Questa
storia partecipa a Ottobre Challenge:
Trick or Treat? Indetta sul gruppo facebook Il
Giardino di Efp.
Prompt:
coprire le spalle di qualcuno.
Chiuso
Non
c’era più nessuno nel locale, solo loro. E Sandor
sapeva di non aver bisogno di
girare il cartello su “Chiuso”, che la voce si
sarebbe sparsa in fretta e
nessun individuo si sarebbe avventurato lì dentro. Non quel
giorno.
Sansa fece un altro
passo indietro. «Mi
fai paura. Voglio andare via.»
«Tutto
ti fa paura. Allora vattene,
uccelletto.»
«Uccelletto?»
bisbigliò lei,
indietreggiando. «Vorrei andarmene, ma ci sei tu tra me e la
porta.»
«Fai il giro.» Sandor avanzò di nuovo.
Sentiva il cerchio stringersi intorno a
loro e, nonostante il gelo fuori dal locale, percepiva anche il calore
furente
dentro di sé. E dentro di lei.
«Spostati,
per favore.»
Lui non si
mosse. La vide arretrare
ancora. Poi si bloccò sentendo il tavolo alle sue spalle,
gli occhi sgranati,
in trappola.
«Non
volevi andare via, ragazzina?»
«Ci sei tu in mezzo!»
Gli occhi di
Sansa correvano da una parte
all’altra del locale, come se stesse cercando una via di
fuga. Forse si
domandava se sul retro c’era un’altra uscita, una
che avrebbe potuto imboccare
in quel momento.
«Non mi sposto.» Sandor incrociò le
braccia al petto. «Sono un bruto, hai detto.»
«Mi
dispiace… Ora lasciami andare.»
«Non
sei prigioniera, uccellino.» Iniziava
a trovare la cosa divertente. «Puoi andartene quando
vuoi.»
Sansa deglutì, poi si lanciò di lato, superandolo
di corsa. Lui intercettò il suo polso –
così sottile che avrebbe potuto
spezzarlo senza nessuno sforzo – e la voltò verso
di sé.
Ora iniziava a essere arrabbiato. Sul
serio.
«Davvero
credevi che ti avrei fatto del
male?» Trattenne a stento un ringhio. «Volevi
andartene? Allora vattene! Va’
via! E non tornare più qui dentro, hai capito,
ragazzina?»
Poi la sospinse
verso la porta e aspettò
che uscisse.
Sansa rimase interdetta tra lui e l’uscita,
indecisa se andare o restare. Se fosse fuggita via, lui non le avrebbe
permesso
di tornare. Sembrava rendersi conto di questo, di non poter
più sedere a quel
tavolo, leggendo tutto il pomeriggio dopo aver ordinato la solita tazza
di tè.
Sandor si chiese
cosa stesse aspettando.
Lui si era stancato di aspettare lei. Lo faceva impazzire. A tratti
così dolce
e gentile, e altri così insopportabile, così spaventata.
Ma se aveva così paura di lui, perché
tornava?
C’erano un’infinità di locali in cui
poter
ordinare il suo solito tè. Eppure Sansa si presentava
lì ogni giorno.
«Allora?»
le gridò. «Ti decidi ad
andartene? Così posso chiudere e tornarmene a
casa.»
Sansa si
guardò le punte dei piedi. I
capelli scivolarono a coprirle il volto, mentre fuori scendevano le
prime gocce
di pioggia.
Sandor emise un profondo sospiro, cercando
di calmarsi. Sentiva la solita tempia – quella a cui ormai
aveva dato il nome
di Joffrey – scoppiare.
«È
meglio se ti sbrighi, ragazzina. O
tornerai a casa con le tue belle piume tutte bagnate.»
Lei si intirizzì, proprio come un
uccellino. «Potresti smetterla di chiamarmi
ragazzina?»
«Perché?
Non lo sei?»
«No, non lo sono.»
«Tu mi hai chiamato bruto.»
«Ti ho chiesto scusa.» Sansa arrossì,
restando dritta tra lui e la porta. Pronta a scappare.
«Ma lo
pensi.»
«Che
cosa?»
Sandor le diede le spalle, camminando
verso il bancone. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte. Dalla prima
volta
che Sansa aveva messo piede lì dentro, lui aveva desiderato
un momento come
quello. Loro due soli, il locale vuoto.
«Che
sono un bruto.»
Prese un calice
da vino e lo riempì di
whiskey fino all’orlo. Niente ghiaccio, niente che potesse
ammorbidirglielo un
po’. Fissò il liquido ambrato come si fissa una
bella donna, e passò la lingua
sulle labbra, pregustandone il sapore. Era l’intorpidimento
che bramava più di
tutto, quel senso di pace, quel cerchio alla testa.
Si portò il calice alla bocca, quando
sentì una vocina alla sua sinistra.
«Non
è troppo?»
Le
lanciò solo un’occhiata, poi scolò
mezzo bicchiere in una volta sola. Si pulì sul dorso della
mano, prendendosi un
momento per guardare Sansa.
«Non dovresti essere già a casa?»
Lei scrollò le spalle. «Sta piovendo.»
Era solo una
scusa, lo sapevano entrambi.
Sandor rise, poi finì il whiskey.
«Quante canzoncine canti, uccelletto.
Anche un sordo si accorgerebbe che stai mentendo.»
«Io
non dico bugie.»
«Che
c’è? Te l’ha detto la maestra a
scuola che non devi dirle?»
«Non le dico e basta.»
Sandor prese un
altro calice e lo riempì a
metà. Non riusciva quasi a sentire l’odore del
whiskey, solo il sapore che
aveva ancora sulle labbra.
«Non starai esagerando?» disse ancora
Sansa.
«Questo
non è per me.» Sandor spinse il
calice davanti a lei. «È per te.»
Sansa si
tirò indietro. «Io non bevo
alcolici, e nemmeno superalcolici.»
«Che c’è? Non hai
l’età per bere?»
«Certo che ce l’ho» si risentì
lei. «È che
non mi va. Non mi piacciono.»
«Non
si bevono per il sapore, uccellino.»
Sandor
riempì il suo calice un’altra volta
e lo ingollò davanti a lei.
«Se non lo bevi, lo prendo io.»
Allungò una mano verso il bicchiere, ma
Sansa lo afferrò prima di lui. Sentì la sua pelle
sotto le dita, liscia e fredda,
come se fosse rimasta sotto la pioggia fino a quel momento.
«Ti
scalderà» le sussurrò.
Sansa si
portò il whiskey alle labbra, ne
assaggiò solo un sorso e sembrò trattenere un
colpo di tosse.
«È orribile» disse, mentre lui non
riusciva a smettere di guardarla.
«Solo
il primo goccio.»
Lei ci
riprovò, un sorso dopo l’altro,
mentre una goccia le scivolava lenta sul mento, lungo la linea sottile
del
collo, fin dentro la camicetta inamidata.
«Hai ragione» mormorò, appoggiandosi al
bancone. «È meglio se continui a bere.»
D’impulso, Sandor le strappò il calice
dalle mani, posandolo dalla parte del barista.
«Sì, ma direi che per essere la
prima volta hai bevuto abbastanza.»
«Non
puoi deciderlo tu.»
Lui la sospinse
verso la porta,
accorgendosi che fuori aveva smesso di piovere.
«Dovresti andare a casa. È ora.»
«Sono già le sei?» disse, poi
sembrò
rendersi conto di qualcosa. «Un momento. Come sai che me ne
vado alle sei?»
Sandor non
rispose, si limitò ad afferrare
la sua giacca e a mettergliela sulle spalle. Sentì la mano
di Sansa, fredda e
piccola e morbida, come se un uccellino si fosse posato su di lui.
Continuò a
stringere il bavero per non interrompere quel contatto.
Che fosse lei a togliere la mano, se
proprio voleva. Lui sarebbe rimasto lì tutta la notte e
anche il giorno dopo, cercando
il coraggio di prenderle le mani e scaldarle tra le sue.
«Grazie»
la sentì sussurrare.
La vide girarsi
verso di lui, sollevare
gli occhi fino a incontrare i suoi. Si perse nell’azzurro.
Mentre fuori il
cielo era grigio e terso, lui volava nel cielo limpido, nuotava in un
lago
estivo e intrecciava una corona di fiori per Sansa.
Solo guardandola, ebbe visione di un tempo
lontano in cui non era stato, di una vita che non aveva vissuto. Di una
fanciulla che non aveva amato.
E al posto della sua giacca scura,
immaginò una cappa bianca, e le stesse piccole mani che ora
stringevano lui.
«Tornerò
domani» bisbigliò Sansa, come se
la stanza fosse stata piena di gente e lei avesse voluto farsi sentire
solo da
lui.
Ti
aspetterò,
pensò Sandor. Ma non lo disse ad alta voce.
N.d.A.:
Rieccoci!
Avrei voluto aggiornare prima,
ma ho scritto così tante drabble per il fandom di Death Note
da non riuscire ad
aspettare qualche giorno prima di pubblicarne qualcuna. E “La
voce dell’Inverno”
arriverà in questi giorni.
Solo una cosa: questa storia è breve, e nel
prossimo capitolo capirete il perché della
“Soulmate!AU!”.
Fatevi sentire!
Celtica