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Autore: ChiiCat92    17/10/2019    0 recensioni
"Fa caldo, asfissiante, mi sembra di non riuscire a dilatare i polmoni. Sudo, un sudore caldo che mi appiccica la maglietta alla schiena.
Sono uscito nella speranza di trovare refrigerio nei negozi, anche se non ho soldi da spendere né interesse nel farlo.
Le cicale riempiono l’aria, sembra quasi friggere. Forse dipende dal fatto che il sangue mi ribolle nelle vene e che la vista si sdoppia a livello dell’asfalto rovente.
Fa veramente caldo."
Questa storia partecipa al Writober2019 di Fanwriter.it, lista PumpINK.
#writober2019, #fanwriterit, #halloween2019
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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17/10/2019

 

Cartolina 


Fa caldo, asfissiante, mi sembra di non riuscire a dilatare i polmoni. Sudo, un sudore caldo che mi appiccica la maglietta alla schiena.

Sono uscito nella speranza di trovare refrigerio nei negozi, anche se non ho soldi da spendere né interesse nel farlo. 

Le cicale riempiono l’aria, sembra quasi friggere. Forse dipende dal fatto che il sangue mi ribolle nelle vene e che la vista si sdoppia a livello dell’asfalto rovente.

Fa veramente caldo. 

Cammino saltando da un’ombra all’altra sperando che il cappello e gli occhiali da sole mi proteggano ma...sudo, sugli occhi, sul collo, sulle guance, sulla cute. Cerco di non respirare troppo profondamente per non inalare una zaffata calda. Sarebbe possibile cuocermi dall’interno, solo lasciando troppo la bocca aperta? 

Mi infilo nel primo bar lungo la strada. Campanelle dal suono cristallino tintinnano appena apro la porta e ho come l’impressione che siano fatte di ghiaccio. Dentro tutto è così fresco e piacevole che sento la maglia sulla schiena scricchiolare, asciutta all’improvviso. Mi sembra quasi di vedere il respiro condensarsi.

Mi siede al bancone finalmente aspirando con avidità quell’aria sterile e fredda.

La ragazza che mi saluta ha una fossetta sulla guancia e un bel sorriso, ordino la coppa più grande di gelato che hanno sul menù e lei sorride con tutti i denti, nessuno escluso. 

Non sono il solo ad essersi rintanato alla ricerca di sollievo dalla calura. Una famiglia di turisti, ancora congestionati, siede al tavolo fissando un punto imprecisato di fronte a loro, finché almeno un cameriere non porta le loro gelide ordinazione: hanno preso tutti il gelato. Un signore, evidentemente costretto a vestire con giacca e cravatta per motivi che se vuole il cielo non sarò mai costretto a capire, si sventola con una copia unta di giornale, come se fosse ancora là fuori, al caldo, e di tanto in tanto sorseggia il suo frappé. 

La ragazza con la fossetta mi mette davanti la coppa di gelato, l’ha guarnita con qualche biscotto extra, perché quelle sul tavolo della famiglia di turisti non sono così ben farciti. La ringrazio e comincio a mangiare, un piccolo boccone alla volta.

Il gelato scende meravigliosamente lungo la gola e finalmente il calore interno ed esterno si stabilizza. E poi sì, è anche buono, quasi non avevo goduto del sapore in sé del gelato. 

Lancio un’occhiata all’orologio, sono le 14:30, il che vuol dire che ho ancora mezz’ora di tempo prima di tornare a lavoro, dove non ho l’aria condizionata, dove sono solo circondato da carta, e dove ogni refolo di vento è come quello che esce dal forno.

Al pensiero mi viene da piangere, per questo affondo il cucchiaino nella coppa e mangio più alla svelta. Forse se mi riempio di freddo, di gelo, riuscirò a portare un po’ con me questo sollievo.  

Alla fine non mi rimane che pagare e uscire. La ragazza carina con la fossetta mi chiede se la coppa mi fosse piaciuta e se ho notato i biscotti extra che mi ha messo (ah, avevo ragione!). Sta flirtando un po’ con me o è gentile così con tutti i clienti? 

Deduco da come mi guarda che no, non è così con tutti, le sorrido vagamente e la ringrazio senza aggiungere altro. 

È carina, ma a me non piacciono le ragazze, che siano carine o meno.

Il caldo mi respinge come un muro quando cerco uscire. Poi mi rendo conto che sono io solo, impalato sulla soglia del bar, che non ho intenzione di uscire.

Mi forzo, però, perché non posso farne a meno. 

Di nuovo sottoposto al caldo mi rendo conto che nessun gelato del mondo, neanche un iceberg del Polo Nord, potrebbe tenermi al fresco. 

Si incollano le suole delle scarpe sull’asfalto semisolido? 

Percorro le ultime traverse verso il tabacchino già pensando a come evitare che il culo mi si incolli sullo sgabello di pelle. 

All’interno del tabacchino, se possibile, è ancora più caldo dell’esterno, l’aria è satura dell’odore di tabacco, giornali, banconote consumate.

Mio padre mi guarda da dietro un vetro con gli occhi socchiusi. Lui la pausa pranzo l’ha fatta lì, al caldo, sciogliendosi, diventando un po’ più gobbo per via del decadimento dei tessuti, io invece, da bravo figlio degenere, me ne sono andato a zonzo come un vagabondo.

Gli sorrido e sono felice di aver mangiato quella coppa gelato.

Torno al mio posto, sullo sgabello foderato di pelle (per lo più mia) e aspetto.

È tutta questione di aspettare. Aspetti il cliente, aspetti che decida cosa vuole (di solito non è un’attesa lunga, a differenza di altri negozi, qui entrano con le idee chiare), aspetti che tirino fuori i soldi, aspetti che qualcuno ti porti via verso una vita migliore, dove non ci sia il continuo tintinnio delle slot machine. 

Ho imparato l’importanza di trovarsi qualcosa da fare tra un’attesa e l’altra, e sono al mio sesto volume di X-Men di oggi. Almeno nei fumetti non fa così caldo, e mio padre mi lascia tenere le rimanenze invendute. 

Sto togliermi la maglietta, e tutto quello che trovo sotto, per cercare sollievo dal caldo quando entra un cliente. 

Si porta dietro una scia di freschezza inaspettata, un odore di menta forte. Sollevo lo sguardo e mi ritrovo nel panico quando lo vedo avanzare verso di me. 

Ha una cartolina in mano, un panorama con un vulcano fumante con la cima imbiancata dalla neve; anche se indossa un completo grigio chiaro non sembra soffrire il caldo, o è davvero molto bravo a fingere; la compostezza rigida della schiena lo rende molto più vecchio di quello che è in realtà, e la ventiquattr’ore datata che fa oscillare qua e là rende l’idea di un bambino che gioca a fare l’uomo di casa. Non deve avere più di trent’anni, è più probabile che ne abbia cinque di meno.

« Salve. » esordisce, evitando il “ciao”, che sarebbe troppo informale, e il “buonasera”, che l’avrebbe fatto sembrare fuori luogo, come un fiore in un campo d’erbacce. Mi mostra la cartolina, come fosse già una spiegazione, e poi aggiunge: « Mi servirebbe un francobollo, ne avete? » 

Il francobollo, la cartolina e la valigetta insieme chiudono il triangolo dell’errata percezione che si ha di lui. 

Ha una bella voce, ed io sono coperto di sudore e possibilmente puzzo. Benissimo. 

« Mi dispiace. » cerco di capire se devo dargli del tu, del lei, del voi, e cerco di formulare la frase successiva senza parole che possano tradirmi. « I tabacchini non vendono più francobolli, si trovano solo in posta. » 

« Ah. » mormora lui, deluso. Ha occhi grigi pieni di schegge dorate. « Immagino che le poste siano tutte chiuse a quest’ora. »

« Era molto importante? »

Il ragazzo sospira, scrollando le spalle come se si fosse tolto un pensiero. 

« No, solo un capriccio. Torno a casa tra due giorni, è possibile che arrivi io prima della cartolina, ma volevo fare una sorpresa a mia sorella. » 

Lo trovo squisitamente delizioso per quel modo candido di confessare la sua storia. È così leggero che mi chiedo cosa mi succederebbe a toccarlo, forse scomparirebbe tra le mie dita. 

« Potresti prenderle qualcos’altro. » e per la prima volta non lo dico come venditore, ma per un puro slancio di empatia nei suoi confronti. « C’è una libreria lungo la strada che apre alle 16, non so...le piacciono i libri? »

« Non...mi vendi niente di quello che hai qui? » è passato al “tu”, quindi, con sollievo, posso dargli del “tu” anch’io. 

Mio padre, come sempre, si è assopito sullo sgabello. Fa caldo, è stanco, e ci sono io a controllare il negozio. Sono grato alle sue noiose abitudini. 

« Beh, non so. » gli indico la parete piena di sigarette alle mie spalle. « Non le consiglierei come regalo. »

Lui sorride, smagliante, forse trattiene una risata, sembra il tipo che trattiene un sacco di cose. 

« Che ne dici di quello? » fa lui, indicando il fumetto sgualcito e umido delle mie ditate su ogni pagina. Mi sento avvampare per la vergogna ma riesco a ricambiare il sorriso. Non credo sia bello quanto il suo. 

« Non è il miglior numero degli X-Men, che abbia letto, ma è disegnato da Gugghenheim e io adoro il suo tratto. Se ti interessa, dietro il palazzo c’è una fumetteria un po’ più fornita… »

Forse mi sono lasciato prendere la mano, ma lui sembra divertito e ammirato insieme.

Prende un pacchetto di Morositas dall’espositore e una barretta ai cereali al cocco, mostrandomeli entrambi prima di far tintinnare le monete sul piattino. 

« Andrò a vedere in libreria. » realizzo che sta per uscire dalla mia vita, e che non lo rivedrò mai più, e che il tabacchino si è fatto all’improvviso più caldo.

Morositas e barretta di cereali al cocco, ma chi compra cose del genere?  

Poi lui esita di fronte allo scaffale dei fumetti. Ci sono le nuove uscite, com’è giusto, ma anche qualche rimanenza più vecchiotta, con talloncini di sconto o impacchettati insieme a prezzo stracciato per invogliare i clienti a comprarli. A colpo sicuro il ragazzo prende il nuovo numero di Deadpool e torna indietro per pagarlo. 

« Prendo anche questo. » 

« Ma… » non so neanche perché sto contestando. « ...in fumetteria… »

« Preferisco comprarlo da te. » lascia, di nuovo, le monete sul piattino. « Se ti piace Gugghenheim sei uno che se ne intende. » mi rivolge un occhiolino, ed io sento le viscere sciogliersi come il gelato che ho mangiato per pranzo. « Anch’io adoro il suo tratto, comunque. » 

Boccheggio, e non è per il caldo, ne sono sicuro. 

Il ragazzo esce dal negozio e vorrei andargli dietro, ma non ho nessuna scusa per farlo, almeno finché lo sguardo non cade sulla cartolina. Proprio quella del vulcano con la cima innevata. L’ha dimenticata sul bancone, non sono neanche sicura di quanto l’abbia poggiata lì. 

L’afferro al volo e schizzo giù dallo sgabello e poi, fuori, nel caldo abbacinante del giorno. 

 
   
 
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