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Autore: Happy_Pumpkin    31/07/2009    3 recensioni
Un giovane amante si troverà a scegliere tra i due amori della sua vita: l'Egitto e Meritaten, vedova senza corona. Un Egitto che tenta di risollevarsi dopo la riforma amarniana, mentre chi crede in Aton lotta per salvarsi dall'oblio.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità
Capitoli:
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Premessa storica: La storia è ambientata nella XVIII dinastia, agli inizi del 1336 a.C.  In questo periodo si era prossimi all'incoronazione al trono di Tutankhamon, dopo un periodo di sconvolgimenti religiosi che sotto l'egida di Akhenaton portarono al rifiuto di Amon, rimpiazzato dall'allora sconosciuto Aton.
Tra i due regni vi fu la brevissima sovranità di Smenkhkara, del quale non è ancora chiaro il legame con il proprio predecessore, ma di per certo fu sposato con Meritaten, figlia di Akhenaton.
La vicenda narrata è realmente avvenuta, anche se non ci sono fonti certe su quanto sia accaduto ai confini con l'Egitto, visto che ogni testimonianza è stata cancellata.
Sesh è un personaggio inventato: il suo nome in realtà significa scriba, ma ho volutamente cercato un contrasto tra l'appellativo e la carriera militare. Altri personaggi inventati sono Hemeb, Inandik Khumarbi, il cui nome è quello di una divinità protagonista di una serie di racconti hittiti inseriti nel cosiddetto “Ciclo di Khumarbi”
Per il resto gli altri protagonisti, più o meno rilevanti, sono realmente esistiti, al pari delle ambientazioni descritte.
La città iniziale d'ambientazione è Akhetaton (L'orizzonte di Aton) che venne fondata dallo stesso Akhenaton per poi, alla sua morte, subire un progressivo degrado. Attualmente il sito è chiamato Tell El Amarna, da cui la denominazione del periodo storico come Amarniano. Terminologia a fondo racconto.




L'abbraccio del sole




Primo capitolo
Alba


La stanza del palazzo di Akhetaton era inondata dalla luce del primo mattino; traspariva da oltre i drappeggi in lino, mossi grazie alla lieve brezza che rendeva quella città più viva nella sua artificiosa esistenza - seppur braccata dall'abbraccio soffocante della sterilità.
Il profumo dell'incenso accarezzò le pareti della grande stanza, volteggiando attraverso le colonne papiriformi, sfiorando i resti ormai spenti del braciere fino a infilarsi tra le coperte leggere che avvolgevano i corpi dei due amanti. Dormivano, o fingevano di farlo, intrecciati in un abbozzo di abbraccio mentre i piedi, fuggiaschi, spuntavano da oltre l'accumulo poco decoroso di tessuti.
Sesh aprì un occhio; la prima cosa che vide fu la sinuosa schiena di Meritaten: nuda, le scapole sporgenti per via del braccio che pendeva stancamente oltre il bacino, fragile ma proprio per questo amata. Prima che potesse muoversi lei si voltò, così che i loro occhi si fissarono: uno specchio di iridi scure, velate da un accenno di amore reso amaro dalle intemperie della vita. I due amanti non avrebbero dovuto essere lì eppure, stagione dopo stagione, raccolto dopo raccolto, continuavano a vedersi nel silenzio della corte in lutto, protetti dalla finta ignoranza delle guardie.
Andava bene anche così: se Sesh cercava un amore da proteggere, Meritaten voleva semplicemente un abbraccio, sapendo di non potersi concedere e concedere a sua volta altro. Era l'unica, la superstite di un mondo destinato a sparire nella sabbia: gli ideali del padre Akhenaton erano morti assieme a lui, cancellato dal mondo dei faraoni con la stessa rabbia brutale provata nei confronti di Amon e del suo clero corrotto.
Cos'altro restava a quella regina dalla corona di papiro se non un palazzo sterile come il suo ventre? Era sola, in compagnia di un amante istruito e coccolata da qualche lacrima lasciata saggiamente fuggire, in memoria del defunto Smenkhkara.
Un ventenne troppo fragile per prendere le redini di un mondo destinato all'oblio. Non l'aveva amato, né aveva avuto il tempo di farlo: un matrimonio di salvaguardia per la corona e poi il sollievo della dimenticanza. Così Meritaten era rimasta vedova: assisteva sola al rifiuto di quanto il padre aveva costruito a costo di grandi sacrifici, mentre lo zio imberbe saliva al trono, retto da un gruppo di ipocriti che lei avrebbe voluto giustiziare.
“Ho fatto spedire la tavoletta da un messaggero fidato.”
Sesh socchiuse gli occhi e trattenne il respiro. Quando li riaprì la giovane ancora continuava a guardarlo, impassibile, senza aspettare qualcosa di diverso da una critica.
“Perché?” si limitò a chiedere lui alzandosi piano a sedere, lasciando correre lo sguardo in direzione del fondo del letto in legno, i cui piedi erano modellati per formare ingannatrici quanto temibili zampe di leone. Non c'erano altari con statuette degli dei: Meritaten in tutta la sua fragile superbia aveva continuato ad aderire al culto di Aton, risultando l'unica vera credente in una città approfittatrice.
“Lo sai.” concluse rapida, stringendo tra le mani il lenzuolo leggero.
Sesh sospirò. Sapeva che quella donna senza famiglia e senza alleati lottava sola, chiusa tra le stanze areate di un palazzo decadente. Lottava per tenere intatte le fragili fondamenta create da un padre definito pazzo e visionario da molti: era destinata a rimanere sepolta sotto cumuli alti cubiti e cubiti, eppure continuava a proteggere il proprio piccolo mondo.
E lui cos'avrebbe dovuto fare?
La guardò alzarsi per dirigersi verso il mobile intarsiato proveniente dalla Nubia: si era seduta e con compostezza iniziò a pettinare i folti capelli scuri, annodati dopo una notte d'amore, mentre contemplava il proprio volto triste nel riflesso di uno specchio in bronzo. Sesh accennò ad un sorriso pieno di affetto, immaginando di poter captare i suoi pensieri con la speranza di sentire amore in quei gesti: sia nello spargersi unguento(*) profumato sulla pelle secca, sia nel tingersi gli occhi scuri con il khol(*) per sentirsi più bella.
L'uomo si rivestì del suo gonnellino dalle molteplici pieghe e giunse alle spalle dell'amata. Con le mani rese callose dagli addestramenti militari cinse il collo fragile di lei, la quale inarcò appena le spalle trattenendo il respiro, e baciò una sola volta la pelle scura profumata di fresco; in quell'attimo fuggente le annodò una collana in lapislazzuli che sembrava sorgere dagli azzurri panni morbidi della veste, leggera ma sufficiente per proteggere quel corpo minuto.
“Non mi rimproveri per ciò che ho fatto?” chiese la giovane con un tono falsamente arrogante.
Sesh indietreggiò di qualche passo, lentamente, e sfiorò con la punta delle dita una delle colonne scanalate, toccando l'intonaco freddo che le decorava:
“Voi siete una principessa, io un soldato addetto alla vostra sicurezza. Cosa posso fare se non amarvi?”
Uscì dalla grande stanza, inspirando un'ultima volta i molteplici odori della prima mattinata che galleggiavano tra quelle pareti: profumavano ancora dell'amore vissuto. Meritaten non rispose, si limitò a vedere nei suoi stessi occhi la consapevolezza che presto si sarebbe consumata definitamente: era identica a quelle braci che – dopo aver bruciato in una vampa la propria vita – si spegnevano, lasciando dietro di sé nient'altro che fumo.
Sapeva che il suo amante, il suo fratello mancato, il confidente più prezioso l'avrebbe tradita presto o tardi: perché lui amava l'Egitto, la Terra Nera(*) per la quale sarebbe morto – la Terra che lei stava regalando al nemico pur di far sopravvivere un regno destinato all'oblio.

Hattusa(*) era una città che si ergeva tra gli speroni rocciosi e le vallate montane; i suoi edifici –  religiosi, politici, amministrativi – si plasmavano in funzione di quel terreno pretenzioso e così mancavano del rigore geometrico tanto caro ai lontani Egizi.
Non c'era popolo tra quelle mura, bensì molteplici burocrati e sacerdoti che passavano da un compito all'altro, tronfiamente protetti da porte invalicabili che incutevano timore a chiunque osasse avvicinarvisi: la porta del Leone, del Re e della Sfinge; i tre protettori di un luogo austero, adibito alla vita di una corte dedita all'impegno militare quanto a una rigida gerarchia amministrativa che funzionava da secoli alla perfezione, res gestae(*) dopo res gestae, impedendo che la memoria degli avvenimenti – più o meno falsati – venisse cancellata.
Suppiluliuma non era persona da restare a lungo inattiva: mantenere saldi i confini del regno non gli concedeva il lusso di soggiornare troppo tempo a corte, d'altronde nemmeno gli interessava abusare di sfarzi e riposi che lo avrebbero solo appesantito. I suoi pensieri correvano già a Karkemish che presto o tardi sarebbe caduta sotto il suo giogo.
Tuttavia, quel giorno gli capitò di sedersi a lungo presso la propria scrivania in prezioso legno e rileggere, coi suoi stessi occhi, le colonne in cuneiforme(*) che tanto lo avevano stupito.
“Non mi era mai capitata una cosa simile!” esclamò, grattandosi distrattamente una guancia scavata dalla lunga e curata barba.
Inandik, il proprio segretario particolare addetto agli archivi reali, alzò le spalle sulla difensiva e sforzandosi di non sorridere commentò: “Lo so, mio signore, sembra che gli Egizi abbiano il gusto per la provocazione.”
Suppiluliuma si alzò in piedi, portandosi le mani dietro la schiena; dette un'ultima occhiata perplessa alla tavoletta e disse con tono quasi solenne: “La dahamunzu(*) d'Egitto, Meritaten, chiede che uno dei miei figli le venga dato in sposa affinché regni sull'Egitto come Faraone – guardò fuori dalla feritoia che dava verso la parte bassa della città, spaziando poi sulle montagne circostanti, infine aggiunse scuotendo la testa – se non avessi comprovato l'autenticità del sigillo avrei pensato che Ishtar(*) ci stesse confondendo con un sortilegio.”
Inandik intrecciò le mani asciutte e si umettò la lingua per poi convenire:
“Sua Maestà, comprendo perfettamente la vostra perplessità, io stesso sono sbalordito da tanto – poi aggiunse, mostrando la diplomazia di cui era capace – suggerisco di controllare la situazione. Se realmente i fatti corrispondessero a realtà la questione non può che volgere a vostro favore.”
Il sovrano assoluto degli Hittiti, conquistatore e guerriero che aveva sottratto alleati come Biblo a un Egitto inattivo, condottiero in grado di muovere eserciti preparati lungo tutta la zona Anatolica e la Siria, comprendeva bene i vantaggi di una simile possibilità. Il dominio sulle Due Terre, paese potente e prosperoso, senza dover versare nemmeno una goccia di sangue dei propri uomini: un dono divino imperdibile, se realmente fosse stato tale.
“Manderò Hattushatzi come ambasciatore. Vedremo se la dahamunzu ha davvero intenzione di aprire le porte del proprio Regno o se non sia altro che una subdola messinscena. In quel caso pagherà caro l'affronto.”
Inspirò l'aria fredda trasportata attraverso le fessure del palazzo costruito sull'acropoli e avvertì la presenza della propria gente, la quale viveva nella semplicità che da sempre l'aveva caratterizzata. Era un odore così buono, pieno di vita, terribilmente seducente rispetto a quello del sangue e dei cadaveri in putrefazione che durante la guerra tormentava le sue narici.

La corte faraonica si sviluppava in lunghezza: l'accesso al trono era sul lato corto, situato al fondo di quel lungo passaggio intervallato lateralmente da alte colonne, le cui sommità riproducevano rigogliosi ciuffi di papiro verdeggianti. Il soffitto si apriva direttamente sul cielo azzurro, così che i raggi del sole potevano accarezzare il pavimento in pietra calcarea, il cui bianco baciato dalla luce diveniva accecante come il più luminoso dei pettorali in oro del Sinai.
Quella stanza immensa era avvolta dal silenzio dell'attesa, resa profumata dai coni lasciati sciogliere al caldo della giornata. Sesh stava rigidamente in piedi lungo i margini della scalinata che conduceva al soppalco dove, impassibile, sedeva Meritaten: non poteva fregiarsi di corone né di scettri, era semplicemente una donna nobile, accoccolata su di un trono senza pretese con in mano esclusivamente la sua stessa combattività.
La giovane, abbigliata con eleganza da una tunica rossa e adornata da pochi gioielli, ogni tanto lanciava un'occhiata all'anziano Ai, colui che aveva assistito alla nascita del regno di Akhenaton e che ora, silenzioso, guardava il proprio mondo sgretolarsi senza avere la forza divina necessaria per reggere le macerie. Fingeva, dietro le rughe, di avere il controllo di ogni cosa, quando ormai non aveva più niente da poter controllare; allora aspettava: forse la morte, forse di poter dire addio un'ultima volta a tutte le persone che lui, nella sfortuna di essere vecchio, aveva visto scomparire per sempre.
Ai era consapevole di quello che stava accadendo. Sapeva che Meritaten aveva stupidamente venduto il proprio paese agli Hittiti – barbari, incivili, privi delle conoscenze che avevano reso l'Egitto patria degli dei e centro dell'universo conosciuto.
Ogni tanto guardava da oltre le sopracciglia cespugliose quella donna di corporatura piccola e dal volto sciupato, nonostante la maschera del trucco, e si stupiva di come riuscisse a portar avanti le proprie battaglie, chiusa nel gineceo del palazzo nel quale suo malgrado viveva. Non credeva che i suoi informatori fallissero così miseramente: nessuno degli uomini che lavoravano per lui era riuscito a intercettare il messaggio destinato ad Hattusa in tempo e ora le conseguenze erano chiare a tutti.
Se gli Hittiti avessero scoperto che la richiesta era un semplice malinteso non avrebbero esitato a invadere l'Egitto e piegarlo al loro volere, come era avvenuto con gli Hyksos(*) tanti anni prima; altri invasori, altre costrizioni che gli egiziani avrebbero dovuto sopportare pagando numerosi morti, il cui sangue avrebbe macchiato ancora le fertili acque del Nilo.
L'uomo portò lo sguardo in direzione dell'immensa entrata che conduceva alla sala del trono, fuori dalla quale vi era un'ulteriore luminosa anticamera dove ogni ospite – illustre o meno che fosse – veniva fatto attendere, prima di poter avere il privilegio di essere accolto dal sovrano delle Due Terre. Quelle pareti, quel luogo illuminato dal Sole così venerato fino a poco tempo fa, sembravano destinate a scomparire, erose dal tempo e graffiate dalle sabbie del deserto che abbracciavano l'intera Akhetaton; l'unica via di salvezza per l'Egitto era accettare il folle compromesso di un marito Hittita, tanto scomodo quanto inopportuno.
“Ti rendi conto di quello che hai fatto?” chiese sofferente, mentre il male ai denti lo tormentava implacabile.
Meritaten inarcò un sopracciglio e replicò: “Mi rendo conto di aver salvato ciò che mio padre aveva creato. Tu hai venduto il tuo credo, hai venduto Aton per salvarti la vita: eppure non hai realizzato di essere già morto... siamo tutti morti.”
Ai avrebbe voluto sedersi all'ombra di un sicomoro, appoggiare la schiena dolorante alla sua corteccia odorosa e chiudere gli occhi per dormire senza preoccupazioni. Sperava che così si sarebbe assopito anche l'amore per l'Egitto, per quella famiglia che aveva visto annientarsi senza poter fare niente, nello stesso modo in cui veniva dimenticato il dolore ai denti e l'ansia dovuta a un futuro incerto.
Eppure nonostante i suoi desideri era ancora lì, a reggere suo malgrado le redini di un luogo destinato a sparire. Sempre per quel folle e sciocco amore.
“Gli Hittiti non salveranno quanto resta di Akhetaton.”
Lei smise di guardarlo e alzò la testa verso il cielo, sorprendentemente privo di nuvole. Accennò ad un sorriso ed ebbe la contraddittoria voglia di piangere:
“Lo so. Ma preferisco così, piuttosto che veder morire tutto quello in cui credo per mano dei miei stessi compatrioti codardi.”
Un raggio di sole la illuminò e Meritaten chiuse gli occhi. Lasciò che Aton, padre e creatore, coccolasse l'unica figlia che ancora lo amava; se avesse pianto le sue mani fatte di luce avrebbero asciugato le lacrime, lasciando solo una traccia di sale sulla pelle resa arida dalle intemperie.
D'altronde, era lei l'Amata di Aton.

Sesh attendeva silenzioso nella penombra dell'ampio cortile; di tanto in tanto guardava lo specchio d'acqua della piscina e rimaneva incantato a fissare i giochi di luce, i colori tenui delle ninfee e le increspature plasmate dal vento, vive sotto i suoi tocchi invisibili.
“E' un luogo bellissimo, non è vero?”
Il soldato alzò gli occhi e vide che Ai gli si era affiancato, contemplando a sua volta quella pozza circondata da un prato curato. Sesh si limitò ad annuire e aspettò che l'anziano uomo continuasse a parlare, dopo aver controllato che non passasse nessuno.
“Tutto questo presto tardi sarà destinato a scomparire. Anche il tuo amore per Meritaten subirà l'identico destino di queste mura.”
“Amo lei, come amo l'Egitto.” rispose calmo.
Ai sorrise beffardo, corrugando le sopracciglia disordinate: “Ma lei non ama l'Egitto. Tu dovrai scegliere quale amore far vivere e quale estirpare: due piante non possono convivere nello stesso vaso.”
Sesh si morse un labbro: all'improvviso gli sembrò di avere un peso troppo grande sul capo, un peso che gli schiacciava i lisci capelli neri e piegava inesorabilmente il collo. Quando si rivolse al vizir lo fece quasi con un'esasperata arroganza che non poteva realmente permettersi:
“Ormai voi avete accettato il nemico. L'ambasciatore Hattushatzi è già ripartito con tra le mani l'accordo di matrimonio: cosa potete fare adesso se non attendere?”
L'anziano assottigliò gli occhi e replicò in un sussurro appena udibile:
“Mi credi così stupido, Sesh?”
Il soldato rimase interdetto. Dilatò le narici ma non rispose.
Ai gli si avvicinò di più, mentre la lunga tunica, bianca come i radi ciuffi della propria nobile testa, strusciava sul pavimento:
“Non entrerà nessun principe Ittita in Egitto. Nessuno.”
Quelle parole, soffiate nell'aria, furono sufficienti per far comprendere a Sesh che gli avvenimenti avrebbero preso una piega molto diversa da quanto credeva. Ancora non sapeva se ciò rappresentasse un bene o meno, ma di una cosa era certo: i desideri disperati di Meritaten non sarebbero stati esauditi, erano destinati a cancellarsi al pari di una goccia d'inchiostro diluita nel Nilo.
“Cosa devo fare?” chiese portandosi stancamente le mani lungo i fianchi.
“Organizzerai una spedizione assieme ad altri uomini. Una spedizione nella quale accidentalmente nessuno appartenente al convoglio Hittita sopravviverà.”
Sesh lo fissò impassibile; non esternò il proprio turbamento, nemmeno il proprio dolore:
“Tu mi vuoi morto, vero?”
“E' una possibilità da contemplare, la tua morte – asserì Ai, altrettanto impassibile – tuttavia è per la salvezza dell'Egitto. La corte non riconoscerà nessuno di voi, né vi verrà a salvare: agirete come un gruppo di predoni, disconosciuti da tutti.”
“Tu non puoi sapere se io ami più l'Egitto o Meritaten.” lo sfidò.
“Se tu amassi più Meritaten a quest'ora saresti a consolare lei, non te stesso.” replicò con un accenno beffardo.
Il giovane soldato non rispose, si concesse esclusivamente il lusso di fermare il flusso dei propri pensieri. Sapeva che quella missione era suicida: nessuno sarebbe intervenuto a salvare un gruppo di rinnegati, che pure avrebbero arginato con le loro vite l'inondazione malevola colpevole di distruggere l'Egitto.
Khemet, la Terra Nera, patria che lui tanto amava; i campi coltivati dall'aratro dei contadini, i templi di pietre immortali, le piramidi rivestite in calcare che aspiravano a raggiungere il cielo, le stuoie collocate sui tetti delle case per dormirvi la notte. Ogni cosa respirava di vita, nei percorsi ai margini del fiume e nelle città polverose le cui bancarelle vendevano tutto ciò che rappresentava le Due Terre: i datteri del Delta, la birra conservata in giare immerse nella sabbia, i pesci pescati nel Nilo benedetto da Api(*) e risparmiati dalla morsa implacabile di ippopotami e coccodrilli.
Sesh sentì il proprio cuore battere forte; come un innamorato che, pensando alla donna amata, desiderava baciarne il collo affusolato, sfiorare i seni morbidi e infine annusare con amore furtivo la pelle odorosa di mirra. Allo stesso modo avrebbe voluto toccare la fertile terra del Nilo, il limo che si depositava dopo ogni piena regalando la vita: immergere le dita in quel terreno nero, affondarle e sperare che da quel tocco un giorno nascesse una pianta immortale.
“Tu sai che non resterò ucciso così facilmente: farò di tutto per portare a termine la mia missione ma tornerò ancora a lambire le sponde del Nilo.”
“Questo sarà da vedere – sussurrò con un cadenzato tono minaccioso, proseguendo –  dovrai ricordare però che Meritaten per te non esisterà più: è stata questa la tua scelta. E io come altri in questo periodo di successioni tumultuose abbiamo lasciato correre parecchio su una relazione illegittima quanto inopportuna.”
Sesh non annuì; si limitò a fissare un'ultima volta Ai negli occhi grigi, scorgendo una stanchezza che forse si rifletteva negli sguardi di tutti. Se ne andò, oltrepassando i vari corridoi di palazzo: quando ebbe la possibilità di vedere ancora Meritaten, di parlarle e salutarla prima di scomparire, il giovane soldato preferì evitare.
Non avrebbe potuto dimenticarsi di lei, dei suoi sogni, di quelle fragili speranze che ancora alimentavano la sua sfortunata vita. Segretamente avrebbe continuato a coltivare nell'ombra la pianta del suo amore per quella principessa che tanto ammirava, nelle sue fragilità così come nelle ostinate insistenze; a volte folli, a volte piene di affetto per quel padre odiato dall'Egitto – così inviso ai cambiamenti – che aveva rivoluzionato in pochi anni di regno.
Si accontentò di sentire un'ultima volta il suo profumo e immaginarla seduta a contemplare il proprio volto triste, consapevole che entrambi erano già morti. Allora... perché anelavano talmente tanto alla vita?

La serata alla taverna trascorreva tranquilla. Probabilmente per il ridotto numero di avventori che la popolavano, o probabilmente vista la bassa qualità della birra(*) che era stata piuttosto diluita: le scorte scarseggiavano, data l'assenza di vie carovaniere stabili, e quindi i proprietari del locale si arrangiavano come meglio potevano.
Sesh, tra le mani una scodella in legno colma del fresco liquido, osservava con sguardo vacuo una coppia di anziani intenta a giocare a senet(*). A volte, pensò ironicamente, si sentiva una di quelle pedine che, mosse sulla scacchiera, lottava in mano altrui per non essere gettato via.
Fece ondeggiare la bevanda, contemplandone i riflessi resi luminosi grazie alle lucerne che rendevano il locale meno spoglio di quanto non fosse. Improvvisamente, ricevette una poderosa manata sulla spalla che lo fece sobbalzare e per poco non si rovesciò anche tutto il contenuto.
Si voltò; vide che di fianco a lui era comparso Hemeb: il suo migliore amico, nonché collega di lavoro presso la reggia, anche se destinato alla protezione degli ingressi principali.
Erano all'incirca coetanei, sui venticinque anni d'età che gravavano sul capo, ma non potevano essere più diversi, sia nel carattere che nell'aspetto fisico. Sesh aveva un viso che rientrava nella categoria di quelli definiti normali: proporzionato, dai capelli neri tenuti corti per esigenze di disciplina e pelle piuttosto scura secondo il colorito tipico degli egiziani. Possedeva un volto che si poteva ricordare facilmente così come dimenticare in breve, eppure il suo carattere schivo, silenzioso e spesso molto introverso, lo rendeva uno di quei personaggi che dovevano essere necessariamente conosciuti, anche solo per egoistico desiderio di capire cosa gli passasse per la testa.
Allo stesso modo non apparteneva alla fascia dei buoni ad ogni costo, né tantomeno a quella degli approfittatori: faceva ciò che riteneva si dovesse fare e da tempo ormai aveva imparato che i doveri, o anche solo le proprie personali convinzioni, spesso esulavano da quella che era l'etica comune. Sapeva dunque di non essere né meglio, né peggio degli altri, sebbene quella sera si sentisse una sorta di straccio sbrindellato: in qualsiasi maniera avesse agito avrebbe fatto soffrire qualcuno, non c'erano scappatoie.
Hemeb invece, sin dall'infanzia, si era dimostrato di carattere più vivace: spesso infatti era lui a trascinare Sesh, molto più razionale, nelle sue avventure. Compensava il naso di proporzioni piuttosto grosse con un carisma affascinante, capace di coinvolgere anche il suo migliore amico – indipendentemente dalle motivazioni che muovevano entrambi.
Non era una persona ambiziosa e soprattutto si era dimostrata, nel corso degli anni, afflitta da una certa pigrizia di fondo che non voleva mai andarsene, eccetto per cercare infantilmente ore di svago per la città; ad entrambi andava bene ugualmente, si compensavano perfettamente sia nei difetti che negli eccessi.
Eppure a volte Sesh aveva la triste sensazione che Hemeb non fosse così indifferente come voleva fargli credere; in quanto fratello fedele di una vita conosceva la relazione d'amore con Meritaten e mai gliene aveva fatto una colpa: certamente accettava che il suo migliore amico avesse il privilegio di essere l'amante di una principessa, per quanto decaduta, e spesso lo copriva cercando la complicità delle altre guardie con una bevuta in compagnia. Nonostante questo dentro di sé Sesh però percepiva un certo astio, una invidia che presto lo avrebbe annientato: il peso della diversità tra i due, anche con anni di amicizia alle spalle, era evidente; un marchio indelebile che li rendeva inevitabilmente differenti, sebbene Sesh non si fosse mai sentito un privilegiato.
“Allora, amico mio, bevi tutto solo in una sera come questa?”
Il giovane lo guardò negli occhi, più scuri dei suoi, e ammise incurvandosi nelle spalle:
“A breve parto per il confine.”
Hemeb ridacchiò: “Lo so. Io vengo con te.”
A quelle parole Sesh apparve palesemente stupito; se avesse avuto della birra in bocca probabilmente gli sarebbe andata di traverso: “Che stai dicendo?”
Il vicino ordinò con fare allegro da bere, infine si voltò nella direzione del suo interlocutore:
“Non crederai di essere l'unico bravo di cui Ai si fidi, spero.”
“Non è questione di fiducia. Ai spera che io muoia laggiù e tu sai il perché; sono diventato un personaggio scomodo per i suoi progetti.”
Tra i due calò il silenzio. Hemeb abbassò la testa, perdendosi nella contemplazione della propria bevanda, e per diversi istanti non trovò nulla da dire.
Poi, senza preavviso, iniziò a chiacchierare del passato, dell'amicizia che li legava fino a renderli compagni d'avventura indivisibili. Rievocò i pomeriggi adolescenziali passati tra le strade appena costruite di Akhetaton, dopo che avevano vissuto nei villaggi in vicinanza di Tebe – radicata nel Sud dell'Egitto.
Così i due passarono i momenti notturni ridendo nel ricordare la loro improvvisata caccia alla gazzella quando si addentravano nei margini del deserto, alle porte della loro polverosa cittadina, oppure gli scherzi che compivano a danno dei poco pazienti costruttori presso l'Orizzonte di Aton, i quali tiravano loro addosso panetti d'argilla per poi ridacchiare e riprendere il lavoro.
Era quella la vita spensierata che entrambi amavano, per quanto gli eventi l'avessero travolta anno dopo anno, inducendoli ad abbandonare l'età giovanile fatta di svaghi e allenamenti in compagnia per trovarsi immersi nella fase adulta: responsabilità, impegni e le relazioni vere con il mondo umano.
Quando, diverse scodelle dopo, Hemeb si alzò salutò il proprio amico con apparenza di affetto, facendo per allontanarsi. Sesh lo seguì con lo sguardo e, sebbene avesse la vista un po' appannata, notò che il compagno d'addestramento aveva al suo fianco una spada di pregevole fattura:
“Da quando in qua vai in giro con un'arma così bella?”
Hemeb si paralizzò, dilatando le narici già grandi del naso, per poi voltarsi e rispondere spensierato:
“Beh, ho messo i miei risparmi da parte. A breve dovrò saldare il conto.”
Abbassò la testa e, senza aggiungere altro, si affrettò verso l'uscita borbottando qualcosa in saluto. Sesh si strinse nelle spalle, massaggiandosi infine la testa con fare stanco; quando si girò vide che il locale era ormai deserto e fu allora che decise di andarsene a sua volta, con la speranza ironica di riuscire a tornare a casa. Tornare a casa... sarebbe stato bello poterlo fare anche quando si fosse trovato nel deserto vero.






Terminologia

Unguento: le persone di alto rango usavano cospargersi il corpo di unguenti odorosi, oppure posare coni profumati in testa che, con il caldo, si scioglievano sulla parrucca. Tali unguenti venivano riposti in unguentari appositi, generalmente simili a fiasche di piccole dimensioni, adatte per far colare poco a poco il prezioso liquido.

Khol: nome arabo per definire il trucco, anche se non è quello utilizzato dagli antichi egizi. La spessa linea nera che ornava il contorno degli occhi serviva, più che per bellezza, per protezione dal sole ed eventuali abrasioni della pelle.

Terra Nera: Gli egizi denominavano la loro patria Taui, ovvero le Due Terre. La terra nera è dove vivono, mentre quella rossa è il deserto, patria di Seth e di contatto con i defunti.

Hattusa: Capitale Hittita, situata tra le montagne anatoliche. Dell'immensa cinta muraria oggi rimangono alcuni resti, con annesse delle ricostruzioni complete di merlature, rese possibili grazie ai modellini votivi.

Res Gestae: I sovrani Hittiti usavano scrivere le loro imprese su tavolette che venivano conservate negli archivi reali. Ovviamente spesso e volentieri i resoconti erano piuttosto tendenziosi, volti ad ingigantire la figura mitica del re: nonostante questo si sono rivelate delle preziosi fonti storiche per la verifica di avvenimenti storici.

Cuneiforme: A quell'epoca la corrispondenza internazionale era scritta interamente in akkadico e si utilizzava l'alfabeto cuneiforme, il cui andamento generalmente procedeva su colonne verticali.

Dahamunzu: Parola Hittita per chiamare la Sposa Reale, moglie del Faraone.

Ishtar: Dea venerata dagli Hittiti come dai babilonesi. Conosciuta nelle leggende anche come maga ed incantatrice.

Hyksos: Popolo probabilmente di origini pastorali, di provenienza non chiara. Invase l'Egitto e vi regnò per duecento anni, approssimativamente dal 1730 al 1530: la loro capitale venne stabilita ad Avaris, nel delta del Nilo. La dominazione Hyksos verrà definita dagli storici Secondo Periodo Intermedio e avrà fine con la riconquista delle terre da parte di Ahmosis che darà inizio alla XVIII dinastia, dinastia della quale fanno parte anche sovrani come Akhenaton o Tutankhamon.

Api: Dio del fiume egizio. Veniva raffigurato con volto maschile ma aveva il seno da donna, così da rappresentare la completa idea di fertilità e rigenerazione che simboleggiavano il Nilo stesso.

Birra: La bevanda tipica. Si consumava durante i pasti molto fresca e nelle taverne era regolarmente servita; solitamente la si teneva in refrigerio in giare interrate ed era utilizzata da una vasta fascia della popolazione, al pari dell'acqua. Il vino invece era privilegio delle alte fasce e venne commerciato grazie ai contatti con Creta.
A testimonianza dell'ampio consumo popolare della bevanda vi sono, oltre ai corredi funebri, anche le iscrizioni funerarie che prevedevano ampi quantitativi da trasportare per la vita nell'aldilà.

Senet: gioco da tavola tipicamente egizio. Composto da una scacchiera rettangolare, possedeva pedine che i giocatori dovevano muovere lungo un percorso fatto a scacchiera: lo scopo è quello di riuscire a raggiungere l'aldilà.



Sproloqui di una zucca

Questa storia si è classificata 3^ al concorso "History", indetto da Dike Nike. Sono soddisfatta dellla posizione perché mi rendo conto di aver davvero azzardato a presentarla: l'unica originale, quindi rispetto a una fanfictions risulta più difficile valutare i personaggi - e infatti proprio la voce personaggio è stata quella che mi ha penalizzato X°D
Amo questa storia e amo l'Egitto *____*
Grazie a Dike e a Yuri per il contest, complimenti ancora a tutti i partecipanti e grazie a coloro che hanno letto ^O^
Al prossimo capitolo <3
   
 
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