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Autore: Ink_    19/10/2019    0 recensioni
[Mini-long]
Dean aveva soltanto tre certezze: primo, di non essere pazzo e che qualcosa lo stesse trattenendo in quel covo di matti. Secondo, che presto Sammy lo avrebbe tirato fuori di lì. E terzo, che non rimanesse più molto tempo.
«Santo cielo non è un sogno quel uomo? Quasi quasi … ».
«Oh mia cara, quel ragazzo è tanto bello quanto svitato! E ad ogni modo mettiti in coda, prima ci siamo io e la capo infermiera Tess» disse Lucinda scatenando l’ilarità delle specializzande.
«Che c’è? Solo perché una donna ha settantacinque anni suonati non può sognare?»
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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III.
 

“L’essere che, sotto il letto, aspetta di afferrarmi la caviglia non è reale.
 Lo so.
E so anche che se sto bene attento a tenere i piedi sotto le coperte,
non riuscirà mai ad afferrarmi la caviglia.”
Stephen King, A volte ritornano.
 

 
«Il signor Abes, la signorina Wood ed il signor Winchester non si sono presentati per la dose serale» annunciò Tess, la lista tra le mani e un occhio critico.  «Qualcuno vuole andare a controllare?».

Holly si allontanò dal vetro di plexiglass che separava il corridoio dalla farmacia della clinica. «La signorina Wood è ancora sotto sedativi dopo la crisi di oggi pomeriggio. È probabile che stia dormendo».

«Oh giusto». Tess tamburellò la penna sulle labbra, poi appuntò qualcosa sulla cartelletta «Degli altri due pazienti avete notizie?».

Holly scosse la testa, mentre Brooke si offriva volontaria per andare a controllare Dean Winchester; era l’occasione ideale per fargli qualche altra domanda prima che finisse il turno.

«D’accordo allora … Holly ti dispiacerebbe controllare il signor Abes? È molto importante che prenda i suoi sonniferi se le ragazze del turno di notte vogliono passare una serata tranquilla».

«Ma certo Tess, me ne occupo io».

Brooke uscì dalla stanzetta, chiudendosela a chiave alla spalle. Percorse velocemente il corridoio tenendo la mano poggiata sulla tasca della divisa, dove aveva messo il sacchettino contenente le pillole per Dean. Buffo come le ricordassero innocue caramelle, quando la combinazione sbagliata poteva lasciare un paziente agonizzante sul pavimento con la schiuma alla bocca. Cercò di non pensare troppo ad Izzy Wood e alle sue labbra cianotiche quella mattina.

La stanza di Dean si trovava sul lato est del corridoio, a tre camere di distanza dalle spesse doppie porte d’acciaio che dividevano la zona d’isolamento dal resto dell’ospedale. Al di là di quelle porte si trovavano altre porte di metallo, ognuna con una piccola finestrella grande abbastanza per sbirciare all’interno. Brooke aveva sbirciato una sola volta e quello che aveva visto le era bastato per il resto della vita. Sapeva che la mente umana poteva spingersi oltre l’inimmaginabile se privata del controllo, ma ridursi in quello stato? Non l’aveva mai creduto possibile prima.

Entrò nella stanza di Dean. L’uomo sedeva sul letto e le dava le spalle, una gamba piegata sotto di sé e l’altra lasciata a penzolare. Teneva lo sguardo rivolto fuori dall’unica finestra sbarrata, là dove le chiome degli alberi venivano frustate dal vento e dalla pioggia. Brooke si schiarì la gola, ma il paziente non diede prova di averla sentita entrare.

«Dean?».

Lo chiamò più volte, ma senza risultati. Con riluttanza camminò intorno al letto fino a pararglisi di fronte: lo sguardo vacuo, fisso nel vuoto, la mascella contratta, l’aria sfinita. Allungò la mano decisa a scuoterlo delicatamente, ma la ritrasse all’ultimo. Doveva essere cauta, un paziente in quelle condizioni, se destato bruscamente dal suo stato di catatonia poteva avere reazioni imprevedibili e, nella maggior parte dei casi, violente.

Lasciò vagare lo sguardo per la camera, incerta sul da farsi.

Come la maggior parte degli altri abitanti della clinica non aveva oggetti personali ad abbellire in qualche modo la stanza, l’unica traccia di personalizzazione veniva dalle macchie di dentifricio secco alla parete.

Tess le aveva raccontato che ogni due settimane doveva portare via diversi ritagli di giornale che Dean appiccicava meticolosamente al muro con la pasta dentifricia – e per ritagli intendeva ovviamente trafiletti strappati con precisione, perché di fobici in quel posto non se n’erano mai viste. Le aveva riferito la conversazione che avevano avuto in merito lei e Dean, come se fosse un simpatico aneddoto da pausa caffè.

«Mi disse – e cito testuali parole! “Andiamo Tess! Posso anche scendere a compromessi con l’assenza di forbici o nastro adesivo, posate di gomma e vetri antisfondamento, ma le tende almeno?” Era davvero esasperato il poveretto!» e qui era scoppiata in una grassa risata «E poi sai cosa mi ha detto? Ci ha pensato un po’ e poi mi fa: “Ma forse hai ragione Tess, se fossi costretto a passare anche solo un’altra ora tra queste quattro mura spoglie le userei per fabbricarmi un cappio”». Né lei né Holly l’aveva trovato affatto divertente.

Non aveva pensato di chiederle che cosa riportassero quelli articoli di giornale, né perché Tess insistesse nel portarglieli via, ma la risposta ora le pareva chiara dopo quel pomeriggio. Troviamo una pista, di solito gente morta in circostanze inspiegabili o sospette, indaghiamo, staniamo la bestia e la facciamo fuori cercando di non rimetterci la pelle. Probabile che la capoinfermiera avesse decretato che tenere in camera necrologi e resoconti di omicidi non dovesse giovare alla già precaria salute mentale di Dean Winchester.

Mancava mezz’ora alla fine del suo turno e il picchiettare violento della pioggia la stava facendo innervosire. Prese coraggio e poggiò la mano sulla sua spalla, strizzandola delicatamente, ma mantenendo un braccio di distanza nel caso dovesse difendersi. Dean non si mosse né vacillò il suo sguardo. Tentò ancora scuotendolo un po’ più forte, lo chiamò nuovamente dicendogli che doveva prendere le medicine.

Tornò con la mente alla discussione avuta con Lucinda, a come aveva definito il signor Rogers “perso”, come se non riuscisse a trovare la strada per uscire dalla propria testa per tornare alla realtà. O non volesse farlo.

Lasciò cadere la mano lungo il fianco e si avvicinò all’uscita. Lanciò un ultimo sguardo al paziente, poi accostò la porta.

Poggiò la fronte sulla superficie liscia e fredda, la mano che faceva ancora presa sulla maniglia.

«Ma dove sei Dean?» sospirò. 
 
 

 
Dean sedeva sul letto, una gamba piegata sotto di sé e l’altra a penzoloni, la punta dell’alluce che sfiorava il pavimento gelido.

Fuori infuriava un temporale, una fitta cascata d’acqua scrosciante colpiva il vetro appannato della stanza, mentre le cime degli alberi venivano scosse dal vento. L’acqua colpiva violentemente le foglie secche cadute a terra, inzuppandole e mischiandole al fango in un’unica marcescente poltiglia .

Si chiese a che punto fosse Sammy, se ci avrebbe messo ancora molto a trovarlo. Si stava indebolendo, ogni giorno – se di giorni si trattava – si trascinava lento ed identico ai precedenti ma lui era sempre più stanco, più affaticato. Stava perdendo il controllo e con quello probabilmente anche litri di sangue.

Sempre più sovente apriva gli occhi per ritrovarsi in un’ala della clinica dove non ricordava di essersi recato o peggio, si concentrava sull’orologio di feltro della sala ricreativa e quando sbatteva le palpebre scopriva che le lancette avevano avanzato di un’ora e venti minuti. Dov’era stato lui in quell’ora e venti minuti? Non ne aveva idea. Forse a sbavare sulla sedia. Soltanto l’idea di trovarsi in un tale stato di vulnerabilità gli dava la nausea.

Ma si era detto di avere fede, fede in Sam. Sam l’avrebbe tirato fuori di lì, ne era certo. Avrebbe trovato una soluzione, una maniera per ammazzare quel bastardo e l’avrebbe riportato indietro, avrebbero mangiato cheeseburger, bevuto un paio di birre e dopo una sacrosanta doccia Dean avrebbe dormito per una settimana.

Sentì il rumore della pioggia affievolirsi gradualmente e cercò di mettere a fuoco il giardino oltre le sbarre e i vetri anti sfondamento, ma il temporale creava uno spesso muro d’acqua.

Un sibilo gli penetrò nell’orecchio, acuto come un fischio e la vista vacillò. Per un secondo gli parve di vedere una stanza buia, forse un magazzino, vide i propri piedi, gli scarponi sporchi e oscillanti da terra. Si sforzò di alzare lo sguardo ma la testa ondeggiava così tanto da fargli venire il voltastomaco. Gli sembrò di intravedere una figura esile a qualche passo da lui, un pallido fantasma dai capelli neri, sfuocato e indistinto, che rideva di lui.   

Così com’era arrivato il fischio se ne andò, la stanza smise di vorticare come l’acqua nello sciacquone e il suo sguardo si fissò sul pavimento piastrellato, lucido e immacolato. E bagnato. C’era dell’acqua, una pozzanghera cristallina proprio sotto ai suoi piedi. Il fondo dei pantaloni bianchi della divisa era fradicio e piccole gocce gli costellavano le dita, come rugiada la mattina. Dean alzò la testa, ma sul soffitto non vi erano né tubi né perdite e la finestra non poteva di certo lasciar entrare la pioggia.

Da dove diavolo veniva quella pozza allora? Sentiva una sensazione di umidità e freschezza intorno alle caviglie e sui piedi, erano indubitabilmente bagnati, non poteva non essere reale.

Una goccia in bilico sotto l’alluce cadde e la superficie dell’acqua si increspò generando piccoli cerchi concentrici che andavano allargandosi. Gli ricordò l’effetto di una pietra fatta rimbalzare su un lago, lo specchio d’acqua che si distorce creando cerchi concentrici e piccole onde.

Piccoli cerchi concentrici che dal centro si allargano fino a riva, ma senza disturbare quel che sta sotto.

Sentì il respiro tornargli regolare mentre una piacevole sensazione di torpore lo avvolgeva, come un déjà-vu.  



 
Sam continuava a sbuffare, lanciando sasso dopo sasso con gesti che tradivano nervosismo, osservandoli puntualmente affondare nelle acque scure del lago.

«Dean» lamentò quando esaurì la scorta che si era  procurato passeggiando lungo la sponda pietrosa «Non ci riesco».

«E’ una questione di polso, Sammy, è come lanciare una stella ninja » rispose alzandosi dal masso su cui si era appollaiato. Avrebbe desiderato poter dire di aver scelto quella postazione casualmente, magari per ammirare come le chiome degli alberi si specchiassero nel lago, trasformando l’acqua in una pozza di gialli, rossi e arancioni. La verità era che da lì aveva una chiara visione a trecentosessanta gradi di tutto ciò che li circondava. Qualsiasi cosa che si fosse avvicinata non l’avrebbe colto di sorpresa.

«Io non ho mai lanciato una stella ninja» rispose irritato il ragazzino.

«È facile, è come lanciare un sasso».

«Davvero divertente » grugnì Sam.

Dean saltò giù dal masso e scelse una pietra levigata e striata di bianco tra quelle della riva. Si erano fermati per riposare e svuotare la vescica, assecondando così le lamentele di Sam che li avevano accompagnati per gli ultimi otto chilometri.

«Guarda il maestro all’opera». Impugnò il sasso tra il pollice e l’indice, portò il braccio indietro, ruotando appena la spalla e con un movimento fluido e coordinato del polso lanciò verso il lago, mollando la presa sulla pietra all’ultimo secondo.

Tre salti. Tre piccoli cerchi concentrici che si allargavano fino a disperdersi nell’acqua, nascondendo ogni traccia del suo passaggio.

Sam emise un fischio di apprezzamento e Dean si raddrizzò con un sorriso compiaciuto.

«Ora hai capito come si fa?».

Sammy fece un cenno affermativo con il capo, gli occhi fissi nel punto in cui la pietra era affondata, poco prima di compiere il quarto rimbalzo. Dean gli spettinò i capelli che andavano allungandosi, un gesto affettuoso a cui il ragazzino cercò di sottrarsi.

«Piantala Dean!». Al che il maggiore dei Winchester lo afferrò per il braccio, tirandolo verso di sé e bloccandogli la testa tra il gomito e il fianco. Chiuse la mano a pugno e prese a strofinarlo sulla testa del fratello mentre quello cercava di liberarsi dalla sua presa.

«Ma che bei capelli Samantha!».

Sam si spinse indietro e piegando le gambe colpì il ginocchio di Dean, costringendolo a mollare la presa per non perdere l’equilibrio. Prima di poter riprendere la lotta, il grido di John gli intimò di piantarla con quelle sciocchezze e tornare immediatamente in macchina. Spintonandosi a vicenda si avviarono verso il ciglio della strada dove avevano parcheggiato l’Impala.

Prima di salire sul sedile posteriore, Dean lanciò un ultimo sguardo alla riva pietrosa del lago, alle acque scure al centro e pensò alla pietra grigia striata di bianco.

Era stato davvero un ottimo lancio.

 
Era probabile che sprofondando verso il fondo il sasso si sarebbe posato tra una radice marcia e un mucchietto di piccoli pietruzze levigate, se in quel momento un pesce non fosse passato di lì, agitando l’acqua con un colpo della coda e cambiandone la traiettoria. Si adagiò invece sul fondo fangoso, vicino ad un amo da cui pendevano ancora i resti maciullati di un verme.

Ma questo nessuno poteva saperlo se non la trota forse,così  come nessuno poteva sapere che loro erano stati lì quel giorno, a tirare sassi sulle pietrose sponde di un anonimo laghetto del Montana.
 


 
   
 
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