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Autore: ChiiCat92    13/10/2019    0 recensioni
"Socchiudo gli occhi battendo piano le palpebre e la luce del mattino mi bagna le ciglia, tingendole di arcobaleni.
Un tempo avrei lasciato a quella sensazione di benessere di prendermi, avvolgermi, consolarmi, un tempo sarebbe bastato. Ma il tepore intontito del risveglio lascia presto spazio ad un oblio vuoto, risonante di nulla."
Questa storia partecipa al Writober 2019 d Fanwriter.it, lista PumpINK.
#writober2019 #fanwriterit #halloween2019
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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13/10/2019

 

Appuntamento 


Apro gli occhi nel lucore del mattino. Le tende, appena accostate, lasciano che la luce immerga gli oggetti come in una tinozza d’acqua dorata.

Con le coperte tirate fin sul naso raccolgo ogni atomo di calore possibile perché si diffonda nel mio corpo intirizzito.

Socchiudo gli occhi battendo piano le palpebre e la luce del mattino mi bagna le ciglia, tingendole di arcobaleni.

Un tempo avrei lasciato a quella sensazione di benessere di prendermi, avvolgermi, consolarmi, un tempo sarebbe bastato. Ma il tepore intontito del risveglio lascia presto spazio ad un oblio vuoto, risonante di nulla. 

Tornato del tutto cosciente accolgo il vuoto come si accoglie un vecchio amico. Quando è lui a prendere il controllo è una bella giornata. Ci sono cose che prendono il sopravvento di me che non sono altrettanto piacevoli da sopportare. 

Scosto le coperte, il freddo improvviso mi fa accapponare la pelle, appoggio i piedi nudi a terra per sentire meglio il gelo. In qualche modo assomiglia al vuoto, ma non raggiunge il cuore. 

Mi alzo barcollando e mi avvicino alla finestra, scostando appena la tenda. Riesco a vedere, anche dietro le imposte chiuse, la coppia che abita nell’appartamento di fronte. Tengono sempre le finestre chiuse quando fanno colazione, ma so che la cucina da sulla strada perché durante il giorno riesco a vederla tra il velo morbido delle tende. Sono una bella coppia, di quelle che non litigano mai ma che non hanno comunque niente da dirsi. Lei esce per andare a lavoro, lui rimane a casa con il suo portatile.

Stiracchio le braccia verso l’alto e vado in cucina, l’odore di caffè l’aria, riesco quasi a vederlo fisicamente nelle particelle polvere.

Alexa ha acceso la macchinetta come ogni mattina, e la tazza fumante aspetta solo me.  

Mi piace il caffè americano, lungo, marrone chiaro, che riempie fino all’orlo la tazza e lo stomaco. Probabilmente c’è qualche italiano che la pensa diversamente, potrei dirgli che è solo questione di gusti, ma si arrabbierebbe comunque per orgoglio nazionale. 

Lo sorseggio piano, senza zucchero, aspetto di ritrovare il calore di sempre.

Ormai le uniche cose che sento davvero sono il freddo e il caldo che si alternano in brevi danze tra un momento di nulla e un altro. 

Per fortuna tra poco tutto sarà finito.

Qualcosa di stretto e doloroso, con spine simili a quelle di un rampicante velenoso, cerca di stritolarmi il petto, riempire il vuoto, ma riesco a scacciarlo giù, nel profondo, insieme a tutti i miei mostri, a ripristinare l’ordine del nulla. 

Questa battaglia contro me stesso mi sfianca. 

« Alexa, per quando è fissato l’Appuntamento? » intanto il caffè mi ustiona la lingua, la gola, arriva benefico fino allo stomaco.

« L’Appuntamento è fissato per oggi alle dodici. »

Mi sfugge un sospiro di sollievo. Finalmente. 

Lancio un’occhiata all’orologio digitale alla parete, le 09:15: spero che le ore passino veloci. 

 

Ci sono molti modi per farlo, per farlo da soli

Potrei saltare sotto un treno in corsa, ad esempio. Gettarmi in mezzo alla carreggiata e aspettare, saltare da una terrazza, tagliarmi le vele, avvelenarmi con i sonniferi: la creatività non mi manca.

Però sarebbe illegale. I miei pochi averi, i risparmi di una vita, l’appartamento, tutti gli oggetti che mi appartengono, nel caso in cui decidessi di farla finita così sarebbero distrutti, invece, se è lo Stato a farlo, tutto quello che mi appartiene verrà distribuito ai miei parenti più prossimi, in assenza di parenti prossimi a quelli lontani, in assenza di quelli lontani ai miei amici, in assenza di amici...in beneficenza, o qualcosa del genere. 

È diventato molto più facile vivere sapendo di poter fissare consapevolmente un Appuntamento con la Morte. 

Paradossalmente i normali suicidi sono diminuiti, e in misura drastica! Il bullismo, la discriminazione, gli abusi solo in rari casi mietono vittime, questo perché prima di prendere l’Appuntamento un team di psichiatri e medici da ogni dove si occupa del Richiedente fino a guarirlo.

Ma c’è un mal di vivere che nessuno è in grado di guarire, né i medici, né le medicine, né le giornate di Sole in cui tutto vibra di speranza e vita. Niente

La consapevolezza del mio Appuntamento mi rende tranquillo, e rende tranquilli i mostri nel mio petto. Avverto un silenzio apatico che diventa per me una sinfonia di piacere. 

Certe volte il ronzio delle voci, dei pensieri, delle ossessioni, è così intenso da farmi scoppiare la testa, così forte da farmi desiderare di spaccarmela contro un muro. E poi c’è La Voce, quella più intensa, calda, accogliente, apprensiva come una madre che cerca mi invita a seguirla, sotto le ruote di un’auto, contro il parapetto di una finestra, giù, sul fondo di un abisso scuro. Il richiamo di quella voce è difficile da ignorare, e io non voglio neanche farlo.  

Indosso i miei jeans preferiti, la maglietta banca, la felpa blu scuro, le converse logorate dall’usura. 

Prima di uscire di casa mi guardo allo specchio, l’ultimo obbligo impostomi dalla società. I capelli neri, perennemente spettinati, gli occhi altrettanto scuri, i cerchi violacei che li circondano, il pallore dell’incarnato.

« Alexa, ciao. » dico, prima di uscire di casa, alle chiavi ho appeso il piccolo peluche di un fantasmino preso ad un UFO catcher almeno una vita fa. 

« Ciao, ciao. » mi dice lei. 

Le intelligenze artificiali non provano sentimenti, o almeno spero che sia così, perché le invidio. 

Tengo le mani infilate in tasca, giochicchiando con il portachiavi al suo interno. Ho scordato di prendere il cellulare, ma sono settimane che non lo uso, non mi servirà adesso. 

Sento un’agonia lancinante mentre cammino per strada, in mezzo alla luce, con le persone che vanno e vengono, piene di sé, delle loro vite piene di colori. 

Immagino di farmi strada come una macchia scura d’inchiostro in mezzo a loro. Posso infettarli con un tocco, o solo con la mia presenza? 

Tengo lo sguardo basso e lontani i pensieri. L’eccitazione crescente mi farebbe aumentare il passo ma voglio gustarmi gli ultimi istanti. 

Il colore vitreo del cielo,

il vento caldo profumato di primavera, 

nuvole candide all’orizzonte,

lo sozzura degli esseri umani,

le fauci affilate dei palazzi contro il cielo, 

i clacson,

la morte,

la morte, 

la morte. 

Respiro a fondo i gas di scarico, avverto il sentore di hot dog acidi, fiori da un negozio aperto all’angolo. 

Sorrido. 

 

Sembra una clinica qualunque, di quei poliambulatori con tanti specialisti che corrono a destra e manca cercando di non ostacolarsi a vicenda. 

Non ci sono molte persone, ma c’è orrore sui loro volti, e sono tutte venute da sole.

Mi avvicino al bancone dove una ragazza tamburella sulla tastiera di un computer. 

« Salve. » le dico, atono.

Lei mi fa cenno di aspettare con un dito, conto fino a centoventi prima che alzi lo sguardo.

« Posso aiutarti? »

« Ho un Appuntamento. » forse lo dico sorridendo, perché la ragazza impallidisce. Deve essere nuova, forse comincia a sentire la pressione morale di quello che sta facendo. È lei l’inizio di una serie di ingranaggi unti con sangue vivo.

« C-certo. » balbetta lei. 

Prende i miei documenti, si accerta con le impronte digitali che sia veramente io, poi mi porge un plico di documenti da leggere e firmare. Consensi di vario genere, autorizzazioni, spiegazioni della procedura, chiarimenti su come verranno gestiti i miei averi e bla bla bla. Firmo senza guardare veramente, tanto che risulta sbilenca la mia scrittura sulla linea tratteggiata. 

« Accomodati, verranno a prenderti. »

Annuisco ma non la guardo in volto. Non mi interessa e non la voglio nella mia memoria. 

Mi siedo in disparte, stando attento a non toccare con le ginocchia chi mi sta accanto. Ho paura di essere contagioso, o forse di essere contagiato. Il dolore si presenta in molte forme, e non è mai lo stesso, a volte può confondere i sensi fino a non rendere più consapevoli di quale sia il proprio, diventa solo malessere, soffuso, intenso, pulsante. Non voglio che succeda, voglio solo il mio dolore, voglio sentirlo mentre consuma il mio corpo. 

« Tèlos? » un medico occhialuto abbraccia la stanza con uno sguardo, veloce, per evitare di entrare in contatto con la malattia dell’anima che ci infligge tutti.

« Sono io. » mi alzo con un sospiro.

Nonostante questo sia quello che voglio non riesco a sentire niente. Immaginavo che almeno prima di morire avrei avvertito qualcosa di diverso dall’apatia, e dal desiderio di morte stesso. 

Il medico mi porta in una stanza appartata, con luci soffuse.

« Se hai oggetti personali, per favore, lasciali nella vaschetta. »

Annuisco. Sfilo le chiavi dalla tasca e le lascio tintinnare nella vaschetta, il portafogli consunto, tolgo anche gli orecchini e l’orologio. 

Poi il dottore mi indica un lettino. Mi ci sistemo, è abbastanza comodo, c’è un poggiabraccio, probabilmente è dove devo metterlo perché mi facciano l’iniezione. 

« Ci vorranno pochi minuti, sarà come addormentarsi. » 

Silenziosi, sono scivolati nella stanza altri medici e qualche infermiere, si affaccendano intorno ai macchinari, scribacchiano sui loro notepad. Sono discreti, ma credo che siano qui per studiare il mio caso. Mi chiedo se lo facciano con tutti, se è una raccolta dati che serve alla struttura o se sono solo studenti che cercano di scrivere una bella tesi di laurea. 

Suicidio assistito, eticità e follia.  

« Vuoi ascoltare della musica? » il medico occhialuto parla sottovoce. Non vuole spaventarmi, forse, per questo si frappone tra me e l’infermiere che sta riempiendo la siringa. In realtà mi piacerebbe guardare. 

« No, mi piace il silenzio. » 

Se c’è del biasimo nei suoi occhi non lo vedo, sono più concentrato sulla ragazza che prepara il braccio per l’iniezione. 

C’è un buon profumo qui dentro, sterile e semplice, come i miei pensieri: per una volta vanno in una sola direzione, è assurdamente facili seguirli. 

Scopro che non c’è spazio per i ricordi in quel posto, e niente di ciò che mi ha costretto ad essere lì si ripresenta alla memoria, come se avessi cancellato tutto prima di entrare. Esiste solo il momento presente, la consolazione di un ago nel braccio.

Chiudo gli occhi, respiro profondamente, in modo calcolato, mi sembra di avvertire il veleno della libertà che scorre sottopelle. 

Una cosa nuova, una cosa vecchia, una cosa blu, una cosa prestata, una cosa regalata, le cinque cose che non possono mancare ad una sposa. Non so da dove venga quel pensiero, ma indugio, per un attimo. 

La mia felpa è blu, ed è vecchia; i jeans sono un regalo di mio fratello e sono nuovi, e la mia vita è stata presa in prestito.

È il momento di restituirla.   



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The Corner 

Sono già in ritardo con il Writober, perché questa dovrebbe essere la storia del 12 ottobre ed oggi è il 13. Beh, meglio tardi che mai, immagino.
Scrivere è una valvola di sfogo non indifferente, e a volte mi sento una pentola a pressione sul punto di scoppiare. Certe volte ho trovato la direzione giusta in cui mandare i miei pensieri solo scrivendo, certe volte no, è un pendolo che oscilla. 

Chii
   
 
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