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Autore: lunalba    23/10/2019    1 recensioni
La storia è ambientata molti anni prima rispetto agli avvenimenti della Serie tv.
Temperance Brennan è una ragazza di 16 anni i cui genitori sono spariti misteriosamente nel nulla lasciandola con un fratello incapace di prendersi cura di lei. Temperance si trova così sola ad affrontare un sistema di case-famiglie e affidamenti.
Quali eventi avranno portato Temperance a diventare la distaccata, razionale e stimata dott.ssa Brennan che conosciamo?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Temperance Brennan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fare un nuovo passo,
dire una nuova parola,
è ciò che la gente teme di più.
(fëdor dostoevskij)
 
 
 
 
PROLOGO
 
Guardai le due persone sedute di fronte a me che mi osservavano sorridendo, poi rivolsi lo sguardo verso l’assistente sociale, la dott.ssa Davis, anch’essa con un’espressione speranzosa in volto. Io di speranze ne avevo un po' meno, forse perché quelli non erano i miei veri genitori, forse perché era già la quarta coppia che decideva di accogliermi e forse, ma dico forse, perché tutte e tre le esperienze precedenti non erano andate a buon fine.
“Affidamento temporaneo” lo diceva il termine stesso, una cosa temporanea non poteva durare per sempre e per questo ci trovavamo di nuovi lì, da capo, nuova famiglia, nuovo affidamento.
 
<< Temperance cosa pensi di quello di cui stiamo parlando? >> la voce dell’assistente sociale mi ridestò dai miei pensieri.
 
Osservai attentamente quella donna, l’unico punto di riferimento che mi era rimasto, l’unica persona a cui, in qualche modo, importasse ancora di me. Era giovane, probabilmente all’inizio della sua carriera ma nonostante ciò aveva dimostrato grande professionalità e capacità; non era colpa sua se i miei affidamenti non diventavano mai definitivi, era il sistema che funzionava così, un sistema che ormai mi aveva intrappolata nella sua ragnatela di burocrazia e tempistiche sempre più lunghe.
 
<< per me va bene >> sospirai abbassando lo sguardo, sperando che quella tortura finisse al più presto.
 
Era un mese che i signori Anderson venivano a farmi visita, qualche volta mi avevano anche portato a mangiare un gelato, sembravano delle bave persone e, in ogni caso, sapevo di non avere molta scelta, tutto era meglio della comunità in cui stavo in quel momento.
 
<< come vi ho detto Temperance vorrebbe diventare medico…>> sentii dire dall’assistente sociale
<< non medico, antropologa forense >> sbottai a bassa voce
<< hai detto qualcosa cara? >> mi chiese la signora Anderson scostando i lunghi capelli rossi dal viso e sorridendomi gentile.
<< ecco io … vorrei diventare un’antropologa forense, non un medico …>> risposi guardandola dritto negli occhi.
 
La donna non rispose, ma mi rivolse un grande sorriso mentre la dott.ssa Davis li invitava nel suo ufficio a sbrigare le ultime “faccende burocratiche”, prima di rivolgersi a me e invitarmi a preparare le mie cose.
Feci velocemente le scale e guardai la valigia aperta che avevo già preparato sul letto, non ci sarebbe voluto molto, le mie cose si limitavano a pochi vestiti, qualche libro e un album di foto, oltre a, ovviamente, il piccolo pacchetto incartato con un involucro colorato, ancora intatto, che avevo accuratamente nascosto sotto al letto. Quel pacco, che avevo deciso di non aprire, era l’ultimo regalo dei miei genitori, l’ultimo loro gesto prima della prematura scomparsa che aveva lasciato dentro di me un vuoto incolmabile, lasciandomi con troppe domande senza risposta; dov’erano spariti? Perché ci avevano lasciato? Dove si trovavano in quel momento?
Pensai a Russ, mio fratello, che mi aveva abbandonato, lasciandomi sola ad affrontare una situazione più grande di me. Lo odiavo, lo odiavo per avermi abbandonato, per essere andato via senza una spiegazione, per essere stato così terribilmente egoista. Eravamo una famiglia, gli unici componenti rimasti, sarebbe stato difficile ma insieme potevamo farcela, potevamo affrontare quella situazione… invece era andato via, aveva scelto la strada più facile, lasciandomi indietro, dimenticandosi di me.
Un leggere bussare alla porta mi ridestò dai miei pensieri
 
<< Temperance, stai bene? >> mi chiese la dott.ssa Davis sedendosi sul letto
<< si, sto bene, i signori Anderson sembrano delle brave persone >> risposi cercando di sorridere
<< verrò a trovarti e potrai chiamarmi quando vuoi, d’accordo? Se qualcosa non va fammelo sapere e troveremo una soluzione>> cerò di rassicurarmi poggiando una mano sulla mia spalla.
 
Annui, incapace di pronunciare qualsiasi parola, l’unica cosa che volevo in quel momento era tornare a casa mia e trovare i miei genitori, i miei veri genitori, aprire i regali che erano stati lasciati perfettamente incartati sotto l’albero e tornare ad essere una famiglia.
Sospirai abbandonando i miei pensieri irrealistici e, tornando alla triste realtà, presi la mia vecchia valigia e mi avviai verso l’ingresso, pronta ad affrontare il futuro, ricordando le parole che tempo prima mi aveva detto mia madre e che ormai erano diventate il mio slogan: “lascia da parte le emozioni e sii razionale, per sopravvivere non devi pensare con il cuore ma con la testa”.  Già, sopravvivere, perché nonostante i miei 16 anni, avevo smesso di vivere e mi limitavo a sopravvivere, giorno dopo giorno.
Guardai per l’ultima volta la stanza che mi aveva ospitato in quei mesi, le parenti bianche, il grande letto al centro della stanza, la scrivania e l’armadio di legno antico facevano sembrare tutto terribilmente formale e impersonale, alcune caratteristiche facevano pensare che qualcuno avesse tentato di rendere l’ambiente un po' più familiare, come ad esempio le lenzuola moderne e i tappeti colorati. Peccato che la freddezza di quell’ambiente non fosse dovuto dall’arredamento ma dai cuori di chi vi entrava, ragazzi che, per un motivo o per l’altro, si ritrovavano senza la propria famiglia, costretti a cominciare una nuova vita.
Quando il mio sguardo si posò sul grande specchio nell’angolo della stanza mi concessi un minuto per osservarmi; avevo legato i lunghi capelli castani in una coda di cavallo lasciando libero il viso pulito senza alcuna traccia di trucco, portavo i primi vestiti che quella mattina avevo trovato nell’armadio, un jeans chiaro e una maglietta rossa, il tutto accompagnato da un paio di classiche scarpe da ginnastica.
Distolsi lo sguardo cercando di non pensare a quanto la mia fisionomia fosse simile a quella di mia madre e quanto ero stata, nonostante tutto, fortunata ad aver avuto una famiglia come la mia; in quei mesi avevo conosciuto ragazzi che erano praticamente cresciuti nelle case-famiglia e che prima di allora erano stati in famiglie inadeguate che non sempre avevano agito per il bene di quei bambini, almeno io prima di approdare in quell’incubo avevo  vissuto una vita normale con dei genitori che mi avevano amata.
Scossi la testa scacciando quei pensieri malinconici e scesi velocemente le scale, al fondo delle quale mi aspettavano i signori Anderson.
 
<< pronta? Abbiamo parcheggiato qui vicino >> mi sorrise l’uomo prendendomi la valigia dalle mani.

Per un momento chiusi saldamente la presa sui manici, quella valigia era tutto ciò che mi era rimasto e, forse inconsapevolmente, temevo che se mi avessero tolto quegli oggetti tutta la mia vita precedente sarebbe magicamente sparita nel nulla.
Guardai Jimmy Anderson che teneva ancora la mano mezz’aria sorpreso dalla mia reazione, poi tornai in me, sospirai e lasciai la presa, permettendogli di aiutarmi a portare fuori le mie cose.
La macchina era una nuova Ford bianca che faceva bella mostra di sé nel vialetto, mi avvicinai titubante guardando la maniglia argentata ma non la toccai, al contrario mi voltai e cercai la dott.ssa Davis e quando la trovai dovetti sforzarmi per non correrle incontro e abbracciarla. Tutti quei cambiamenti mi facevano paura, non volevo andare in una nuova casa, magari trovarmici bene, per poi doverla lasciare e ricominciare tutto da capo.
La dott.ssa Davis, Emily come mi aveva detto di chiamarla, sembrò leggermi del pensiero perché si avvicinò e mi strinse in un leggero abbraccio sussurrandomi all’orecchio che sarebbe andato tutto bene, poi si ritrasse e a voce più alta mi raccomandò di chiamarla non appena mi fossi sistemata.
Alla fine, mi decisi a voltarmi verso la macchina, aprire la portiera e scivolare sui bianchi sedili in pelle. Non mi voltai verso la casa-famiglia, continuai a guardare davanti a me preparandomi a rispondere alle classiche domande che mi erano state rivolte anche dalle tre precedenti famiglie; stai bene? Cosa ti piace fare? Ti piace la scuola? E subito dopo sarebbe iniziato un lungo racconto sulla mia nuova casa, la mia nuova cameretta, eventuali animali o altre informazioni che dovevo assolutamente conoscere dal momento che ormai facevo parte della famiglia. Certo, come se per far parte di una famiglia bastasse firmare un foglio, fare dei colloqui con dei professionisti e alla fine portarsi a casa un/a ragazzino/a nuovo di zecca a cui ripetere che “faceva parte della famiglia”. No, tutto quello non bastava, avevo avuto una famiglia, una famiglia vera, e sapevo che per essere tale c’era bisogno di molto di più di alcuni passaggi burocratici, e sapevo anche che non avrei mai più avuto una famiglia, la mia famiglia ero io e solo io e nessun altro ne avrebbe mai fatto parte.  
  
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