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Autore: G RAFFA uwetta    21/10/2019    1 recensioni
Il mondo come lo conosciamo è quasi tutto sepolto sotto strati di radiazioni a causa della Terza Guerra Mondiale scatenata dalla Cina. Ma l’avidità umana non è morta con lui, è sopravvissuta così come la voglia di conquista dei superstiti.
Nell’ombra c’è chi si muove guardingo, un passo alla volta per raggiungere il proprio obiettivo. Chi è così insaziabile da sfidare le aree contaminate?
Un mistero che avrà un risvolto inaspettato per l’intero genere umano.
Questa storia partecipa al contest ‘My favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.
Questa storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici libri’ indetto da Claire roxy sul forum.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Anno del giudizio 14-41


L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John Powell)


Nel ventre della balena


Erano chiusi al buio, in un luogo sconosciuto, colmi di orrore per la fine del loro compagno e allo stesso tempo sollevati di essere ancora vivi.

Il terrore dilagava nelle loro vene rendendo i respiri affannosi mentre il cuore rombava forsennato nelle loro orecchie.

«Toglietevi la tuta,» gracchiò Adelhaide. «Sentite il fruscio? La decontaminazione è iniziata e sarebbe solo d’intralcio.»

In quel momento, una luce bianca sfavillò un paio di volte prima di assestarsi e aumentare d’intensità finché fu impossibile tenere gli occhi aperti. I tre esploratori si denudarono velocemente, i volti rivolti verso le pareti di un freddo colore grigio chiaro. Dal soffitto cominciò a cadere l’acqua trasformando la stanza in una grande doccia dal pavimento poroso. Infreddoliti e spauriti, cercarono di coprirsi come potevano dal getto violento, trattenendo i gemiti di dolore. Dopo svariati minuti, l’acqua cessò di fuoriuscire e venne sostituita da un’aria calda che sapeva di stantio e ruggine. Il calore arrossò ulteriormente la pelle e in più punti aprì loro delle piccole ferite. Il getto cessò e l’aumento improvviso della pressione li costrinse a terra, dove si rannicchiarono in posizione fetale. Si sentivano schiacciare da un peso enorme, come se volesse spremere fuori da loro la vita stessa. Il ronzio aumentò fino a diventare un rombo che scosse loro le viscere, lasciandoli tramortiti. Il ciclo si ripeté per tre volte.

Lentamente, Adelhaide si mosse stirando le membra intorpidite. Immediatamente, si immobilizzò imprecando silenziosamente dal dolore. A fatica si mise seduta sul pavimento e, sbattendo le lunghe ciglia per mettere a fuoco, diede uno sguardo intorno.

«Ma, ma… tu non sei Robert!» disse scioccamente all’uomo di colore che la stava fissando imperturbabile. «E nemmeno Gordon!» continuò allarmata deglutendo a fatica.

«No, non sono il Robert che ti aspettavi. Sono un funzionario dell’impero nigeriano e sono qui in veste ufficiale per prendere possesso della zona. Se cerchi il tuo amico è lì,» disse piatto indicando un punto alle sue spalle. Adelhaide si voltò così in fretta che ebbe un capogiro e dovette piegarsi in avanti, nel tentativo di dominare la nausea. Contro la parete c’era Gordon, il corpo raggomitolato su se stesso e un rivolo di sangue che si andava allargando sotto di lui sporcando il pavimento niveo. Sgranò gli occhi orripilata.

«Se può farti stare tranquilla, non l’ho ucciso io,» si giustificò alzando le mani in alto. «E, a dirla tutta, è stato piuttosto longevo, quindi nessuna perdita di grande rilevanza.»

«Bastardo,» soffiò tra i denti la ragazza scagliandosi nella sua direzione. Non fece che due passi barcollanti prima di cadere a terra svenuta.

Quando rinvenne era adagiata su un vecchio lettino da ospedale dalle ruote malamente bloccate. Con cautela, poggiò i piedi sul pavimento freddo e si strinse nel camice verde che quell’uomo doveva averle infilato mentre era svenuta. La stanza in cui si trovava era poco illuminata, piena di oggetti medici in disuso da moltissimi cicli. Lucine verdi e rosse si susseguivano su un pannello grande quanto una parete e, sul lato opposto, dietro una spaziosa vetrata, Robert – o come diavolo si chiamava – la osservava inespressivo. In alto a destra, un foglio nero era incastrato nella cornice di legno.

A passi lenti raggiunse la porta parzialmente nascosta da un paravento in tessuto stinto. Provò a girare la maniglia ma questa non cedette. Presa dal panico, la scosse più volte senza ottenere nulla. Così, rinvigorita dalla furia che cresceva dentro di lei, raggiunse la vetrata e picchiò con violenza i palmi aperti sul vetro.

«Fammi uscire, brutto stronzo! Fammi uscire, razza di bastardo!» gli urlò contro, sempre più agitata. Un violento scossone all’addome la fece piegare in due e rigurgitare bile. Con uno scatto rabbioso si ritrovò in posizione eretta ma un giramento la fece appoggiare malamente alla parete fredda. Con la fronte cercò un momentaneo refrigerio, mentre con il dorso della mano si ripuliva la bocca. «Fammi uscire,» ripeté flebilmente.

Per tutto il tempo, Robert era rimasto impassibile come una statua di sale. La luce al neon investiva la sua pelle scura donandogli una sfumatura violacea. Anche lui indossava un camice verde, che teneva chiuso con i laccetti sul davanti. Senza emettere fiato, alzando un sopracciglio con derisione, allungò una mano verso un punto al di fuori della sua visuale. Immediatamente nella stanza si diffuse un fastidioso ronzio proveniente da una griglia incassata nel muro lì a fianco.

«Sei incinta,» disse una voce metallica. La ragazza si pietrificò, osservando le labbra dell’uomo muoversi ma senza recepire alcuna parola. Impanicata, prese a scuotere la testa.

«È impossibile! È assolutamente impossibile!» disse flebilmente mentre sosteneva il basso ventre con un braccio e stringeva il pugno sulla bocca.

Robert le indicò il foglio nero appeso al vetro. Adelhaide quasi lo strappò nella foga di capire cosa le stesse succedendo. Poi, con occhi vitrei, rimirò l’ecografia del suo ventre che mostrava la sagoma grigia di un feto. Il suo cervello si spense e si accasciò a terra mentre il foglio planava leggero a pochi passi da lei.

«È meglio che tu ti rivesta,» disse Robert buttandole malamente addosso dei vestiti che sapevano di muffa. «Mi sono messo in contatto con l’esterno e tra due ore saranno qui.»

«Cosa?» chiese sbigottita alla schiena dell’uomo che non la degnò di uno sguardo mentre usciva dalla stanza. Adelhaide si affrettò a rendersi presentabile e, seppur ancora instabile sulle gambe, raggiunse Robert. Lo trovò affaccendato davanti a un modello obsoleto di computer.

«Mi devi stare a sentire! Non è possibile che io aspetti un bambino,» Adelhaide cercò di attirare la sua attenzione battendo entrambi i palmi sudati sul ripiano in formica della scrivania.

«Sì, sì. Come dici tu,» la liquidò distratto mentre digitava concentrato sopra una tastiera. La ragazza sbuffò, palesemente contrariata.

«Accidenti,» sibilò trattenendo un conato. Visto che con quell’energumeno non ottenne nella, frustrata girovagò a vuoto cercando di capire come potesse essere successo un evento simile, finché non si ricordò della propria missione. Trovò il suo zaino in terra fuori dalla porta della Wepu Radieshon, recuperò lo scanner e seguì le indicazioni per raggiungere il bunker 14.

Lungo il tragitto, ogni ambiente che aveva incontrato era stato fatiscente, vuoto, senza calore. Eppure si aveva la strana impressione che fosse stato abbandonato da poco, come se le unità che ci lavoravano avessero staccato per la pausa pranzo. Non c’era confusione, nemmeno un oggetto fuori posto, tutto era in ordine. Adelhaide rabbrividì davanti a quel silenzio irreale. Gli unici rumori che avvertiva erano il battere furioso del proprio cuore e il fiato accelerato da un’irrazionale paura.

Percorse altri tre corridoi e superò almeno una quindicina di stanze vuote prima di arrivare a destinazione. Si aspettava di trovare un locale ampio, con al centro una costruzione grigia in pietra, invece l’ingresso era un’anonima porta lungo la parete. La scritta rossa ‘bunker 14’, impressa su una lamiera di latta, era l’unica nota colorata.

«Vediamo un po’ cosa si cela al di là di questo muro,» disse al vuoto per farsi coraggio. Come fece per toccare il pannello per disattivare la serratura, Adelhaide si accasciò in terra urlando dal dolore. Sentiva le viscere bruciare, un formicolio lungo la pelle come se mille bisce dotate di spuntoni la percorressero in lungo e in largo. Non riusciva a controllare gli spasmi e, ben presto, si ritrovò a rigettare sugli stivali succhi gastrici verdi e appiccicosi.

Quando tutto finì, si tirò su a fatica, strisciando la schiena lungo il muro liscio. Rimase appoggiata alla parete per qualche istante, gli occhi spalancati e terrorizzati fissi nel nulla. Sapeva di donne che stavano male, che avevano crisi di vomito ma nessuna di certo versava nelle sue stesse condizioni.

«Per tutti gli dei conosciuti e non,» balbettò sgomenta, «che stregoneria è mai questa? Non ho nemmeno l’utero!» Fece un paio di grossi respiri cercando di riprendere il controllo del proprio corpo. «Le risposte sono qui! Ne sono più che certa.»

Spinta da una nuova determinazione, aprì il pannello e prese dallo zaino un cartellino in plastica e lo strisciò in una fessura a lato. Quando una spia si illuminò di verde, digitò sulla tastiera una sequenza di numeri e lettere, scritti sulla placca in oro che portava appesa al collo. Dopo un secondo si udì lo scatto della serratura.

Adelhaide mise la mano tremante sulla maniglia, chiuse gli occhi e ingoiò la paura; varcò l’uscio con il cuore in procinto di scoppiare.

Dentro, il locale era straordinariamente caldo e luminoso. Le pareti brillavano di un colore molto simile all’argento, eppure tutta quella luce, seppure molto intensa, non feriva gli occhi. Adelhaide fece qualche passo verso il centro, dove una consolle emetteva strani fruscii e svariate spie si illuminavano ad intermittenza. Passò con reverenza un dito sulla formica lucida finché un’ombra attirò la sua attenzione. Dietro una spessa lastra di vetro, stava sospeso in aria, con dei cavi infilati nel cranio tozzo, spesse catene avvolte intorno agli arti ancorate al muro, un Abali Abali vivo, grande quanto un elefante.

Adelhaide cacciò un urlo e scattò all’indietro, finendo rovinosamente a terra. Scalciando con i piedi, strisciò fino a raggiungere la parete senza mai perdere di vista la grossa creatura.

L’Abali mosse il capo di lato, osservando curioso la ragazza. Le orbite infossate erano penetranti, antiche e incutevano un timore reverenziale. Per quanto potesse sembrare illogico, era lo sguardo di una creatura cosciente e senziente, dotata di una spiccata intelligenza.

In quell’istante, per tutto il corridoio riecheggiò una sirena, le luci si spensero e si attivarono quelle di emergenza. Adelhaide sussultò presa alla sprovvista, si rialzò con fatica e marciò decisa verso la porta.

«Ade! Ade!» la voce metallica di Robert sovrastò quella dell’allarme. «Torna immediatamente qui! È sorto un problema.»

La ragazza, mossa da un presagio, voltò il capo verso la creatura. L’Abali ricambiò lo sguardo con un sorriso consapevole, le orbite accese di pura malvagità. Aprì la bocca deforme e sguainò i denti davanti, arcuati verso l’interno come sciabole. Il suo ruggito silenzioso fece tremare l’intera vetrata e il suo corpo provato.



Note dell’autrice: questa storia partecipa al contest ‘My favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.

Questa storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici libri’ indetto da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono leggenda’:

Genere1: Sovrannaturale (vampiri).

Citazione: ‘Poi un giorno il cane non si presentò’.

Ambientazione: un America post-apocalittica.

Obbligo: finale negativo.

La giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a ogni prompt aggiunto.

Ulteriori note: il numero nel titolo non è lì a caso. Infatti, il 14 è il mio numero preferito e il 41 è il suo opposto. Inoltre, un giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto auto era, appunto, 1441.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Non necessariamente il principale ma fondamentale.

   
 
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