adeguata, un risarcimento più che lecito che avrebbe esatto e sfruttato, in un’altra circostanza.
«Non ci penso proprio», replicò con astio. «Così magari la smetterà di recitare la parte dell’incompresa.»
 
 
*    *    *
 
 

Durante la pausa pranzo, nei corridoi dell’Arcadian si era scatenato uno sciame di studenti.
Sembravano confluire tutti nel grande ingresso, davanti al portone principale, sagome in controluce sulle ampie vetrate azzurro polvere.
Piuttosto singolare, considerata la corsa all’oro che si verificava a quell’ora, con la mensa come meta fissa.
Melanie scrutava circospetta i flussi di coetanei febbrilmente presi dalla notizia degli ultimi istanti, senza riuscire a definirne il contenuto. Cos’era avvenuto, questa volta?
Richiuse l’armadietto inserendo il codice della serratura. Non le erano mai capitati furti o tentativi di scassinamento, ma considerato il clima di quell’ultimo periodo, non si sentiva del tutto al sicuro.
Quasi rimpiangeva gli anni trascorsi in completo isolamento, quando camminare per i corridoi non significava altro che raccogliere qualche sguardo di disprezzo o un paio di commenti sottovoce. In fin dei conti, nella solitudine aveva trovato una propria stabilità. Malsana, forse più preoccupante di quanto gli sguardi di zia Lydia segnalassero, ma era il suo equilibrio di anonimità. L’unico prezzo da pagare era il
vuoto attorno a sé.  
Invece, dall’episodio del pestaggio di Cindy – e poi dell’inspiegabile sparatoria al suo compleanno – era come tornata sotto ai riflettori. Proprio come durante i primi tempi all’Arcadian.
Gli studenti, perfetti sconosciuti, per tutta la settimana avevano disprezzato apertamente il suo modo di acconciarsi, di camminare, la media bassa, la squadra sportiva di cui faceva parte, riconducendo anche solo il suo nome alla disgrazia della Butler.
Fu quando riconobbe la figura minuta, ben proporzionata, di Cindy, avvolta da un seguito di coetanei adoranti, che realizzò cosa stesse avvenendo.
Il suo rientro doveva aver destato scalpore e spiegava perfettamente le stesse voci che circolavano sul suo possibile coinvolgimento. D’altronde, era stata Melanie ad aver sperimentato in prima persona la raffica di proiettili e ad aver salvato ben due vite per un soffio. I riflessi pronto talvolta tornavano utili.
Accanto alla tanto traumatizzata protagonista della scena, individuò anche Lisa.
Sembrava turbata. Non certo a disagio per la calca, a cui probabilmente era abituata fin da piccola, ma la fronte appena aggrottata, quella strana virgola espressiva che le incrinava lo sguardo, evidenziava un’inquietudine più profonda.
Il desiderio di raggiungerla, tirarla da parte e parlarle in completa serenità, come quella sera, quando le si era rivelata fragile e autentica, la lacerava. Fu qualche breve secondo, il tempo di sentir scoppiettare le viscere e reprimere l’istinto di scavarsi un tunnel tra gli astanti, fin nell’atrio; poi, tornò al proprio libro di storia.
Una “C-” aveva macchiato il suo ultimo test. Forse, avrebbe fatto meglio a preoccuparsi di quello, piuttosto che di gossip.
«Come mai tutta questa baraonda?»
Melanie comprese con un leggero ritardo che qualcuno la stava interpellando.
Sollevò il capo, perplessa.
Davanti a sé, una giovane dalla chioma sbarazzina e lo sguardo altrettanto vivaci; gli occhi, con giochi di azzurro e screziature più intense, la interrogavano con una punta di divertimento.
«Oh, è solo… tornata Cindy Butler.»
«Chi?»
Melanie pensò all’istante che fosse uno scherzo. Voltata la schiena, si indirizzò alla mensa.
Era certa di averla seminata, ma la voce squillante le si ripresentò poco dopo accanto.
L’estranea le camminava vicino, saltellando appena per mantenersi al passo.
«E dov’era finita, questa Cindy?»
«A casa», replicò asciutta l’altra. «Sconvolta.»
«Da…?»
Non riusciva a credere che l’ingenuità delle domande e la rapidità con cui ne assommava altre potesse essere reale. Melanie la scrutò di sottecchi.
D’accordo, sarebbe stata al gioco, per vedere fin dove si sarebbe spinta quella pagliacciata.
«Dalle revolverate al suo compleanno.»
La ragazza si morse un labbro, preoccupata. «Beh, comprensibile. È rimasta ferita?»
«No. Nessuno l’ha sfiorata. Si sono limitati a creare del panico nell’hotel.»
Il discorso sembrava terminato, quando l’altra osservò spontaneamente: «Forse era solo un’ammonizione».
Melanie iniziava ad innervosirsi. Perché non voleva smetterla?
«No», ripeté asciutta. «Si dice fosse solo una ragazzata. Qualche idiota voleva divertirsi a seminare scompiglio.»
«Improbabile. Hai parlato di hotel», ribatté la sconosciuta. «Ragazzini che eludono la sicurezza? Molto improbabile.»
Soltanto ora che qualcuno l’aveva menzionata, quell’ipotesi cominciava a prendere forma nella sua testa.
In realtà, anche a lei stonava la spiegazione proposta, ma… perché utilizzare una copertura? Soprattutto quando i filmati del Galaxy avrebbero sanato ogni dubbio.
Restava il fatto che la scusa della “ragazzata” traballava.
«Cosa ne pensa la polizia?»
«Quello che ti ho appena detto.»
La ragazza stava già aprendo bocca per innescare un’altra serie di quesiti, ma Melanie la precedette. Si bloccò davanti al carrello con i vassoi in plastica, guardando dritta negli occhi la sua interlocutrice.
«Senti, perché non diamo un taglio a questa pantomima? Lo sanno tutti cos’è avvenuto.»
L’altra scrollò le spalle. Con quel semplice, insignificante gesto, le ricordò una bambina.
«Io no. Altrimenti, non te l’avrei chiesto.»
Melanie afferrò un vassoio, diffidente. Sentiva di dover procedere con cautela, come un animale braccato, nel categorizzare la sconosciuta. Era limpida, sincera? O stava cercando di estrapolare qualche informazione per conto della Butler, attendendo solo che si incastrasse da sola?
«Sei nuova?»
Quella, per tutta risposta, le tese la mano con un sorriso: «Frances Hurst, piacere mio».
Anche senza l’ingombro del portavivande, Melanie non gliel’avrebbe stretta.
«Puoi chiamarmi Frannie», precisò subito. «È più carino.»
L’unico aspetto positivo nella combinazione giornaliera di gita scolastica e ritorno in grande stile, risiedeva nello svuotamento della mensa. Mel si piazzò davanti alla cuoca senza alcuna fila.
Frannie la imitò, piegandosi sulla vetrina per esaminare le vivande.
«Non offrite molto in questo istituto.»
Aveva un accento appena diverso, ma difficile da identificare con chiarezza.
La domanda sulla città di provenienza quasi le scappò dalle labbra, ma riuscì a serrarla e a rimangiarsela. Non avrebbe provato a legare con lei. Sapeva come sarebbe andata a finire: nel giro di un paio di settimane, una volta ambientatasi, l’avrebbe evitata o denigrata come tutti gli altri.
«A parte le frittate», proseguì Frannie. «Ne ho provata una, martedì, che non era davvero niente male.»
Melanie sbatté il vassoio sul ripiano metallico, facendo sussultare l’altra.
«Se sei veramente nuova, dovresti evitare di rivolgermi la parola.»
«Oh,» appariva mortificata, «perché mai?»
Già… perché? Forse Cindy, il suo gruppetto o tutto il resto dell’istituto sarebbe stato ben contento di darle delucidazioni in merito. Optò infine per la risposta più fresca e facile, che sperava avrebbe esaurito i dubbi: «Perché credono che sia legata alla sparatoria».
Frannie la squadrò contrariata. «Ed è vero?»
«Non ha importanza», liquidò l’altra. «La gente è convinta che io sia una mezza pazza. E forse hanno ragione.»
L’occhiataccia dell’inserviente, che le stava porgendo un piatto fumante di poltiglia non meglio identificata, sembrò confermare le sue parole.
«Non ho mai creduto alle voci di corridoio», replicò Frannie. «Mi sembri una persona normalissima.»
«Normale, eh?», ridacchiò Mel. «Ma, in fondo, chi è che stabilisce i criteri di normalità?»
La riposta le uscì in automatico: la maggioranza. Ormai era partita per la tangente.
«E tu come giudicheresti qualcuno che picchia a sangue una povera vittima?»
Non diede all’altra possibilità di replica. Recuperò il vassoio e si diresse verso un angolo vuoto della sala, ad un tavolo singolo. «Fidati, Frances, stammi alla larga, se vuoi costruirti una vita sociale, qui dentro.»
 
 
 
 
*   *   *
 

 
I richiami di specie a lei sconosciute costruiva un manto sopra il suo capo.
Gli unici rumori a fare da contrappeso erano il fruscio di un vento crescente, che si caricava di potenza ed elettricità di secondo in secondo, portando con sé stormi di foglie variopinte.
Da lì era impossibile definire se si stesse preparando un temporale, ma le previsioni davano pioggia per il primo pomeriggio. Aveva sperato in una gita più breve, ma i due colleghi si erano dilungati oltre il dovuto, nella speranza di trasmettere loro almeno un frammento dello stesso entusiasmo che li animava.
A lei era pervenuto solo un senso di insofferenza. Insofferenza alla situazione presente, ma anche al passato – più recente e remoto – e al futuro immediato.
Seduta tra l’erba umidiccia, ne strappava alcuni fili con indifferenza, falciatrice automatizzata, robotica.
Forse avrebbe fatto meglio a seguire Alyssa.
Era una vita, ormai, che seguiva Alyssa, in un modo o in un altro.
Perché abbandonare vecchie abitudini, certezze dal sapore stantio?
La abbattevano, ma al tempo stesso costituivano la sua comfort zone: niente quesiti, niente provocazioni, solo il paludoso ribollire di emozioni anestetizzate.
Un rumore di passi, felpato, quasi accompagnato dal prato, la raggiunse alle spalle.
«Vattene, James. Non sono dell’umore.»
Il secco cedimento di un ramoscello, accanto a sé, la fece scattare. C’era solo un paio di jeans scuri, aderenti, per metà coperti da una giacca a vento verde. Trattenne il respiro, incredula.
«Posso?»
Daphne annuì piano, spostando lo sguardo altrove.
Ethan si accomodò accanto a lei, stringendosi nell’impermeabile con un brivido: «Fa freddino da queste parti, eh?»
Scrutava il profilo della ragazza, cercando di carpire un accenno di sorriso o anche solo un’increspatura delle labbra. Non ottenne alcuna risposta.
Reclusa nel fagotto azzurro che spacciava come giacca, Daphne Barnett pareva concentrata esclusivamente sul contorno di alcune querce, sulla pioggia amaranto che un acero riversava a terra.
«Lo so che sei arrabbiata», iniziò misurando le parole. Era come se fosse lui il diretto interessato. Si sentiva responsabile, nel vestire i panni di Logan, di una sorta di risarcimento emotivo.
Per qualche strana ragione, che non riusciva a spiegarsi, poteva percepire quel flusso di malessere. No, si trattava di qualcosa di più: gli sembrava di assumere su di sé il misto di rabbia, insoddisfazione, rancore.
Conosceva poco Daphne, eppure un’idea di lei se l’era fatta; sicuramente un tipo riservato, serio, e fino a quel momento avrebbe detto non reattivo.
Non si sarebbe mai aspettato una separazione così categorica dal resto del gruppo.
Trattare con lei era come incuneare spilli in una parete rocciosa. Dove avrebbe trovato un nervo scoperto?
«Logan ha un po’ esagerato prima, ma era in panne come tutti.»
«Logan non possiede tatto», obiettò lei. «Pretende di avere ragione, come se avesse trovato la formula magica per ogni problema, come se io gli dovessi qualcosa.»
Ethan trattenne un sorriso, per evitare di offenderla. Lo divertiva quel tono infantile, scorbutico e capriccioso. Contrastava così tanto con l’idea di timorosa riservatezza che esibiva di solito.
«Beh, però ha ragione,» riprese lui, «sul fatto della comunicazione. È la base di qualunque rapporto.»
Daphne strappò un altro ciuffo d’erba con vigore: «Allora forse io non sono fatta per i rapporti umani».
«Dai, sii realistica.»
Lei si passò una manica sul viso, tirando su col naso. Non le importava un accidente di quel che supponeva di sapere Ethan Sallinger. Neppure lei riusciva a leggere con chiarezza dentro di sé, a comprendere tutte le sezioni della propria anima, figurarsi provare a spiegarle a qualcun altro.
«Sono complicati, i legami.»
Ethan ebbe la sensazione che non stesse più parlando con lui, ma con se stessa. Il mento piegato sul petto e lo sguardo inquinato inchiodato sugli steli bagnati: Daphne sembrava impegnata in una proiezione tutta interna, inscenata oltre le iridi, racchiusa nella scatola cranica; sviluppava dei fotogrammi a cui nessun altro aveva accesso.
L’intera faccenda lo incuriosiva.
Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, si sentì osservare: «Eh sì, complicati. In realtà, le forme inscritte sono piuttosto semplici, ma noi ce le complichiamo, perché siamo esseri umani e ci piace avviluppare, intricare.»
Daphne assentì. Lo trovava sensato.
Irrazionale e connaturato, ma per questo sensato.
Il problema era che, da quella mattina, non aveva fatto altro che pensare a un centinaio di cose insieme, permettendo ai ricordi di spodestare il presente, che a propria volta si ricongiungeva agli anni trascorsi, alle scelte sbagliate, affogandole in un’onda anomala.
Avrebbe voluto invertire rotta, proprio adesso, senza rimandare per chissà quanto ancora, ma l’idea stessa di affrontare l’ostacolo la prosciugava. Si chiedeva come fosse possibile riprendere in mano un legame sbiadito, il frammento di un’immagine che non possedeva più nella sua interezza; certo, riviveva nella memoria, ma erano due persone diverse quelle che si confrontavano sul ring attuale, non più due bambine dalle mani avvinghiate.
E Daphne non capiva, proprio non comprendeva, come fosse possibile perdere tutto, come se mai fosse esistito, rifiutando, rinnegando il carico di tenerezza e complicità che non significava più nulla.
Tutte quelle stoviglie distrutte, le guance di Emma Barnett impiastrate di mascara, la sedia del padre vuota, a colazione… per lei diveniva solo l’ennesima sedia vuota. Come quella lasciata da Melanie.  
Sul palato sentiva il retrogusto salato di lacrime non destinate ad affiorare.
Non ce la faceva, a piangere; non davanti ad Ethan. Avrebbe preferito una completa solitudine a cui abbandonarsi.
«A cosa pensi?»
Daphne lo guardò con un velo di sorpresa. La stessa, identica, domanda di Logan.
Nulla in Ethan Sallinger gridava perfezione. Forse un bel paio di occhi castani, la mandibola appuntita, spigolosa, un’altezza e un fisico nella media; ma, a parte questo, non era un tipo da calamitare attenzioni.
Quel che stonava più di tutto, e che le piaceva immensamente, era l’attrito fra l’energia positiva che emanava di solito e la strana, pacata malinconia incastonata, adesso, nel viso, tra gli angoli della bocca.
L’intera malia che la soggiogava era nel sorriso quasi stoico, eppure adombrato, che le stava rivolgendo.
«Mi chiedo…» biascicò. Una schiarita di voce, poi: «Credi sia possibile non provare più nulla per qualcuno, restare del tutto indifferenti, dopo avergli donato una quantità incommensurabile di amore?»
Ethan prese in considerazione la domanda, se la rigirò tra i denti, macinando le possibili risposte.
Gli occorse del tempo prima di rispondere.
«Sì», ammise infine. «È terribile, ma credo di sì.»
Daphne sentì affondare il groppo incastrato in gola.
«E…» non riusciva a proseguire e a trattenere al contempo le lacrime. Fece uno sforzo ulteriore, aiutandosi con un lungo sospiro. «Dove pensi che finisca?»
«Non lo so.»
Notò che non sarebbe stato sufficiente. L’idea che fosse possibile rompere ogni laccio annodato a due estremità pareva ingrigire ancora di più Daphne.
Non poteva lasciarla con quell’ultima considerazione.
«Però,» continuò con più entusiasmo, «so che, ovunque finisca, tutto quell’amore di cui parli c’è stato. È esistito davvero, anche se non puoi più testarlo. Puoi imparare a prenderti cura degli stupendi tasselli che restano. Per trasformarli in qualcosa di completamente tuo, per riassorbirli.»
Daphne annuì, di poco sollevata.
Le assestò una spallatina d’incoraggiamento. «Dai, adesso raggiungiamo gli altri. Dobbiamo trovare l’uscita. Non voglio passare la notte nella riserva delle tartarughe.»
Si rialzarono in piedi, scrollandosi dai jeans terriccio, erba e qualche insetto avventuroso.
Stavano per percorrere a ritroso la strada, quando si accorsero di una terza presenza.
«Da quanto tempo è arrivato?» bisbigliò Daphne.
Ethan si strinse nelle spalle. «Fossi in te, andrei a parlargli.»
In un paio di falcate l’aveva raggiunto. Logan se ne stava appoggiato al tronco di un acero, ad attendere.
Daphne si rimangiò il filo di stizza che ancora le serpeggiava in gola.
Dondolava il busto da una parte all’altra, come una bambina castigata. «Scusa.»
L’aveva mormorato, augurandosi che potesse bastare. Sentì però il bisogno di aggiungere: «Per essermi arrabbiata con te. Non c’entri nulla, sono solo molto stanca, in questo periodo.»
Logan attese qualche secondo, imperscrutabile. Poi, scosse il capo.
«Vieni qui, Miss Perfettina.» L’avvolse in un abbraccio.
Allora le lacrime perforarono la superficie, rigando la felpa del ragazzo.
Dapprima resistente, Daphne lo strinse a sé.
«Non mi importa niente delle convenzioni e della “normalità”. Mi dispiace solo vederti soffrire da sola.»
Fu Daphne a sciogliersi e ad esortarlo a trovare gli altri. Jeggins li avrebbe uccisi, se avessero tardato.
Prima che potessero incamminarsi, Logan la trattenne per un braccio. «E, comunque, l’amore offerto non finisce da nessuna parte. Ethan è un coglione.»
«Come?»
«Resta sempre, se conservi la speranza.» Una pausa, poi asserì con decisione: «Quindi smettila di frignare e prova a parlare con Melanie».
«Cosa», balbettò l’altra. Assunse un’espressione indispettita.
Come si permetteva?
«Cosa c’entra Melanie con tutto que--»
Logan sbuffò. «Va bene, non c’entra niente. Ma ti manca, e non negare», la zittì puntandole un indice contro. «Lo sappiamo entrambi che è vero.»
La sospinse verso il declivio su cui si erano inerpicati prima. «Un sentimento si spegne, non sparisce. Può morire, finire sepolto sotto strati di accettazione, o trasformarsi, ma mai dissolversi. Quindi, parlale.»
 
 
 
 
Trovarono James e Jason intenti a scrutare delle coccinelle sopra ad un masso, in pieno dibattito su habitat e alimentazione delle stesse.
Non appena li videro arrivare, si raddrizzarono, nervosi. A giudicare dall’espressione del trio, doveva essersi verificata un’evoluzione positiva.
Il primo dei due strillò, in fibrillazione: «Ho trovato il fiume!»
«Stai scherzando, spero», lo freddò Logan. «Torniamo al piazzale dei pullman.»
«Dopo tutto questo casino, rinunciamo al fiume?»
Jason gli diede manforte, affermando di aver sentito anche lui il rumore di acqua corrente, lì vicino. Dovevano essere pochi metri.
Dieci minuti più tardi, il fiume l’avevano trovato, o più precisamente il piccolo ponte che lo sovrastava. Era uno di quelli classici, in legno, dalla forma arcuata, sospeso ad un’altezza non indifferente.
James vi si precipitò sopra, saltando con una rapidità leporina sulle travi.
«È bellissimo, ragazzi! Venite a dare un’occhiata.»
Perfino Ethan sembrava aver recuperato l’abituale vigore. La malinconia era sparita in un soffio, lasciando posto solo ad un entusiasmo che faceva da cassa di risonanza all’amico.
James !!!sorrise, beffardo, a Daphne. «Ti sfido ad oltrepassare la ringhiera. Secondo me, non avresti mai il coraggio di farlo.»
Gli altri motteggiavano, condividendo l’osservazione.
«Perché mai?»
«Perché sei troppo controllata, Daffie! Un po’ di rischio, ogni tanto, ti farebbe bene.»
«Soltanto perché non sono irresponsabile quanto te, non significa che sia controllata.»
Logan la tirò per una manica: «Dai, lascia stare. Lo sappiamo che hai paura.»
Lei si guardò attorno, certa che non vi fosse nessun altro nei paraggi. Poi, prese a sfilarsi le scarpe e, liberatasi anche della giacca, bofonchiò: «Controllata, io... adesso vedremo.»
Con estrema lentezza saldò entrambe le mani alla ringhiera di legno, facendo forza sulle braccia. Un ampio movimento ed era già cavalcioni sulla balaustra. «Lo faccio solo se scavalcate con me. O forse ve la fate sotto?»
Ethan non se lo fece ripetere due volte. In pochi istanti, erano l’uno accanto all’altra, con le piante dei piedi ben incollate al poco spazio che rimaneva, prima del vuoto.
I seguenti furono James e Logan, mentre Jason estraeva il cellulare per scattare una foto.
«Che ne dici, Barnett?»
Ethan le assestò una gomitata: «Ci tuffiamo?»
L’altra sgranò gli occhi. Il cuore iniziò ad accelerare la propria corsa, comprendendo solo sul momento in quale guaio era andata a cacciarsi. Tuffarsi? Sarebbe stato contro ogni raccomandazione – e contro ogni briciolo di coscienziosità – non poteva… o poteva?
Gettò un’occhiata alla corrente sotto di sé, lasciandosi inebriare dagli spruzzi d’acqua che arrivavano fin lì. La voce del fiume esondava dagli argini, raggiungeva le concavità degli alberi, s’infiltrava tra le chiome più alte. Un brivido.
«Al mio tre», replicò con un sorrisetto. «Uno…»
Logan li scrutava entrambi con incredulità. «Non vorrete farlo davvero…»
«Due…»
Un urlo allarmato. Sobbalzarono tutti e quattro.
Jason stava strattonando Logan per un braccio: «Ragazzi, c’è Jeggins».
La sagoma dell’insegnante avanzava con difficoltà sul sentiero dissestato, liberandosi di rampicanti e inciampando di tanto in tanto sulle radici sporgenti. Li stava chiamando per nome, in cerca degli studenti mancanti all’appello.
«Cazzo, cazzo, cazzo. Cosa facciamo?»
James mollò tutti i capi sparsi nelle braccia dell’amico, spingendolo verso l’altra estremità del ponte. «Presto, nascondi i nostri vestiti dietro la roccia.»
Mentre il ragazzo ubbidiva, gli altri quattro si scambiarono un rapido cenno di assenso. Non restavano molte alternative, arrivati a quel punto.
«Tre!»
 
 
 
*   *   *
 
 
 
 
Si erano gettati tutti insieme.
L’impatto con l’acqua gelida aveva lacerato le ossa, così come la ridotta profondità del fiume.
Per fortuna, nessuno era riemerso con fratture o contusioni varie, ma lo schiaffo ricevuto dalla superficie e dal fondale dissestato era stato sufficiente.
Soltanto Jason aveva dovuto pagare il prezzo della scampagnata con un rimprovero amaro da parte del professore, per coprire loro le spalle.
Gli era stato assegnato un saggio aggiuntivo da Jeggins, mentre gli altri se l’erano cavata con un semplice rimbrotto. Di fatto, avevano raggiunto il piazzale dei pullman prima del professore. Motivo per il quale erano fradici da capo a piedi? L’improvviso acquazzone scatenatosi pochi istanti dopo la bravata.
James si era convinto della protezione di un santo, o qualcosa di affine.
Se non erano stati scoperti, lo si doveva davvero ad un miracolo.
Per tutto il tragitto di ritorno, la mente di Daphne pulsava attorno ad un’unica immagine: la mano fredda di Ethan premuta sulle labbra, mentre le intimava di non fare rumore. Si erano nascosti dietro ad un mucchio di sterpaglie, in un punto più profondo del fiume, rimanendo immobili sul pelo dell’acqua, ghiacciati nelle posizioni e simili a sculture.
E ci ripensava anche adesso, che era stipata sull’autobus ripartito dall’Arcadian, al profumo della pelle di Ethan, alla morbidezza di quelle mani che chiedevano silenzio, promettevano protezione.
Daphne sospirò, abbandonandosi allo schienale del bus.
Doveva recarsi allo Zenzer Bazaar, per riprendere Isaac e rincasare assieme. L’avviso, l’aveva ricevuto nel pomeriggio, da parte di un’Emma Barnett allarmatissima.
Né lei, né tantomeno il marito, avrebbero potuto dare uno strappo al figlio. Che ci pensasse lei, comportandosi da sorella maggiore, una volta tanto. E che si occupasse anche della cena; loro non avevano tempo per dedicarsi a sciocchezze del genere.
Li detestava quando facevano così. Non sapeva neppure se avessero chiarito tra di loro, né cosa avrebbe atteso lei ed Isaac, una volta rientrati in casa. L’ennesima notte insonne? Forse, avrebbe fatto meglio a comprare un cruciverba di scorta.
Scese alla fermata indicata dal gps, dietro ad un’anziana signora carica di buste della spesa.
Il vento autunnale s’insinuò nel colletto della giacca, strappandole numerosi brividi. Portava ancora indosso gli stessi vestiti umidi della mattina, i capelli scompigliati attaccati al volto. Pregò di non essersi beccata un raffreddore. Maledetto James e le sue sfide infantili.
Un messaggio. Il cellulare vibrò nella tasca, mentre scendeva i gradini del bus.
“Mi danno un passaggio i Krimston. Non venire, faccio tardi. Ci vediamo a casa.”
Daphne rimase a fissare lo schermo per una manciata di secondi.
Il clacson dell’autista la riscosse, costringendola ad approdare in fretta al marciapiede.
Fantastico. Si era fatta l’intera traversata per nulla.
Ricacciò il telefono, ad un pericoloso nove percento, nel giubbotto. Doveva solo attraversare la strada e prendere la corriera nella direzione opposta.
Certo che Isaac avrebbe potuto comunicarle un po’ prima il cambio di programmi, anziché farla finire a…a… ma dove diamine era?
Daphne si guardò attorno con un senso di vuoto alla bocca dello stomaco.
Aveva sbagliato fermata?
Un passante stava indicando la palina dai nominativi sbiaditi. La vecchina davanti a lei gli spiegava placidamente che c’erano dei lavori in corso, lì a Lowhood, per cui molte linee erano deviate.
Lowhood?
Dannazione. Come aveva fatto a capitare a Lowhood?
La giornata si stava concludendo proprio come era cominciata: uno schifo.
«Per fortuna questa signorina mi ha avvertita,» stava seguitando l’anziana, «altrimenti sarei rimasta disorientata.»
«Sì, hanno spostato la fermata», si aggiunse un altro astante.
Daphne si voltò, nella speranza di ottenere qualche informazione anche sul proprio tragitto.
«Scusate,» si intromise, «si prende qui il bus 114?»
L’anziana dissentì e lentamente picchiettò sullo zaino di una ragazza con il volto coperto per metà dai capelli scuri e ribelli.
«La signorina qui può darti una mano.»
Chiamata in causa, Melanie Prescott si mostrò spaesata.
Ancor di più, nel ritrovarsi davanti Daphne Barnett.
   
 
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