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Autore: Gwen Chan    12/10/2019    0 recensioni
Irlanda, 1915. Tutte le speranze e le delusioni di un Paese in lotta per la propria libertà. C'è Alistair, sbarcato a Dublino, per sfogare tutta la sua rabbia nella rivoluzione. E c'è Evelyn, fiera e tremendamente bella, che sembra essere l'incarnazione dell'Irlanda stessa.
Aveva conosciuto la ragazza al termine di una delle proteste locali in onore di Valera.
La giovane aspirò una boccata di fumo, poi gli porse quanto rimaneva della sigaretta. Alistair non declinò l'offerta.

[Scozia/Irlanda][Human!AU][Linguaggio colorito]
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Irlanda, Scozia
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Gender Bender
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If it takes a war
 
Aveva conosciuto la ragazza al termine di una delle proteste locali in onore di Valera. 
La giovane aspirò una boccata di fumo, poi gli porse quanto rimaneva della sigaretta. Alistair non declinò l'offerta. 
“Allora, cosa spinge uno straniero a venire ad ascoltare la nostra rabbia?” domandò la donna con la mano sinistra premuta sulla testa a tenere fermo un cappellino che altrimenti sarebbe volato via. I riccioli ramati si stagliavano sulla pelle chiara ma lentigginosa.
“I vostri stessi motivi. Il desiderio di libertà” rispose Alistair gettando il mozzicone a terra. Con un calcio lo spedì a rotolare giù per l'acciottolato. Evelyn abbozzò una risata fasulla. 
“Io lo chiamerei piuttosto desiderio di vedere gli inglesi fuggire con la coda tra le gambe dopo essere stati presi a pedate nel deretano.”
Alistair ghignò in approvazione. “Mai parole furono più giuste. Signorina?”
“Evelyn, Evelyn O’Donnel.”
Così si era presentata, a qualche mese dalla disastrosa Éirí Amach na Cásca.
Una terribile bellezza è nata.
“È un peccato che non sia arrivato prima miss Evelyn.”
Quando a Edimburgo Alistair aveva avuto notizia del fallito tentativo di Valera di rovesciare il governo inglese non c'erano stati dubbi nella decisione di prendere la prima nave disponibile per recarsi sul luogo. La Scozia poteva avere per il momento perso ogni velleità di indipendenza,  ma se l'Irlanda riusciva a mettere Londra in scacco, non poteva che avere il suo appoggio.
La disoccupazione aveva anche i suoi vantaggi. 
“Avrebbe fatto la differenza?”
“No, ma avrei preso volentieri parte all’azione.”
Evelyn non pareva convinta. Si avvertiva una punta di freddezza nelle sue parole e nei suoi gesti. La falda del cappello le nascondeva parte del volto, gettando un’ombra sugli occhi e su parte del naso e degli zigomi. Il gioco di luce creava l’illusione che fosse più vecchia della sua età. Non poteva avere più di vent’anni, considerò Alistair. Eppure era sufficiente che in cielo una nuvola di spostasse di qualche centimetro perché il viso di Evelyn invecchiasse di colpo. 
No. Vecchia non era la parola adatta. Quel viso bianco latte, un poco paffuto, non era vecchio. Era antico. 
“Davvero? Signor?”
“Alistair. Alistair K.”
 
La sera stessa del loro incontro, Evelyn lo presentò a una coppia del Sinn Fein con cui Alistair parlò a lungo su quante possibilità avesse l'Eire di tornare ad avere un parlamento indipendente. 
“Vedete, come popolo siamo molto più vecchi degli inglesi” commentò Collins - solo un omonimo del più celebre rivoluzionario - “E lo sappiamo. Come dice Joyce - lo ha letto?”
“Qualcosa.”
“Le devo prestare Dubliners. Il ritratto è desolante ma ahimè veritiero.  Siamo vecchi e ci siamo accasciati su noi stessi. Ma le cose stanno per cambiare.” concluse, senza più curarsi di tenere sotto controllo la propria voce. Il tonfo del boccale sul tavolo risuonò come un punto esclamativo. Alistair dichiarò la sua approvazione, frugando poi nelle tasche alla ricerca di qualche spicciolo. 
“Permettetemi di offrirvi il prossimo giro” annunciò poggiando qualche banconota spiegazzata sul tavolo. Quando le nuove birre furono davanti a loro, si rivolse al collega di Collins - sapesse quanto mi piacerebbe essere io quel Michael Collins - che finora era rimasto in silenzio.
“Io dico che dobbiamo avere pazienza. Il fallimento della rivolta di Pasqua dimostra che non siamo ancora pronti. Non con metà dei nostri uomini impegnati a farsi scannare in Francia. Nessun desiderio di essere fra quei tanti?”
Alistair si strinse nelle spalle, il viso nascosto dal boccale. Non negava di aver accarezzato l'idea di arruolarsi nell'esercito britannico, ma il pensiero di dover combattere sotto il vessillo della Union Jack invece che sotto la bandiera scozzese lo aveva finora trattenuto.
Espresse ad alta voce tale parere quando l'alcool ebbe sciolto la lingua a sufficienza. Collins scosse la testa.
“Quando si parla di libertà vale la pena combattere. Anche se per qualcun altro.”
Alistair attaccò il quinto boccale. O era il sesto?
“Siete ubriaco.”
Collins lo fissò con occhi tristi. “Lo siamo tutti. Ubriachi di sogni.”
 
Sogni. 
L'unica cosa cui su potesse aspirare.
Con Valera ai lavori forzati e la maggior parte degli uomini in grado di combattere impegnati altrove poco restava da fare a Dublino se non discutere e distribuire pamphlet.
Alistair tuttavia decise di rimanere ancora qualche tempo. Collins lo aiutò a trovare un alloggio a Dublino, facendo da intermediario per una soffitta di proprietà di un qualche lontano parente. 
Sul pavimento c'era uno strato di unto e sporcizia tanto vecchio da essersi ormai fossilizzato. Il legno della finestra si era imbarcato a causa delle frequenti piogge unite a una scarsa manutenzione, così che ora tra il telaio e la parete c'era una fessura di qualche millimetro, sufficiente a lasciar passare un soffio d'aria gelida notte e dì. Non c'era acqua corrente e il materasso brulicava di cimici. 
“Meglio che dormire all'addiaccio”
Qualche volta, stravaccato alla finestra, vedeva passare Evelyn.
 
La maggior parte del tempo però lo trascorreva con Collins, O. e quel poco che restava del Sinn Fei, perché tanto non c’era motivo di tornare ad Edimburgo. A un mese dal suo arrivo, fu la stessa Evelyn a farglielo notare, parlandogli dal basso della strada con una mano sugli occhi e l’altra a stringere lo scialle di lana drappeggiato sulle spalle, i capelli stretti in una crocchia. 
“Non avete nostalgia di casa?” domandò. Scandiva con cura le parole perché Alistair potesse leggere il labiale.
“Non ne ho motivo” rispose dando piccoli colpi all'estremità della sigaretta per far cadere la cenere sulla ringhiera. Evelyn esitò. 
“Non avete famiglia?” 
“Nulla per cui valga la pena tornare.”
Poi la conversazione proseguiva ancora il tempo di due o tre botta e risposta, finché non languiva del tutto ed Evelyn salutava, allontanandosi col passo baldanzoso di chi ha la musica nell'animo.
 
Siul, siul a run
La si sentiva cantare.
 
Qualche volta, la sera, le parole di O. si intrufolavano nelle orecchie come un tarlo che al posto delle uova lasciasse indietro un lieve senso di colpa per non essere insieme a tutti gli altri giovani scozzesi che avevano siglato la loro condanna a morte attirati da un manifesto colorato, da un signore che puntava il dito o da una bambina che domandava “Cosa hai fatto in guerra, papà?” 
Allora si girava nel letto o, se ne aveva, si accendeva una sigaretta, incurante di come il fumo avrebbe impregnato le lenzuola e le pareti di legno, avvolgendo il crocifisso che non andava toccato pena i più atroci supplizi. 
Ma quel crocifisso Alistair lo avrebbe volentieri preso a pugni fino a scorticarsi le nocche e lo avrebbe sbattuto contro la parete fino a distruggerlo nella sua ipocrisia. Dio aveva perso il suo posto nella vita dello scozzese da troppo tempo. Non c'era spazio per Dio quando si avevano tre fratelli e non si condivideva con nessuno più di un genitore. Alistair si accorse di stare stringendo i pugni tanto forte che le nocche erano sbiancate. Qualcuno strillò in gaelico al piano di sotto.
 
A Dublino si poteva ingannare l'attesa leggendo sui giornali come procedeva una guerra ridotta allo stillicidio. Parte del Sinn Fei stampava libelli di protesta in una tipografia clandestina. Tipografia dove Alistair si ritrovò a lavorare, insieme a Collins, O. e un paio di altri giovani che presto si sarebbero arruolati e di cui avrebbe infine dimenticato il nome. Collins aveva servito agli inizi della guerra, ma una pallottola nella gamba lo aveva azzoppato e fornito un visto di invalidità permanente. O. era stato giudicato inadatto, a causa di una tubercolosi latente.  
A volte veniva colto da attacchi di tosse nervosa a causa della polvere o delle altre sostanze utilizzate nella stamperia. Non c'erano finestre e l'aria pesante soffocava il respiro, ma il duro lavoro ripagava.
La ricompensa era vedere libretti da tre fogli ciascuno impilarsi sul pavimento in gruppo da venti da legare con lo spago ad inchiostro ancora umido.
Gli dissero che molti di quei  libelli erano stati scritti da Evelyn in persona. 
Quella ragazza ha la lingua di fata dicevano.
È una lenham sidhe, dicevano. Una musa, che dona estro creativo in cambio della tua anima.
“Come vi ha conosciuto?” domandò Alistair. Collins e O. Risero, dandosi di gomito come due amici che ricordino un episodio molto divertente e noto solo a loro.
“Semmai siamo noi ad avere conosciuto lei” precisò Collins quando si accorse che Alistair era ancora nella stanza. Faceva schioccare la lingua con impazienza, mentre si puliva le mani annerite di inchiostro  con un panno che non sarebbe potuto essere più lurido. 
“La sua è una delle famiglie più antiche della città. Si potrebbe anche dire che sono arrivati con Baile Atha Cliath stessa. E Angus O’Donnel non ha nulla da invidiare a Valera per patriottismo.”
“Io direi che è Valera a dover invidiare qualcosa” fece eco O. urlando per sovrastare il fracasso della pressa. “Con loro la rivolta di Pasqua sarebbe finita in gloria” aggiunse con la convinzione di chi declama una verità ritenuta assoluta. 
Già. Con loro sarebbe andato in porto.
Anche solo con Evelyn. 
Alistair si asciugò il sudore dalla fronte, mentre la prima scintilla di reale interesse per la giovane irlandese si accendeva. Convinse gli amici che per quel giorno avevano lavorato abbastanza, quindi li condusse al pub che ormai era solito frequentare. 
“Ditemi di più” li invitò, quando le prime birre furono sotto i loro nasi. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma Alistair era dell'idea che un buon racconto non potesse essere tale senza una buona birra o un buon bicchiere di whisky a scaldare la gola. 
 
Collins e O. parlarono a lungo di Evelyn senza essere sempre in accordo sulle rispettive affermazioni riguardanti la ragazza. Su una cosa però non c'erano dubbi: Evelyn era inclassificabile
Figlia unica e amatissima, educata secondo l'etichetta in voga in Europa all'epoca, nonché istruita nella storia del l'Eire,  c'era però in lei uno spirito ribelle e birichino. Del genere che la spingeva a montare a cavallo per galoppare nella brughiera se veniva colta da un simile capriccio. Tranne il nome, non aveva nulla in comune con l'omonima di Joyaciana memoria. A quindici anni suo padre l'aveva mandata in America da un paio di lontani cugini, per l'estate, e da allora era tornata più consapevole dello stato di miseria in cui versava l’Irlanda, non che da un netto desiderio di porvi una soluzione. Tuttavia, se Evelyn aveva l'animo ribelle con cui era stata descritta, sapeva nasconderlo molto bene. Laureata in lettere al Trinity college, era raro vederla passeggiare da sola per le vie di Dublino e per il momento il suo unico contributo alla causa irlandese si riduceva ad amabili discussioni di salotto. 
“Ma non farti ingannare. Non esiterebbe  a prendere il mano un fucile se dovesse servire”   
Per il momento, tuttavia, Evelyn era una brava ragazza irlandese, cosa che aveva anche i suoi vantaggi. Soprattutto permetteva a Alistair di anticipare i suoi spostamenti, specialmente la domenica mattina. Non c'era infatti altro luogo dove trovare la ragazza se non la cattedrale del paese.
“Siete una vera figlia di Irlanda” la accolse sui gradini della chiesa. “Se fossi una vera figlia di Irlanda loderei gli antichi dei che vivono nelle nostre colline
Le offrì da bere, Evelyn rifiutò. 
“Devo tornare a casa
“Stasera. Venite da me stasera.”
Senza punto di domanda, ma la ragazza si era ormai allontanata, sollevando la gonna perché l’orlo non si sporcasse nel fango delle sudice strade dublinesi. 
 
Alistair sapeva che sarebbe andato all'inferno. Lo sapeva e non se ne faceva poi un gran cruccio. Preferiva godersi la vita, il presente, con le sue brutture e le cose belle per cui valesse la pena alzarsi la mattina.
Amava bere e fumare.  Amava le risse e non ne rifiuta mai una. Imprecava con la stessa facilità con cui respirava, al punto che chi gli affittava la soffitta ormai si faceva il segno della croce al solo vederlo
Eppure non ci sarebbe mai stato uomo più cortese con una donna. Più innamorato. Ah.
Si sedette pesantemente al tavolino, carta oleosa a destra, calamaio a sinistra. La mano gli tremava al punto che per due volte fu sul punto di rovesciare il calamaio.
 
“Miss Evelyn.
Credo di essere follemente innamorato di voi.”
 
Ridicola.
Stracciò la lettera. Si schiaffeggiò. Si prese la testa fra le mani. Alistair K. datti un contegno, si disse. Puoi avere tutte le donne che vuoi, si disse. Ne trovi anche di economiche. Lascia stare Evelyn, il Sinn Fein,  l'Irlanda. Cristosantissimo. Guardati. Sei patetico
Prese un altro pezzo di carta. 
“Signor O’Donnel.
Le chiedo il permesso di poter corteggiare vostra figlia.
  1. K”
 
Guardò con sdegno il misero risultato di ore di tentativi e ripensamenti. La brutta copia della lettera era a malapena leggibile, tante erano state le cancellature, e la bella era attualmente ferma alla prima riga. Si prese di nuovo la testa fra le mani, incurante delle tracce di inchiostro che le dita sporche avrebbero lasciato sui capelli e sulle guance, rimpiangendo per la prima volta - con suo stesso disgusto -  di non avere mai aperto quei manuali del bravo gentiluomo che aveva visto girare per casa. Probabilmente una lettera di presentazione talmente breve non avrebbe fatto una buona impressione.
Fuori dalla finestra iniziava ad albeggiare quando giunse a una simile conclusione. Si accorse di avere un tremendo torcicollo e le gambe intorpidite per essere rimasto seduto tutta la notte senza mai alzarsi. In più crollava di sonno. Ebbe perciò appena la forza di volontà di caracollare verso il materasso sul quale si lasciò cadere a peso morto, addormentandosi immediatamente.
Si svegliò ormai a pomeriggio inoltrato, cosa che non gli si addiceva affatto e che perciò gli causò una stretta all’addome, un poco indolenzito per la posizione assunta nel sonno ma almeno di nuovo nel pieno delle forze. Si lavò faccia, collo e orecchie nella bacinella vicino al letto, si vestì, poi scese in strada diretto alla tipografia, lo stomaco che reclamava la colazione. 
Collins e O. stavano già lavorando. 
“Fatto baldoria, eh?” lo accolsero con tono faceto, fermando la pressa per dargli ciascuno una pacca sulla schiena.
“Sarebbe stato più piacevole. Avete una sigaretta?”
Collins gliene passò una insieme all'accendino. La pancia di Alistair emise un ulteriore gorgoglio di protesta. “E io che pensavo che la pressa fosse rumorosa” rise Collins mentre legava con lo spago un nuovo pacco di volantini.
“Sai solo blaterare o hai una soluzione al problema?”
Collins rise di nuovo, tossendo appena. “Mia moglie sarà felice di avere ospiti. Non abbiamo molto, ma è sufficiente per riempire lo stomaco.”
 
Si discusse molto durante il pranzo, di argomenti più o meno seri, fra i quali l'interesse dello scozzese per Evelyn O’Donnel.
“Allora ti piace proprio, eh? La sua famiglia organizza una festa per raccogliere fondi per i nostri soldati e si dà il caso che io sia tra gli invitati. Non credo che qualcuno avrà da obiettare se porto un ospite” concluse Collins dondolandosi sulla sedia. “Ma bisognerà trovarti un vestito adatto. Mi sorprende che quello che indossi non abbia già preso vita.”
In un altro frangente Alistair non gli avrebbe negato un cazzotto in faccia come avvertimento; tuttavia l'avere finalmente lo stomaco pieno e la compagnia in fondo piacevole fecero sì che Alistair si limitasse a sbuffare nel proprio boccale.
 
Gli O’Donnel possedevano una magione a qualche chilometro da Dublino dove la famiglia amava recarsi d'estate per fuggire al tanfo e alla confusione della città. La festa si sarebbe tenuta là, tra il primo piano adattato per ospitare quanta più gente possibile e un ampio cortile frontale dove era stato montato un gazebo sotto il quale un paio di violinisti stavano accordando i rispettivi strumenti.  
Collins frenò con un gran stridore di gomma, sollevando una nuvola di polvere attorno all'auto che O. gli aveva prestato per l'occasione - e se torna con un graffio, giuro su Dio, accompagnato dal gesto poco rassicurante di stritolare una testa immaginaria tra le mani. 
 
Tra un bicchiere e una stretta di mano, masticando stuzzichini come prova della propria ricchezza quando non si era impegnati a chiacchierare di argomenti vari, Alistair si trovò faccia a faccia con i genitori di Eveyn. Non c'erano dubbi che Angus O’Donnel sapesse suscitare il rispetto altrui con la sua sola presenza e non solo perché sfiorava il metro e novanta. Alistair pensò che non gli sarebbe dispiaciuto averlo come suocero, a sostituire nel ruolo di figura paterna quel poco di buono che si ritrovava come padre. 
“Tu sei il giovane Kirkland di cui mi ha parlato mia figlia?” interrogò Angus con un tono che già aveva il sapore dell'avvertimento. Alistair Non sarebbe stato sorpreso nello scoprire che Angus O’Donnel aveva un passato nell'esercito - o un presente, come avrebbe presto appreso. Lo scozzese fece appello a quelle buone maniere che tanto a fatica avevano cercato di inculcargli in collegio, almeno finché non era stato grande abbastanza da fuggire una notte da una finestra per non tornare indietro. 
“Sissignore.” 
Le parole suonarono estranee alle sue orecchie. “E vorrei avere il vostro permesso” - argh, ringraziò che non ci fosse nessuna delle sue vecchie conoscenze a testimoniare una simile debolezza - “per corteggiare vostra figlia.”
Ugh, ora aveva l'urgente bisogno di prendere a cazzotti qualcuno. Dylan, adesso ti cancello quel sorriso dalla faccia dente a dente. Ma Dylan era in Turchia con altri problemi a cui pensare. 
“E perché dovrei dare la mia adorata Evelyn a una persona che sta qui a girarsi i pollici invece di combattere per il proprio paese?” replicò Angus lapidario. 
“Non è il mio Paese."
“Ah. Non è neanche il nostro, ma i nostri giovani si sono arruolati comunque.”
Alistair pensò di non poter contrarre la mascella più di quanto non stesse già facendo. Sentiva le vene sul dorso delle mani pulsare. Il completo che un amico dell'amico di Collins gli aveva prestato era troppo piccolo e prudeva.
“Papà.” protestò Evelyn con voce vivace, pur ancora controllata. Le labbra si mossero a formulare nuove parole, ma Alistair la fermò prima che potesse emettere suono.
“No, ho capito. Tolgo il disturbo.”
Nell'allontanarsi afferrò sovrappensiero un nuovo bicchiere di liquore  da uno dei vassoi che passavano silenziosi tra gli invitati. Lo svuotò senza quasi rendersene conto. Poi un altro ancora, perché non c'era rimedio migliore per risollevare una brutta giornata. Ad un certo punto si ritrovò sul retro della villa, dove il giardino curatissimo lasciava bruscamente il posto a un bosco di medie dimensioni. 
 
Fu lì che Evelyn lo raggiunse, con le gote arrossate dal vino. Si avvicinò e gli sfiorò il dorso della mano con un gesto cauto e gentile, come si fa con un cavallo non ancora domato. 
Eppure, Alistair si fece condurre su un dondolo in ferro sotto il portico. Non c'erano cuscini a rendere più confortabile la seduta. Evelyn sollevò l'orlo della gonna di lana ricamata perché non fosse di intralcio prima di accomodarsi sull'altalena con un piccolo saltello. Invitò Alistair ad imitarla. “Non importa cosa dice mio padre. Sono contenta che voi abbiate preferito l'Irlanda alla guerra.” Al buio il suo viso rimaneva nascosto, fatta eccezione per il profilo disegnato dalla luna e dalle lampade, con i fili rossi di capelli che creavano un'aureola di fiamme attorno alla sua testa. La mano gentile ancora posata sulla sua aveva la morbidezza della giovinezza. Eppure Alistair non ebbe difficoltà ad immaginare quella mano sul grilletto di un fucile, a lanciare una granata quanto più lontano possibile o sporca di terra. Poi immaginò a come sarebbe stato portare quella mano, tanto piccina fra le sue, alle labbra e si accese di desiderio. Si ritrasse di scatto, alzandosi come se l'avesse punto qualcosa. 
“È ora che tolga il disturbo” disse andando a cercare una sigaretta da accendere con gesti nervosi.  
Ma poi lei gli fu dietro, ad abbracciarlo con le braccia sottili, il viso e il seno premuti contro la sua schiena. E allora non ci fu più bisogno di chiedere il permesso per Alistair di chinarsi sulla giovane in un bacio appassionato ma presto interrotto. Si udì un rumore di passi, seguito da una voce che chiamava. “Evelyn”.
Alistair ne approfittò per dileguarsi. La sigaretta era ancora stretta tra medio e anulare. Se la portò alle labbra perché il gusto della nicotina cancellasse il sapore di Evelyn.
Fumò fino a bruciarsi le dita vicino alla macchina in attesa che O. tornasse, fingendo di essere sobrio. Tra i due Alistair era quello che reggeva meglio l'alcool, così fu lui a guidare sulla strada del ritorno, con i fanali accesi e il piede forse premuto troppo sull'acceleratore.
Di nuovo a Dublino, si trovò in breve in uno dei vicoli odorosi di cavolo della città in miseria. O. biascicava una canzone di dubbio gusto, ondeggiando a destra e a manca quando non si appoggiava alla sua spalla con tutto il peso del proprio corpo. D'un tratto un membro anch'egli già alticcio della combriccola di Collins non li riconobbe e trascinò al pub.  Di quello che successe dopo, lo scozzese ricordava poco. Sapeva solo che ad un certo punto della notte si trovò di nuovo in camera, seduto al banco traballante che gli faceva da scrivania. 
Lo zigomo gli doleva e aveva le nocche scorticate. A quanto pareva aveva infine avuto la tanto agognata rissa per un motivo così futile da non avere altra utilità se non l'essere solo un pretesto. Lo aveva già dimenticato. 
Spostò qualche ciuffo rossiccio dagli occhi, sbattendo le palpebre per snebbiare la vista. In un qualche modo trovò un pezzo di carta su cui scrivere, una penna e dell'inchiostro. 
 
“Miss O’Donnel”. 
Cancellò la frase con una riga secca.  
“Evelyn.” 
Scartò anche il secondo tentativo 
“Miss Evelyn” Fissò quelle due parole in un corsivo un poco grossolano, ripetendole come un bambino che stia imparando a leggere. Miss. Evelyn. Non suonava male, né troppo diretto né troppo formale. 
“Miss Evelyn, Circostanze a me ignote hanno acceso in me una profonda passione per voi. Ho intenzione di chiedere la vostra mano quando tornerò dalla guerra.  Spero” – o si doveva dire “prego?” - che vostro padre vorrà concedermela.
A.K” 
 
Quando tornerò. Se tornerò. 
 
Quattro mesi dopo si ritrovava in terra di nessuno dove il Belgio sfumava nella Francia. Due anni dopo la guerra volgeva al termine e il Sinn Fei proclamava la repubblica d’Irlanda. Un anno dopo Alistair sbarcava di nuovo sulle coste irlandesi. 
 
 
***
 
Fu una gioia vedere Evelyn ad attendere sulla banchina del porto di Dublino. Sebbene Alistair avesse inviato una lettera un paio di settimane prima per informarla della sua intenzione di tornare in Irlanda, esprimendo il suo desiderio di rivederla il prima possibile, non aveva ricevuto risposta. 
Evelyn lo accolse con un sorriso a trentadue denti. Alistair ebbe la vaga sensazione - la speranza - che gli avrebbe gettato le braccia al collo
Se non fosse stata educata altrimenti.
“Siete venuto per restare questa volta? Splendida giornata, non trovate?”
Evelyn sollevò le braccia sopra la testa stiracchiandosi con un sospiro soddisfatto. Aveva raccolto i capelli rossi in unacrocchia bassa secondo la moda del momento. Alistair mordicchiò il bocchino della propria pipa scuotendo la testa. 
“Sono venuto per combattere.”
“Non siete irlandese.”
“È un'altra obiezione di vostro padre?”
“No. Solo una considerazione.”
Alistair scosse appena la testa. Poi le offrì il braccio facendo un cenno verso la strada. Evelyn fu lesta a recepire il messaggio. Complice la guerra e i suoi disagi si era affilata dall'ultima volta che l'aveva vista e il grasso giovanile aveva lasciato il posto a forme più secche e più adulte. Si vedevano rughe premature a attorno agli occhi, la bocca e il naso e nel sorridere la donna mostrò una dentatura guasta. Ma poco importava. 
Nonostante tutto, passeggiare per le strade dublinesi era ancora piacevole, sebbene risultasse sempre più arduo ignorare i disagi che la città stava sperimentando. Poche persone giravano per le vie e tutte parevano desiderose di essere altrove il prima possibile. Almeno non avrebbero commentato sul fatto che una ragazza non sposata andasse in giro a braccetto con un uomo che non era il suo fidanzato. Non ancora.
“Perché non vi fermate a cena?” Propose Evelyn quando furono sotto casa sua. Alistair valutò l'offerta, soppesando da un lato il buon cibo e il buon bere e dall'altro l'essere giudicato come non abbastanza. 
Un profondo gorgoglio dello stomaco diede la risposta. “Se la vostra famiglia è d'accordo”
“L'invito viene da loro.”
Considerato i termini non proprio amichevoli con cui Alistair e il padre di Evelyn si erano lasciati anni prima, lo scozzese fu in parte sorpreso. Sperava tuttavia che quasi tre anni trascorsi in trincea, l'essere stato presente alle Somme e il grado di sergente fossero sufficienti perché Angus O’Donnel. addolcisse la propria opinione. 
“Sergente Kirkland” lo accolse Angus e Alistair si chiese se ci fosse rispetto o disappunto in come era stato pronunciato quel rango.  
“Sono troppo attaccabrighe” rispose, le labbra piegate in un ghigno perché non si pensasse che si stesse giustificando. Per fortuna Angus annui il suo consenso, permettendo alla conversazione di proseguire su terreni meno impervi, mentre la cena veniva servita.
La guerra aveva finito con l'affliggere anche gli O’Donnel, che si erano comunque prodigati per la comunità. Della servitù di un tempo era rimasto solo l'essenziale, fra cui per gioia di Alistair la cuoca. Il cibo che venne servito, infatti, era semplice ma saporito. 
Quando arrivò il dolce Angus domandò quale interesse avesse lo scozzese in una guerra di indipendenza che non lo toccava. Alistair tamburellò con le dita sul tavolo. “Come ho già detto a vostra figlia anni fa, non mi dispiacerebbe vedere l'Irlanda indipendente. Vedere gli inglesi con la coda tra le gambe. Londra deve smetterla di fare il bello e il cattivo tempo.”
Angus se la prese comoda nel rispondere. Masticò con calma un boccone di torta, bevve un sorso di sidro, si pulì le labbra dalle briciole. E durante tutto questo Alistair credette che avrebbe rotto posate e bicchieri a furia di stringerli in preda all'impazienza.
 
“Abbiamo tutti Sasana in antipatia. Almeno qui. Ma voi sembrate avere un odio personale” constatò infine Angus.
Si voltò verso la moglie e la figlia. “Sono certo che un po' di musica renderebbe tutto più felici. Perché non andate ad accordare l'arpa.”
“Papà.”
“Evelyn.”
“D'accordo.”
Angus congedò anche la cameriera, ordinandole di chiudere la porta della sala da pranzo nell'uscire. Egli e Alistair rimasero soli, rispettivamente a capotavola e un paio di posti più in là, sulla sinistra. 
“Allora, giovanotto. Sarei infine curioso di sapere perché ogni volta che nominiamo gli inglesi sembra che vi stiano torturando. Se la risposta sarà soddisfacente e se Evelyn vi vorrà come marito, non avrò altre obiezioni.”
“E per la guerra?”
“Non siamo nella condizione di rifiutare un aiuto.”
Alistair tracciò col pollice il cerchio del calice. Angus gli stava chiedendo informazioni che non erano mai uscite dalle pareti della sua casa natia. Che nemmeno i suoi fratelli conoscevano. Non importava quanto potesse divertirsi a far loro i dispetti ancora oggi. Non importava quanto potesse soffrire nel guardare Ian o Dylan e vedere i tratti di donne che non erano sua madre. Li avrebbe sempre difesi dalle malelingue. Non importava quanto quella peste spocchiosa di Arthur potesse essere una palla al piede. Se da bambino veniva da lui tenendo per le orecchie il proprio orsacchiotto di pezza a chiedere perché il capofamiglia lo avesse chiamato “bastardo”, Alistair gli avrebbe sempre detto che il solo bastardo sotto quel tetto era suo padre. Il loro padre, si era corretto fretta. 
Arthur aveva tredici anni e Alistair ventitré quando il primo era rientrato da scuola tetro come la morte. “Tuo padre non è mio padre”
Alistair non aveva negato.
Si accorse dello sguardo impaziente di Angus su di sé e si riscosse, forzando la lingua a formulare le prime parole. Per Evelyn, si disse. Perché avrebbe pescato Nessie a mani nude per avere Angus come suocero. 
“Mia madre era la persona più gentile, paziente e pia che si possa mai incontrare. Quando la donna con cui mio padre l'aveva tradita è venuta a bussare alla nostra porta tenendo per mano un marmocchio di cinque anni e lasciandocelo senza troppe spiegazioni, mia madre non solo non ha battuto ciglio, ma ha sempre trattato Dylan come se fosse stato suo figlio. Lo stesso due anni dopo con Ian, nonostante le promesse che non sarebbe riaccaduto. 
E poi quando avevo dieci anni mia madre è stata invitata da un'amica dei tempi della scuola a passare qualche giorno da lei, vicino a Manchester. Mia madre era raggiante, dovevate vederla. Era tanto piacevole assistere alla sua gioia che mi impegnai a dimostrare di essere in grado di badare ai miei fratelli perché non rinunciasse a partire.”
Alistair tirò indietro la sedia e si sporse in avanti lasciando penzolare la braccia tra le cosce, con le dita che giocherellavano con una sigaretta immaginaria. Sul tavolo c'era ancora il cucchiaino del dolce. Lo scozzese lo fece roteare tra indice e medio. Meglio.
“Vorrei non averlo fatto. Forse se avesse rifiutato l'invito, se fosse rimasta a casa, non sarebbe stata violentata in stazione da un bastando inglese figlio di puttana.”
E un'altra lunga lista di improperi, uniti a maledizioni in scozzese stretto. 
“Mia madre sarebbe ancora viva. È morta di parto. E non c'è giorno a cui non pensi a come quel figlio di cagna non abbia pagato. Non so chi sia, quindi può essere chiunque. Chissà, forse era nella trincea affianco. Spero gli sia esplosa una granata in culo.
A ogni viso che vedevo pensavo che sarebbe potuto essere quel bastardo. O suo figlio. O un suo amico. Qualcuno.”
Le nocche di Alistair erano livide per la rabbia e la tensione. Incapace di rimanere seduto un secondo di più iniziò a fare avanti e indietro per la stanza, col passo svelto e innaturale della marcia. Abituato a risolvere i conflitti con una bella scazzottata dove o finivi con l'andare a bere il tuo ex nemico o gettava i semi di una faida secolare, faticava a stare fermo e a spiegare il proprio passato.
"E dove sono ora i tuoi fratelli?" gli domandò Angus.
"I miei fratelli? Dylan era ancora in Turchia l'ultima volta che mi ha scritto. Ian è convalescente a casa dopo una brutta polmonite, il gas gli ha distrutto i polmoni. Progetta di raggiungermi appena guarito. Arthur si sta laureando in filosofia a Oxford, dopo un anno di trincee in Belgio. 
Angus gli fece cenno di fermarsi e contro ogni aspettativa Alistair obbedì, ritto a testa alta con la rigidità degli anni da militare.
"Volete combattere per questo Paese?"
"Si. Signore."
Angus gli tese la mano, che era grande e ruvida.
“Benvenuto nell'IRA."
 
Poco tempo dopo Evelyn insistette tanto che alla fine il padre dovette cedere alle sue richieste di partecipare attivamente anche lei alla causa. Si sarebbe unita lo  stesso unità alle altre ragazze del Cumann naBan un giorno o l'altro, che egli le desse o meno la sua benedizione. Tanto valeva perciò assecondarla, almeno avrebbe saputo dove si trovava.
Evelyn promise che lo sarebbe stata. Ricevette il suo primo incarico poco tempo dopo nella forma di una busta contenente delle importanti informazioni strategiche relative a una missioni di sabotaggio di due cellule dell’IRA e nell’infilare quei preziosi fogli in seno provò il brivido di chi combatte per il proprio Paese.
Certe volte sperava che la sua strada si sarebbe incrociata con quella di Alistair ma ciò accadeva di rado.
 
 
La frequenza dei loro incontri, però, non era molto diversa che durante la guerra. E quando una staffetta mise in serio pericolo la vita di Evelyn, Angus preferì chiudere la figlia a casa, a Dublino, senza sentire ragioni.
La donna stava consumando il pavimento a furia di camminare avanti e indietro quando il rombo di una motocicletta giunse da sotto la finestra.
Alistair.
Il pensiero si formò con la stessa naturalezza di un respiro. Evelyn senti il cuore salire alla gola. La possibilità di un errore nel suo giudizio era lungi dal suo essere. Afferrò lo scialle abbandonato sulla vicina sedia. Era novembre e faceva freddo.
“Alistair.”
Si fermò sulla soglia di casa, con una ruga di dubbio che scavava la fronte d'alabastro. Non c'erano dubbi che uno dei due uomini insella fosse Alistair, ma non era alla guida. Al contrario si appoggiava maldestramente a un giovanotto che Evelyn non conosceva. Notò in lui una certa somiglianza con lo scozzese, la cui testa ciondolava in avanti in una maniera che non le piacque affatto. Decise di avvicinarsi, la lingua già premuta da troppe domande. 
“Tu sei Evelyn?” Lo sconosciuto non le diede il tempo di aprire bocca. “Aiutami a portarlo dentro. E chiama un dottore.” proseguì. I suoi ordini furono brevi e secchi. Evelyn non si mosse di un passo.
“Chi sei?”
“Ian. I convenevoli a dopo. Che aspetti? Vai a chiamare qualcuno.” 
La persona chiamata Ian saltò giù dalla moto. Privato del sostegno Alistair si sbilanciò in avanti e sarebbe caduto se l'altro non fosse stato lesto ad afferrarlo. “Coraggio fratellone. Ancora un piccolo sforzo.”
Ed Evelyn lo vide. Sbiancò. Sul fianco di Alistair si estendeva una macchia nera, di sangue ormai secco che aveva impregnato l'uniforme e la fasciatura di fortuna. Sangue. Tanto sangue. Le venne da vomitare. La fronte di Alistair era imperlata di sudore. Le palpebre cadevano pesanti sugli occhi. 
“Aiutami.” supplicò Ian con le gambe piegate nel tentativo di sostenere il peso del fratello. 
Evelyn si fece coraggio e corse ad aiutarlo. “Madonna santissima, è bollente.” 
Alistair sembrava stare andando a fuoco. E tremava. Dio se tremava. 
Setticemia. 
Evelyn scacciò il pensiero.
 
Portarono Alistair in cucina, la stanza più vicina all'ingresso, dove lo adagiarono non senza fatica sul tavolo normalmente usato dalla cuoca per impastare dolci o affettare cipolle. Evelyn corse poi nello studio di suo padre per scrivere sul primo pezzo di carta disponibile l'indirizzo di un dottore amico di famiglia. Lo mise in mano a Ian.
“Vai. Sbrigati.” gli intimò, come se non fosse stata lei la prima a indugiare. 
Di nuovo sola cominciò a torcersi le mani e a camminare su e giù per la stanza, incapace di decidere cosa bisognasse fare. Alistair respirava appena. Ogni tanto mormorava qualcosa nel delirio, anche se più che parole compiute i suoi erano ringhi da bestia ferita. 
Evelyn spostò la treccia da una spalla all'altra con un gesto secco. Avrebbe dovuto fare la scuola di infermiera, altro che studiare lettere. Oh, ci doveva pur essere qualcosa da fare in attesa del dottore - perché Ian ci stava mettendo così tanto?
Un rumore di zoccoli la fece trasalire e voltare di scatto. Non era il dottore, ma Léah, la vecchia cuoca.
“Signorina Evelyn, lo so che sono tempi duri ma non è cristiano darsi al cannibalismo.”
Evelyn non seppe se scoppiare a ridere o a piangere. Nel dubbio decise di fare entrambi, nascondendo il viso rigato di lacrime nel grembiule. La cuoca si avvicinò ad Alistair, riconoscendolo. 
“Ma è vivo. Signorina, avrebbe dovuto chiamare qualcuno.” La rimproverò, cominciando a rimboccarsi le maniche sulle braccia magre. Evelyn balbettò di aver mandato qualcuno a chiamare un dottore.
“Potrebbe essere morto prima che arrivi il dottore. Vada a prendere dell'acqua. Si sbrighi.”
Evelyn non era certo abituata a ricevere ordini, tantomeno da una domestica. Aveva sempre trattato la servitù con rispetto ma mantenuto un certo distacco. Léah però sembrava sapere il fatto suo.
Una volta tolta a Alistair la giubba lurida e lavato la ferita, Evelyn si accorse di come questa fosse meno grave del previsto. Il proiettile pareva averlo attraversato ma se Alistair era ancora vivo forse aveva colpito un organo cavo e c'era speranza. L'importante era evitare che andasse in cancrena. Strizzò un altro strofinaccio di acqua gelata da poggiare sulla fronte dell'uomo, notando con apprensione che la temperatura non accennava a scendere. 
Il dottore arrivò nei minuti successivi. Non chiese perché avessero portato Alistair lì e non in ospedale. Semplicemente posò la borsa degli strumenti e corse a valutare la situazione.
 
Non era la prima volta che sparavano ad Alistair né era la prima volta che la sua vita veniva messa in pericolo,  ma Evelyn non lo sapeva.
Anzi lo sapeva ma volle fingere che non fosse così.
“Sopravvivrà?” sussurrò perché il dottore che stava ammassando sul tavolo  strumenti per nulla rassicuranti le desse una speranza.
“Mi servono bende pulite.”
“Sopravvivrà?” Chiese di nuovo Evelyn, non muovendosi di un passo. 
Si era sempre considerata una giovane coraggiosa e intraprendente ma ora, messa alla prova, faticava già a rimanere in piedi. 
“Sopravvivrà se mi aiutate. Non state lì.”
Già, si disse Evelyn. Era una O'Donnel. Era una figlia d'Irlanda. Era entrata nel Cumann naBan, correndo fino a consumare le suole delle scarpe per portare messaggi da una parte all'altra del Paese. La figlia di Angus O'Donnel non sarebbe andata in panico per un po' di sangue.
“Puoi andare” congedò la cuoca, che si era fatta da parte per non essere d'intralcio ma che era rimasta nella stanza. La donna chiuse la porta dietro di sé con un cenno del capo.
“Sopravvivrai” annunciò a Alistair sopra l'acqua finalmente messa a bollire per disinfettare gli stracci da usare per il bendaggio. 
“Ditemi cosa fare” domandò infine. L'anziano medico le diede istruzioni. 
Avendo servito a lungo sul campo di battaglia, estrarre il proiettile dalla ferita e ricucirla fu il minore dei problemi. Quello che lo preoccupava davvero erano le conseguenze di un'infezione. Si vedeva che il paziente aveva una fibra robusta e Evelyn aveva limitato molto il problema pulendo la ferita, ma quei casi erano imprevedibili. Aveva visto giovani morire per un taglio cui non avrebbe dato due lire.
Egli comunque aveva fatto tutto il possibile. Somministrò un antibiotico ad Alistair, suggerì a Evelyn di pregare e la istruì su come cambiare il bendaggio.
 
Alistair rimase in bilico tra vita e morte per quattro giorni, poi la febbre cominciò finalmente a scendere e l'uomo a dare i primi segni di stare per riprendere conoscenza. 
Quando si svegliò era solo. 
Ian era dovuto tornare sul campo. Evelyn era andata in città, convinta dalla domestica sul fatto che le avrebbe fatto bene prendere un po' d'aria dopo aver trascorso quasi trentasei ore al capezzale dello scozzese. Avevano accomodato Alistair in una delle camere per gli ospiti della villa degli O'Donnel. Le lenzuola, un tempo fresche di bucato, pativano l'essere state a contatto con un corpo febbricitante. Voltando la testa lo scozzese notò una flebo rudimentale che gli impediva di disidratarsi. Si portò poi la mano al fianco, tastando le garze che proteggevano la ferita da poco ricucita.
Quando Sínead, la domestica, entrò nella stanza per controllare le sue condizioni, Alistair stava più o meno cercando di mettersi in piedi. C'era una guerra da combattere e lui di stare lì ad essere accudito come un poppante non ne aveva punto intenzione. 
La domestica era d'altro parere.
“Cosa fa? Torni subito a letto. Lei ha rischiato di morire. La signorina Evelyn mi uccide se le succede qualcosa. Su,” gridò. Mentre parlava, lo spingeva verso il giaciglio. Per una persona della sua età e della sua corporatura era incredibilmente robusta. 
Che gli piacesse o meno aveva poca importanza. Alistair sarebbe dovuto rimanere a letto ancora per qualche giorno - o almeno finché la febbre non fosse passata del tutto. Poi ci sarebbe stata la convalescenza. Niente guerra per un bel po' di settimane. A nulla valsero le proteste dell'uomo sull'infimità della ferita. 
 
Evelyn lo sentì borbottare dal portone d'ingresso. 
Senza togliersi le scarpe o il cappotto corse fino alla sua stanza, le guance arrossate per la corsa. 
"Grazie a Dio ti sei svegliato." Gridò gettandogli le braccia al collo con la foga del sollievo dopo un lungo affanno.
Era rimasta quasi quarantotto ore filate a vegliare Alistair, lottando contro il sonno e mangiando distrattamente quel poco che la domestica l'aveva convinta a inghiottire. Infine, tuttavia, Leah, che era robusta nonostante l'età, l'aveva letteralmente trascinata fuori dalla camera stantia. 
"Così non va signorina." esclamò con le mani sui fianchi e gli occhi terribili di quando la rimproverava da bambina. "Ora si fa una bella doccia e si mette un abito pulito e va a fare un giro in paese" e nel dirlo già la spingeva verso il bagno. Evelyn aveva dovuto arrendersi, perché la cuoca era una donna robusta e lei indebolita dalla preoccupazione. 
Aveva trovato la città vuota e silenziosa, immersa in una quiete che le era innaturale. Molti negozi erano chiusi con le assi sulla porta, davanti alla quale mendicanti cenciosi chiedevano una moneta. L'odore di fumo e cavolo filtrava da sotto le finestre. 
Evelyn aveva attraversato uno dei quartieri popolari di Dublino per far visita al fornaio, la cui figlia era una sua cara amica. Anche lei faceva la staffetta. Gli O'Brien le offrirono una tazza di tè caldo insieme a una fetta di pane e formaggio che la ragazza non rifiutò per cortesia.
Nel congedarsi sentì lo stomaco meno attorcigliato.
 
"Vuoi rompermi?" 
Alistair stava protestando per la presa di Evelyn che minacciava di staccargli la testa dal collo.
“Scusa” si ritrasse lei, di colpo timida e con le gote imporporate. “Il dottore ha detto che non dovresti avere troppi strascichi” continuò.
“Lieto di saperlo.”
“E quando sarai guarito ci sposeremo” aggiunse, come se fosse stato una cosa ovvia. Alistair fece una smorfia, difficile capire se per Evelyin o il dolore.
“Spero che ora vostro padre mi ritenga degno.”
 
Evelyn lo guardò pensierosa. Controllò che la porta della camera fosse chiusa e si spogliò dei propri abiti, rimanendo solo in sottoveste. Poi si infilò nel suo letto.
 
Si sposarono nelle settimane seguenti.

 
***
 
Circa un anno dopo accadevano due cose. Da un lato le milizie irlandesi iniziavano a discutere i termini dell'armistizio con le controparti inglesi. Dall'altro una mattina di giugno trovò Alistair al pub di buon'ora, pallido come non era mai stato. Nemmeno in guerra o quando gli avevano sparato aveva avuto un colorito tanto terreo. Collins gli mise un braccio attorno alle spalle. 
“Andrà bene, questa è la parte facile” cercò di rassicurarlo prima di fare cenno all'oste di portare dell'altra birra. Dunque avevano infine trovato la debolezza di Alistair. 
“Avete già pensato al nome?”
Alistair grugnì come una bestia ferita.
“Credevo ci fossi abituato. Voglio dire, con tre fratelli e il resto”
“Ian e Dylan non hanno vissuto con noi prima dei cinque anni. Ed ero già in collegio quando è nato Arthur. Devo ricordarti come è morta mia madre? Quindi dimmi ancora una volta di non preoccuparmi e non rispondo più delle mie azioni” minacciò Alistair. Si tastò le tasche. Collins, anticipando il suo desiderio, gli passò una sigaretta e l'accendino. “Facciamo tutto il pacchetto, va'“
Il sole era alto nel cielo e le sigarette da tempo finite quando un'amica di Evelyn fece il suo ingresso nel pub per annunciare che il parto si era concluso senza complicazioni. “Un bel maschietto."
Era minuscolo, col viso grinzoso, i pugnetti chiusi e le guance rosse quasi  come la lieve peluria che aveva in testa. Evelyn lo sorreggeva con l'avambraccio mentre il neonato succhiava dal suo seno.
"Vorrei chiamarlo Eamon" disse la donna. Alistair annuì.
"Eamon William."
Evelyn ghignò. "Andata."
 
Note: 

E capita che ti metti a sfogliare la cartella dei vecchi scritti e trovi WIP che anche dopo tre anni non ti fanno venire il cringe. Questa fic è vecchia e onestamente non ricordo più la ragione dietro a metà delle mie scelte. Tipo la scelta del nome alla fine. Ci deve essere stato un significato storico-politico, ma non chiedetemi quale.

Sarebbe dovuta essere una fic regalo per un’amica, ma poi ho perso l’ispirazione perché il progetto iniziale era troppo grande, c’è stato l’ultimo anno di università, mi sono tirata fuori dalla depressione prendendomi per i capelli da sola e tante altre belle cose.

E nel frattempo io e quell’amica ci siamo allontanate e io ho cambiato fandom.

Lo hanno fatto tutte le persone che mi seguivano e quindi dubito che chi leggerà, se qualcuno leggerà, lo veda come un ritorno. Non è un mio ritorno nel fandom. Non ancora.

Per le note tecniche, sì, c’è un motivo per cui è rimasta nel cassetto per tre anni. È OOC da far paura e sono combattuta tra il “fa schifo” e il “ma non è neanche tanto male”. La pubblico perché, capitemi, non sono la migliore giudice di me stessa. Per l’OOC, be’, non è facile tirare fuori una caratterizzazione in AU quando in canon hai a malapena tre righe di informazioni.

So che Irlanda dovrebbe essere un maschio, ma di nuovo capitemi, nel lontano 2009 qualcuno ha creato Evelyin e da allora per me Irlanda è sempre rimasta Evelyn. 

Ian dovrebbe essere Irlanda del Nord, Dylan Galles. Se ricordo bene. I nomi vengono dal fandom. 

È talmente AU che potrebbe essere anche pubblicata come originale. La metto qui solo perché è nata per questo fandom e mi farebbe strano fare altrimenti. 

Detto questo, enjoy.


 
   
 
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