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Autore: Roiben    11/10/2019    0 recensioni
[Arsène Lupin (Maurice Leblanc) – Sherlock Holmes (Arthur Conan Doyle)]
Quando si ha per le mani un caso delicato e la concreta possibilità di fallire, nella migliore delle ipotesi, o di venire arrestati nella peggiore, in che modo risolvere un problema che sembra non avere sbocchi? A chi chiedere un estremo aiuto? Quando un uomo probo è disperato, prende decisioni disperate.
|Revisionata 11.08.2020|
Genere: Avventura, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, John Watson, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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13 - Trattative e decisioni 

 

 

 

 

 

I suoi occhi verdi sono sbarrati e confusi, eppure da qualche parte, in fondo a quell’abisso liquido e buio, c'è un briciolo di comprensione e consapevolezza. Si azzarda ad allentare la presa, scostando il palmo dalle sue labbra tremanti e facendo un cauto passo indietro, senza mai perdere il contatto visivo. 

 

«Voi... Come?» balbetta incerta. «Siete... lo stesso uomo dell'altra notte?». 

 

Il sorriso di Lupin si fa più ampio e soddisfatto. «Giustissimo. Ottima osservatrice» si complimenta. 

 

«Ma... perché siete qui?» chiede senza essere in grado di trovarvi una spiegazione coerente. 

 

«Ma per te, mi sembra evidente». 

 

«Me?» trasecola, impallidendo e riprendendo a tremare atterrita«Ma io non ho fatto nulla. Vi giuro che...». 

 

«Sshhsshh, non ti sto accusando di nessun misfatto, bambina mia. Ho detto che sono qui per te, non per qualche cosa che puoi aver fatto e di cui non ho alcun interesse» spiega pragmatico. 

 

«Cosa... Che cosa significa?» soffia, covando paura e incertezza. 

 

Il sorriso di Lupin sfuma e addolcisce. Poggia piano le mani sulle sue piccole spalle e l'accompagna a sedersi sul bordo del materasso, quanto a lui decide sia meglio porsi in modo da risultare meno minaccioso, pertanto si inginocchia a terra di fronte ai suoi occhi costernati. 

 

«Nessun pericolo, bambina mia. Lo puoi vedere da te: sono un bravo ragazzo, non c'è di che temere dunque. Ma è mio desiderio aiutarti, perché dall'altra notte non faccio che pensare a quel gracile borseggiatore che tentò di arraffarmi il portafoglio, scoprendo poi che eri proprio tu. E non riesco a togliermi dalla testa questa idea, e cioè che devo sottrarti da questo posto, da questa vita che non è tale, poiché ci dev'essere un'altra soluzione, una che contempli un futuro felice e sereno anche per te. Capisci?». 

 

Lei, però, ha preso a scuotere la testa, incredula e spaurita. «No, signore. Voi parlate di cose che non credo di comprendere. E come facevate a sapere che sto qui?». 

 

«Oh, è molto semplice: ho fatto qualche piccola indagine. Ti avevo seguita con gli occhi, quando sei fuggita, e da quel punto ho sguinzagliato i miei bravi cani da caccia che ti hanno prontamente ritrovata, proprio qui, dove siamo ora. E adesso dimmi: vuoi restare? Vuoi proseguire la tua vita, finché ti sarà dato di averne, in questo luogo? È proprio questo il tuo desiderio?». 

 

Ancora lei scuote la testa, ma nei suoi occhi questa volta c'è un tipo diverso di rifiuto. «Signore, no! Io, qui, ci sono arrivata perché era necessario. Da altrove vengo, e altrove posso ben andare, se vale la pena di spostarsi». 

 

Un sogghigno compiaciuto balugina sul volto di Lupin. «Ben detto, bambina mia. Così si parla, con il proprio destino fra le mani». Altre voci provengono dalla strada, la ragazza si agita inquieta e posa i suoi occhi grandi in quelli attenti di lui. «Temo non ci sia concesso largo spazio per le presentazioni di rito, né per aggiungere troppe spiegazioni, non in questo momento almeno». Si rimette in piedi e si sposta accanto alla finestra, percorrendo il vicolo con lo sguardo attento. «Se tu lo vuoi, posso portarti via da qui. Ma devi decidere in fretta, c'è poco tempo» le dice, comunque con voce tranquilla. 

 

«Ma dove, signore? Io non ho denaro con me. Non posso...». 

 

«Non hai bisogno di denaro. Ti basto io, sono un ottimo lasciapassare, puoi contarci». 

 

Lei lo scruta, quasi voglia rubargli i pensieri. Alle voci si aggiungono passi, ma a lui non sembra importare, rimane immobile, lasciando che lei trovi la risposta, foss'anche nei suoi occhi decisi e calmi al contempo. Una porta sbatte, poco lontano; lei sussulta ma non distoglie lo sguardo, e infine la sua risposta sembra afferrarla perché qualche cosa cambia nella sua figura, come divenendo più tangibile, concreta, reale. 

 

«Allora portatemi con voi, e io vi prometto che cercherò bene, e saprò trovare la mia via». 

 

Annuisce, solo questo. Distoglie qualche istante l'attenzione per aprire la finestra e socchiudere l'imposta, poi si scosta dal davanzale e allunga una mano che lei afferra senza esitazione. Un momento dopo la porta si spalanca facendo entrare un uomo seguito da due ragazzini. Un grido in una lingua sconosciuta giunge alle sue orecchie, ma si è già scansato dallo specchio della porta, attirandosi addosso la ragazza, e prima che la gente ferma sull'uscio possa rendersi conto delle loro intenzioni, trattenendola saldamente fra le braccia si lancia fuori dalla finestra, atterrando a poche manciate di centimetri dal muro del palazzo sul lato opposto del vicolo. Per buona sorte la camera si trovava al primo piano, in caso contrario il risultato più probabile sarebbe stato quello di sfracellarsi al suolo con il suo carico al seguito. Solleva gli occhi sulla finestra, ma subito si ritira sotto il cornicione, mentre uno sparo li manca di stretta misura e lo stesso fanno le carabattole gettate giù nell'intento di colpirli. Lei è silenziosa come un morto, ma le sue dita minuscole così come le sue braccia sottili gli si stringono contro e tanto gli è sufficiente per sapere che sta bene. Ora non gli resta che trovare una via sicura per uscire da quel clamoroso pasticcio che si sta ingrossando a ogni secondo che passa. A tale scopo striscia cauto lungo il muro dell'abitazione, guardandosi attorno per controllare che nessun impiccione stia arrivando da loro per vedere cosa accade. Da dentro l'edificio da poco lasciato si ode un confuso scalpiccio, ciò significa che il tempo a loro disposizione sta per esaurirsi. Sempre a ridosso del muro aumenta il passo fino a una biforcazione, lì si blocca e con cautela sporge la testa: nessuno in vista. Si immette nel nuovo vicolo. Un momento dopo ancora scalpiccii; gli inseguitori sono in strada, come loro. Serra le labbra e lo stesso fa con la presa delle braccia attorno all'esile corpo della ragazza. I rumori si fanno più vicini. Affretta il passo, svoltando alla cieca un altro angolo. Gente. No, correzione: gente che li guarda. Può quasi scorgere i loro pensieri; stanno cercando di valutare se i due appena sbucati sono un pericolo oppure un interessante guadagno. Meglio dileguarsi, prima che decidano per la seconda opzione. Ora di corsa, attraverso strette strade sconosciute, umide, ingombre di rifiuti. La ragazza fra le sue braccia è leggera come un micetto, ma non crede di potersela portare appresso in quel modo fino a uscire dal quartiere. Uno sparo, che li manca di parecchio e rimbalza sui muri luridi, fa sussultare il suo carico ma non gli strappa neppure un sospiro. Li stanno ancora seguendo, e lui non conosce le strade, mentre loro sì. Un problema. 

 

«Signore» sussurra la ragazza accanto al suo orecchio. «Laggiù». 

 

Il suo braccio appena teso indica un altro angolo, ma in questo è poggiata una bicicletta. Ghigna e aumenta il passo. 

 

«Arriva qualcuno?» chiede in un mormorio, sapendo che lei ha maggior visuale alle loro spalle. 

 

«Non ancora» è la replica che gli dà un altro poco di speranza. 

 

Raggiunge la bicicletta. È un aggeggio un poco arrugginito e malandato, ma il suo lavoro lo può fare tranquillamente. Inforca la sella, trattenendo la ragazza davanti a sé. La prima pedalata è un po' faticosa, ma presto le ruote girano a dovere e la loro velocità aumenta. Ancora s'odono passi affrettati alle loro spalle, misti a grida, quelle che somigliano tanto a bestemmie dal suono, seppur in un linguaggio che non è in grado di comprendere, altri spari, il nitrito spaventato di un cavallo. Infine il vento si porta via ogni altro suono e l'aria si fa più fresca e leggera. Sono fuori. 

 

 ☼ 

  

Ormai è scesa l’oscurità. Frena, fino a fermare la bicicletta accanto al muro di cinta del palazzo. La ragazza, contro il suo petto, trema. Deve avere molto freddo; ha vestiti troppo leggeri per il periodo dell’anno in cui si trovano. Inspira a fondo, nonostante non sia un gran respirare, e i suoi occhi leggermente appannati scrutano verso l’alto, individuando la finestra illuminata. Abbassa la testa e il suo sguardo si colma del rosso vivo dei capelli di lei. Sorride. 

 

«Come va? Ce la fai a camminare?» sussurra appena contro il suo capo ripiegato contro il petto. 

 

Lei annuisce. Nessuna parola. Ma si fa bastare quella rassicurazione e insieme smontano da sella. Adocchia la via principale, ancora troppo trafficata per i suoi gusti. Certo, la porta sarebbe più semplice, ma gli impiccioni non piacciono a nessuno, in modo particolare ad Arsène Lupin e ai suoi affari privati. Sospira, optando per la finestra. Perbacco però, due finestre in una sola sera iniziano a essere un po’ troppe. Se non altro questa ha buoni appigli (meraviglie dell’architettura vittoriana). 

 

 

 

Sta fissando con una smorfia arcigna e contrariata il colore della soluzione che ondeggia nella sua provetta. Avrebbe dovuto essere di un tenue celeste sbiadito, invece è viola. Viola! Si massaggia le tempie e pensa. E mentre pensa il suo sguardo si attarda all’esterno, dove le luci tremolanti dei lampioni hanno preso il posto dell’imbrunire. Cruccia le sopracciglia. 

 

«Quello cosa…». Scatta in piedi e marcia rapido verso la finestra, dalla quale Arsène Lupin saluta allegramente con la mano. Toglie il chiavistello e spalanca il battente. «Cosa diamine ci fate sul mio cornicione?» sbotta allucinato. 

 

«Bonsoir anche a voiMonsieur Holmes» cinguetta gaio. «È proprio una magnifica notte, non trovate?» esclama. «Potrei entrare, gentilmente?». 

 

«No!» ringhia seccato. 

 

L’espressione sorpresa di Lupin fa il paio con quella di Holmes. 

 

«Devo rimanere sul vostro cornicione?» si domanda, perplesso. 

 

Sospira, esasperato. «Entrate! Mi riferivo alla notte, accidenti a voi». 

 

Prima di mettere piede in casa dell’investigatore, il ladro francese offre un braccio alla sua accompagnatrice che oltrepassa la finestra e salta all’interno della camera. 

 

«Hum! Vedo che l’avete trovata» commenta Holmes appena un poco sorpreso, facendo spazio alla ragazza e osservandola con curiosità. «È notevolmente giovane» nota, impensierendosi. 

 

«Motivo in più per portarla via dal luogo orribile nel quale viveva». 

 

Annuisce, concorde, ma quando risolleva lo sguardo rimane un lungo momento immobile e turbato. «Dio del cielo, siete ferito!» sbotta, avvicinandosi di pochi passi. 

 

Lupin segue la direzione degli occhi di Holmes e osserva la manica destra della giacca imbrattata di sangue quasi fosse una curiosa bizzarria. Scuote una mano (l’altra) in aria in uno svolazzo noncurante. «È poco più di un graffio. Uno del posto aveva una pistola e ha ben pensato di sprecare munizioni su noi poveri fuggiaschi». 

 

Per tutta risposta Holmes fa una smorfia contrariata e apre la porta che dal proprio studio dà sul salotto. «Dottor Watson, avete del lavoro urgente che vi aspetta qui da me» informa spiccio, tornando con l’attenzione ai suoi ospiti non invitati. «Voglio sperare che almeno la ragazza non sia ferita». 

 

In cambio della sua apprensione si merita un’occhiataccia poco conciliante. «Non fintanto che è rimasta sotto la mia custodia, Monsieur» sibila. 

 

«Cos’è accaduto? Chi sta male?» esclama Watson entrando trafelato e con la sua borsa stretta in una mano. Fa un salto per la sorpresa nello scoprire la compagnia del coinquilino. «Voi qui! Che succede?» si allarma. 

 

«Non molto, docteur. Vi ho portato una giovane paziente cui vorrei che deste un’occhiata» spiega Lupin, indicandogli la ragazza che a occhi sgranati osserva lo svolgersi confuso dei fatti. «Vi dispiace se mando un breve messaggio al mio cameriere personale?» chiede, rivolgendosi a Holmes. «Gli avevo promesso di rientrare in tempi brevi, e temo di aver tardato di molto». Senza attendere consensi di sorta si accomoda alla scrivania dell’investigatore, recupera un foglio vergine e un poco di inchiostro e stende in fretta ciò che gli preme di far sapere al suo povero Cyril. 

 

Holmes, intento a osservarlo, sente la necessità di chiedere «Voi siete mancino?». 

 

«All’occorrenza» replica distratto. Terminata la stesura soffia sulla carta e attende che l’inchiostro asciughi. Nel frattempo risolleva gli occhi e li fissa in quelli incerti di Holmes. «Ovverosia quando non ho a disposizione la destra» crede corretto spiegare. 

 

Solo a quel punto il dottor Watson, distratto dal suo esame delle condizioni della ragazza che gli è stata momentaneamente affidata, si volta verso i due uomini e li scruta con dubbio, non comprendendo lo strano scambio di frasi. È allora che nota (e non ha idea di come possa essergli sfuggito a un primo sguardo) la macchia rosso ruggine sul tessuto logoro della giacca. 

 

«Voi sanguinate» affanna. 

 

«Probabile» conferma Lupin, ripiegando con cura il foglio e porgendolo all’investigatore. «Pensate siano ancora disponibili a quest’ora quei gentili ragazzini amici vostri?» chiede, tendendo la missiva. 

 

Holmes si appropria del foglio con un gesto secco e un borbottio. «Quelli sono più svegli di noi due messi insieme» commenta, uscendo dall’appartamento alla ricerca del piccolo Dawson. 

 

«Mostratemi quel braccio» lo prende suo malgrado di sorpresa la voce del dottor Watson alle sue spalle. 

 

Rotea gli occhi, esasperato, e con un piccolo sbuffo e un’alzata di spalle si risolve a venire incontro per una volta alle richieste altrui. Leva la giacca con qualche scomoda contorsione e rimane alcuni secondi a osservare la manica irrimediabilmente rovinata della camicia, poi stende il braccio sulla scrivania e fissa gli occhi in quelli ansiosi del dottore. «Voilà, tutto vostro. Se non vi dispiace, quando l’avrete esaminato a piacimento, lo rivorrei indietro» si burla di lui. 

 

Il dottore lo osserva con contrarietà e una certa sorpresa. «Dovreste badare maggiormente alla vostra salute» fa notare, e nel mentre sbottona con attenzione il polsino e, lentamente, allontana il tessuto dal punto lesionato. 

 

«Oh, lo faccio. Quando ne trovo il tempo. Maisvous savez, a volte è difficile persino trovare il tempo per dormire».  

 

Holmes rientra in camera, annuendo alla domanda silenziosa del suo ospite, poi si siede accanto alla finestra e osserva la giovane intenta a fissarsi i piedi. «Voi siete scozzese, dico bene? Come siete arrivata a Londra? In compagnia di vostra madre?» 

 

Lei sussulta, impreparata nel sentirsi interpellata, e fissa i suoi occhi un poco spaesati sull’investigatore, deglutendo con visibile nervosismo. «Sì, signore, sono arrivata con mia madre, quattro anni fa. Papà era morto da poco, non c’era lavoro. Pensava che…» ammutolisce e torna a fissarsi i piedi. 

 

Lupin sposta alternativamente gli occhi sulla ragazza e su Holmes. Reclina il capo, interessato. «Ah, la rosa di pruno?» chiede con curiosità. 

 

La ragazza trasale e si afferra il polso sinistro con la mano destra, celando alla vista un piccolo bracciale intagliato nel legno. 

 

Holmes annuisce piano. «È un simbolo celtico, conosciuto in particolar modo in Scozia. Se ben ricordo rappresenta crescita e protezione». 

 

Mentre il dottore ancora lavora sul suo braccioLupin storna lo sguardo da Holmes e ripiega il capo, osservando l’esile figura della ragazza che ha trascinato con sé e che ora è appollaiata con evidente ansia su un angolo del letto dell’investigatore. «Dimmi, bambina mia, quanti anni hai?» soffia in tono dolce. 

 

«Sedici anni, signore. Ma ne compirò diciassette il prossimo mese». 

 

Distende un morbido sorriso comprensivo. «Perbacco, quasi diciassette. E io che ti facevo un frugoletto da poco entrato nella pubertà». Osserva le sue gote arrossire, probabilmente di imbarazzo, e sospira felice. «Qual è il tuo nome, bambina mia? Il mio, se lo saprai tenere a mente, è Arsène Lupin». 

 

Ora gli occhi verdi della ragazza sono enormi e increduli. Le sue labbra tremano appena, come foglie nel fresco venticello marzolino. «Conosco il vostro nome, signore. L’ho sentito spesso, per strada. Voi venite da… dalla Francia, è vero?». 

 

«OuiMademoiselle, è proprio così» conferma deliziato. «Eh bien, non mi vuoi dire come ti chiami, ma petite?». 

 

«Caitlin» sussurra con voce tremante, emozionata si direbbe. «È questo il nome che mi ha dato il mio papà. E un giorno tornerò in Scozia, gliel’ho promesso» dichiara con tutta la certezza e la sicurezza di un cuore puro. 

  
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