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Autore: Adeia Di Elferas    15/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Per ogni tratto le città e le terre sono ingombrate a freno e a terrore di forche, eppure questo non basta a franare l'insolenza di suddette barbare nazioni. Quindi conviene aprire gli occhi – e nel dire ciò, Dipintore sollevò anche un indice ammonitore – in tempo, e prevedere le tristi vicende future avvedutamente, lasciando stare, che non per Santa Chiesa sollecita questo acquisto il papa, ma per un suo figliolo, al quale a non lontano successore al Trono, accadrà lo stesso, che sotto agli occhi nostri succedere vediamo al figliuolo legittimo del pontefice passato, di vivere cioè dimentico da tutti e quasi annientato. Questa catastrofe è frequente negli Stati della Chiesa. I forlivesi non è gran tempo che invidiavano la felicità altrui, ora altri paesi invidiano quella dei forlivesi. A ragione si acclamano e si sperimentano gli odierni Signori per giusti, provvidi, amanti liberali, ma di quelli che da alcuni vengono presagiti come futuri, si osservi se altro oltre ciò vi sia luogo a sospettare.”

L'Auditore si prese un istante per recuperare il fiato. Diede un'occhiata significativa a Tornielli che, in prima fila, lo fissava con gli occhi scuri, ma annuendo di quando in quando. Preferì non guardare Ottaviano, anche perché aveva sentito benissimo che il ragazzo, durante l'ultima parte, aveva fatto mezzo passo indietro, quasi a volersi discostare dalle parole scritte dalla madre.

“Finalmente – riprese l'uomo, voltando la pagina – Madonna Caterina a onta di ogni contrario riguardo, per l'amore che nutre verso i suoi sudditi, vuole a ogni costo morire signora di Imola e Forlì e giura sopra la sua fede che così come saprà sempre essere grata e amica dei suoi amici, e crede di averne dato ognora luminose riprove, così saprà ugualmente essere inesorabile nel prendersi giusta soddisfazione dei suoi nemici!”

La risposta dei forlivesi fu immediata ed esplosiva. Come se la voce dell'Auditore avesse avuto il potere di risvegliare definitivamente le loro coscienze, tutti gli uomini presenti cominciarono a inneggiare alla Tigre, professandosi in ogni modo suoi fedeli servi.

L'unico – ma Dipintore, dalla sua posizione, non avrebbe potuto vederlo nemmeno se avesse voluto coglierlo in fragrante – a non esprimere il proprio entusiasmo fu Andrea Bernardi. Era arrivato nella sala grande tra i primi, ma poi aveva fatto in modo che i suoi concittadini lo attorniassero fin quasi a nasconderlo, in modo da non dover per forza controllare le proprie espressioni facciali.

Nel sentire quel passo, in cui si ricordava dell'immensa riconoscenza che la Sforza sapeva tributare ai suoi amici, il barbiere aveva fatto un mezzo sbuffo e poi, mentre tutti si infervoravano applaudendo e gridando, lui se n'era rimasto con le braccia conserte e lo sguardo torvo.

L'Auditore, però, vedeva davanti a sé solo una ressa esultante e dello storico risentito non ebbe nemmeno il più vago sentore.

Si poteva dire che quella parte del discorso fosse un autentico successo, ma, a quel punto, per evitare un effetto a valanga che avrebbe portato a decisioni affrettate e facilmente rinnegabili, fu il Capo dei Magistrati Tornielli a prendere la parola. Salendo sul rialzo su cui stava ancora Dipintore – mentre Ottaviano, defilato, aveva già sceso il gradino e restava con le mani in mano in disparte – l'uomo richiamò l'attenzione di tutti sollevando le braccia e ottenendo in fretta il silenzio.

“Anche in città ognuno fa meraviglia, vedendo l'ingiusto impegno del papa, dato che è pubblica la soddisfazione del suo credito.” ammise, accolto subito da qualche applauso: “Pure se l'impegno lo portasse a inviare l'esercito contro Forlì, dovrà pensare che i forlivesi sono sempre stati svisceratissimi per i loro padroni, e anche se lui, con il favore e l'aiuto del re di Francia ostenti di essere poderoso e di incutere molto timore, non riuscirà comunque a rendere timidi i forlivesi, essendo che chiunque impugni le armi a favore e difesa dei propri figlioli, della sua roba, della sua patria e della sua casa, si rende assai più valoroso che quattro, o cinque di quelli che non hanno altro motivo se non lo scarso soldo e un forzato ingaggio. Senza parlare la giustizia della causa, che verrà assecondata e protetta dal Dio degli eserciti e dai Santi Protettori.”

Le parole di Tornielli, meno vibranti di quelle dell'Auditore, ma altrettanto cariche di significato, ebbero un potere strano sui presenti. Cominciare a fare confronti di forza tra loro e i nemici in avvicinamento sembrava aver già smorzato un po' i facili entusiasmi degli uomini presenti – tra i quali nessuno faceva parte dell'esercito stabile messo insieme dalla Tigre – e aver evocato le prime perplessità, specie tra i più anziani.

A quel punto, rendendosi portavoce della popolazione, fece un passo avanti Bartolomeo Lombardini che, senza tema di essere smentito da chicchessia, ripercorse a grandi linee quanto già esposto dal Capo dei Magistrati, approvando le proposte teoricamente avanzate da Ottaviano, sottolineando poi come fosse il caso che il Conte si facesse coraggio, perché il popolo sarebbe sempre stato fedele a chi lo comandava.

Dopo di lui, come se avesse aperto una diga, permettendo a un fiume in piena di sfogarsi, quasi tutti i presenti si alternarono assicurando che Forlì avrebbe preferito patire la morte e la distruzione, piuttosto di lasciar vincere il papa, dato che la causa per cui si muoveva era tanto ingiusta.

Quando nessuno più chiese la parola, l'Auditore tornò sul centro del piccolo palco e, a mo' di ultimo saluto prima dello scioglimento di quel Consiglio plenario, disse: “Madonna Sforza ha da sempre una grande fede e un grande amore per i forlivesi, e infatti da mesi prepara la difesa dello Stato, con armigeri, munizioni, armi, attrezzi, e brama di avere il maggior numero di Capitani e condottieri possibili, per i suoi sudditi. State certi che la Contessa nutre per tutti voi amore e fedeltà e combatterà fino alla morte al vostro fianco.”

Dalla gente si sollevò un urlo che pareva quasi un urlo di guerra: “Ottaviano! Ottaviano” iniziarono a gridare: “Caterina! Caterina!”

Il giovane Riario ricordava un altro momento in cui i forlivesi avevano gridato il suo nome e quello di sua madre in un modo molto simile, ovvero il 27 agosto del 1495. In cuor suo sperò che quello non fosse un presagio nefasto, ma solo una coincidenza fortuita.

“ Ora, ragionate e fate in modo di darle una risposta certa il prima possibile.” concluse una volta per tutte Dipintore.

I forlivesi ancora assiepati nel salone, si scambiarono battute e cenni d'assenso e poi, a piccoli capannelli, uno dopo l'altro varcarono la porta e se ne andarono.

“Direi che è andata bene...” commentò a denti stretti l'Auditore, restituendo i fogli del discorso a Ottaviano che, alle sue spalle, era pallido come un cencio e scosso come se invece che a un'orazione pubblica avesse appena assistito a una condanna a morte.

Il giovane, annuendo con scarsa convinzione, disse solo: “Riferirete voi a mia madre quello che è stato detto..?”

Giovanni Dipintore lo fissò per un lungo istante e poi, scuotendo tra sé il capo, a rimarcare la propria l'incredulità dinnanzi alla manifesta imbranataggine del suo signore, sospirò: “Se vorrete, lo farò io, sì.”

E prima che potesse aggiungere altro, vide il Riario quasi correre alla porta, veloce come una lepre.

Con uno sforzo di memoria si disse che forse quella era la prima volta in vita sua in cui vedeva il figlio della Contessa correre.

 

Alfonso sentiva gridare Lucrecia, oltre la porta, ma non poteva fare nulla per lenire la sua sofferenza.

Quel primo giorno di novembre su Roma era calata una coperta di nuvole grigie che minacciavano pioggia, ma che di fatto tenevano solo sotto sequestro la città da ore senza mai decidersi a scatenare il temporale.

L'Aragona stava passando ore d'inferno e l'unica consolazione era aver saputo che anche il papa, venuto a conoscenza dell'entrata in travaglio della figlia, stesse sulla graticola almeno quanto lui.

Aveva tanti di quei motivi di rancore verso il suocero, che, nei momenti peggiori, quando dalla stanza in cui Lucrecia stava partorendo si sentiva la voce di lei pregna di pianto invocare a tratti i santi e a tratti addirittura la morte, Alfonso si era trovato a sperare che Rodrigo Borja morisse per le emozioni troppo forti di quel giorno.

Tuttavia venne smentito quando, circondato da alcuni suoi amici e da un paio di servi, sentì dei rumori arrivare dall'ingresso del palazzo di Santa Maria in Portico.

Riconobbe immediatamente il borioso vociare del Santo Padre e quando infine se lo trovò davanti, dovette ammettere con se stesso che le chiacchiere che lo volevano affranto dalla preoccupazione non apparivano più molto attendibili.

Il papa indossava abiti abbastanza semplici, per le sue consuetudini, e sul viso largo si stendeva un sorriso raggiante che lasciava trasparire ben poca pena. Anche se pure lui ormai doveva sentire le grida dalle figlia, sempre più serrate e acute, la sua espressione non cambiava affatto.

“Alfonso...” disse al napoletano, allargando le braccia, per salutarlo: “Che giorno lieto!”

“Lo sarà quando saremo certi che Lucrecia sia salva.” ribatté l'Aragona, accettando freddamente il brevissimo abbraccio del suocero.

“Mia figlia ha il mio sangue!” sbottò il pontefice, come se quell'evidenza bastasse a rendere immune la ragazza da ogni male, e poi, in un sussurro appena udibile, avvicinò le labbra sottili all'orecchio del genero e aggiunse: “Ha già partorito una volta e non ha avuto problemi. Non vedo perché dovrebbe averne ora.”

“Ma ne ha anche perso uno prima che avesse il tempo di nascere.” gli ricordò in un sibilo il ragazzo.

Gli altri presenti non avevano potuto sentire cosa il Borja avesse detto al padrone di casa, ma dalla faccia dura che fece questo, tutti pensarono subito che i ben noti screzi tra il papa e l'Aragona fossero tutt'altro che sopiti.

“Accomodatevi.” disse freddo Alfonso, indicando al Santo Padre uno degli sgabelli.

Mentre l'uomo si sedeva, cominciando a chiacchierare a voce alta con gli altri cortigiani in attesa, si sentì di nuovo un grido straziante di Lucrecia, così profondo che l'Aragona sentì il proprio cuore perdere un colpo.

Il tempo passava e non cambiava nulla. Se non fosse stato per stare il più vicino possibile alla moglie, il ragazzo se ne sarebbe andato in un'altra stanza, soprattutto per non dover più sentire il suocero.

Passandosi nervosamente una mano tra i folti capelli biondi, il diciottenne, che aveva tenuto fino a quel momento gli occhi fissi sulla porta che celava al suo sguardo cosa stessa succedendo in camera da letto, deglutì rumorosamente. Aveva sentito un urlo di Lucrecia, e poi più nulla. Dopo qualche secondo, cominciarono a sentirsi le voci concitate della levatrice e delle altre donne che stavano assistendo al parto.

Alfonso si era alzato, senza nemmeno accorgersene, e si era avvicinato alla camera. Aveva già proteso una mano verso la porta, per provare ad aprirla e scoprire cosa fosse successo, quando questa si spalancò e ne uscì proprio la levatrice.

Era sporca di sangue e molto sudata, ma sembrava soddisfatta, mentre esclamava: “Madonna Lucrecia ha appena dato alla luce un maschio!”

Mentre il papa e gli altri uomini presenti si mettevano a esultare, l'Aragona chiese, con apprensione: “E lei? Sta bene? È viva?”

La donna lo fissò quasi divertita, irritandolo come non mai, e poi gli disse, annuendo: “Viva e vegeta e chiede di voi.”

Tuttavia, non appena il napoletano provò a passarle oltre per correre dalla sposa, sentì una mano grossa e pesante posarglisi sulla spalla e farlo indietreggiare.

Alfonso, che aveva appena fatto in tempo a vedere uno scorcio dei capelli biondi di Lucrecia, si fermò subito, voltandosi per vedere chi avesse osato trattenerlo. Incrociò gli occhi scuri del papa, sormontati dalle folte ciglia e intrisi di un'aria di minaccia che, malgrado tutto, lo convinse ad abbandonare sul nascere ogni possibile forma di rivalsa.

“Mia figlia mi attende.” disse il Santo Padre e, scavalcando senza tante cerimonie il genero, si infilò in stanza e si chiuse la porta alle spalle.

Mentre l'attenzione degli altri cominciava a diminuire – tanto che certi erano tornati ai propri affari, dicendo a mezza bocca che avrebbero visto volentieri il bambino quando fosse stato di comodo al pontefice – l'Aragona continuava a piantonare la camera.

Prima o poi, si diceva, il suocero sarebbe uscito e allora avrebbe potuto correre a baciare a abbracciare la sua Lucrecia e, non ultimo, a conoscere suo figlio.

Dovette aspettare parecchio, forse più di un'ora, e quando finalmente Rodrigo uscì, gli disse, franco e diretto come non era mai con lui, in presenza di testimoni: “Non so se mia figlia vuole vederti. È molto stanca e...”

“Alfonso!” la voce di Lucrecia smentì subito il padre, che, adombrandosi per quell'inconveniente, lasciò strada libera al genero, ammonendolo però ancora una volta con lo sguardo.

L'Aragona non diede peso all'occhiataccia del Borja, scivolandogli accanto come un'anguilla e correndo al fianco della moglie. La ragazza era stremata e pallida e stava stesa mollemente, come se anche solo sollevare un po' il capo potesse essere per lei uno sforzo fatale.

“Come stai?” le chiese il napoletano, ignorando l'andirivieni di serve che ancora si affaccendavano intorno a loro per riassettare e per curare il bambino.

“Bene...” sussurrò lei, alzando a fatica una mano per sfiorare il viso del giovane che amava: “Là c'è nostro figlio...”

L'Aragona non se lo fece ripetere e si fece dare dalla balia il fagottino in cui si agitava un po' il neonato. Non aveva mai visto da vicino un bambino nato da così poco tempo e ogni cosa di lui che poteva vedere – ben poco in realtà, perché la stretta fasciatura lasciava libero solo il viso – gli pareva un autentico miracolo.

“Ma è bellissimo...” sussurrò, senza fiato, mettendosi a sedere sul letto accanto alla Borja.

La ragazza annuì, combattuta. Era felice di aver dato un figlio a suo marito, ed era felice che fosse un maschio e che quindi andasse a rendere il loro matrimonio molto più stabile. Tuttavia era da quando aveva avuto le prime doglie che non riusciva a non fare confronti con quando era nato il suo piccolo Giovanni, il bambino che non aveva mai sentito davvero suo, il piccolo che non aveva mai accettato e che aveva lasciato alle suore, come se assicurargli da bere e da mangiare bastasse a lavarsi la coscienza dalla colpa di averlo rinnegato e abbandonato.

“Ti somiglia.” disse piano la giovane, sperando così di andare ad attutire un po' il colpo che si apprestava a infliggere al suo amatissimo sposo.

“Secondo me ha il tuo profilo...” sorrise lui, passando con delicatezza la punta dell'indice sul nasino del bambino, facendogli fare una smorfia infastidita.

“Lo chiameremo Rodrigo.” rivelò Lucrecia, tutto d'un fiato.

Il sorriso sul volto di Alfonso parve congelarsi all'istante. I suoi occhi azzurri corsero su di lei, quasi a indagare se stesse scherzando o fosse seria. Quando capì che quello della Borja non era una presa per i fondelli, si irrigidì e tornò a fissare il piccolo.

“Che cosa ti ha detto, per convincerti?” chiese, la bocca che si seccava.

Non era il nome Rodrigo in sé a non piacergli, era il suo significato. Dare quel nome al loro primogenito equivaleva, nella mente distorta del papa, a fargli sapere che Lucrecia era ancora sua e che la sarebbe stata per sempre, a qualunque costo e con qualunque mezzo.

“Se non vuoi posso provare a...” iniziò a dire la ragazza, ma il napoletano sollevò una mano, per zittirla.

“Immagino abbia già deciso anche la data del battesimo.” disse lui, atono.

Quando vide la moglie annuire, sentì una rabbia così feroce crescergli nel petto che dovette dare il piccolo alla Borja per paura di perdere la calma e fare qualche sciocchezza.

“Saremmo dovuti restare a Nepi.” concluse lui, alzandosi e allacciandosi le mani dietro la schiena.

Lucrecia, già prostrata per la fatica e il dolore appena affrontati, non sopportava di vederlo così e, debole nei nervi e nell'anima, si mise a piangere in silenzio.

Smosso da quella visione, l'Aragona si chinò su di lei, le baciò le labbra e poi le promise: “Farò di tutto per liberarci tutti e tre da questa prigione. Te lo prometto.”

“Non dire così... Tu non conosci mio padre, non sai com'è mio fratello...” tentò la ragazza, terrorizzata all'idea di quello che sarebbe potuto accadere.

“Li conosco, invece, ed è proprio per questo che ti prometto che appena il nostro piccolo non sarà più così maledettamente fragile – e così dicendo allungò di nuovo una mano verso il figlio, sfiorandogli appena la fronte – farò in modo di andarcene tutti e tre da qui, in un posto dove non potranno più toccarci. E finalmente saremo liberi.”

Lucrecia non disse più nulla, ma sentì lo stomaco stringersi e il respiro farsi più rapido. Alfonso era mosso da nobili ideali, ma non sapeva di cosa e di chi stava parlando. Doveva trovare il modo di dissuaderlo, o l'avrebbe scoperto a un prezzo altissimo, e lei non voleva. Lo amava e doveva proteggerlo.

“Ci penseremo quando sarà il momento allora.” si sforzò di sorridere: “Adesso dobbiamo pensare a tante cose... A curarlo, al battesimo, a vederlo crescere giorno dopo giorno...”

L'Aragona le diede ragione, la baciò di nuovo e parve tranquillizzarsi. Tuttavia, nelle sue iridi chiare, la moglie leggeva ancora una bellicosità che temeva di non essere in grado di vincere.

 

Caterina stava accarezzando il muso della giumenta giannetta che era stata indicata da Calmeta nella sua lettera. Effettivamente era un esemplare come pochi. Aveva il manto molto scuro e, pur mantenendo tutta l'agilità e la straordinaria velocità della sua razza, aveva una stazza notevole che faceva di lei non solo una bestia adatta alle incursioni rapide, ma anche alle cariche.

Mentre la cavalla allargava le froge e roteava l'occhio verso di lei, la Contessa fece un sospiro pesante, chiedendosi se il Consiglio fosse già finito o meno.

Aveva lasciato detto alla rocca che sarebbe andata alle stalle del Quartiere Militare, ma il fatto che nessuno fosse ancora andata a cercarla per riferirle il risultato di quella riunione la insospettiva. I casi potevano essere fondamentalmente due: o il Consiglio si era protratto più del previsto, o era andato così male che nessuno stava trovando il coraggio di andare a parlamentare con lei.

“A quanto credete che si potrebbe vendere una simile bestia?” chiese la Tigre, rivolgendosi al capo degli stallieri.

L'uomo guardò per un po' la giannetta e poi, sporgendo in fuori le labbra disse la sua stima. Era una cifra più alta di quello che la Sforza si sarebbe attesa e si chiese se lo stalliere l'avesse detta perché davvero convinto o per compiacerla.

“Quindi sarebbe un regalo più che apprezzabile...” soppesò lei, accarezzando di nuovo il collo della giumenta.

“Decisamente.” annuì lui.

Le stalle della cittadella aveva qualcosa di particolare, agli occhi della Leonessa. Erano state costruite relativamente da poco e utilizzate da ancora meno. Malgrado il normale odore di cavallo e di stallatico, mancava quel sentore di cui le stalle in uso da molto si impregnavano. Era una cosa strana, secondo lei, e non facile da spiegare, ma in un certo senso per lei quello era un ambiente quasi ostile.

Anche gli animali che vi aveva messo a riparo sembravano non gradire molto quel posto, ma certi, come proprio quella cavalla, erano stati messi lì per motivi validi. Alcuni erano cavalli di Capitani di stanza alla cittadella, tanto per cominciare, mentre altri erano dedicati alle staffette che, al momento opportuno, sarebbero dovute partire proprio dal Paradiso. E poi c'erano le femmine più pregiate, come la giumenta giannetta puntata dal Marchese di Mantova, che dovevano scampare alle mire del purosangue preferito della Sforza. Allontanarle a quel modo si era dimostrato l'unico metodo indolore ed efficace.

“Abbiamo uno stallone giannetto da poter inviare assieme a lei?” chiese la donna, soprappensiero, cercando invano di riportare alla mente l'intera composizione della sua scuderia.

Lo stalliere ci pensò su per un po' e poi fece segno di sì con il capo, rispondendo però con una certa vaghezza: “Un paio li avremmo... Ma sono entrambi in uso.”

La Contessa si fece dire di chi e si trovò a pensare che sarebbe stato il caso di aspettare ancora un po', prima di mettersi a requisire cavalli usati ormai da anni da alcuni tra i suoi più fedeli Capitani.

“Mia signora...” la voce dell'Auditore sorprese la Sforza, che, voltandosi verso l'ingresso della stalla, strizzò gli occhi per vedere meglio, capendo di non essersi sbagliata: a camminare verso di lei era proprio Giovanni Dipintore.

“Mi raccomando, badate a lei con molta cura, perché potrebbe servirmi.” fece la donna, rivolgendosi per l'ultima volta allo stalliere e poi andando incontro all'Auditore, facendogli segno di seguirla fuori da lì: “Andiamo a discutere da un'altra parte. Com'è andata?”

L'uomo, incurante di quel che gli era stato detto, cominciò immediatamente a riferire tutto quanto, tentando, invano, di minimizzare la codardia di Ottaviano. Insistette molto sul buon riscontro che il discorso sembrava aver avuto sulla popolazione, ma non volle sbilanciarsi in modo troppo netto, per paura di sbagliare.

“Va bene. Va bene...” fece la Leonessa, mettendosi a ragionare: “Se la risposta sembra buona, allora non perdiamo tempo.”

Dipintore rimase in attesa, non capendo che cosa la sua signora intendesse. Stavano camminando veloci e l'uomo cominciava a intuire solo in quel momento la loro direzione, ovvero la rocca.

Caterina, in un primo momento, aveva pensato di portarlo in una delle salette della cittadella, pensando che dovesse riferirle un esito catastrofico. Non appena aveva capito, invece, che la situazione era molto più calma del previsto, aveva deciso di partire subito con la prossima fase del suo programma.

Senza contare che non aveva molta voglia di incontrare Giovanni da Casale e, salendo dalle stalle, molto probabilmente vi ci sarebbe imbattuta. Non avevano litigato, o meglio, secondo la Contessa il loro ultimo diverbio non era certo stato irreparabile, ma aveva già abbastanza pensieri per la mente, senza dover anche fronteggiare un amante geloso.

“Domani convocheremo il Consiglio dei Quaranta.” decretò la Tigre, mentre già erano in vista della statua del Barone Feo: “Ora vado a darne notifica a al segretario Baldraccani e al mio cancelliere.”

“Sarete presente?” chiese l'Auditore, che sperava con tutto se stesso che la sua signora tornasse in prima fila, relegando di nuovo Ottaviano al suo ruolo di secondo piano.

La Sforza, però, non gli rispose. Anzi, Dipintore si rese conto che non lo stava nemmeno più ascoltando. Seguì il suo sguardo e finalmente capì che cosa l'avesse attirata a quel modo.

Proprio davanti al ponte levatoio della rocca c'era qualcuno a cavallo, e un piccolo carretto con dei bagagli. L'Auditore non avrebbe saputo dire chi fosse, anche perché la sua vista non più ottima gli permetteva di scorgere solo delle forme indistinte, ma la sua signora, invece, pareva certissima di quel che vedeva.

Iniziando a correre, per nulla impacciata nei suoi abiti maschili, Caterina staccò subito Dipintore, che rimase indietro, indeciso se seguirla o meno, e, non appena fu a tiro d'orecchio dell'uomo che stava battibeccando con il cocchiere per farsi portare fin dentro la rocca con i propri bagagli, lo chiamò: “Michele!”

Marulli, che riconobbe all'istante la voce della Tigre, sollevò una mano e la salutò, non sorprendendosi troppo di vedersela arrivare davanti in brache e giubbone. Come se non ci fosse nulla di più interessante di cui parlare, infatti, nel tornare a Forlì da Milano aveva già sentito dire in molte locande, dai viandanti, che la Leonessa di Romagna andava ormai in giro vestita da uomo.

Che dicessero anche che passava a fil di spada tutti quelli che le dedicassero uno sguardo di biasimo o che la volessero così famelica da passare le notti a saltare da un amante all'altro 'ripassandosi l'esercito tutto tra il tramonto e l'alba' era un'altra storia.

“Mia signora...” fece il bizantino, con un inchino, quando l'ebbe davanti a sé: “Perdonatemi se vi ho messo così tanto a tornare... Ma dovreste sapere in che condizioni si viaggia, con la paura dei francesi..!”

“Vi prego, raccontatemi tutto. Anche di Milano. Avanti, entrate a Ravaldino con il calesse, sistematevi e poi passate in camera mia, così da aggiornarci su tutto quanto...” lo pregò la donna, così felice di vederlo sano e salvo e carico di notizie fresche da non riuscire a togliersi il sorriso dalla bocca.

“Lo farei – ribatté l'uomo, lanciando un'occhiata di sguincio al cocchiere – se solo costui non volesse lasciare i miei bagagli qui...”

“Come mai?” chiese la donna, rivolgendosi direttamente al vetturino.

Questi, terrorizzato nel capire chi aveva davanti, rispose, con un forte accento milanese, così spiccato che alla Tigre ricordò il proprio, mai perso, malgrado tutti gli anni passati lontani dalla sua terra natale: “Perché non voglio finire in un pozzo...”

La donna si accigliò e poi, capendo che il cocchiere era stato fuorviato, come capitava a tanti, dalle voci sempre più ingigantite e negative che si rincorrevano su di lei oltre i confini del suo Stato, ridendo stette al gioco, ed esclamò: “Non temete! Nel pozzo ci butto solo gli amanti che mi hanno delusa! Voi non rischiate nulla, perché non ho la minima intenzione di farvi entrare nel mio letto, vecchio e brutto come siete.”

Un po' preso alla sprovvista, il vetturino fece un mezzo sorriso, incerto se fosse o meno il caso di mostrarsi divertito e poi, senza farselo ripetere, diede una frustata al cavallo e fece ripartire il calesse verso il portone della rocca.

“Mi raccomando. Vi aspetto nella mia camera.” ricordò la Leonessa a Marulli: “Dovete riferirmi tutto.”

Michele annuì e, ancora impressionato dal modo in cui la sua signora era riuscita a convincere con una sola battuta il cocchiere a fare il suo lavoro, assicurò: “Datemi un quarto d'ora, e sarò da voi.”

 

 

 
 
   
 
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