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Autore: Adeia Di Elferas    20/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Ed è vero, quello che dicono tutti di lui?” chiese Caterina, incrociando le braccia sul petto.

Marulli sollevò le sopracciglia, guardando per un momento la sua signora. La Sforza, seduta sul suo letto dalla foggia povera – quasi un lettuccio da soldato, se non fosse stato per le dimensioni degne di un letto da sposa – teneva lo sguardo cupo rivolto verso il camino. Fuori stava ricominciando a piovere e la luce si era fatta scarsa. Senza che nessuno dei due se ne avvedesse, avevano tirato tardi.

“Che è un bellissimo giovane?” chiese, incerto, il bizantino.

Per un istante le labbra piene della donna si sollevarono in un sorriso divertito, ma poi tornarono subito a disegnare una riga severa, mentre lo correggeva: “No, intendevo dire se è davvero un incapace come lo descrivono tutti.”

“Un uomo che sia così privo di scrupoli da essere pronto a tutto, può essere ritenuto davvero un incapace?” rilanciò Michele, battendosi le mani sulle ginocchia.

“Non sono in vena dei vostri sofismi da letterato.” lo rimproverò la Contessa.

Marulli, alla scrivania, fece un sospiro e allargò un po' le braccia: “Diciamo che, per quel poco che ho visto, lo ritengo abbastanza pericoloso, per essere solo un incapace.”

“Ho capito.” concluse la Tigre, massaggiandosi stancamente la fronte.

Avevano discusso a lungo di Milano, dei francesi e di cosa fosse adesso il palazzo di Porta Giovia.

Il bizantino le aveva riferito tutte le impressioni che aveva raccolto, nell'avvicinarsi al re di Francia, e i malcontenti, più o meno evidenti, di alcuni suoi generali nel sapere che a breve, nella spedizione in Romagna, avrebbero dovuto sottostare al figlio del papa.

“Forse dovrei andare...” disse a un certo punto Michele, alzandosi: “Non vorrei che qualcuno pensasse male, nel vedermi uscire dalla vostra stanza in piena notte. Ho una moglie che amo.”

La Leonessa gli concesse subito di andarsene, sollevando una mano, ma, prima che l'uomo lasciasse la stanza, gli rivolse una domanda che si era scordata di fargli prima: “Credete che il Marchese di Mantova potrebbe esserci di nuovo amico?”

Marulli parve un po' spiazzato da quella richiesta, ma poi, ricordando quello che aveva sentito mentre era a Milano, annuì: “Lui sì. Su sua moglie, invece, non saprei che dirvi.”

La Sforza annuì e poi gli indicò di nuovo la porta: “Andate pure, avete bisogno di mangiare e riposare. Il viaggio, come mi avete detto, è stato molto difficile... Non voglio abusare oltre della vostra gentilezza.”

L'altro la ringraziò e la lasciò. Rimasta sola, Caterina si lasciò cadere all'indietro sul letto, mettendosi a fissare il soffitto. Era vero, Isabella d'Aragona era indecifrabile, specie per lei. Da un lato l'ammirava, perché era una donna capace di tenere a freno un marito come Francesco Gonzaga, ed era anche stata in grado di attirare su di sé l'attenzione di tutte le corti italiane per la sua cultura e la sua eleganza. Tuttavia, nelle sue scelte – per quanto la Contessa avesse sempre seguito solo marginalmente la sua politica – le era sempre apparsa come smossa da qualcosa che si avvicinava molto spesso al capriccio più che alla logica.

Le chiacchiere, poi, su di lei e Pietro Bembo, avevano fatto il resto.

Con un sospiro, Caterina si rimise seduta, dicendosi che se una Marchesa voleva avere una relazione adulterina con un giovane cortigiano, non era certo lei la persona più indicata per criticarla, ma il motivo che sembrava averla spinta a una certa disinvoltura con quel Bembo, e forse non solo con lui, la lasciava perplessa. Secondo i pettegoli, infatti, quella era stata solo una ripicca, per punire un marito fedifrago.

La Leonessa, invece, l'avrebbe capita molto di più se si fosse presa un amante solo perché lo voleva.

Con uno sbuffo si alzò, andò un attimo alla finestra, per accertarsi che stesse ancora piovendo, e poi decise di scendere a cena. Non aveva fame e aveva voglia di pensare, ma sperava di incontrare qualcuno a tavola con cui discutere di cavalli.

Non aveva ancora avuto risposta, ovviamente, da Corradini in merito alla validità delle informazioni passatele dal Calmeta, ma nel frattempo voleva capire meglio se offrire un paio di bestie a un Marchese potesse davvero assicurarle un amico, o, se non altro, toglierle di torno un nemico.

 

Lorenzo cercava di non dare a vedere il proprio nervosismo, soprattutto per non attirare domande scomode di sua moglie, tuttavia, il suo incessante picchiettare con indice e medio sul bracciolo della sua sedia fece sì che alla fine Semiramide gli chiedesse: “Cos'è successo? È da quando sei tornato che...”

“Stai zitta.” la rimbrottò subito lui, senza nemmeno accorgersi dello sguardo attonito che suo figlio Pierfrancesco gli aveva appena lanciato, nel sentirlo apostrofare a quel modo la madre.

Era di pessimo umore e lo stomaco gli si rivoltava di continuo. Perfino la zuppa che gli stava davanti, che pure emanava un profumo eccellente, gli dava la nausea.

Tutto sommato, si diceva il Medici, avrebbe dovuto essere felice di quello che stava succedendo. Si era ingegnato e non poco per far sì che Firenze si schierasse de facto coi francesi, ai danni di sua cognata, eppure le notizie – ormai certe – che gli erano arrivate all'orecchio erano state sufficienti per dissipare ogni qualsivoglia traccia di trionfo nel suo spirito.

Di per sé, sapere che una nipote – per altro illegittima, per quanto riconosciuta – della Sforza fosse arrivata a Firenze indisturbata, anzi, protetta dalla cittadinanza ottenuta per legge dal padre, non era certo un dramma. Ciò che aveva dapprima indispettito e poi fatto infuriare il Popolano era piuttosto capire che quella bambina, assieme a non sapeva quante accompagnatrici di preciso, aveva trovato rifugio al convento delle Murate, impedendogli quindi ogni tentativo di avvicinamento per carpire informazioni.

Non pensava che la Tigre si sarebbe mai fidata a fare altrettanto con i propri figli. Firenze, per quanto una città a lei teoricamente amica, in realtà le era ostile, e quella donna sapeva benissimo come muoversi, con i propri nemici.

Posandosi una mano sulla tempia, come per placare il suo tremendo mal di testa, Lorenzo aggrottò la fronte e prese il calice di vino. Bevve appena due sorsi e venne quasi sorpreso da un conato di vomito.

Deglutendo un paio di volte, per frenare quella sensazione orribile, l'uomo guardò di nuovo la moglie e poi chiese, senza il minimo interesse, ma al solo fine di allontanare da sé l'attenzione che, suo malgrado, aveva calamitato con la sua risposta secca: “Stamattina mi sono perso qualcosa di interessante, mentre ero fuori?”

L'Appiani aveva capito perfettamente l'intento del marito e, a unico beneficio del loro Pierfrancesco, che si stava dimostrando giorno dopo giorno sempre più insofferente e allo stesso tempo spaventato da un padre che gli sembrava di non riconoscere più, la donna annuì e iniziò a riportare con dovizia di inutili particolari tutto quello che aveva visto quella mattina, quando era uscita per Firenze.

Il Medici non la stava ascoltando nemmeno con un orecchio, troppo concentrato sulla propria nausea, che non gli dava tregua, e sugli scenari che l'arrivo della nipote della Sforza apriva davanti ai suoi occhi.

Lorenzo davvero non credeva che la Tigre avrebbe mandato a Firenze i suoi figli. O meglio, forse avrebbe potuto mandare i maggiori, sempre che non decidesse di spedire il primogenito a Pisa, assieme al fratello Cesare che, forse, avrebbe potuto offrirgli protezione dai francesi.

Però il più piccolo, quello che lei aveva sempre spacciato come figlio ed erede di Giovanni... Il Popolano dubitava moltissimo che una lupa così accorta mandasse il suo cucciolo più prezioso laddove una vipera avrebbe potuto catturarlo e farlo sparire.

L'uomo, inconsciamente, sollevò appena l'angolo della bocca, intimamente divertito dall'immagine che il proprio animo gli aveva dato di se stesso: una vipera. Semiramide aveva notato quell'espressione e, pur sentendo il sangue gelarsi nelle vene, aveva fatto finta di nulla, continuando a parlare delle bellissime stoffe che aveva visto quella mattina mentre era a fare compere.

Probabilmente, continuò a ragionare Lorenzo, la Sforza avrebbe spedito il più piccolo a Venezia, come alcune delle sue spie avevano suggerito. Che il Doge, in realtà, si fidasse poco dei francesi era ormai evidente, tanto che si diceva che fosse pronto a mandare due comandanti della stazza di Bartolomeo d'Alviano e Giacomaccio a Ravenna, ai confini dello Stato, proprio per difendere quelle terre, da eventuali sconfinamenti francesi o pontifici. In cambio di una buona quantità di soldi, perché mai Barbarigo avrebbe dovuto rifiutare di tenere il bambino presso di sé?

“Ah, poi ho intravisto Doffo Spini andare nella bottega di Sandro...” la voce dell'Appiani strappò il Popolano dai suoi ragionamenti.

“Doffo Spini?” chiese lui, con la voce un po' arrochita: “E che ci andava a fare il capo dei Compagnacci da Sandro?”

Semiramide, sorpresa di vedere il marito partecipare alla conversazione, ebbe un momento di esitazione, ma poi riprese, in fondo contenta di quello sprazzo: “Non lo so... Insomma, Sandro aveva già detto che voleva parlargli, forse ha trovato il modo di combinare un incontro.”

“Mi sembra solo una perdita di tempo.” commentò il Medici, duro: “Savonarola è morto da quasi un anno e mezzo. Che senso ha parlarne ancora...”

“Sandro non è l'unico ad aver difficoltà a passar sopra alle cose.” fece la donna, non resistendo all'occasione di dare una stoccata al marito: “Anche tu dovresti imparare ad accettare quel che è stato.”

“E tu dovresti imparare a tenere a freno la lingua.” ribatté Lorenzo, cogliendo l'allusione, secondo lui fuori luogo e cattiva, alla morte di Giovanni.

“Posso alzarmi, madre?” chiese Pierfrancesco, cogliendo di sorpresa entrambi i genitori: “Ho ancora molto da studiare e...”

Siccome il Popolano stava già dicendo di no, Semiramide si affrettò a dire: “Sì, puoi andare.”

Mentre il ragazzino lasciava in fretta la tavola, lasciando a metà il pranzo, il Medici strinse i denti e poi disse: “Non spettava a te decidere.”

“Pierfrancesco l'ha chiesto a me.” fece presente la moglie, riprendendo il cucchiaio e portandosi alla bocca un po' di zuppa: “Fatti due domande, se non sei più tu quello a cui si rivolge.”

Lorenzo, le viscere attorcigliate per la rabbia, la nausea e l'insoddisfazione, scosse il capo, ma non disse nulla.

“Mangia.” fece l'Appiani, perentoria, interpretando male il silenzio del marito, pensando fosse dovuto a una momentanea accettazione della sua inferiorità decisionale in famiglia e non a una collera così profonda da non trovare parole: “Sei troppo magro. Sono stufa di chiamare i sarti per far stringere i tuoi abiti.”

Lorenzo respirò a fondo un paio di volte e poi, battendo una mano dalle dita tozze sul tavolo, tentando invano di moderare la voce, disse: “E allora non farlo.” e detto ciò, si alzò e lasciò la sala da pranzo.

Mordendosi il labbro, anche Semiramide iniziò a provare un certo senso di nausea per quel che aveva davanti. Allontanò il piatto con un gesto secco, facendo strabordare un po' di zuppa, e poi si alzò, facendo grattare la sedia in terra.

Si asciugò gli angoli della bocca con il dorso della mano, e poi con passo spedito, lasciò la sala da pranzo, maledicendosi una volta di più per l'attaccamento e il bisogno di vicinanza che ancora provava per un uomo che sembrava non voler più condividere con lei nulla, eccetto il letto.

Perché quello, all'Appiani non era sfuggito, anche lui lo desiderava ancora, e, quando lei era tornata a cedere al proprio desiderio, giusto quella notte, presentandosi ancora in camera sua, a tardissima ora, non l'aveva certo mandata via.

“Non voglio essere disturbata fino all'ora di cena.” disse a una delle serve che incontrò mentre raggiungeva la sua stanza: “E se per caso mio marito mi cercasse – soggiunse, seppur sicura che quell'evenienza non si sarebbe verificata – ditegli, al momento, che non ho tempo per lui.”

 

“Veramente, mia signora.” disse con fermezza Giovanni Testadoro, tenendo le spalle larghe e gli occhi scuri puntati in quelli della Tigre: “Garantisco per lui. È un mio vecchio amico, un soldato eccellente e non mi tradirebbe mai.”

“Vi ricordo che è me che non dovrà mai tradire, non voi.” fece presente Caterina che, seppur molto felice di vedere un nuovo guerriero aggiungersi alla sua schiera, non poteva non sentirsi un po' incerta nell'accettare un bolognese che, all'improvviso, si professava suo grandissimo ammiratore e disposto a perdere la vita combattendo per lei.

“Francesco – assicurò Testadoro – sarà fedele a me, che sono fedele a voi. Non dovete temere nulla.”

Roverscio, quello era il cognome del nuovo arrivato, aspettava in silenzio alle spalle dell'amico. A Caterina non dispiaceva. Era giovane, ma non un ragazzino, e aveva un portamento fiero.

“Sapete usare bene l'artiglieria?” gli chiese a quel punto la Sforza, guardando il bolognese da sopra la spalla di Testadoro.

Erano nel cortile d'addestramento che, in quel momento, era deserto. Era stato ordinato un addestramento speciale al mastio e lungo le mura della città e quindi Ravaldino quel pomeriggio sembrava una rocca abbandonata.

“Abbastanza, mia signora...” disse Francesco, con una voce bassa e un po' troppo cupa, per il suo aspetto ancora fresco: “Ma do il meglio di me nel corpo a corpo.”

“Allora vedremo di trovarvi un posto nella fanteria d'incursione.” concluse la donna e poi, ringraziando Giovanni con un cenno, soggiunse: “Siete il Capitano delle Murate, Testadoro... Ora dovreste essere a comando dei miei soldati vicino a Porta Cotogni...”

L'uomo abbozzò un sorriso, sentendo nelle parole della Contessa una nota tutt'altro che rigida. Era chiaro che il nuovo arrivato fosse di suo gradimento e il bolognese era molto felice di aver soddisfatto la sua signora.

“Vado subito.” assicurò quindi.

“Portatevi appresso anche il vostro amico.” fece la Leonessa, indicando con un cenno del capo Roverscio: “Spiegategli come funzionano le cose qui e chi comanda.”

Il Capitano fece un profondo inchino e poi, facendosi seguire da Francesco, lasciò il cortile.

Caterina, che aveva deciso anche quella volta di non presenziare al Consiglio, preferendo mandare ancora Ottaviano, accompagnato dall'Auditore e questa volta anche da Marulli, rimase per qualche istante a ciondolare nel mezzo della corte. I suoi abiti da uomo le tenevano piacevolmente caldo e il cielo – grigio, ma di nuovo tranquillo – prometteva ancora qualche ore di luce.

Dopo un momento di incertezza, la Sforza decise di stemperare l'attesa facendo un po' di esercizio fisico. Era paradossale, ma non aveva ancora avuto modo di provare con calma a tirar di spada vestita a quel modo e dopo anni passati ad addestrarsi con le sottane, non era certa che avrebbe avuto la stessa scioltezza anche con le brache.

Andò nella sala delle armi e prese lo spadone a due mani più pesante che possedeva. Avrebbe preferito poter duellare con qualcuno, ma anche la solitudine, a volte, a aveva il suo lato positivo.

Cominciando a roteare l'arma, per scaldare un po' i muscoli, la donna si mise a pensare a tutti gli uomini che in quegli ultimi giorni si erano uniti alla sua causa. Non si trattava solo di suoi parenti, come i fratelli arrivati dal nord, o i figli illegittimi del suo primo marito: ormai sembrava che la sua decisione di resistere fosse nota in tutta Italia e avesse fatto breccia nell'anima di tanti soldati desiderosi di una morte onorevole in battaglia.

Di quel passo, anzi, la Tigre pensava che la loro difesa avrebbe potuto anche diventare seriamente un problema, per il figlio del papa. Da disperata e inutile che le era parsa fino a poco prima, adesso le dava un barlume di speranza. Stava attirando a sé alcuni tra i migliori armigeri viventi, aveva ottimi pezzi d'artiglieria, e una rocca e una cittadella quasi imprendibili. Forse non era tutto perduto.

I francesi erano tanti, ma erano anche indisciplinati e scarsamente motivati. Se lei fosse riuscita a tirare dalla sua in modo netto e definitivo almeno la popolazione di Forlì, forse avrebbe potuto anche riuscire in un'impresa titanica: fermare il Duca Valentino.

Con un sospiro, mentre dalla rotazione semplice, passava a qualche affondo, Caterina si mise a elencare mentalmente tutti quelli che erano arrivati a Ravaldino di recente. Oltre al bolognese arrivato quel giorno, c'era stato Facendina, nipote di Roberto Sanseverino, poi l'allievo di Fracassa, i cremonesi, Pretone da Modigliana, lo stesso Marulli, e a breve, pareva, sarebbe arrivato anche Giannotto con i suoi guasconi e i suoi tedeschi...

Mentre riacquistava l'equilibrio in seguito a un fendente in aria, la Contessa sollevò per caso lo sguardo verso le finestre e si rese conto di essere osservata. Sapeva che di solito era sua figlia Bianca, magari con in braccio Giovannino, a seguire gli allenamenti dei soldati, ma gli occhi grandi che le restavano piantati addosso non erano quelli della ragazza.

“Vieni giù con me.” ordinò la Tigre, facendo segno a Bernardino di raggiungerla.

Il bambino, preso alla sprovvista, sparì dalla finestra e per qualche secondo la donna si chiese se non fosse scappato e basta. In realtà, come sempre, non aveva voglia di confrontarsi con lui. La sua somiglianza con Giacomo e i ricordi che la sua semplice esistenza portava con sé erano per Caterina un peso difficile da portare. Tuttavia sapeva che il loro tempo era sempre meno e non poteva permettersi di ignorarlo anche in quegli ultimi momenti.

Bernardino avrebbe compiuto nove anni a fine novembre. La Leonessa riteneva crudele che a quell'età dovesse lasciare la sua casa e fuggire, ma non vedeva altra soluzione. Così come lei a nove anni aveva dovuto fronteggiare la realtà andando in sposa a un mostro, e così come suo figlio Ottaviano a nove anni era rimasto senza padre, così anche Bernardino avrebbe legato quell'età a un cambiamento drastico e drammatico della sua vita e lei non poteva fare nulla per impedirlo.

La Sforza si stava già convincendo che il piccolo avesse deciso di eclissarsi, invece di seguire il suo invito, quando finalmente lo vide comparire sotto le arcate.

 

Il Consiglio dei Quaranta a Ottaviano apparve fin da subito un consesso molto più tranquillo rispetto alla riunione plenaria cui aveva dovuto partecipare il giorno prima.

Innanzitutto si sentiva molto più spalleggiato perché oltre all'Auditore era presente al suo fianco anche il bizantino Marulli che, essendo tornato da Milano appena la sera prima, si portava addosso un'aurea di autorevolezza e rispettabilità talmente evidente da far dimenticare a tutti l'inadeguatezza del Riario che gli stava vicino.

E poi la minor quantità di gente accorsa gli permetteva di sentirsi meno al centro dell'attenzione, specie perché tanti dei Consiglieri, abituati ad avere a che fare solo con sua madre e mai con lui, non lo degnavano nemmeno di uno sguardo, ritenendolo ancora il bambino che ormai non era più da anni.

Quando i forlivesi presenti si furono tutti sistemati, Ottaviano piegò il capo a un formalismo che gli era stato imposto anche quel giorno, ma che accettava volentieri in virtù della promessa di non dover più aprire bocca fino alla fine del Consiglio.

Schiarendosi la voce, tenendo la testa un po' china per leggere la brevissima introduzione che era stata scritta quella mattina da Luffo Numai, cominciò: “Ringrazio ancora voi tutti e aggiungo questo: mi sta molto a cuore essere considerato il padre di tutti voi e potervi raccogliere sotto il mio manto, dimenticando ogni ingiuria o disgusto che in passato possa essere intervenuto tra noi – a quelle parole, il Riario avvertì un leggero brusio attraversare il salone, ma cercò di non darvi peso, ben ricordando ciò che Numai gli aveva detto, ovvero che era necessario cercare una pace anche solo simbolica con quello che era successo per causa sua quattro anni addietro alla morte di Giacomo Feo – inoltre ho in animo di accordare a voi tutte quelle esenzioni che gradirete, e provvedere eziandio tutti d'armi e di ogni altra cosa bisognevole.”

Risiedendosi, Ottaviano lasciò immediatamente tutto in mano all'Auditore che, ben istruito su cosa fare, chiese in modo più specifico ai rappresentanti del popolo se intendessero beneficiare di questi doni offerti dal loro Conte.

I Quaranta presero tempo riguardo le esenzioni, più per innata diffidenza verso troppa generosità, mentre invece accettarono subito la concessione di armi e custodio della città, provvedendo nell'arco di meno di mezz'ora a stilare davanti agli occhi di Dipintore una lista di nobili di Forlì, che a quattro per quartiere ne avessero la cura sotto la diretta supervisione di Marulli.

Proprio il bizantino, che era stato scelto con sua sorpresa, lesse ad alta voce la lista che gli era stata appena consegnata, come se così facendo Ottaviano potesse ratificare o eventualmente scartare quelle scelte: “Per Santa Croce: Bernardino Bezzi, Bartolomeo Maratini, Antonio Orselli e Matteo Bonoli. Per San Mercuriale: Luffo Numai – e il Consigliere annuì in modo significativo al Riario, quasi a voler spegnere in lui ogni possibile desiderio di contraddire quanto appena deciso dai Quaranta – Pier Francesco Tambini, Bernardino Paolucci e Giuliano Belli. Per San Pietro: Gasparo Numai, Bartolomeo Capoferri, Bartolomeo Castellini e Bernardino Mangianti. E infine, per San Biagio: Silvestro Mirandi, Galesse Biondi...”

Il figlio della Tigre non stava nemmeno più ascoltando. Vedeva Marulli molto attento a ogni nome, i profondi occhi castani, sormontati da folte sopracciglia, che indagavano volto dopo volto gli uomini che chiamava. E tuttavia, per quanto si sforzasse, non riusciva a condividerne l'intesse.

Non appena ebbe finito di leggere, Michele appoggiò il foglio al tavolo e riprese a parlare, dominando come meglio poteva il suo accento straniero, come se così facendo sperasse di essere accettato meglio come figura di riferimento dagli uomini che aveva davanti: “Sono da poco stato a Milano, con il re di Francia, e dirvi per testimonianze di altri e per quello che ho visto di persona che quel sovrano si cura molto poco della conquista della Romagna, ma è invece il Duca Valentino, per i suoi privati interessi, a voler venire contro Madonna Caterina, in modo ostinato e assai feroce!”

I Quaranta rimasero in silenzio, continuando a guardarlo, come chiedendosi dove volesse portarli, con quell'incipit.

L'uomo non si fece pregare e subito, con far svelto e pragmatico, chiuse il discorso dicendo solamente: “Dunque state certi che se noi si farà opposizione seria e altrettanto feroce, il re di Francia non vorrà perdere altro tempo e denaro per la Romagna, e il Duca Valentino dovrà tornarsene da suo padre con la coda tra le zampe!”

Quell'esortazione implicita a decidere per un'attiva difesa della città smosse le acque. Come un sol uomo, tutti i forlivesi presenti iniziarono a discutere e agitarsi sotto agli occhi del bizantino che, sicuro dell'effetto delle sue parole, li lasciò ai loro discorsi per un bel pezzo.

“Sappiate dire al più breve quel che è stato deciso: restare al fianco della Contessa Sforza, che vi ha nutriti e protetti per anni, anche quando vi siete rivoltati contro di lei, ferendola nel modo peggiore in cui si possa ferire una donna, oppure voltarle le spalle, vendervi ai francesi e patire il loro giogo come le più misere delle bestie.” disse l'Auditore, vedendo che il Consiglio non sembrava in grado di risolversi in tempi ragionevoli: “E ora passiamo ad altro...”

 

“Vai a prendere due spade da allenamento e poi torna qui.” aveva detto Caterina a Bernardino, non appena il bambino le era stato a pochi passi di distanza.

Quando era tornato, la donna gli aveva chiesto di farle vedere che cosa sapesse fare e, moderando le proprie mosse in base al livello di un bambino di nove anni, si era messa a duellare con suo figlio.

Non era stato un grande problema, per lei, metterlo in difficoltà più volte, ma aveva apprezzato, se non altro, la caparbietà che stava dimostrando. Anzi, in certi momenti pareva quasi che caricasse il braccio con più forza del necessario nel tentativo reale di farle del male.

Aveva cercato per tutto il tempo di non dare peso a quelle scariche di rabbia – altro nome non potevano avere – pensando che comunque lei stessa usava quel genere di esercizi per incanalare in modo costruttivo l'ira che covava continuamente nel fondo della sua anima. Però, quando la collera aveva cominciato a rendere troppo imprecisi i colpi del Feo, la Contessa si era sentita in dovere di fermarlo.

Afferrandogli il braccio in modo perentorio, proprio a metà di un fendente, lo bloccò e gli chiese, a voce bassa: “Perché sei così arrabbiato con me?”

Avrebbe voluto sentirsi rispondere che il bambino non era arrabbiato con lei, ma arrabbiato e basta, perché sarebbe stata una risposta molto meno dolorosa. Il silenzio, invece, che era seguito alla sua domanda, le aveva fatto capire di aver centrato appieno il problema.

Prendendogli la spada spuntata di mano, la gettò lontano e fece altrettanto con la propria, incurante del clangore che faceva il ferro nell'impattare al suolo. Nemmeno Bernardino sembrava dare importanza a tutto quel fracasso, ma, a differenza della madre, non per l'assenza di pubblico, ma perché troppo concentrato su quello che gli si agitava nel petto.

Fin da quando la Tigre l'aveva chiamato in cortile, il ragazzino aveva provato un misto di gioia e collera. Da un lato era felicissimo di avere la sua attenzione e di poter passare del tempo con lei, ma dall'altro si sentiva rifiutato, allontanato di continuo e, anche quando faceva un affondo buono, notava sul suo bel viso un'espressione di biasimo, come se tutto quello che faceva non fosse abbastanza.

“Dimmi che cosa c'è.” fece Caterina, accovacciandosi un po', in modo da poter avere il viso all'altezza di quella del figlio: “Combini sempre guai e scappi... Ma adesso sei qui e voglio che mi dica tutto quanto. Non so quanto tempo avremo ancora, ed è giusto che ci parliamo in modo chiaro, almeno una volta.”

Bernardino non era sicuro di aver capito bene. I suoi fratelli – Bianca e Galeazzo – gli avevano già detto più volte che la loro madre stava organizzando per loro un piano di fuga, nel caso in cui i francesi fossero davvero arrivati in Romagna, tuttavia il bambino era sempre stato convinto che quel momento non sarebbe mai arrivato. E invece le parole di sua madre lasciavano poco spazio alla speranza.

Trascinato da una forza invisibile, il Feo schiuse le labbra e, non riuscendo a guardare la Leonessa in volto, lasciò che ciò che lo tormentava da sempre, ma che solo di recente era riuscito a capire meglio, uscisse tutto in un colpo: “Avete voluto sposare mio padre a tutti i costi solo per non fare di me un illegittimo, ma di fatto mi avete sempre trattato come se lo fossi.”

Tra tutte le accuse che si era aspettata di sentirsi rivolgere, Caterina non aveva affatto pensato a quella. Bernardino era in attesa, gli occhi – che avevano lo stesso taglio di quelli di suo padre – non osavano sollevarsi da terra e le mani, strette a pugno, erano abbandonate lungo i fianchi, in una posizione di tesa impotenza che aumentava il senso di estraniamento della Sforza.

La donna, d'istinto, ribatté subito: “Io ho sposato tuo padre perché l'amavo e basta.” ma poi si rese conto che quelle parole, dette con sdegno, avevano solo peggiorato la situazione.

Il Feo aveva deglutito, questa volta contrastando palesemente il pianto, ed era rimasto immobile dov'era. Per lui, quella frase, aveva un doppio significato. Da un lato lo rincuorava sui sentimenti che sua madre aveva provato per suo padre, ma di quello, ormai, non aveva più bisogno perché sapeva bene quanto il loro amore fosse stato forte. Il problema era che dall'altro lato, lo andava a escludere ancora di più dalla visione materna. Se almeno nella sua ottica precedente, Bernardino si sentiva in qualche modo importante, perché era stato la causa del matrimonio dei suoi genitori, con quell'affermazione veniva relegato a un mero dettaglio, a qualcosa di ininfluente.

“Sarebbe stato meglio se non fossi mai nato.” riassunse, con un filo di voce.

“Non dire così.” questa volta il tono della Leonessa non era per niente iracondo o perentorio, ma intristito: “Tuo padre ti adorava e...”

“E invece voi avreste preferito non avermi.” concluse il bambino, frettolosamente.

Accorgendosi appena in tempo che il piccolo stava per scappare, la Leonessa lo afferrò per il giubbetto, trattenendolo appena in tempo. Anche se il Feo provò a divincolarsi, la Contessa riuscì a non farlo andare via. Avrebbe voluto spiegargli che lei aveva accettato il rischio di sposare Giacomo e di non tenerlo solo come amante per una miriade di motivi, il più inconfessabile dei quali era puramente la gelosia che nutriva nei suoi confronti. Avrebbe voluto fargli capire che tra lei e il suo grande amore correvano otto anni, che non erano pochi, che Giacomo non aveva mai avuto nessun'altra a parte lei, e che la sua paura di vederlo innamorarsi di una donna più giovane di lei l'aveva convinta a chiedergli di diventare suo marito, anche a costo di esporsi ai rischi che un'unione legittima comportava per lei.

E invece, mentre cominciava a piovigginare, la Sforza disse: “Ho amato tuo padre alla follia, e ti voglio bene, perché sei l'unica cosa che mi resti di lui. Non mi sono mai pentita di averti fatto nascere, mai. Tornassi indietro, ti vorrei ancora. Solo a volte ricordare è così doloroso che...”

“Io non lo ricordo più...” bisbigliò il bambino, in imbarazzo: “Insomma, lo ricordo poco, mio padre. Ricordo che mi voleva bene, che passava del tempo con me, il modo in cui mi teneva per mano, e il colore dei suoi occhi, ma non ricordo più la sua voce, né nient'altro.”

“Io invece ricordo tutto di lui.” ammise Caterina, accorgendosi che Bernardino più di chiunque altro condivideva con lei il bisogno di ricordare e, allo stesso tempo, quello di cercare di dimenticare per non soffrire troppo.

Il piccolo aveva finalmente ricominciato a guardarla, facendo specchiare le proprie iridi in quelle verdi della madre. Il suo volto, colorito per l'emozione di quel momento, tradiva tutta la sua insicurezza. La Contessa capiva che suo figlio avrebbe voluto allo stesso tempo chiederle di più e scappare.

“Gli somigli tantissimo.” fece alla fine lei, rimettendosi dritta in piedi, mentre la pioggerella iniziava a trasformarsi in un acquazzone vero e proprio.

Normalmente, con quel tempo inclemente, Bernardino avrebbe cercato riparo sotto le arcate, ma siccome sua madre non si spostava, non lo fece nemmeno lui, in attesa di qualche altra dichiarazione.

La Leonessa, convinta almeno in parte della necessità di cogliere quella che poteva essere l'ultima occasione per condividere con suo figlio i ricordi che conservava di Giacomo – quelli positivi, almeno – stava per proporgli di andare all'asciutto e continuare il discorso, quando vide qualcuno scalpicciare sotto il porticato e attirare la sua attenzione.

Riconobbe Luffo Numai al primo colpo e, vedendo una certa urgenza dipinta sul suo viso, si trovò costretta a dire a Bernardino: “Devo andare, ma più tardi ti prometto che...” ma non fece in tempo a finire la frase, perché il Feo, sfuggente e impulsivo come suo solito, si era messo a correre, sottraendosi a una delle tante promesse che avrebbe poi visto disattesa.

“Che c'è?!” ringhiò la Contessa, andando verso Numai, provando nei suoi confronti una rabbia irrazionale, quasi fosse davvero colpa di quel suo fedele suddito se, in quasi nove anni, non era mai riuscita a creare un rapporto sereno con il suo settimo figlio.

“Arrivo ora dal Consiglio dei Quaranta...” disse lui, non dando peso all'irritazione della Tigre, avvezzo com'era al suo umore collerico: “Messer Marulli si è fermato per alcune formalità, ma presto anche lui sarà di ritorno...”

“Mio figlio?” chiese la donna, pensando che sarebbe stato Ottaviano il referente più logico.

“Non lo so, mia signora...” ammise il forlivese, a malincuore: “Subito sciolto il Consiglio è uscito dal palazzo andando verso i bassifondi...”

“Va bene, è andato a cercarsi un bordello dove spendere dei soldi non suoi e combinare altri disastri.” masticò la Sforza, scuotendo il capo: “Parlatemi del Consiglio. Come mai tutta questa fretta di cercarmi..?”

“Perché potrebbe esserci un problema.” confessò Luffo, preoccupato: “La cittadinanza sembrava molto incline a resistere, eppure ancora non dà una risposta ufficiale... E da quello che ho visto, una sentenza unanime potrebbe non arrivare mai.”

La Contessa si passò una mano tra i capelli bianchi, che avevano fatto in tempo a bagnarsi per bene nei pochi istanti passati sotto la pioggia: “Se non dovessero trovare una risposta accettabile e certa prima dell'arrivo del figlio del papa, allora li lasceremo al loro destino.”

Numai non si era aspettato tanto cinismo. Aveva creduto che la sua signora avrebbe proposto altre arringhe, altri tentativi, ma dal tono della sua voce, era chiaro che ormai la decisione era presa.

“Sollecitateli, ma se entro l'arrivo dei francesi a Imola non saranno inequivocabili nella loro posizione, allora per me sarà come se i forlivesi non esistessero più.” ribadì la Tigre, con durezza, ancora provata dal breve scontro con Bernardino: “Non né tempo né voglia di farmi ammazzare per qualcuno che non sa prendere una posizione e aspetta di vedere come cambia il vento per capire in che direzione voltare le vele. O sono con me, o niente. Mi basta il mio esercito.”

Luffo, non sapendo come altro ribattere, fece un breve inchino e annuì: “Siete sempre molto saggia, mia signora.”

“E adesso perdonatemi... Ho ancora molte cose da fare...” si liberò lei, camminando rapida verso le scale.

Il Consigliere non si oppose e, prima di ritirarsi a sua volta al chiuso per sfuggire al vento freddo che agitava la pioggia, gli cadde l'occhio sulle due spade lasciate in terra in mezzo al cortile. Ben deciso a non prendersi una polmonite per andarle a recuperare, le lasciò lì dov'erano, ma si chiese se per caso non fossero state usate proprio dalla Tigre e dal suo penultimo figlio e se, da quel duello, non fosse nato qualche ulteriore problema. Una Contessa dalla mente più ingombra del solito non era quello di cui lo Stato aveva bisogno.

 

Antonio Filipepi aveva fatto molto tardi, perché stava lavorando a dei finimenti decorati d'oro per un committente importante e così si era ritrovato a tornare a casa nel cuore della notte.

Stava riattizzando il fuoco del camino, quando sentì dei passi alle sue spalle. Non si sorprese troppo di vedere suo fratello Sandro scrollarsi di dosso il mantello e raggiungerlo davanti alle fiamme.

“Hai avuto cose interessanti da fare?” gli chiese, con un sogghigno, per quanto sapesse che ormai da tempo quello che tutti chiamavo per antonomasia 'il Botticelli' aveva abbandonato la sua abitudine di trascorrere le notti tra le osterie e i lupanari.

Infatti Sandro, imbronciato, scosse subito il capo e, allungando un po' le gambe verso il camino, rispose: “Avevo bisogno di pensare.”

“A cosa, se posso?” chiese Antonio, mentre si sentiva in lontananza il rintocco delle campane, che ricordava a entrambi che ormai si erano fatte le tre di notte.

“A frate Girolamo.” le parole erano uscite dalla bocca del pittore come se gli fossero state cavate a viva forza.

Il fratello represse un sospiro, sapendo quanto l'altro fosse suscettibile a quell'argomento, e anzi, tentò di capirci di più, nel caso in cui potesse aiutarlo a rasserenarsi: “Lo so che ti ha colpito molto, la sua morte, ma ormai è passato più di un anno... Prega per la sua anima, ma non angustiare senza motivo la tua...”

“Non capisci...” Sandro teneva lo sguardo fisso sulle fiamme, il pomo d'Adamo che saliva e scendeva nella gola come impazzito: “Non capisci...”

“Spiegami, allora.” concesse Antonio, mettendosi più comodo, avendo la sensazione che il discorso non sarebbe stato né breve né piacevole.

Il fratello deglutì ancora un paio di volte e poi, stringendosi una mano nell'altra, cominciò a raccontare: “Oggi è venuto nella mia bottega Doffo Spini.”

“Il capo dei Compagnacci?” chiese l'altro, attonito: “E che voleva, da te?”

“Gli ho chiesto io di farmi visita.” tagliò corto Botticelli: “Volevo... Volevo fargli delle domande, togliermi dei dubbi...”

Antonio rimase in silenzio, osservando il profilo del fratello che, alla luce malferma del fuoco sembrava più affilato e scarno del solito. Non gli piaceva vedere come Sandro si stava consumando dietro qualcosa che, per lui, non aveva il minimo senso.

“Lo sai che Spini è sempre stato uno dei più crudi oppositori del frate... Ecco, volevo chiedergli quali peccati...” la voce gli si ruppe per un momento, tanto che, prima di riprendere, Botticelli dovette chinarsi un momento in avanti, la fronte posata sulle mani giunte: “Gli ho chiesto di dirmi la verità sui peccati di Savonarola, per sapere di quali colpe davvero si fosse macchiato, per meritare una morte così vituperosa.”

“E lui che ha detto?” chiese Antonio, sempre più preoccupato per l'atteggiamento spropositato del fratello che, mentre raccontava, quasi si scioglieva in lacrime di dolore.

“Mi ha detto: Sandro, devo dirti il vero? Non gli trovammo mai alcun peccato mortale, ma neanche veniale.” il pittore mandò giù ancora un po' di saliva, per controllare la voce, e continuò, più accorato: “Allora gli ho domandato perché mandarlo a morte così... E Spini mi ha detto che non era stato lui a volerlo, ma Benozzo Federighi. Se non si faceva morire questo profeta, mi ha detto, e i suoi compagni e li avessimo rimandati a San Marco, il popolo ci avrebbe messo a sacco noi e tagliati tutti a pezzi. La cosa era tanto avanti che così determinammo per nostro scampo che morisse.”

Antonio, in fondo, non trovava il ragionamento sbagliato. Ricordava il clima folle che aveva investito la città il giorno della condanna di Savonarola e in effetti era probabile che il popolo sarebbe insorto, se il frate fosse stato per qualche motivo risparmiato.

Ciò che non capiva era il pianto dirotto cui si stava abbandonando suo fratello.

“Che c'è?” gli chiese, sporgendosi un po' verso di lui, posandogli una mano sul ginocchio, per riscuoterlo.

“Savonarola è stato ucciso per convenienza! Per politica!” gridò Botticelli, distrutto: “Non perché nel torto!”

“Svegliati, Sandro!” lo riprese il fratello: “Stava trasformando Firenze in un inferno!”

“Inferno... Inferno!” sbottò il pittore, alzandosi di scatto: “L'inferno è quello che spetterà a tutti noi per esserci macchiati di un simile crimine!”

Per cercare di calmare l'altro, Antonio andò contro le proprie convinzioni e provò a dire: “Ciò che è stato fatto forse non era giusto, ma non è dipeso da noi.”

Botticelli lo guardò per un lungo istante, gli occhi arrossati e confusi. Gli sembrava impossibile non essere capito dal sangue del suo sangue, ma percepiva che quella era la realtà. Sconfitto, in tutti i sensi e su tutti i fronti, si disse che quella notte passata a vagare per Firenze in cerca di risposte aveva avuto la sua degna conclusione in quel dialogo inutile con suo fratello.

“Vado a dormire.” disse solo, scansando Antonio, che gli si era parato davanti per tranquillizzarlo.

L'orafo annuì e lo lasciò andare. Era agitato, ma non sapeva che altro fare. Attese qualche minuto e poi, con discrezione, soprattutto per accertarsi che Sandro non commettesse qualche atto inconsulto, andò a sbirciare in camera sua. Lo sentì piangere e farfugliare, preda come non mai dei suoi fantasmi, vittima indifesa del seme di follia che Savonarola aveva piantato a Firenze qualche anno prima.

Rimase in attesa, finché sentì il pianto trasformarsi in sospiri e poi nel respiro inconfondibile che accompagna il sonno. Solo allora Antonio si convinse ad andare a sua volta a riposare e, steso a letto, per la prima volta da tanto tempo cominciò a pregare. Chiese a Dio di liberare suo fratello da quel demone che gli impediva non solo di lavorare come un tempo, ma anche di vivere e apprezzare ciò che ancora poteva godersi.

Si fece il segno della croce e aggiunse, a mo' di appendice alle proprie richieste: “E fai bruciare in eterno quel pazzo di Savonarola all'inferno, che di inferno, qui, ce ne ha lasciato anche troppo...”

 
 
   
 
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