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Autore: time_wings    11/10/2019    0 recensioni
Questa storia partecipa al #writober 2019 di Fanwriter.it
Dopo quattro anni di silenzio il ritorno di una coppia così distruttiva riuscirà a lasciare intatto qualcosa? O tirerà giù con sé tutto, anche se solo per una notte?
Il tradimento, il ricordo, le tradizioni amare di un passato tornato come un fantasma ad invadere la mente.
In un campo coltivato dal rancore e seminato di rabbia c'è ancora la possibilità che sbocci una speranza?
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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WRATH



Rabbia.
Ribolliva feroce sottopelle, nelle viscere lacerate dagli strazi di una vita spesa al servizio del mostro più spaventoso di tutti: se stesso.
Esplodeva, in un fuoco che divampava insolente sui corpi esangui dei soldati certamente valorosi, ma altrettanto impotenti.
Cos’ha senso?
Era una domanda che si poneva spesso, nei momenti morti, in quelli che aveva passato a chiedersi cosa si nascondesse dietro quel corpo bendato, quell’occhio coperto e quel sorriso da poker, se effettivamente si nascondesse qualcosa, se non fosse nient’altro che un guscio vuoto.
Cos’ha senso?
Aveva provato a pensarci da solo, ma d’altronde lo sapevano entrambi: non era lui quello intelligente del duo. Non sapeva elaborare piani, non sapeva prevedere, non sapeva essere lungimirante. Affatto. Se lo fosse stato probabilmente avrebbe capito, non si sarebbe fidato, avrebbe notato la scintilla nuova in quello sguardo spento, la luce sinistra in quegli occhi di solito vacui e calcolatori.
Si sentiva tradito e non si era perso in ragionamenti, non si era perso in congetture, sapeva sarebbero stati inutili, perché per quanto si fosse sforzato, negli anni, non lo aveva mai capito appieno, non era mai stato capace di leggerlo fino in fondo, ma aveva preferito non farsi domande, afferrare le piccole sicurezze che gli concedeva e, semplicemente, accontentarsi.
Non aveva davvero bisogno di lui, ormai se la sapeva cavare. Se l’era sempre saputa cavare. Eppure quella sola domanda si ripeteva con insistenza in un angolo remoto della sua testa.
Cos’ha senso?
Tutto aveva un senso, soprattutto quando si parlava di lui. C’era sempre una logica. Anche quando non la vedeva, a tempo debito lui gliela mostrava, gliela sventolava sotto il naso e gli dava dello stupido per non aver capito al volo, ordinandogli di eseguire e non farsi troppe domande, perché tanto non avrebbe afferrato comunque. Eppure quella dannatissima e inutile logica spuntava sempre fuori, alla fine. Ebbene qual era il senso, allora?
Dopo quattro anni, Chuuya aveva capito che per la prima volta nessuna logica aveva accompagnato le sue azioni.

Si sfilò il cappello dalla testa e lo appoggiò con rassegnazione sul tavolo di vetro, passandosi una mano tra i capelli rossi e fingendo di non percepire le nocche sbiancarsi e la pressione sul cuoio capelluto aumentare. Tirò un sospiro nervoso.
L’aveva fatto di nuovo.
Memore della notte in cui erano diventati la coppia perfetta, totalmente conscio del fastidioso eppure innegabilmente dolce dolore che avrebbe provato in seguito, con assoluta lucidità, si era sfilato i guanti dalle mani e si era fidato di lui.
Di nuovo.
L’aveva fatto di nuovo.
I fantasmi di quei momenti si presentarono con insolenza alle porte della sua testa.
“La scelta è tua.” Gli aveva detto.
Lo odiava. Lo odiava con tutto se stesso. Lui e le sue mani nelle tasche, lui e le sue bende, lui e il suo atteggiamento superiore, lui e la sua sicurezza e le sue dannate e strampalate idee, lui e quella malsana mania per la morte che lo accompagnava ovunque, ma che non lo prendeva mai.
A Chuuya scappò una risata, mentre afferrava la bottiglia con mani guantate e la stappava.
“Ogni volta che lo dici, non ho mai davvero scelta.” Aveva detto e poi l’aveva fatto davvero, contro ogni previsione. Si era fidato un’altra volta di lui, dopo tutto quel tempo.
Aveva pronunciato quelle parole, con estrema riluttanza e un’attenzione che non gli apparteneva, tipica di chi sa di star camminando su un campo minato: non voleva che vedesse che era ancora una ferita aperta, non voleva che pensasse che era debole. Non gl’importava affatto se l’aveva capito, lui non voleva mostrarglielo, neanche con la più impercettibile delle espressioni.
E infine il famoso e tanto lontano buio, quello da cui era scappato tanto tempo prima e che era certo l’avrebbe ingoiato, un giorno, l’avrebbe consumato insieme a tutta la delusione e i fallimenti. Aveva sentito a stento pronunciare una frase: “Finiscilo, Chuuya” che, come un sussurro lontano che buca il silenzio si era infilata nella sua testa e gli aveva ricordato chi era il nemico e contro chi era giusto combattere; gli aveva ricordato per un solo secondo di non autodistruggersi e di non morire.
“Brutto stronzo.” Ringhiò, poggiando il collo della bottiglia sul calice con tanta veemenza che fu un miracolo che il vetro non si infranse.
Il liquido vermiglio sgorgò dall’apertura frenetico e impaziente, ricadendo a gocce come fosse sangue.
Aveva avuto il coraggio di prenderlo in giro: “Sarà meglio che mi porti al punto di recupero.” Era riuscito a rispondere, prima di crollare.
“Non ti abbandono, amico.” Aveva appena udito la sua voce, distante.
E non gli aveva creduto.
 
Quando si era risvegliato aveva sentito le molle scomode del divano sfondato premergli nella schiena e una voce irritante perforargli i timpani: “Ti sei svegliato, principessina.” Aveva cinguettato lui, come se fosse del tutto normale essere seduti sulla poltrona altrettanto scomoda dell'appartamento del suo ex-partner: “Dovresti fare qualcosa per quella carta da parati, comunque, sembra ci sia morto qualcuno.” Lo aveva ripreso poi, con una naturalezza che cozzava non poco con le circostanze.
“Potresti essere tu il prossimo.” Lo aveva minacciato Chuuya, mettendosi a sedere e poggiando i gomiti sulle ginocchia, cercando di minimizzare l’effetto delle vertigini.
Lui aveva sorriso, alzando le sopracciglia come a sfidarlo, sicuro del fatto che non ci sarebbe mai riuscito.
E Chuuya aveva alzato gli occhi stanchi su di lui, rassegnato, perché conscio del fatto che, ovviamente, non ci sarebbe mai riuscito.
 
Alzò il calice all’altezza degli occhi e lo scosse appena per vedere il liquido agitarsi, come ad assaporarne la consistenza prima ancora di bagnarsi le labbra. Poi lasciò saettare lo sguardo verso la poltrona alla sua destra, dove qualche ora prima era stato seduto lui. Quella stanza non riportava alcun segno del suo passaggio, tutto ciò che gli restava erano i ricordi.
 
“Di’ un po’, non dovevi portarmi al punto di raccolta?”
“Eri inutile messo così male.”
“Questo perché tu hai aspettato troppo.”
“O perché tu non ti sai controllare.” Aveva replicato lui, alzando le spalle e guardandosi attorno.
Chuuya aveva alzato un sopracciglio scettico, pronto a replicare con un’altra delle sue solite risposte aspre, ma l’ennesimo giramento di testa lo colpì, facendolo grugnire frustrato. Lui l’aveva guardato gongolando, come se l’effetto di Corruzione avesse provato la sua tesi. A quel punto i nervi di Chuuya, più che saltati, erano esplosi.
“Va bene, adesso levati dalle palle.” Aveva sbottato, richiamando tutte le forze nelle sue gambe per alzarsi dal divano con apparente disinvoltura.
“Ce l’hai con me per essermi divertito un po’?” Aveva domandato lui, con gli occhi grandi d’innocenza, ma un sorriso strano. Chuuya si era voltato di scatto a guardarlo, studiandolo dall’altro lato della stanza, all’erta.
“So già cosa stai per di…”
“O c’è qualcos’altro sotto?” A quel punto i suoi occhi si erano allineati con lo spirito del suo sorriso, risultando nel complesso sinistro e irritantemente allusivo, lo sguardo improvvisamente serio e guardingo. Chuuya deglutì a vuoto, ma mascherò quel gesto nervoso muovendo la testa e scostandosi i capelli dalla fronte: “Levati dalle palle, ho detto, abbiamo finito.”
“Ma volevo assicurarmi che stessi bene!” La leggerezza era tornata in maniera paurosamente veloce a colorargli il viso, addolcendone innaturalmente i linementi.
“Sì, certo, come no.” Chuuya si era concesso il lusso di alzare gli occhi al cielo, come se fosse stato finalmente fuori pericolo e avesse potuto permettersi di distrarsi. Era stanco e le insinuazioni di quell’ammasso di bende stavano iniziando a spazientirlo.
“Dai, non mettermi il broncio.”
“Ti ho detto che te ne devi andare di qui!” Chuuya l’aveva raggiunto con un paio di falcate, con l’intenzione di afferrarlo per il colletto del cappotto e trascinarlo fuori dal suo appartamento con un calcio ben piazzato.
“Sei lento come al solito.” Aveva commentato lui, con un sorriso di sfida ad illuminargli il volto e una mano bendata che gli si stringeva veloce ai polsi, limitandone considerevolmente i movimenti.
Chuuya aveva alzato uno sguardo arrabbiato su di lui, ma una punta di sorpresa gli velava comunque gli occhi. Così tentò di mollargli un calcio, ma lui fu ancora una volta più veloce, abbassandogli il polso all’altezza del bacino, fino a costringerlo a voltarsi a dargli dolorosamente le spalle e piantando una gamba tra le sue, impedendogli ulteriori tentativi. Sentì quello stupido corpo bendato posarsi sulla sua schiena.
“Ma sta’ zitto.” Aveva sussurrato Chuuya in un ringhio, rispondendo finalmente alla provocazione con un sorriso tutt’altro che gentile, mentre tentava di divincolarsi e attaccare ancora. Gli venne in mente un’unica altra mossa che il suo corpo stremato dalla battaglia avrebbe potuto azzardare.
“Non vorrai nasconderti dietro al fatto che sei stanco e che…”
Chuuya caricò per dargli una testata, ma, prevedibilmente, l’avversario mosse appena la testa, schivandolo: "Ma guarda un po', siamo nervosetti." Il mafioso sentì il suo respiro solleticargli il collo. Lui assottigliò lo sguardo, studiando i lineamenti di Chuuya con un’attenzione quasi scientifica, come se avesse potuto scorgervi il motivo di tanta debolezza.
“La prossima volta sta’ pur certo che…” Chuuya s’era interrotto, con gli occhi sgranati ed il respiro che faticava improvvisamente a mantenere regolare: “E-ehi, che…” Non era riuscito a continuare.
Lui aveva posato delicatamente le labbra sul suo collo, come a saggiarne la pulsazione e Chuuya non era stato in grado di allontanarlo, di respingerlo o di liberarsi di quella presa adesso così debole sui suoi polsi. Percepì i suoi denti grattare docilmente la pelle esposta e si sentì una preda.
Rinchiuso in una cella senza sbarre, gli sembrò improvvisamente che non ci fosse differenza tra un bacio sul collo e un morso alla giugulare. Che amore e morte non fossero, in fondo, che gemelle mascherate.
Percepiva un interesse quasi folle nei suoi confronti, come quello di uno scienziato che testa i punti di rottura delle proprie cavie sperimentando piaceri perversi. Chuuya realizzò che avrebbe potuto ucciderlo, in quel momento, che le vibrazioni tese che scorrevano tra loro suggerissero, anzi, che era tentato di farlo, che di lì a poco l’avrebbe certamente e innegabilmente fatto. Era garantito. Un vento antico muoveva le sue azioni, in cui non v’era più traccia della bontà che tentava continuamente di mostrare.
Chuuya si riscoprì impotente, eppure attratto da lui come gli oggetti che lui stesso sottometteva alla sua forza, modificando lo spazio e rivoluzionando il concetto di gravità.
E mentre sperimentava sensazioni tanto intime ed il respiro gli galoppava feroce in gola non riuscì a non notare un’unica emozione brillare più delle altre: la rabbia.
Quell’amara consapevolezza di essere da sempre controllato, piegato al suo volere e parte dei suoi incomprensibili e stramaledetti piani.
“Ti stai agitando.” Notò lui in un sussurro basso, risalendo all’orecchio ed osservando con occhi distaccati il profilo di Chuuya, come impaziente di scorgere un nuovo fremito o la più impercettibile delle reazioni.
“Sei un malato.” Sputò lui fuori con sdegno, ma facendo incoerentemente aderire il suo corpo a quello del ragazzo dietro di lui, muovendosi piano, mentre un respiro tremante scappava alla sua gola.
Consapevole del fatto che lui non aspettasse altro che questo, una reazione, provò comunque un piacere sinistro nell’accontentarlo, al quale prontamente si alternava la rabbia perché Chuuya sapeva, con assoluta certezza, che ogni suo respiro e ogni suo più cedevole verso erano stati già stati previsti da lui.
Un sospiro gli scappò dalle labbra: "Lo vedi? Non ti sai controllare."
Bastardo calcolatore. La rabbia tornò ad invadergli la testa, mista ad una strana e odiosa sensazione rossa e calda che gli impediva, con i suoi fumi intossicanti, di allontanarsi da lui.
“Sei un cazzo di malato mentale.” Ripeté a denti stretti. Gli tornò in mente il momento in cui quella sera gli aveva detto che non l’avrebbe abbandonato.
Ebbe paura di finire per credergli.
 
Chuuya poggiò le labbra asciutte sul vetro e alzò il calice, lasciando scivolare il vino fino alla sua bocca, mentre il sapore dell’alcol gli raschiava la gola, scavandosi una dolorosa via fino al suo fegato.
L’aveva fatto di nuovo. Erano tornati per una sola notte e avevano ancora una volta piegato il mondo ai loro piedi. Gli aveva di nuovo permesso di liberare ciò che c’era dentro di lui e l’aveva osservato in silenzio. Poi l’aveva fermato. Come al solito, impedendogli di farsi troppo male.
“Pezzo di merda!” Gridò d’un tratto, sbattendo con forza il bicchiere sul tavolino di fronte a lui, mentre le gocce cremisi sfuggivano al cristallo, infrangendosi sul vetro del tavolino.
Non se ne curò, anzi poggiò una mano sotto il mento, mentre l’indice sfiorava inconsapevole il collo, proprio nel punto in cui le sue labbra si erano posate qualche ora prima.
Cos’aveva senso?
Che senso aveva combatterlo quando era sempre un passo avanti a lui, quando aveva già previsto tutto e aveva già mosso le sue pedine?
Nulla aveva senso, allora. Nulla aveva avuto senso.
Non che si aspettasse di vederlo tornare alla Port Mafia, distrutto dai sensi di colpa e da un’improvvisa e profonda nostalgia, ma si odiava per essersi fidato ancora di lui, per aver ceduto ai suoi giochi perversi che avevano il solo scopo di umiliarlo.
Lo sguardo gli cadde sull’etichetta della bottiglia, sulla quale svettava, a caratteri grandi e rossi, la scritta ‘Pétrus’.
Ormai era una tradizione. Ogni volta che se ne andava ne stappava una bottiglia per festeggiare, almeno a detta sua.
Sospirò stanco e lanciò un altro sguardo in direzione della porta. Non ci pensò due volte e con un colpo di reni si alzò dal divano, afferrò il cappotto e se lo infilò di fretta, mentre una mano volava veloce verso il pomello della porta, che si richiuse con un tonfo sordo.
Sul tavolino il vino rosso rimase in attesa, mentre una goccia discendeva la curvatura e la macchia si allargava sul vetro.
Il freddo pungente gli sfiorò il naso, mentre si dirigeva verso la macchina, con le mani nelle tasche e le chiavi che tintinnavano ad ogni passo.
Poggiò, poi, una mano sulla maniglia della portiera e lo sguardo gli cadde in un punto imprecisato all’interno dell’abitacolo. Gli occhi azzurri scrutarono il paesaggio desolato attorno a lui, mentre il silenzio gli bucava le orecchie.
“Sì, come no.” Sussurrò con un’occhiataccia alla macchina ed un irritantissimo sorriso che non ne voleva proprio sapere di lasciare il suo viso. Poi si allontanò con passo veloce, quasi trepidante ed emozionato, facendo levitare un sassolino e indirizzandolo verso la base dell’auto. In un attimo due colonne di fumo esplosero, incenerendo la macchina in pochi secondi. Non riuscì a trattenersi. Un sorriso gli inondò le guance, sotto la luce inquietante del fuoco. Si voltò, dando le spalle alla macchina in fiamme, mentre il fumo saliva mangiandosi altri centimetri di cielo. Pensò che una passeggiata a piedi, in fin dei conti, non fosse poi così male.
Ormai aveva smesso di chiedersi che senso avesse. Aveva riconosciuto che nei suoi occhi non vi era altro che il nulla, che nel suo petto non vi era anima né desiderio. Perché lui aveva capito che la morte era come la vita, che nulla nasce e nulla muore, che non esistono bene e male, solo proiezioni dei desideri umani. Era riuscito a scorgere la verità che ora riluceva nella punta ironica, ma distante del suo sguardo impenetrabile. Quello sguardo che Chuuya aveva imparato a conoscere, ma che aveva paura di comprendere. Quella sera lo accettò, comprese che lui non era nient’altro che un corpo vuoto, rassegnato al fluire della vita che avrebbe lasciato, incurante del suo segno.
Cacciò le mani guantate in tasca e scosse la testa mentre una nuova rabbia cresceva dentro di lui, pronta ad esplodere con la forza dirompente del tradimento che brucia, che bruciava da anni e che avrebbe bruciato per sempre.
Finì per sperare di vederlo riverso nel suo stesso sangue, una volta che si fosse deciso a morire, un attimo prima che lui, a sua volta, si sfilasse i guanti dalle mani, lasciandosi avvolgere dal rosso soffocante di Corruzione, che avrebbe iniziato a divorarlo per l’ultima volta e nessuno avrebbe mai più potuto portarlo indietro. Almeno così avrebbe esaudito il suo più grande desiderio, non era forse così?
Un doppio suicidio.




Note di El: Io, poco familiare con l'angst.
Sempre io, nuova nel fandom.
Perchè non rendersi la vita un inferno?
E quindi eccola qui, questa OS a cui inspiegabilmente tengo e per la quale ho buttato a volte il sangue.
Io il loro rapporto lo vedo così, mi spiace. Totalmente insano, malato, sbagliato, ma al contempo necessario ed innegabile.
L'unica cosa che ho da sottolineare è che Dazai non è mai nominato per più motivi.
Nasce tutto più o meno dal fatto che Chuuya non può essere rimasto indifferente ad un abbandono così improvviso e dal fatto che quando poi si ritrovano a combattere insieme finiscono per parlarne. Insomma, ci vedevo qualcosa sotto e ho provato a fare del mio meglio per farla uscire.
Il vino è lo stesso che beve quando Dazai se ne va e la macchina che esplode è il solito copione. Erano elementi che volevo tenere.
Detto ciò ringrazio davvero chiunque vorrà commentare questa cosa, ne sarei un sacco felice.
Tornerò! (vedete voi se è una minaccia)
Adieu,

El.

 
   
 
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