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Autore: Gwen Chan    16/10/2019    1 recensioni
Per il sesto giorno di marcia, Gilbert aveva capito due cose. Uno: era prigioniero senza possibilità di fuga, a meno che non volesse gettarsi fra le gelide braccia di una morte per assideramento. La prospettiva, per la cronaca, non lo attirava affatto.
Due: Ivan Braginski non aveva tutte le rotelle al loro posto.

[AU][Legata a "Come una ferita"][Linguaggio molto colorito][Gore]
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Russia/Ivan Braginski
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di una famiglia '
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Nota: Consiglio di leggere le note a fondo pagina prima di iniziare la lettura.
 
Ghiaccio se lo tocchi da fuori, fuoco che scotta dentro
 
 
Gilbert Beilschmidt adorava la sua croce di ferro, al punto che all’inizio pensava che perdere un arto sarebbe stato meno doloroso.
La portava al collo, a diretto contatto con la pelle pallida, e nemmeno lo spiacevolissimo episodio in cui il metallo era rimasto attaccato all'epidermide a causa del freddo polare lo aveva convinto a porre del tessuto tra la carne e il monile. Imprecò, allora, quando una mano russa glielo strappò. Il soldato - il soldato più alto che Gilbert avesse mai incontrato, per inciso - soppesò l'oggetto sul palmo guantato, di certo indeciso se tenerlo come trofeo di guerra o meno, optando da ultimo per gettarlo nella neve. Non si negò però il piacere di schiacciarlo per benino sotto il tacco dello stivale. 
"Ehi!", ma il calcio del fucile dritto sulla mandibola, tanto forte che i denti si scheggiarono, zittì le proteste del tedesco. Sputò sangue ed insulti. Sputò anche un dente.
Per il sesto giorno di marcia, Gilbert aveva capito due cose. Uno: era prigioniero senza possibilità di fuga, a meno che non volesse gettarsi fra le gelide braccia di una morte per assideramento. La prospettiva, per la cronaca, non lo attirava affatto.
Due: Ivan Braginski non aveva tutte le rotelle al loro posto. 
Gilbert non si chiese come fosse giunto lì, nel cuore più profondo della Russia, in un luogo non toccato dal progresso umano.
 
 
In fondo conosceva già la risposta. Sollevò le braccia e si piegò in avanti abbastanza da strofinare i polsi legati contro la guancia. Giusto pochi secondi, il tempo di avvertire il ruvido della corda sullo zigomo, per svegliarsi e togliere dagli occhi i cristalli di ghiaccio, prima che Braginski iniziasse ad irritarsi. 
Il russo non parlava tedesco e Gilbert non parlava russo. Non oltre un paio di parole. Dove? Chi? Dove mi stai portando? Dove mi state portando? Raggomitolato per cercare di trattenere quel poco calore rimastogli in corpo, con le risa e le battute slave che gli violentavano le orecchie, chiedendosi perché non avessero ucciso anche lui e tanti saluti.
Ma serviva a poco porsi domande, quando chi lo aveva catturato faceva orecchie da mercante. Guardò le orme nella neve sporca. Infine avrebbero condotto in un gulag, sempre che Braginski non si stancasse prima di portarselo appresso e ponesse fine alla sua schifosa esistenza con una pallottola nel cervello. 
Sapeva dove conducevano quelle orme, di piedi che stavano dimenticando come camminare a causa della stanchezza e delle troppe cadute: soprattutto sapeva dove erano iniziate. Prima della missione esplorativa che aveva condotto Gilbert e un manipolo di uomini nelle grinfie dei russi - il tedesco augurò le più atroci pene dell'inferno all'imbecille che li aveva fatti scoprire - prima di Stalingrado, prima della guerra, a ritroso sino ad un estate troppo calda nella campagna Boema, dove i Beilschmidt erano soliti trascorrere un paio di settimane di villeggiatura. I vicini erano una nobile famiglia ungherese, la cui unica figlia era diventata presto la fidata compagna di giochi di Gilbert. 
 
Elizavetha rideva - Gilbert non avrebbe scordato quel suono limpido - additando lui che, immerso nel fiume fino al collo, si rifiutava di uscire dall'acqua se prima lei non si fosse voltata. Si sbellicava la ragazzina, rotolando sulla sabbia, ancora inconsapevole del suo essere donna. E Gilbert non voleva proprio assumersi l'ingrato ruolo dello sbatterle in faccia la verità, sotto forma del gingillo che lui, sì, aveva in mezzo alle gambe e lei no. 
"Che poppante." 
L'episodio gli era costato un raffreddore coi fiocchi, con febbrone da cavallo compreso nel pacchetto. All'epoca aveva detestato Elizavetha dell'odio puro e veloce dei bambini, ora non avrebbe esitato a ritornare a quel giorno. 
Avevano trascorso insieme ogni estate, in lunghi pomeriggi di interminabili cavalcate e di corse in bicicletta. Esausti, si tuffavano nell'acqua gelida di un ruscello - Eliza - oppure si sdraiavano supini sul prato - Gilbert. Senza soluzione di continuità, rotolavano in un groviglio di braccia e gambe, con le dita che cercavano di afferrare i capelli dell'altro, i visi rossi di fatica. Puntualmente litigavano. Puntualmente la mattina seguente li vedeva di nuovo insieme, impegnati nell'ennesima sfida per affermare la propria superiorità. 
Ogni estate, per un paio di settimane. Ogni estate Elizavetha cresceva. Crescevano entrambi e le tacche sull'albero dove si misuravano aumentavano. Tuttavia, se Gilbert era rimasto fedele a se stesso, Liza, sbocciando, era mutata anche nel carattere. 
"Eliza! Sbrigati." la chiamò il tedesco una mattina, lanciando d'abitudine sassolini contro il vetro della camera da letto della giovane, il tacco dello stivale che batteva con impazienza contro l’acciottolato. L’alba estiva aveva da poco colorato l’orizzonte. 
Attese l'abituale insulto rivolto alla sua perfetta persona, preludio della comparsa in carne ed ossa dell'ungherese, già preparandosi la risposta. Solo che quella volta l’offesa non era arrivata. Tanto meno aveva udito il familiare ticchettio delle scarpe di Eliza di quando scendeva le scale a due a due oppure le imprecazioni contro una chioma sempre più lunga e folta, ma che si ostinava a non voler tagliare. Imprecazioni contro i troppi lacci del corsetto.  
 
Alla fine Elizavetha si era affacciata, a braccia conserte. Truccata, pettinata, infilata nell'abito più elegante che avesse mai indossato; un abito che avrebbe fatto inorridire la Liza di solo qualche anno prima, con tutti quei pizzi e merletti.
"Cosa vuoi, Beilschmidt?"
"Come cosa? Liz, scendi. Dobbiamo andare a caccia."
"Non posso."
Il motivo del rifiuto lasciò Gilbert impalato nel vialetto, i pugni chiusi nelle tasche dei pantaloni, gli occhi ridotti a fessure. "Fidanzato? Non scherzare, scendi."
 
Eppure no, non scherzava. La ventenne Elizavetha avrebbe coronato con un fidanzamento ufficiale anni di un educato corteggiamento di cui - crudele! - non lo aveva mai reso partecipe. In fondo, chi era lui? Solo un fedele amico di infanzia, nulla di importante. Solo il confidente da cui era andata a frignare il giorno in cui la Natura le aveva sbattuto in faccia il suo essere donna. 
 
Uno sbuffo di disprezzo, che celava sentimenti destinati a non vedere la luce, fu il saluto di Gilbert. Le diede appuntamento per l'indomani, che scivolò nel dopodomani e nella settimana successiva. Spesso un domestico informava il tedesco che "la signorina Hedervary era a Vienna". Ad una cena. Ad un concerto. In giro per boutique, in compagnia del signorino Edelstein. 
Quando ricevette l'invito per un matrimonio che l'Anschluss avrebbe impedito, lo gettò nel fuoco. Quello era stato il primo passo. 
 
Oh, il russo si era fermato. Gilbert lo osservò sedersi a gambe incrociate sul terreno ghiacciato, aprire la gavetta e prepararsi un pentolino di zuppa. Lo indicava, le labbra attraversate dal sorriso ingenuo e soddisfatto di un bambino, poi fissava il tedesco, impegnato a fare la bella statuina sino a nuovo ordine. Quando, però, Braginski fece magicamente comparire da sotto il pesante cappotto la carcassa di un coniglio - quando l'avesse catturato era un mistero - presto scuoiato e rosolato, dovette appellarsi a tutti il proprio contegno per non sbavare. Si infilò le mani violacee sotto le ascelle, spostando il peso da un piede all'altro. 
Braginski ripeté il gioco di sguardi. Zuppa. Gilbert. Zuppa. 
Voleva vantarsi del cibo? O, in uno slancio d'umanità, invitarlo a condividere il pasto? 
Versò due scodelle di brodaglia. "Da?"
Questo lo capiva. Lo capiva, ma non osava muovere un muscolo, memore degli improvvisi scatti d'ira del russo. 
"Da?"
"Nein!"
La ridicola scenetta si sarebbe protratta sino all'alba e oltre, se Braginski non gli avesse infine ficcato la ciotola fra le mani. "Da!"
Come se lo considerasse una persona tarda. O un animale bisognoso di cure.
Gilbert mangiò in piedi, in fretta, in un sorso, prima che l'altro cambiasse idea. La giusta punizione. Il giusto contrappasso.
C'era stato un tempo in cui Gilbert aveva vissuto di certezze. La certezza di essere il migliore, sbandierata con ostentata sfrontatezza. Fu quasi naturale abbracciare le idee del regime. L'orgoglio dei padri, la Grande Germania, tutte le teorie sulla purezza della razza. All'epoca parevano corrette, limpide. E Gilbert, sì, non dubitava di essere tra gli eletti. 
Soltanto che, superato un certo limite, l'innato egocentrismo gli impediva di fondersi nella massa senza cervello dei fanatici che popolavano i comizi nazionalsocialisti. Non urlava, non si scorticava le mani a furia di applaudire, manteneva un'autonomia di pensiero. Almeno credeva.  
 
Era stata la sicurezza di essere sempre nel giusto a fargli conoscere i suoi due amici per la vita, compagni di bevute o di lunghe discussioni intellettuali a seconda dell'occasione. Erano entrambi più vecchi di lui, ma il fatto non era mai stato un peso. Gilbert aveva la sfrontatezza necessaria per penetrare un'amicizia già consolidata e inserirsi quale terzo membro a tutti gli effetti, senza essere né un incomodo né una ruota di scorta. Nemmeno se era più giovane di sei anni. Gilbert Beilschmidt, Francis Bonnefoy e Antonio Fernandez Carriedo. Elencati in ordine alfabetico. Persino l'alfabeto nutriva la sua propensione a mettersi in mostra.  L'elenco delle loro bravate si snodava alle sue spalle. Prima che arrivasse la guerra a separarli. Antonio era stato il primo ad andarsene, tornando in Spagna per combattere contro le truppe franchiste. Ogni tanto gli scriveva.
Davanti a lui, invece, Braginski era di cattivo umore e un'ombra gli oscurava il viso. Se Gilbert trovava il sorriso di Ivan assolutamente inquietante, la sua assenza era qualcosa che faceva torcere le viscere di terrore. Allora si tenne a distanza di sicurezza. 
Aveva provato a scappare la sera prima, approfittando di un attimo di distrazione dell'altro. Doveva esserci un villaggio nelle vicinanze. Il tedesco era convinto di aver udito il suono delle campane di una chiesa. Dove sarebbe andato, comunque, non importava. Quello che prendeva era sfuggire alle grinfie di Braginski e al gulag, al resto ci avrebbe pensato dopo. Gli imprevisti non lo preoccupavano. Del resto, era un ottimo stratega. Quello che la Natura gli aveva sottratto in salute fisica, egli lo compensò in intelligenza. 
Aveva percorso nemmeno cinquanta metri quando Braginski gli sbarrò la strada. Si stagliava come uno spirito di gelo vomitato direttamente da quella terra maledetta. Stava lì, in mezzo alla bufera, immobile, come se fosse stato l’Inverno stesso. 
La Russia stessa.
 
 
Gilbert fece retro-front. Non desiderava affatto che Ivan colpisse di nuovo il suo bel viso. La lingua che continuava a toccare lo spazio vuoto dove uno degli incisivi mancava glielo ricordava ossessivamente. Né aveva tendenze suicide e non c’era momento in cui una parte di sé non gli ricordasse che Braginski avrebbe potuto ucciderlo in qualunque momento se avesse voluto. Si erano riuniti da qualche giorno a un’altra truppa.
Le dita corsero a stringere la croce. Solo che la croce di ferro non c'era più. Gilbert giocherellava con essa anche il giorno in cui aveva rincontrato Elizavetha, in un freddo pomeriggio di novembre. 
 
Vienna era stata tinta di rosso e nero. Gilbert avrebbe mentito se avesse detto che gli dispiaceva. Eliza era di tutt'altro parere. Il tedesco la notò seduta da sola in un caffè, intenta a tormentare una fetta di torta sacher senza inghiottire un boccone. Prese posto di fronte a lei. L'ungherese si alzò e uscì, senza degnarlo di uno sguardo. Gilbert la seguì. Non portava la fede, notò. Scoprì che Elizavetha abitava - momentaneamente, come avrebbe appreso a breve - in un elegante appartamento nel centro viennese. Fu abbastanza lesto da bloccare il portone d'ingresso prima che si chiudesse alla spalle della donna. Poi bussò con tale insistenza che lei infine per esasperazione fu costretta a farlo entrare.
"Cosa vuoi, Beilschmidt?"
"È così che si saluta un vecchio amico? Piuttosto, hai una birra? Sto morendo di sete" esclamò, lasciandosi cadere pesantemente  su una poltrona. 
"Vuoi andartene con le tue gambe o preferisci che ti prenda a calci nel sedere fino in strada?" gli chiese Elizavetha, gelida.
Manesca e prepotente come la ricordava. Ghignò. "Allora, dov'è il damerino?"
Aveva soprannominato in tal modo Roderich Edelstein la prima e unica volta in cui lo aveva visto di persona. "È scappato alla prima occasione?" Incalzò. 
"È stata la tua gente a farlo scappare." 
Eliza di colpo si afflosciò contro la parete, scivolando fino a sedersi sul parquet del salotto. Tormentava una ciocca di capelli castani. Per un attimo parve infinitamente fragile.
"Sapevi a cosa andavi incontro quando hai deciso di sposarlo." 
Era una cattiveria gratuita. Gilbert lo sapeva, ma non era tipo da scusarsi. 
"Cosa? Dovrei ringraziarti perché non hai denunciato il fatto che i suoi nonni erano ebrei? Questo?"
Un paio di generazioni battezzate non lo avrebbero salvato. Lo sapeva bene. Era abbastanza intelligente da intuirlo.
C'era rabbia nella sua voce. Tanta rabbia. Le vene delle mani fremevano. Gilbert si accorse delle rughe sottili che segnavano gli angoli degli occhi verdi. Come se fosse invecchiata di colpo. 
"Stupida."
Ora era in ginocchio davanti a lei. La avvolse nelle sue braccia, prima che potesse rendersene conto. Era sorprendentemente leggera. "Stupida. Non vorrei mai farti soffrire."
Perché era pur sempre la sua amica di infanzia, la sua confidente, la sua migliore amica ancor prima di Francis e Antonio; perché poteva insultarla quanto voleva e non si sarebbe mai abbassato a farle i complimenti, ma in fondo le voleva bene.
"Ho paura. Ho tanta paura."
Il lato di Elizavetha che nessuno conosceva. Il lato fragile. Un tempo era stato così. Sentì le lacrime di lei inzuppargli la camicia. Avvertì la gelosia avvelenargli il cuore. 
Elizavetha era tornata a Budapest pochi giorni dopo. Da allora non aveva più avuto sue notizie. 
 
 
Gilbert si rifugiò nei ricordi per il resto di una marcia dal finale già scritto.
 
***
 
A volte Ivan passava a trovare al campo, come si visita un animale allo zoo: convinti della propria buona azione e rassicurati dalle sbarre che impediscono alla fiera di nuocere. 
Sorrideva - anche se gli occhi viola rimanevano freddi - nel fargli cenno di avvicinarsi, oltre il filo spinato. Gilbert si trovò a pensare di essere perseguitato da persone dalle iridi pervinca. Soffiò sulle dita, intenzionato a non perderle. Poi voltò le spalle al russo, ben imbacuccato nel suo cappotto. 
Un giorno, però, Braginski decise di portarlo via. Nessuno disse nulla. Nessuno si oppose al capriccio. Ivan aveva i suoi contatti, i suoi metodi per convincere la gente ad assecondare i suoi desideri, perciò quando espresse la volontà di "liberare" il prigioniero Gilbert Beilschmidt, ebbe la strada spianata. 
Comunque il tedesco non era l'unico che Braginski aveva voluto per sé. Gli ospiti della casa furono subito ostili; il comportamento di Gilbert non lo aiutò certo ad essere accettato, chiuso nella sua convinzione di non avere nulla a che spartire con gli altri. 
"Tu non piaci a nessuno qui" lo informò l'uomo di nome Toris, prima di tornare alle sue carte. "Ma almeno la tua presenza impedisce che Braginski si sfoghi su di noi."
Lituano, si occupava della gestione della dimora. Nel tempo libero accudiva il garzone impiegato in cucina. 
Feliks era un polacco poco più giovane del tedesco. Era stato un ragazzo dalla lingua vivace e un'accesa passione per i pony. Ora passava le giornate a pelare patate con lo sguardo fisso nel vuoto. Le dita erano coperte di tagli.
"Tipo ... Tipo ... Toris, hai visto che ridicolo cappello?"
"Cosa gli ha fatto Braginski?"
"Nulla"
"Allora perché è ... Così?"
Lorinatis sospirò, carezzando i capelli chiari del polacco. Teneva in grembo una ciotola di brodo e lo imboccava con infinita pazienza. "Chiediti perché grida se ti sente parlare."
improvvisamente Feliks si riscosse. Per un momento parve riconoscere l'amico. Allungò le mani verso le sue, ma a metà strada le lasciò cadere come se non avesse la forza di tenerle sollevate. 
"Toris, guarda. Guarda i miei polsi" 
Solo che non parlava con il Toris che aveva davanti, ma con un altro Toris; ma Gilbert vide cosa voleva mostrare e capì.
"Mi dispiace."
"Le tue scuse non mi ridaranno il mio amico."
 
La casa di Braginski era una prigione. Una prigione dove bene o male venivano serviti due pasti caldi al giorno, dove in certi giorni si cantava e si ballava, ma pur sempre una prigione. Ivan li controllava come tante marionette, seminando il terrore con la sola presenza. Ralvis, il piccolo lettone - nessuno sapeva quanti anni avesse - pareva sempre sul punto di scoppiare a piangere. Incapace di frenare la lingua, non mancava di suscitare l'ira capricciosa di Ivan. Toris e Gilbert, a turno, ne subivano le spese. 
Comprensibile che Gilbert ogni notte cercasse di fuggire. E un'altra notte. E un'altra. Ogni occasione era buona per la fuga e ad ogni occasione Ivan lo riacciuffava. Minacciava, nel suo modo un po’ velato e un po’ scherzoso, che uno di quei giorni avrebbe fatto in modo che obbedisse, una volta per tutte. Gilbert sputava in risposta. Dopotutto aveva la scorza dura.
 
 
Una volta era rimasto fuori fino ai limiti dell’ipotermia, con i denti che si erano scheggiati dal tanto tremare. 
 
Ogni volta correva alla cieca nel buio, maledicendo tra i denti non appena iniziava a sentire gli ormai familiari passi di Ivan lungo la via ghiacciata, illuminata solo dal chiarore di luna e stelle. Quel giorno non fu diverso. Ivan non impiegò che pochi passi a raggiungerlo. Lo raggiungeva sempre. E nella sua voce, per quanto sempre bassa e calma, Gilbert seppe con la certezza di un condannato a morte che Braginski era furioso. Si sentì afferrare per i polsi da quelle mani grandi e forti, mani in grado di uccidere. Bene, benissimo. Che lo ammazzasse una buona volta e mettesse fine a quello stillicidio di vita. 
Mani tanto grandi che una sola era sufficiente per tenerlo fermo. Poi, l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e Gilbert, di colpo, cominciò disperatamente a cercare di divincolarsi. Puntò i talloni nella neve fresca, si agitò e soffio come un gatto rabbioso. Ivan continuò a trascinarlo senza fatica. 
"Sei stato un bambino davvero cattivo. I bambini cattivi vanno puniti" cinguettò con voce infantile che gli faceva accapponare la pelle ogni volta perché come era possibile che un simile uomo avesse quella voce che sarebbe andata bene per cantare filastrocche agli infanti.
"Braginski, lasciami."
 
Ivan lo sbatté senza troppi complimenti contro un albero, una mano alla gola per bloccarlo. Nel tirare fuori un coltello dalla tasca, i denti scintillarono di un sorriso che faceva venire la nausea
Avvicinò la lama di piatto al suo zigomo, tracciandone i contorni. Il metallo bruciava. Gilbert trattenne il respiro. Ivan dopo un po' lasciò cadere l'arma, non prima di avergli impresso due lievi tagli lungo le guance. Seguì l'orrore. 
Beilschmidt serrò le palpebre contro quelle dita ad artiglio che si avvicinavano sempre più, sempre più, ma non servì a nulla. 
Quello che accadde dopo fu avvolto in una nebula di atroce incoscienza. Le labbra assaporarono il gusto metallico del sangue che colava dalle orbite. Tremava violentemente in preda ad un principio di assideramento. Braginski lo aveva abbandonato lì, accecato, legato. Quando tornò a liberarlo la notte era ormai trascorsa. Gilbert gli cadde addosso a peso morto. Le gambe sussultarono, incapaci di sorreggere peso il resto del corpo. Si portò le mani agli occhi. Bruciava.
"Farai il bravo bambino?"
"Fottiti" sibilò, la prima parola che aveva imparato in russo, prima di crollare a terra. Fredda, benedetta terra. 
Pur nella cecità, percepiva la presenza del russo al suo fianco, la mole che lo sovrastava. Stava sorridendo, ci avrebbe scommesso. Il suo alito gli solleticava l'orecchio. 
"Andiamo a casa?" 
"Vai all'inferno."
Con sua sorpresa lo prese in braccio, senza sforzo. Canticchiava. Tra quelle braccia enormi, calde, morbide, Gilbert fu scosso da un profondo brivido di disgusto e svenne. 
 
Quando si risvegliò la prima cosa che lo colpì fu il profumo delle lenzuola pulite. Subito dopo si accorse di essere nel proprio letto - Ivan poteva avere una lista di difetti lunga la distanza tra Mosca e Berlino, ma non lesinava sui giacigli. Bastone e carota. Era sempre così. Bastone e carota. Botte e pasti caldi. Gentilezze e lavori forzati. Baci e mutilazioni. Si raggomitolò sotto le coperte, cercando di assimilare quanto più calore possibile. Forse se si fosse riaddormentato, il sogno sarebbe finito. Chiudere gli occhi abbastanza forte e ritrovarsi a Berlino.
 
Una mano gentile aveva posto un panno umido sulla fronte ancora calda di febbre. Sbatté le palpebre non abituato all'insolita oscurità che pesava sugli occhi. 
 
Infine ricordò. 
"Mi dispiace" disse una voce alla sua destra, accompagnata dal gesto di mettergli un bicchiere di latte tiepido tra le mani. Ekaterina. La maggiore dei tre fratelli che componevano la famiglia Braginski, la più gentile, la più normale. Gilbert si decise infine a fare capolino da sotto le coperte, le sopracciglia aggrottate. Non sarebbe dovuto essere lì. Sarebbe dovuto essere a casa, a scherzare con Julchen, a farsi rimproverare da Monika e a strapazzare il piccolo Ludwig che ormai tanto piccolo non doveva più essere; oppure sarebbe dovuto morire insieme a tanti altri nel gelo siberiano. Non bloccato con un pazzo dal cervello surgelato. Nessuna gentilezza sarebbe stata sufficiente per farglielo dimenticare. Serrò con forza le palpebre.
 
“Vattene” sbottò, voltandosi. Sentì crescere dentro di sé la rabbia, in un grumo di odio e collera tale che quasi avrebbe preso a schiaffi Ekaterina, se ciò non avesse comportato abbandonare il giaciglio. 
Nonostante gli anni trascorsi sotto la stesso tetto, non conosceva bene la donna, tranne che aveva preso molto dalla nonna materna, ucraina. Alla fine non gli importava. Eliza avrebbe detto che era senza cuore, che la donna non si meritava un simile trattamento. Ekaterina borbottò qualcosa, troppo piano per udirla, e Gilbert credette di udire dei singhiozzi. Allora si tirò le coperte sopra la testa. Per la prima volta nella sua breve vita si sentì molto triste e molto solo. 
 
Alla fine, Ekaterina era forse l’unica alleata che aveva dentro quelle mura. Anche Natalia sarebbe potuta essere utile, visto che la sua sola presenza sembrava terrorizzare Ivan, se non fosse stato che nutriva un’adorazione nei confronti del fratello maggiore al limite del patologico. 
Ekaterina era quella con abbastanza coraggio da raccogliere le sue lettere e spedirle, lasciandolo in attesa di una risposta che non arrivò mai. L’ennesima prova di quanto tutto fosse cambiato. Anche Toris fu utile, quando in un impeto di pieta o esasperazione, a costruirgli un bastone perché almeno, almeno, non continuasse a cozzare di parete in parete. 
 
Gilbert odiava la cecità. Odiava il costante ricordo della propria debolezza. Pensare che si stava risparmiando l’agonizzante spettacolo del suo bel viso che a poco a poco invecchiava era di ben poca consolazione. Non aveva bisogno di vederla per sentire la vecchiaia avanzare. Che cosa ridicola.  Non poteva invecchiare. I vecchi erano noiosi. Non era nei piani. Almeno i capelli chiari li aveva dalla nascita. 
 
 
Svegliarsi una mattina e scoprire che a breve sarebbero stati vent’anni, gli causò un lieve capogiro. Quando era diventato così vecchio? Nei propri ricordi era rimasto giovane, lo stesso trentenne che si era smarrito un giorno nel freddo siberiano. Pensò a Julchen, la cugina che tanto gli somigliava per aspetto e carattere. Cercò di immaginarsela vecchia, tutta curva e con le rughe e non ci riuscì.
 
Tutto era invecchiato, anche la casa. Lo sentiva nel rumore dei muri e nel suono che faceva il pavimento. Lo capiva dalle voci. 
 
L’aria puzzava di cambiamento.
 
Edward fu il primo ad andarsene, impacchettando un giorno i suoi averi ed uscendo dall'uscio senza che nessuno, Ivan compreso, alzasse un dito per fermarlo. Inviò una cartolina dall’Estonia natia.
Poi lo seguirono Toris e Feliks - un po' più lucido ma sempre immerso nel mondo sicuro delle sue fantasie - e ancora Ivan non ebbe da obiettare.
La verità era che dopo anni passati a tenere insieme quella famiglia che aveva voluto costruire per se, raffazzonata con pezzi raccolti con cura infantile, senza ottenere alcuna gratitudine in cambio, Ivan si era stancato. Quando anche Raivis, non più il quindicenne terrorizzato, osò varcare la porta, si arrese. 
 
"Vuoi andartene anche tu?" Così chiese a Gilbert, col tono di chi ti vuole far sentire in colpa. Ma l'odio che Gilbert provava per il russo era abbastanza forte da difenderlo contro certi giochetti psicologici.
“Puoi portarlo con te, Kati’enka. Mi mancherai. Volevo costruire una famiglia.”
Gilbert non rispose, nonostante la sua mente gridasse che, cazzo, no, non era così che si costruiva una famiglia. Che Ivan non poteva andare in giro a raccogliere persone e aspettarsi che lo amassero come cagnolini randagi. Che le sue possibilità erano finite quando lo aveva accecato. Che lui una famiglia, grazie tante, l'aveva già . Sperando che ne rimanesse qualcosa. Pensò che se non fosse stato per Ivan, lui, Gilbert, a casa ci sarebbe già tornato da un pezzo.
"Hai già una famiglia" disse gelido, alludendo alle sorelle Braginski. 
Quindi si fece guidare da Ekaterina. Fuori era primavera e la neve si scioglieva timidamente sotto la suola degli stivali. Gilbert chiese da che parte fosse l'Ovest, si voltò nella direzione indicata e lasciò che il vento gli schiaffeggiasse la faccia: casa, sarebbe tornato a casa.
 
Sarebbero occorsi altri cinque anni prima di giungere a Berlino Est e troppo, troppo tempo per passare dall'altra parte, per scoprire cosa era rimasto della sua famiglia, per riallacciare i fili di una vita interrotta nell'ormai lontano '42. 
 
Ma Gilbert Beilschmidt era uno stratega e un buon stratega sa fare una cosa: aspettare. 
 
Note 2016: se ho impiegato più di un anno a finire questa OS un motivo c’è ed è “come la faccio finire senza tenere tutto in sospeso ma rimanendo allo stesso tempo credibile?”?”. Oltre al continuo tira e molla tra “guarda, forse la scena dell’accecamento è eccessiva” e “ma ormai l’ho scritta e poi mi piace”. E così via.
Vorrei fare un paio di precisazioni. Premesso che è un AU, dove quindi può capitare che il carattere dei personaggi sia un po’ cambiato, negli  ultimi tempi tendo a considerare Russia dotato della crudeltà dei bambini, del tipo quelli che strappano le ali alle farfalle, senza rendersi conto della crudeltà del gesto. Inoltre, prima che qualcuno ci veda doppi e tripli sensi, la frase “ne subivano le spese” non riguarda nulla di sessuale.
Detto questo, credo – anzi farò – una drabble/flash legata a questa OS. 
 
Note del 2019: Un anno! Benvenuti quattro anni dopo. E poi apri il folder delle fanfic e apri vecchi progetti e scopri che cose che credevi a metà erano già finite con tanto di note finali. Forse l’avevo pure pubblicata e poi cancellata, chi se lo ricorda. 
Non so quanto valga la pena pubblicarla, visto che è rimasta dimenticata per tre anni, io ho cambiato fandom e tante altre belle cose. Non mi va nemmeno di rimaneggiarla. Però magari a qualcuno interessa e tanto vale. È tutto quello che poi ho imparato a non fare: OOC, angst per il gusto dell’angst. Ed è anche tutto ciò che anche a distanza di anni continua a piacermi. 
 
Sì, il finale è super veloce. Capitemi, non sapevo più dove mettere le mani. Molto tell, poco show, perché alla fine è una OS. Salti temporali da far paura. 
 
Altra noticina di costume. Dopo anni bloccata perché l’accuratezza storica non stava collaborando, oggi ho deciso di appellarmi alla licenza poetica e ignorare bellamente l’accuratezza storica. Quindi, sì, metà delle cose narrate non sono plausibili e sì ci sono salti temporali enormi, ma sto scrivendo una fanfic e non un saggio e in fondo lo faccio per divertirmi. 
Parlando di “divertimento”, volevo fare la persona matura e togliere il gore, ma alla fine non mi importa, tanto ormai questa OS è diventata un mostro e me ne voglio solo liberare.
 
Questa serie va avanti dal 2011 e la storia a cui sarebbe collegata è del 2013, ma eviterei di andarla a prendere in causa. È forse la peggiore di tutte e mi sale un cringe tale ogni volta che non riesco nemmeno a riaprirla per sistemarla. 
 
E ora la pianto di parlare al vento. 
 
Enjoy. 

 
   
 
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