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Autore: ChiiCat92    22/10/2019    0 recensioni
"La tempesta era nell’aria. Respirando a pieni polmoni, lasciando al sale la possibilità di ricoprire con una patina lingua e gola, era possibile avvertirla. Il cielo era un turbinio di nuvole fumose, ora bianche, ora grigie, ora nero pece, ma l’orizzonte gravido e l’elettricità che punzecchiava i sensi era innegabile.
Con le mani poggiate a palmo aperto sul parapetto di legno avvertiva le vibrazioni dello scafo che fendeva le onde riverberare nel proprio corpo.
La nave schizzava dritta e sottile come un ago, tagliando in due l’aria pesante di temporale, ma nonostante la spingessero alla massima velocità consentita non sarebbero riusciti a scampare alla tempesta."
Questa storia partecipa al Writober 2019 di Fanwriter.it, lista PumpFIC.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sephiroth
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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22/10/2019

 

Mermaid


La tempesta era nell’aria. Respirando a pieni polmoni, lasciando al sale la possibilità di ricoprire con una patina lingua e gola, era possibile avvertirla. Il cielo era un turbinio di nuvole fumose, ora bianche, ora grigie, ora nero pece, ma l’orizzonte gravido e l’elettricità che punzecchiava i sensi era innegabile. 

Con le mani poggiate a palmo aperto sul parapetto di legno avvertiva le vibrazioni dello scafo che fendeva le onde riverberare nel proprio corpo. 

La nave schizzava dritta e sottile come un ago, tagliando in due l’aria pesante di temporale, ma nonostante la spingessero alla massima velocità consentita non sarebbero riusciti a scampare alla tempesta. Dovevano trovare un atollo sicuro dove fare porto almeno per quella notte, o avrebbero dovuto combattere contro gli elementi. 

La perdita di tempo era esile rispetto alla prospettiva di perdere l’intera nave.

Alzò lo sguardo sui pennoni, tesi e scricchiolanti nello sforzo di reggere le vele gonfie di burrasca, e poi più su, in cima all’albero di mezza, dove si trovava la coffa. 

Il nostromo teneva su il cannocchiale a stento, combattendo contro il vento e gli spruzzi d’acqua salata, nella speranza di vedere una lingua di terra in lontananza.

Intorno a loro, da ore ormai, c’era solo acqua. 

« Capitano. » quando i suoi sottoposti gli si avvicinavano di solito non metteva mano alle armi, il che non era solo un segno di fiducia ma anche un indice della tensione che contraeva i nervi. Adesso, senza quasi rendersene conto, la mano sinistra volò verso l’impugnatura della spada che teneva al fianco, tanto che il marinaio fece un passo all’indietro, come a difendersi. 

Quando si rese conto di averlo spaventato, il Capitano liberò le dita dalla presa ferrea intorno all’impugnatura e fece un cenno all’uomo perché si avvicinasse.

Non era il solo ad essere sulle spine, tutto l’equipaggio si muoveva silenzioso e ostile verso il mare sul ponte di comando come sottocoperta. C’era chi lanciava occhiatacce all’acqua grigia, chi indirizzava una preghiera al cielo. I barili d’acqua erano già stati fissati con corde robuste nella stiva nell’eventualità di dover affrontare la tempesta, e le scorte più pregiate erano state sigillate in casse spesse. Il Capitano, ovviamente, sperava che quelle precauzioni fossero superflue, più un gesto scaramantico.  

« Capitano. » riprese dunque il marinaio. Muscoloso e con la pelle resa lucida come cuoio dal sole e dal mare, ora appariva preoccupato e schivo come se non avesse mai visto un cielo nuvoloso prima d’ora. « L’equipaggio si chiedeva quanto a lungo rimarremo in navigazione, la tempesta si avvicina. »

Gli occhi verde infiammato del Capitano passarono con biasimo dal marinaio all’evidente risposta al dilemma dell’equipaggio. Se non avevano ancora gettato l’ancora non dipendeva da lui, ma dal fatto che non c’era un dannato mozzicone di terra per miglia e miglia. 

Ma gli uomini di mare erano fatti così, soprattutto quando per mesi non sentivano sulla pelle le agiatezza della vita di terraferma: diventavano indolenti e stupidi, alla stregua di ragazzini, che dovevano essere rassicurati ad ogni passo.

Il Capitano sospirò, accondiscendente, piegando di lato la testa così che i capelli d’argento, stretti in una treccia spessa, si spostassero di lato per un attimo. « Non appena il nostromo… » 

« TERRA! » 

Non gli riuscì neanche di finire la frase. La nave sembrò piegarsi su un fianco mentre tutto l’equipaggio si lanciava contro il parapetto nella direzione indicata con furia dal nostromo sulla coffa.

Anche il Capitano, suo malgrado, dovette considerare il sollievo che gli fece formicolare lo stomaco per un momento. 

Quando si voltò a guardare fu lieto di scorgere la forma irregolare di un isolotto, abbozzi di palme da cocco dritte verso il cielo, in rapido avvicinamento.

La tempesta non li avrebbe colti in mare, e per un po’ avrebbero potuto tenere i piedi per terra. 

 

Il vento ululava così forte che sembrava voler buttare giù l’albero maestro. La nave era stata tirata in secca e non c’era alcun reale pericolo, forse per questo le onde si infrangevano con rabbia contro lo scafo.

Tutta la nave cigolava, percossa da mani invisibili e sottili.

L’equipaggio si trovava sottocoperta, rannicchiati nei giacigli come topi spaventati. Il tempo non aveva permesso loro di stabilire un accampamento sull’isola, di accendere un fuoco, di cuocere del cibo. La felicità di trovarsi ancorati a terra riusciva, però, a coprire il freddo e la bocca asciutta per via del pane secco e del formaggio. 

Il Capitano era sveglio, fissava il soffitto scuro della sua cabina. Abituato all’oscurità riusciva a distinguere i contorni di ogni singola asse di legno, sapeva dove le termiti avevano cercato di scavarsi una tana, sapeva dove era intervenuto lui stesso con il carpentiere per le riparazioni dopo uno scontro a fuoco. Quella nave era estensione del suo corpo, e le sue vele nere spaventavano chiunque le avvistasse. Il suo nome, e quello di lei, di quella culla di legno e anima, veniva mormorato con terrore e ammirazione in tutti i sette mari. 

Anche se c’era un pirata, uno solo, che nascondeva la paura dietro l’ostinazione. E lui lo ammirava per questo.

Ripensò con tenerezza al suo sguardo blu, allo stocco rosso che saettava verso di lui nella speranza di potersi difendere o addirittura ferirlo. Genesis. Il suo nome risuonava morbido sulla lingua, smuoveva una parte di lui che preferiva tenere sopita.

Il Capitano della One Winged Angel, Sephiroth, non poteva lasciarsi andare a simili lussi. Il mare, altrimenti, l’avrebbe fagocitato e lui non avrebbe opposto resistenza alcuna. 

Cercò di chiudere gli occhi, inseguendo brandelli di un sonno che non voleva ghermirlo. Nel buio dietro le palpebre gli sembrava di vedere lampi rosso fuoco e il viso di Genesis, la sua sfrontatezza ebbra di ingenuità.

L’ululato del vento cambiò, si fece più intenso, ma tra le note irregolari Sephiroth poté sentire un richiamo familiare. Una voce.

Si tirò su a sedere di scatto, spalancando gli occhi. Il buio lo rese cieco, confondendo i sensi: sentiva di avere le palpebre aperte ma non riusciva comunque a vedere nulla. 

La pupilla si abituò pian piano, i contorni del suo tavolo, dell’armadio con i liquori, la cassa panciuta piena di dobloni d’oro. 

Doveva averlo immaginato, la tempesta giocava brutti scherzi.

Tornò a sdraiarsi e a chiudere gli occhi ma era teso, alla base della nuca provava uno spiacevole formicolio. 

Non passò molto e sentì nuovamente quella voce.

Stavolta fu svelto a tirarsi su, sull’attenti, la mano alla spada che non abbandonava neanche quando si ritirava in branda.

Una voce, voluttuosa come una nube, cantava tra le spire agitate del vento. Riusciva chiaramente a sentirla. 

Spostò la testa da un lato e dall’altro, cercando di capirne la provenienza, e fu sorpreso dal constatare che veniva da qualsiasi parte.

Infilò gli stivali, si gettò sulle spalle il giaccone di pelle e, dopo aver infilato la pistola nella fondina, uscì dalla cabina.

Il vento gli frustò in visto acqua e sabbia come a volerlo punire per la sua impudenza.

Socchiuse gli occhi per non rimanere accecato dalla furia degli elementi, rendendosi conto di quanto stupido fosse: in piedi, solo contro la tempesta, con la mano alla spada e il vento a prendersi gioco di lui.

Stava quasi per tornare in cabina quando sentì la voce.

Stavolta ne fu certo e non esitò a seguirla: la prua della nave. 

Mantenne un passo calcolato, tenendosi basso per incassare i colpi del vento, avvicinandosi alla prua sospettoso come un felino. 

La voce cantava in una lingua che lui non conosceva, non era neanche sicuro che quelle che sentisse fossero parole. Ma la voce...quella c’era.

Adesso che era più vicino poteva distinguere le note acute di una voce femminile, e la litania bassa di una sorta di ninna nanna che invece di calmare il vento e il mare sembrava aizzarlo verso la sua piena potenza. 

La nave gemette, schiaffeggiata da un’onda che si infranse sulla murata. e Sephiroth rimase immobile, mano alla spada, a fissare il punto in cui l’acqua si riversò sul ponte, bianca di schiuma.  

Percorse l’ultimo metro che lo separava dal castello tendendo il collo in avanti, come aspettandosi una donna in piedi lì, sulle travi bagnate. 

Nessuno alla vista e il disappunto lo colse con una boccata d’acido. Non tanto perché non aveva trovato nessuno, quanto perché aveva inseguito un’illusione. 

Fece per tornare alla cabina, prima di inzupparsi dalla testa ai piedi, quando sentì di nuovo la voce. Allora capì: stava giocando con lui.

Cercò di ricordare le storie che i marinai si mormoravano sottocoperta quando le notti erano placide e calde. Parlavano di donne, questo sì, ma mai di voci.

Incuriosito, e punzecchiato dalla sfida, si avvicinò al parapetto. Si sporse e tutto ciò che vide il gorgogliare dell’acqua bassa intorno allo scafo, e la scala di corda che era stata calata dai suoi uomini per scendere a terra. 

Lanciò solo un’occhiata alla porta aperta della sua cabina, poi si calò giù.

Non appena ebbe toccato terra la voce tornò a farsi sentire, nascosta alla vista ma non all’udito: proveniva da qualche parte oltre la nave.

Si chiese, vagamente, se la donna stesse giocando con lui per trascinarlo in una trappola, se fosse sola, se si rendesse conto contro chi si stava mettendo, mentre gli stivali affondavano nella sabbia bagnata.

Il vento, a terra, pareva calmarsi, ridotto ad un mormorio lontano, come se le forze della natura fossero concentrate a tenere imbrigliata la nave in una bolla di tempesta.

Sephiroth proseguì, superando la polena della sua nave. Scolpita come un angelo in volo, aveva una sola ala, spezzata durante un combattimento in mare, era da lì che il Capitano aveva preso il suo nome. 

La spiaggia era deserta, spazzata da onde lunghe e spumose, la voce cantava ora da dietro gli scogli.

L’uomo aumentò il passo, quasi correva, anche se la sinistra continuava a rimanere ferma intorno all’impugnatura della spada. 

Si inerpicò sugli scogli, squadrati e smussati dall’impeto delle onde, attento a non scivolare. Fu sicuro di vedere zampe e carapaci nascondersi nella sabbia, approfittando della schiuma sollevata dalle onde. 

Quando fu dall’altra parte si rese conto di trovarsi in una piccola conca, l’acqua gli arrivava al ginocchio e una barriera di scogli smorzava la tempesta: una piscina naturale in cui, cheta, sciabordava la marea. 

Lì, sdraiata sull’addome, il corpo che si confondeva nelle acque scure in cui non si specchiavano né stelle né Luna, si trovava la donna. La creatura. 

Capelli come fili di seta bianco latte le incorniciavano un viso dalla carnagione cobalto; labbra viola, carnose, provocanti, componevano parole senza significato in una lingua sconosciuta che suonava come il frizzare di bolle sulla superficie dell’acqua; lungo la schiena una pinna luminosa, ossea, sbucava dalla carne, non perforandola ma con continuità, con un unico, teso velo di pelle; al posto delle gambe la donna aveva una lunga pinna luminescente, sotto il nero dell’acqua se ne intravedeva il brillare.

Sephiroth rimase immobile, ammaliato non tanto dal suo canto quanto da quel corpo sbalorditivo, coperto di minuscole squame come frammenti di pietre preziose.

La creatura volse il capo, senza smettere di cantare, gli occhi erano braci ardenti, rossi come il corallo. 

Il suo canto si insinuava dolce dentro di lui, scivolando come una bevanda calda giù per la sua gola, riempiendogli le vene, accarezzandogli la pelle.

Sephiroth allentò la presa sulla spada, d’altronde non ne aveva bisogno: la creatura non era pericolosa.

Il canto si fece melenso, pregno di note basse, mormoranti come il mare d’inverno, il vento sembrò cessare, l’acqua fermarsi. Quella creatura doveva avere il potere di controllare gli elementi, non c’era altra spiegazione.

L’uomo le si avvicinò, senza fatica nonostante fosse ormai immerso fino ai fianchi. La creatura non era più stesa sulla battigia, ma nuotava verso il largo, verso gli scogli dove ora riusciva a scorgere un’apertura. 

Realizzò che doveva aver nuotato intorno alla nave per cantare sotto la finestra della sua cabina e poi in avanti, verso la prua, per attirarlo dove avevano calato la scala di corda, e mentre lui si inerpicava lungo la spiaggia doveva aver nuotato oltre gli scogli, in quella piscina naturale, e da lì aveva continuato a cantare per lui perché la trovasse.

Lui, e solo lui, aveva sentito il suo richiamo, per lui e per nessun’altro lei aveva cantato, chiamandolo tra le sue braccia come la madre con il figlio.

L’acqua gli arrivava ormai al petto, si accorse del gelo che gli accapponò la pelle, ma tutto passò in secondo piano quando lei gli si parò di fronte.

Era bella, opalescente, una perla in dono dagli abissi.

Sephiroth aveva le labbra incollate e gli occhi pieni di lei, opachi a tutto il resto.

Le sue mani, tra le cui dita correva una sottile membrana, si appoggiarono su di lui, e fu con sorpresa che si accorse di quanto in realtà fosse calda al tatto.

Lo studiò, tastandolo piano, gli occhi rossi dalle palpebre socchiuse, come se lo stesse osservando in altro modo, con altri sensi.

Lui rimase immobile, godendo del contatto, respirando lentamente, poi piano, poi rimanendo in apnea come se si preparasse a seguirla tra i flutti.

Le labbra viola di lei si sollevarono lievemente in un sorriso, il suo canto divenne via via più caldo, anestetizzante, e lui non riuscì mai bene a capire con cosa lo colpì. 

La sensazione fu quella di un ago sottopelle, non più di una puntura, eppure lo vedeva, grande, affilato, al centro del suo petto per toccargli il cuore. Il dolore non lo raggiunse mai, anzi, la voce della creatura accompagnò il veleno nero attraverso l’ago con il canto più dolce che avesse mai sentito. 

 

« Capitano. » qualcosa lo scosse, brusco, netto. « Capitano. » come vetro, la voce gli perforava le orecchie. 

Aprì gli occhi e si stupì di trovarsi steso sulla spiaggia. Il sole appena sopra la linea dell’orizzonte, occhieggiava pallido e freddo, annunciando una giornata tiepida ma tranquilla.

Due dei suoi uomini erano piegati su di lui, lo guardavano preoccupato.

« Vi sentite bene, Capitano? » 

“Perché?” vorrebbe chiedergli, ma ha la gola stretta come se avesse urlato. 

Rifiuta la mano tesa in aiuto e si alza da solo. Stare in piedi con tutto il peso del corpo è strano, si sentiva così leggero la notte prima, nell’acqua, anche se non ricorda perché. 

« Capitano? » tentò ancora uno degli uomini.

Sephiroth gli rivolse solo un cenno del capo e, in silenzio, tornò verso la nave. 

Trovò l’equipaggio affaccendato per rimettere in mare la nave, esattamente come gli aveva ordinato. Venne accolto con preoccupazione e rispetto, niente di diverso dal solito, e d’altronde erano tutti rinfrancati dalla giornata di sole, non avevano motivo di chiedere perché era sceso dalla nave ed l’hanno ritrovato addormentato sul bagnasciuga.  

Mentre spiegavano le vele lui si appoggiò al parapetto di prua, le mani allargate sul legno per sentire le vibrazioni dello scafo.

Tra le onde, vaporose, scorse un lampo blu cobalto, e il canto soave di un ricordo gli strinse piacevolmente il cuore. 



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The Corner 

Sto perdendo un pochino il ritmo con il writober, perché sono super impegnata e non ho il tempo fisico per scrivere, 
però ci sto provando giuro, mi metto al pc tutte le sere e cerco di recuperare, anf.

Chii
   
 
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