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Autore: _Lightning_    11/10/2019    5 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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Prologo
 

 
“Morire non è nulla. Non vivere è spaventoso.”
V. Hugo
 
 
Giugno 2018, Wakanda [1]
 

Morto. Thanos è morto.

E Tony non prova alcuna emozione. Un briciolo di sollievo, uno sprazzo di esultanza, un fremito di appagamento: nulla. Il suo petto rimane inerte, viene mosso solo dal ritmo obbligato del respiro. Un sibilo fioco che gli fa stridere le costole ancora contuse e che gli tende il fianco sensibile e caldo al tatto, di nuovo infiammato.

Stringe le mani e il dolore acuto dei tagli che le solcano risale fino all'avambraccio, lungo i tendini rigidi. Il suo corpo è troppo teso, una corda sul punto di spezzarsi, ma non è in grado di rilasciare la tensione. Sembra solo aumentare con ogni minuto che passa e che gli fa serrare sempre più i denti in una morsa dolorosa che soffoca ogni suono.

Abbassa di nuovo gli occhi sul cellulare, posato davanti a lui sul davanzale dell'ampia vetrata sul quale si è accovacciato. Si china e preme il tasto per accendere lo schermo; lo sblocca col pollice e deve tentare più volte perché i cerotti mascherano l'impronta digitale. Ignora le decine di chiamate perse di Rhodey. Il messaggio di Rogers riappare davanti ai suoi occhi, nella sua cornice azzurra falsamente rassicurante, scritto in caratteri troppo anonimi per il suo contenuto:

Thanos è morto, ma aveva distrutto le gemme. Le abbiamo perse.

Lo legge e lo rilegge, nonostante l'abbia già fatto migliaia di volte. Perse. Le abbiamo perse. Stringato, telegrafico, una comunicazione di guerra dal fronte rivolta ai soldati rimasti indietro. Serra di nuovo i pugni facendo tendere i cerotti, e ne sente uno che si scolla dal palmo, scoprendo il solco vermiglio sottostante.

L'ha persa, l'ha perso. Pepper, Peter. Li ha persi.

Continua a ripeterselo perché, per quanto tenti di afferrare il concetto, quello continua a sfuggirgli: svicola dalla sua mente e si rintana nella voragine che gli si è aperta nel petto. Lo fissa dal buio. Un animale notturno pronto ad emergere non appena chiuderà gli occhi. Preme la fronte contro le ginocchia ripiegate e non li chiude neanche adesso, anche se gli bruciano da impazzire. È ancora troppo disidratato per riuscire a piangere. Forse non avrebbe dovuto sfilarsi la flebo dal braccio. Forse non avrebbe dovuto fare molte cose, incluso tornare vivo da Titano, anche se in effetti non si sente davvero vivo. Si sente scomparire, come tutti gli altri.

Stringe di nuovo con forza i pugni, scatenando un dolore acuto che lo riporta al qui e scaccia quel desiderio inespresso e sfiorato più volte. Si costringe a respirare; inspira dal naso ed espira dalla bocca. È diventato esperto a controllare il panico, ma stavolta sa che è diverso: di cos'altro dovrebbe aver paura, ormai? La sua paura peggiore si è appena avverata.

Quello che minaccia di annegarlo è solo dolore, nella sua forma più pura, di quello che straborda dagli occhi e strizza il petto come uno straccio bagnato. Ma lo respinge, lo respinge sempre, come ha continuato a fare per quelle ultime quattro ore, perché non si merita nemmeno di piangere. Forse, in fondo, non si merita nemmeno di morire, ma di passare il resto della propria esistenza a spingere aria dentro e fuori dal proprio corpo cercando di non diventare folle.

Solleva il volto e si poggia di nuovo al vetro, col cellulare ai suoi piedi pronto a mostrare di nuovo il suo messaggio incomprensibile. Fuori, sulla savana, il cielo è assurdamente rosa, screziato da pennellate di un arancio che pensava impossibile, così intenso che sembra bruciargli dentro. Qualcosa gli dice che non soffrirà mai il mal d'Africa, almeno non nel senso comune del termine; non potrebbe mai mancargli un luogo così pieno di cenere, così rosso. Continua comunque a seguire le variazioni di tonalità del tramonto finché non scendono nelle tinte fredde del crepuscolo. Una sfumatura più pacata, che per un istante sembra lenire il bruciore agli occhi, pesanti di sonno rifiutato.

D'un tratto sente dei passi, diretti proprio verso di lui, e trattiene un respiro: la missione fallimentare deve essersi ufficialmente conclusa e questo significa dover intavolare discorsi inutili con persone con cui non vuole parlare. Nemmeno con Rhodey, soprattutto non con Rogers. Rimane in ascolto, e quelli che si avvicinano sono passi leggeri, quasi felpati – decisamente non militareschi. Considerando che qua dentro c'è una sola persona che non si muova con la grazia degli elefanti che stanno passando ora pigramente all'esterno, non si cura neanche di voltarsi a controllare chi sia.

«Nel caso non fosse intuibile, voglio stare solo, Romanov,» dichiara saltando i convenevoli, contro il vetro appannato dal suo respiro.

La voce gli esce molto più debole delle sue intenzioni, in un sussurro roco. Lei lo ignora, come fa spesso, e si siede invece di fronte a lui sul davanzale, braccia e gambe incrociate. La osserva con la coda dell'occhio e la vede pallida, col volto smunto come se anche lei avesse quasi digiunato per un mese. Vorrebbe dirle qualcosa, ma ha appena deciso di non alimentare più la speranza che aveva continuato a covare dentro di lui; quindi come potrebbe ravvivare la sua? Neanche lui è così ipocrita.

Natasha adocchia le sue mani bendate senza esternare alcuna sorpresa. Non parla: sa già tutto, come sempre, chissà come.

«Sei passato in infermeria?» gli chiede soltanto.

«Perché dovrei?» sbuffa lui. «Puoi improvvisarti di nuovo crocerossina, se vuoi, ma stavolta me la sono cavata piuttosto bene.» [2]

A riprova le mostra le mani incerottate, scegliendo di ignorare le chiazze di sangue che si intravedono oltre le garze. Le nasconde di nuovo nelle pieghe dei gomiti, poggiando la tempia al vetro, lo sguardo rivolto alla savana. Batte le palpebre e vede rosso, come le dune di Titano. Vede una distesa di galassie che si allarga nella savana come lucciole erratiche. Vede l'orizzonte che si sfalda in torrenti di pulviscolo scuro portati dal vento. Fa stridere la mandibola e cerca di non pensare alla cenere. Di non astrarla, di non ricordare Peter e di non immaginarsi come deve essere stato anche per...

Natasha gli impedisce di completare il pensiero: si sporge verso di lui senza preavviso e gli prende un polso, tirandolo a sé con delicatezza finché lui non allenta la morsa delle proprie braccia, più per indolenza che altro. Le permette di esaminare il palmo più malandato, quello che stringeva la bottiglia quando l'ha spaccata – assieme a tutto il resto. Lei passa un polpastrello sul cerotto che copre solo in parte l'incisione triangolare appena sopra le vene, nella fossetta tra polso e palmo.

Ora lo sta fissando in viso con insistenza, e lui non incrocia il suo sguardo. Non sa neanche come abbia fatto a intuirlo, che quel taglio non è del tutto casuale, che ha volontariamente spinto in profondità quel coccio conficcato sottopelle. Non si ritrae, anzi, rilassa la mano e lascia che sfiori quel quadratino di garza adesiva in una carezza muta. Non gli chiede nulla, ed è quasi un invito a parlare.

«Non volevo davvero,» mormora, senza sapere se sia la verità, anche se si era fermato con uno spasmo incredulo un attimo prima di compiere l'irreparabile. «Ero solo... cieco,» conclude, senza trovare una definizione migliore.

Cieco di rabbia, di dolore, di rassegnazione. Al punto che forse quel coccio che si era infilzato proprio sopra le vene del polso gli era sembrato quasi un segno, quando l'universo si era rifiutato di dargliene uno per ventotto giorni. Se lo sapessero Rhodey o Rogers, o chiunque altro, lo prenderebbero a pugni, gli urlerebbero addosso, lo accuserebbero di egoismo e stupidità e gli direbbero che non hanno ancora perso – una bugia.

Natasha invece tace il silenzio di chi capisce fin troppo bene ed è stanco di mentire, e continua a passare con delicatezza il pollice su quel punto sensibile, senza fargli male. Lui la lascia fare. Poggia di nuovo la testa contro il vetro freddo, con l'impressione che quel silenzio vuoto sia l'unica cosa ancora reale attorno a lui.






 

Note:

[1] Questa prima scena è ambientata in Wakanda poiché parzialmente coerente con dei miei scritti precedenti (la serie Schegge) concepiti ben prima di Endgame e basati quindi su presupposti diversi (avevo ipotizzato che i Vendicatori si sarebbero riuniti appunto in Wakanda, non al Complesso). Il resto della storia si attiene prevalentemente alla versione canonica, se non per la significativa differenza della scomparsa di Pepper, idea che deriva anch'essa da una mia ipotesi rivelatasi al tempo errata. I punti di contatto terminano qui, in quanto la storia si concentra poco sugli eventi della serie e prende una direzione propria e indipendente.

[2] Piccolo riferimento alla mini-long Ferite, in cui Natasha aiuta Tony dopo lo scontro su Titano.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, buonsalve :)
Questa storia è partita come un piccolo esperimento quasi a tempo perso, ma si è poi tramutata in un progetto molto, molto più ampio che è andato a inglobare tutti i cinque anni di vuoto che intercorrono tra Infinity WarEndgame.
Gli sviluppi si impegnano a esplorare aspetti che mi auguro potranno risultare interessanti e che esulano un po' dai vari headcanon che ho visto circolare su questo e altri fandom... un po' azzardati, forse, ma spero di aver catturato la vostra attenzione <3
Il rating rosso è preventivo e copre sia l'ambito delle tematiche affrontate che quello strettamente grafico; magari risulterà esagerato, ma preferisco doverlo abbassare in futuro piuttosto che il contrario.

Un grazie enorme, gigantesco e mastodontico ad _Atlas_, T612, Miryel (la mia Guascosa che ha creato le due meravigliose fanart che fanno da banner e che non smettero mai di ringraziare çç) e shilyss che si son sorbite le mie crisi esistenziali sui presupposti e il senso d'esistere di questo progetto, e che fortunatamente mi hanno spinta a non cestinarlo <3 Grazie, ragazze, siete una certezza :*

Se vi va, lasciate un commento, ogni feedback è gradito, e grazie anche solo per aver letto fin qua <3
A presto,

-Light-

P.S. I titoli delle "dimensioni" = parti in cui è divisa la storia acquisteranno man mano senso <3



   
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel
   
 
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