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Autore: Alexa_02    25/10/2019    1 recensioni
Julianne ha tutto ciò che potrebbe mai desiderare, quando guarda la sua vita non c’è una virgola che cambierebbe. È così sicura che ogni cosa andrà nel giusto ordine ed esattamente come se lo aspetta, che quando si sveglia e trova la lettera di addio di sua madre non riesce a capacitarsene.
Qualcosa tra i suoi genitori si è incrinato irrimediabilmente e April ha deciso di scompare dalla vita dei figli e del marito senza lasciare traccia o la benché minima spiegazione.
Abbandonata, sola e ferita Julianne si rifugia in sé stessa, perdendosi. Una spirale scura e pericolosa la inghiotte e niente è più lo stesso. Julianne non è più la stessa.
Quando sua madre si rifà viva, è per stravolgere di nuovo la sua vita e trascinare lei e suo fratello nell'Utah, ad Orem, dalla sua nuova famiglia.Abbandonata la sua casa, suo padre e la sua migliore amica, Julianne è costretta a condividere il tetto con cinque estranei, tra cui l'irriverente e affascinante Aaron. Tra i due, da subito, detona qualcosa di intenso e di forte, che non gli da scampo.
Può l’amore soverchiare ogni cosa?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Julianne

 

 

Arrivo da Peyton in ritardo ma con l'elettricità che mi scorre sotto pelle. Stare con Aaron, anche pochi minuti, mi fa toccare il cielo con un dito.

Smonto dalla macchina, attraverso il prato leggermente incolto e disseminato di biciclette, e raggiungo la porta. La casa dei Jackson è un edificio di due piani, fatto di cemento dipinto di verde pallido. Le imposte bianche sono tutte spalancate e del rumore soffuso filtra da sotto la porta mentre mi allungo verso il campanello. Dopo aver suonato, osservo lo spioncino finché sull'uscio non appare Dwight. “Ehi” sorrido.

Il fratellino di Peyton tiene in una mano una macchina radiocomandata e con l'altra stringe la maniglia di metallo. “Julianne” asserisce “Qual è la parola d'ordine?”.

La prima volta che sono andata a trovare la mia amica, un altro dei suoi fratelli mi ha fatto la stessa domanda lasciandomi poi fuori di casa alla risposta sbagliata. Ma questa volta sono preparata.

Sospiro. “Peyton puzza”.

Dwight ridacchia ma scuote la testa. “Errata. È della settimana scorsa”.

“E io come faccio a saperlo?”.

Alza le spalle. “Non è un mio problema”. Sbatte la porta e mi chiude fuori.

“Dwight!” strillo pigiando con foga sul citofono. “Avanti!”.

La porta si apre di nuovo ma questa volta sull'uscio appare Drew, uno dei più grandi. “Cosa succede qui?”.

Espiro e non per la gratitudine. “Ciao, Drew, posso entrare?”.

Mi rifila uno dei suoi sorrisetti sornioni e inclina la testa di lato per squadrarmi. “Sei uno schianto oggi, Julianne. Ne sei consapevole?”.

Sbuffo e cerco di sorridere. “Sì, ne sono conscia. Mi fai entrare? Pey mi sta aspettando”.

Si appoggia allo stipite. “Lo farò molto volentieri una volta che avrai accettato di uscire con me”.

Cerco di soffocare una risata sul fondo della gola. Drew è davvero carino, i capelli biondo scuro e gli occhi castani da cucciolo creano un mix niente male, ma al momento non sono sulla piazza e oltretutto lui ha solo quindici anni.

“Ascoltami, tesoro, perché è la seconda volta che te lo dico”. Faccio un passo in avanti cercando di riuscire ad entrare. “Tra noi non succederà mai niente. Non sono disponibile, sei troppo piccolo per me e oltretutto sei il fratellino di Peyton. Sarebbe strano”.

Aggrotta le sopracciglia. “Ho molte più qualità di O'Connor e posso provartelo”.

Anche lui crede che io esca con Lip. “Non mi interessa, Drew, voglio solo entrare”.

“Lui non ti rispetta” asserisce risoluto.

“Drew? Con chi stai parlando?”. Tori, la madre di Peyton, sbuca all'orizzonte come un raggio di sole. “Ciao, Julianne!” trilla allegra, spingendo il figlio di lato. “Cosa fai li ferma sullo zerbino, entra”.

Finalmente. Varco la soglia e mi inoltro nel soggiorno. “Salve, signora Jackson. Come sta?”.
“Oh, tesoro, ti ho detto già mille volte di chiamarmi Tori e di darmi del tu”. Sorride nello stesso modo di Peyton.
“Giusto, scusami Tori”.

“Mamma” brontola Drew “Stavo parlando io con Julianne”.
Lei gli accarezza la guancia. “Perchè non vai di sopra ad aiutare Dwight ad aggiustare la sua macchinina”.

“Ma mamma...”.

“Pasticcino, non era una domanda”. Lo sguardo autoritario stona con il tono zuccheroso della voce.

Drew sbuffa ma ubbidisce salendo al piano superiore. “Grazie” esalo.

Mi fa l'occhiolino. “Figurati, tesoro. Ho notato che ha una piccola cotta per te”.
Piccola è un eufemismo”.
Tori si siede con lentezza sulla poltrona fiorita e sospira con stanchezza. “Già”.
Il viso di solito armonioso è pallido e vagamente scavato. Ha delle profonde occhiaie e sembra più magra di quanto me la ricordassi. “Va tutto bene?”.

Si accorge del mio sguardo preoccupato e nasconde l'espressione sofferente con un sorriso caloroso. “Oh, no, tesoro. Sto benissimo, tranquilla”.

Non ci vuole certo un genio per capire che sta mentendo. “Sicura?”.

“Certo” si alza con un po' troppa foga “Vai da Peyton, ti sta aspettando. Io continuo le mie faccende”.

Cerco di protestare ma lei scompare in cucina, quindi decido di lasciar stare. Attraverso il salotto inciampando in un mucchio di giocattoli sparsi per terra ed esco nel giardino sul retro. Supero l'altalena, lo scivolo e finalmente arrivo alla camera di Peyton. La sua stanza si trova fuori dalla casa, nel punto in cui prima c'era il garage. Mi ha raccontato che dopo una crisi nervosa per via della convivenza con i suoi fratelli, suo papà le ha ristrutturato il garage in modo che fosse abitabile e che avesse il suo bagno. È sempre un po' più freddo della casa e odora ancora un po' di pneumatici e olio per motori, ma lei ne è entusiasta.

Busso sul legno arancione della porta e Peyton apre la porta. “Finalmente, mi stavo preoccupando. Ero quasi pronta a darti per dispersa”.

Si sposta di lato per farmi entrare e mi abbraccia quando le passo accanto. “La tua famiglia mi stava risucchiando, ma tua madre mi ha salvata”.
Richiude la porta e si accomoda sul letto. “Lo so, è la migliore”.

Appoggio la borsa sulla scrivania. “Sta bene?”.
Peyton annuisce con troppa foga. “Sì, certo, sta benissimo. È solo stanca”.

La osservo raggomitolarsi nella coperta arcobaleno. Non indossa nessuna parrucca e i suoi capelli castani sparano in ogni direzione. Il pigiama mimetico che porta stona con il caleidoscopio di colori che ricopre la stanza, dalle perline rosse che dondolano sopra alla testata del letto, alle ante dell'armadio color prugna. “Lei dice di essere solo stanca, però non lo so” alza le spalle “Ho paura che stia sottovalutando qualsiasi cosa abbia”.

Mi sfilo gli stivali e la raggiungo sotto la coperta. “Pensi che stia male?”.

“Non lo so, non mi fa partecipe dei suoi malesseri. Per lei vengono prima tutti gli altri e ho il terrore che questa cosa possa danneggiarla. Sabato ci sarà la partita contro i Red Devils e papà è molto agitato e poi la storia di Dominick, credo che la mamma stia nascondendo qualsiasi cosa abbia per non aggiungere problemi”.

“Cos'ha Dom?”.

Si stende allungando le braccia sopra la testa. “La sua insegnante pensa abbia un qualche tipo di ritardo mentale”.

“Davvero? Dominick?” chiedo confusa.

“Già, fatico anche io a crederci, ma lei ne sembra convinta. Mamma sta prendendo appuntamento per fargli fare dei controlli. Lo scopriremo presto”.

“Mi dispiace, Pey”.

Sospira ostentando noncuranza. “Non è nulla, andrà tutto bene”.

Sapere che è così piena di preoccupazioni e di pensieri mi blocca. Come posso costringerla ad affrontarne un altro quando ne ha già altre mille per la testa? Ma, d'altro canto, che amica sarei se ignorassi il fatto che si è infilata in una situazione potenzialmente distruttiva?

Restiamo in silenzio a lungo, finché non mi decido. “Peyton?”.

Inclina la testa e mi guarda. “Dimmi”.

Stringo i denti e afferro il coraggio con due mani. “L'altro giorno ti ho vista con il professor Ellingford”. Buttarmi di testa nelle cose non è mai stato un problema. “Vi stavate baciando”.

Sono le conseguenze dei miei salti nel vuoto a fottermi.

“Cosa?”. La voce di Peyton tremola quando lentamente si mette seduta.

“Io sono preoccupata per te. Lui è un professore e tu una sua studentessa, so che non sono fatti miei, ma...”.
Lei balza in piedi come una molla. “No, non lo sono! Non sono fatti tuoi, cazzo!”.

“Peyton” sospiro.

Ride con sarcasmo. “Wow! Complimenti, Julianne, per essere un fottuto macello sei sempre pronta a giudicare gli altri”.

“Io non ti sto...”.

“Sai, mi fa sbellicare questa tua ipocrisia. Sei un ex-tossica piena di insicurezze che si sbatte il suo fratellastro perché, ammettilo, adori auto-punirti e quando questa bolla con Aaron esploderà, finirai davanti all'occhio di bue più grande della storia e la tua mamma finalmente si renderà conto che esisti” mi punta un dito contro “Perchè è questo quello che vuoi di più al mondo, essere vista, perché se no non si spiegherebbe il tuo costante bisogno di infilarti in situazioni di merda”.

Man mano che gli occhi mi si riempiono di lacrime la vedo sempre più sfuocata ma continuo comunque a fissarla. I coltelli che mi ha tirato erano così ben affilati e precisi che hanno fatto tutti centro nel punto giusto, dove fa più male. Sbatto le palpebre e le lacrime mi scivolano lungo le guance rendendo Peyton un po' più nitida. “Grazie” esalo a bassa voce “Ti ringrazio per questa valanga di acido che mi hai versato addosso”. Scivolo giù dal suo letto e arranco per mettermi in piedi. Il mio istinto di autoconservazione cerca le scarpe e la via d'uscita più vicina. Raccolgo le mie cose e afferro la maniglia, pronta alla fuga. Poi però il mio cervello mi ricorda un dettaglio fondamentale: lei è Peyton. Non è un'estranea, non è una stronza qualunque, è la mia amica Peyton. È aggressiva, brusca, sempre sulla difensiva ma è leale, dolce e non mi hai mai giudicata. Beh, fino ad ora.

Se fossi nella sua posizione anche io attaccherei per difendermi, quindi raccolgo i cocci del mio orgoglio frantumato e lentamente mi giro. “Hai altro che vuoi rovesciarmi addosso?”.

Scuote piano la testa. “Bene, allora è il mio turno. Se mi avessi lasciata parlare ti avrei detto che capisco cosa voglia dire amare qualcuno in modo non convenzionale e che capisco la tua situazione e che se ne vuoi parlare con me, sarei molto felice di ascoltarti. Volevo dirti che ti voglio bene e che sono solo preoccupata per te e per il tuo futuro. Non conosco il professor Ellingford e non conosco la vostra storia, ma non ti sto giudicando Peyton”. Asciugo la guancia con il dorso della mano. “Tutto quello che hai detto è vero, non lo nego, non l'ho mai negato. Mi infilo in situazioni di merda, vorrei più attenzioni da mia madre e sono ex-drogata, ma non ti permetto di direi che sto con Aaron perché mi farà finirei nei guai. Non sai cosa provo e nemmeno cosa voglio, perciò non ti azzardare mai più”.

“Julianne...” pigola.

Non è su di me che dobbiamo concentrarci. “Vorrei che mi raccontassi la tua versione della storia” tiro su con il naso “Perchè dal mio punto di vista sembra davvero brutta”.

“Okay” espira e torna a sedersi tirandomi con lei sul letto “È cominciata più o meno cinque mesi fa, quando ho deciso di seguire dei corsi di e di inglese all'università statale. L'ho incontrato lì, era l'assistente del professore. All'inizio non lo avevo nemmeno notato, poi un giorno il professore si è assentato e lui ha tenuto la lezione. È stato brillante, divertente e così intelligente, sopratutto quando mi ha lodata davanti a tutti per le mie risposte. A fine lezione mi ha chiesto di rimanere, abbiamo parlato e mi ha invitata a prendere un caffè. Ci ho messo un po' a riconoscerlo e per lui credo sia stato lo stesso, prima di quest'anno non avevo mai seguito il suo corso di a scuola. Abbiamo scoperto chi eravamo e abbiamo deciso di chiudere qualsiasi cosa stesse nascendo”. Arrossisce sempre di più ad ogni parola che aggiunge. “Però è stato come se il destino mi dicesse che eravamo fatti per stare insieme. Ogni volta che andavo da qualche parte finivo per incontrarlo o per pensare a lui. Ti giuro che ci abbiamo provato ma è stato impossibile ignorare l'attrazione e il desiderio di stare insieme che ci ha investiti. Quindi abbiamo iniziato ad uscire e a stare insieme. L'estate è voltata e quando è ricominciata la scuola abbiamo deciso di tenere un profilo basso e di vedere se riuscivamo a farla funzionare. Però ora...”.

“Vorresti uscire alla luce del sole?”.

Annuisce. “Sono stufa di dire così tante bugie per stare insieme solo per cinque minuti, vorrei poter dire che stiamo insieme a tutto il mondo”.

“Capisco perfettamente la sensazione” mormoro.

Il suo sguardo è carico di tristezza. “Lo so, perdonami se ti ho urlato addosso tutte quelle cattiverie, mi sono spaventata. Ogni giorno vivo nella paura che il castello di bugie sotto cui mi ha tirato crolli e che ci si rovesci tutto addosso. Per questo gli ho chiesto di trovare una soluzione, di cercare magari un altro lavoro in un'altra scuola o magari qualcosa di diverso, così da poter piano piano dire a tutti che usciamo insieme. In fondo abbiamo solo dieci anni di differenza, ma lui pensa sia meglio così e mi ha chiesto di non incasinare tutto, quindi”.

Qualcosa mi ribolle all'altezza dello stomaco, è una strana sensazione che non riesco a fermare. “Ho capito”.

Mi osserva incerta. “Cosa stai pensando?”.

Verità o bugia? Sono pronta ad un'altra doccia di acido? “Prometti di non urlarmi di nuovo addosso?”.

“Promesso” appoggia la mano sul cuore.

“Io non so come funziona la vostra storia e non so nemmeno come siete tra di voi, ma vorrei raccontarti una mia esperienza simile. Uscivo con un ragazzo più grande un po' di tempo fa. Non era un bravo ragazzo, neanche un po'. All'inizio lo trovavo meraviglioso, sexy, divertente e passavo sopra a tutte quelle piccole cose che mi gridavano di darmela a gambe. Poi ad un certo punto è del tutto cambiato, era aggressivo, nervoso, voleva controllarmi costantemente e non mi lasciava mai fare nulla che mi andasse davvero di fare. Era...non voglio dilungarmi con inutili dettagli, il mio punto è, Peyton, che in un attimo mi sono ritrovata senza vie di fuga. Mi aveva fatto terra bruciata intorno e non avevo più nessuno disposto a tendermi la mano per aiutarmi e mi sono persa. Non voglio insinuare che tu sia nella mia stessa situazione, quello spetta a te capirlo, sopratutto perché non sono nella posizione di giudicare. Hai capito?”.

Annuisce con decisione. “Sì, perfettamente”.

“Bene”.

Restiamo sdraiate sul suo letto a parlare di tutto e di niente per il resto del pomeriggio. Vorrei poter dire che ciò che mi ha detto mi è scivolato addosso, ma non è così. So che era tutta rabbia mischiata a paura ma questo non rende le sue parole meno vere e dolorose.

In ogni caso, fingo di crederle quando si scusa per la dodicesima volta di fila e mi assicura che non lo pensa davvero. Ma è questo il punto, se non pensiamo qualcosa perché lo diciamo?

 

 

 

Le ginocchia perfettamente lisce di Chastity luccicano sotto la luce al neon del bagno. Non capisco proprio come faccia ad avere la pelle così radiosa e perfetta. Siede sul bordo della finestra del bagno mentre controlla che l'accendino non le abbia graffiato le unghie rosa. La divisa blu delle cheerleader è nascosta sotto un giaccone della squadra di lacrosse. Anche avvolta in un indumento non della sua taglia riesce ad essere perfetta. La luce pallida che filtra nel cubicolo le illumina i capelli biondi, facendola sembrare quasi angelica. Io, d'altro canto, devo sembrarle un disastro. Seppur abbracciata ad Aaron, ho dormito da schifo. Le parole di Peyton mi sono risuonate in testa per tutta la notte.

Prende una boccata di fumo dalla sigaretta e si massaggia lo spazio tra le sopracciglia. È corrucciata da almeno cinque minuti, da quando le ho detto che la casa di Lip non è disponibile per la festa di Halloween. Non voglio interrompere la sua riflessione ma stiamo finendo il tempo di pausa che ci danno tra una lezione e l'altra. “Di chi è la giacca che indossi? Da quand'è che fumi?”.

Soffia il fumo fuori dalla finestra. “Oggi sei in vena di fare conversazione, eh?” ridacchia “Di solito sono io che parlo mentre tu resti zitta”.

Mi appoggio al divisorio di plastica. “Lo so, mi fa strano vedere che resti in silenzio così a lungo”.

Accarezza la giacca con la mano libera. “Esco con Emmett Gray”.

“Il portiere?”. Le luccicano gli occhi. “È molto carino”.

“Lo so” gongola “Oltretutto non è mai caduto nella rete di nessuna stronzetta della mia squadra, perciò il suo punteggio raddoppia”.

Sono felice per lei. “Che mi dici di quella?” domando indicando la sigaretta che le pende dalle labbra.

Scrolla le spalle. “È un vecchio vizio che si risveglia quando sono stressata”.

“C'è qualcosa che ti preoccupa?”.

Osserva il profilo delle montagne con aria stanca. “Sabato ci sarà la partita e nell'intervallo ci esibiremo come ogni volta che si gioca in casa. Giselle ha deciso che metteremo in atto un esercizio difficilissimo in cui praticamente verrò lanciata in aria e ho paura che stia provando ad uccidermi. Tutte le amiche che ho sono delle pugnalatrici alle spalle senza cuore, la scalata per detronizzare la regina del male sta andando sempre peggio e mia madre non fa altro che ripetermi quanto il mio culo si stia allargando e che dovrei assolutamente smettere di mangiare tutto ciò che ha un sapore”.

Wow. Vederla vomitare ogni singolo problema che le frulla nella testa la fa sembrare un po' meno di ghiaccio. Meno perfetta e molto più umana. Una Chastity che potrebbe piacermi davvero.

“Mi dispiace, Chas”.

Lei spegne la sigaretta e butta il mozzicone nel cestino. “Tranquilla, ho tutto sotto controllo”. Indossa la sua maschera di porcella e sorride. “Andrà tutto bene”.

Conosco bene la parte che sta recitando e se continua così finirà per distruggersi. “Che ne dici se domani sera usciamo insieme? Una serata tra ragazze che non vogliono accoltellarsi a vicenda potrebbe farti bene, così magari possiamo pensare ad un piano per la festa”. Non so che cosa si sia impossessato di me ma non mi pento di quello che le ho chiesto.

Lo stupore sul suo viso muta lentamente in una sorriso vacillante, per poi trasformarsi in una risata sguaiata. Il mostro rancoroso dentro di me ingrana la retro. “Fa nulla, lascia perdere”.

Salta giù e mi afferra un gomito. “No, no. Ferma. Ovvio che voglio uscire con te. Pensavo di non piacerti per nulla, per quello ho riso. Sono riuscita a scalfire la superficie”.

Sorrido ma non riabbasso la guardia. “Ora non montarti la testa”.

Mi da un colpetto. “Ammettilo che sto cominciando a starti simpatica”.

“Ti piacerebbe”.

Non mi va di ammetterlo davanti a lei ma sì, Chastity, stai cominciando a piacermi.

 

 

 

“Il campo elettrico è descritto anche dal potenziale elettrico, definito come il valore dell'energia potenziale di una carica elettrica posta in un punto dello spazio divisa per la carica stessa” asserisce Aaron puntando il dito sul libro “L'energia potenziale della carica è quindi l'energia che la carica possiede a causa della sua posizione all'interno del campo elettrico. Tutto chiaro fin qui?”.

Sfodero il mio sorriso migliore. “Ti arrabbi se ti dico che vedo le tue labbra muoversi ma non sento assolutamente nulla?”.

Sospira. “Un pochino, ma d'altra parte mi piace il fatto che la mia bellezza celestiale ti distragga da tutto il resto”.

Gli accarezzo la guancia. “Sì, possiamo dare la colpa a te e non alla fisica se questo ti fa sentire meglio”.

“Come fa a non piacerti?”.

Chiudo il libro e lo spingo lontano. “Nello stesso modo in cui non mi piacciono le cavallette, i broccoletti e Giselle. Li trovo schifosi, fastidiosi e uno spreco di ossigeno”.

Si posa una mano sul cuore con dolore. “Come puoi paragonare la fisica a Giselle? Così mi uccidi tesoro”.

Mi sdraio appoggiando la testa sul cuscino. “Forse è un'esagerazione, ma almeno hai capito il mio disgusto”.

“Vero”. Si stende su un fianco posando la testa sulla mano e con l'altra giocherella con il bottone del mio cardigan. “Com'è andata la chiacchierata con Peyton?”.

“Mi ha raccontato tutta la storia, io le ho raccontato la mia e le ho detto che l'unica che può sapere come stanno davvero le cose è lei. Ha capito il mio punto e sono sicura che farà la scelta migliore”.

Mi accarezza la pelle dell'addome con il pollice. “Pensi che lo lascerà?”.

“Non ne ho idea, però so che farà ciò che è meglio per lei”. Corruga la fronte leggermente contrariato, ma rimane in silenzio. Con l'indice gli alzo il mento in modo che mi guardi negli occhi. “Sa prendersi cura di se stessa, non preoccuparti”.

Sospira. “Se me lo assicuri tu”. La sua mano mi risale lungo le costole. “Allora mi fido”. Il suo naso sfiora il mio. “Mi fido al diecimila per cento di te”.

Gli accarezzo la nuca. “Sai che è matematicamente impossibile?”.

Ride solleticandomi lo stomaco. “Beh, in qualche modo lo rendi possibile. Rendi qualsiasi cosa possibile”. Ormai ad un centimetro dal mio volto, posa le labbra sulle mie. Con una mano mi cinge la vita, attirandomi a sé, e con l'altra mi accarezza i capelli. Trattengo il fiato mentre delicatamente mi mordicchia il labbro inferiore. Unisco le mani dietro la sua nuca e lo attiro più vicino. Non mi sembra mai abbastanza vicino. I suoi baci sono infuocati, disarmanti e fanno salire l'eccitazione alle stelle. Sento ogni curva del suo corpo aderire al mio.

Il colpo secco che proviene dalla porta ci fa sobbalzare entrambi. Aaron si ritrae verso il fondo del letto e io mi raggomitolo sui cuscini. Il colpo successivo è seguito dalla voce squillante e fastidiosa della mamma. “Julie? Posso entrare?”.

Aaron lancia il libro di fisica tra di noi e si sistema freneticamente i capelli con le dita. Mamma non aspetta la risposta e spalanca la porta. Scandaglia la stanza, risplendendo sulla soglia come una diva del cinema. “Aaron? Cosa fate?”.

Il cuore mi batte a mille. Ci stavamo baciando. “Studiamo fisica, mamma. Aaron mi stava dando una mano”. Aveva le mani ovunque tranne che sul libro. Ogni tanto mi stupisco della facilità e della bravura con cui mento.

Aaron annuisce con vigore. “Sì, stavamo studiando. Sì”. Lui un pochino meno.

“Che bravi”. Lei sorride radiosa. “Non volevo disturbarvi, però c'è un ospite per te, Julie”.

“Scendo tra un secondo” affermo cercando di tenere chiuso il cardigan sbottonato.

Si ravviva i capelli. “Oh, no, tesoro. Lei è qui”.

“Lei chi?”.

Dorothea spunto dietro la mamma, stringendosi le braccia al petto e ostentando un sorriso timido. Sono quattro giorni che mi evita nei corridoi e che ignora le mie chiamate. Vederla sulla soglia di camera mia con un ramoscello d'ulivo in mano mi mette automaticamente sulla difensiva.

“Ciao Jay” biascica. “Aaron”. Il rossore che le adorna le guance aumenta la mia rabbia.

“Bene, ora vi lascio soli. Fate i bravi”. Mamma si allontana facendo svolazzare i capelli e lasciandoci ad avere a che fare con l'elefante nella stanza.

Dottie si avvicina guardinga e cercando di sorridere. Aaron percepisce il mio cambiamento di umore e si china in avanti. “Vi devo lasciare sole?”.

Vorrei disperatamente che rimanesse, ma ho bisogno di parlare con lei sinceramente e con lui nella stanza è impossibile. Scuoto la testa. “No, vai pure”.

Mi lancia un'ultima occhiata per essere sicuro che sia veramente quello che voglio, poi si alza ed esce dalla stanza. Una volta che la fonte dell'imbarazzo di Dorothea si è allontanata, lei si accomoda sul letto e comincia a giocherellare con un ricciolo che le sfiora la guancia.

Lancio il libro sul pavimento e mi avvicino a lei. “Come mai sei qui? Pensavo avessi deciso di evitarmi come la peste”.

Sobbalza come se le avessi sparato alla schiena e si fa più piccola. “Mi dispiace, Julianne”.

“Per?”. Non ci vado leggera, non voglio e sopratutto non ne ho la forza.

“Tutto” sospira lentamente “Quello che ho detto, il fatto che ti abbia ignorata, ma soprattutto mi dispiace di non averti creduto da subito”.

Chiedere scusa basta davvero a risanare le ferite che causiamo alle persone? È davvero sufficiente?

“Ascolta, Dorothea...”.

“Subito dopo che ho detto quelle cose mi sono pentita, non le pensavo davvero” afferma interrompendomi “Volevo venire subito a scusarmi, ma avevo così paura che non volessi avere niente a che fare come. Pensavo mi odiassi già. Ho sbagliato ma davvero non volevo ferirti”.

Ed eccoci di nuovo. Perché diamo fiato alla bocca senza pensare? Scusarsi dopo aver lanciato un coltello non ricuce la ferita che si è causata.

I suoi enormi occhi blu diventano lucidi ed acquosi. “Scusa, davvero”.

“Perchè hai detto quelle cose se non le pensavi?”.

“Sono anni che mi tartassano senza sosta. Nell'ultimo periodo ero riuscita a sparire dai loro radar, a non farmi più notare, ma essere tua amica lo rende impossibile. Sei troppo per essere ignorata e di conseguenza esponi tutti quelli che ti circondano”.

Troppo? Troppo cosa?”.

Le lacrime le rigano le guance pallide come porcellana rotta. “Troppo tutto, Julianne. Sei meravigliosa, intelligente, sicura, talentuosa. Cercare di essere come te è impossibile. Non te ne rendi conto?”.

“No”.

“Loro voglio essere come te ma non possono, quindi piuttosto che ammettere la sconfitta ti attaccano. Perché pensi che Nicole ti odi tanto?” mi accarezza la mano “Sono stata una codarda, lo ammetto e non come una giustificazione. Io non sono forte come te e avevo paura di non riuscire a sopportare tutte quelle voci addosso. Però poi ho realizzato che perderti come amica è mille volte peggio che dover sopportare le loro vessazioni”. Un piccola breccia mi si forma all'altezza dello sterno. “Potrai mai perdonarmi?”.

L'istinto mi dice di no. Se ti voltano le spalle una volta, lo rifaranno. Però voglio bene a Dottie e il cuore mi dice che tutti possono sbagliare. Una seconda possibilità si concede sempre.

“Sì” affermo abbracciandola “Sì, Dottie”.

 

 

 

 

Il giorno successivo mi ritrovo in mezzo ad una zuffa tra uomini di Neanderthal. Aaron e Lip agitano le clave e grugniscono per decidere chi dei due ha avuto l'idea migliore e, naturalmente, tocca alla sottoscritta decidere chi ha ragione.

“Dolcezza, puoi dire a questo cretino che il mio è il migliore! Con il suo non ci pulisci nemmeno il culo di un barbone”.

Aaron sbuffa agitando il suo foglio. “Ma ci vedi almeno? Questo è un vero e proprio capolavoro!”.

Ignoro il loro sfogo da primedonne e continuo ad accordarmi con Chastity sulla serata. Abbiamo esteso l'invito anche a Peyton e Dottie. L'idea è stata mia, sono sicura che ci farà bene uscire un po' insieme.

“Un capolavoro? Ma sei serio? Dio, dolcezza, ma come fai a stare con lui? Non ha il minimo gusto”.

J: Tutto pronto per questa sera? Hai trovato un alibi?

C: Assolutamente sì. Non vedo l'ora di essere sommersa da una valanga di ragazzi e un mucchio di alcolici.

Lei, d'altro canto, ha invitato i due scimmioni che discutono. Ho acconsentito solo perché Chas mi ha chiesto una ragione valida per non farli venire e io non la avevo. O almeno non potevo dirgliela.

“Jay” brontola Aaron “Puoi dirgli di chiudere il becco prima che si becchi un pugno”.

“Sì, provaci” lo istiga Lip.

J: Pensavo uscissi con Emmett.

C: Occhio non vede...

Non mi sorprende, sinceramente. Chastity è un tipetto davvero vivace, mi sorprenderebbe vederla in una relazione stabile.

C: Comunque arriverò da voi verso le 21:30. Andiamo con la tua macchina e quella di Lip, giusto?

J: Sì. Guidiamo lui ed io.

“E poi quello cosa dovrebbe rappresentare? È una specie di animale?” chiede confuso Aaron.

Lip sventola il foglio. “Ovviamente è un dito medio. Sicuro di vederci?”.

C: Mi dispiace, però a qualcuno tocca.

J: Lo faccio molto volentieri, non preoccuparti.

“Un dito medio?” sghignazza Aaron “Ma su quale pianeta?”.

C: Fatti super bella, voglio vederti conquistare qualche bel manzo stasera.

J: Manzo? Davvero?

C: Sì, tesoro. Lì fuori ne è pieno e aspettano solo te.

“Stai mettendo in discussione la mia arte? Dolcezza! Digli qualcosa!” ruggisce Lip.

Aaron ride di gusto. “Arte? Sei serio? Jay digli che ho ragione”.

“Dolcezza?”.

“Jay? Ci sei?”

J: Se lo dici tu. Ora devo andare, devo dividere due gorilla che si tirano le banane. A dopo.

C: Bye.

“Si può sapere con chi parli? Ci stai ignorando?” sbuffa Aaron sfilandomi il cellulare di mano e infilandosi nel mio capo visivo.

“No, purtroppo ho sentito tutto”. Sospiro scendendo dal letto e prendendo i loro disegni. “Noi donne siamo multitasking”. Afferro i loro schizzi. “Fatemi vedere un po' a cosa avete pensato”. Stamattina, li ho incaricati di progettare un logo per la band da dipingere sulla batteria di Lip e da mettere sui futuri volantini e magliette. Entrambi i disegni sembrano fatti da dei bambini dell'asilo. Liv disegna molto meglio.

“Carini” pigolo, ostentando un sorrisetto.

Aaron geme e si lascia cadere sul materasso. “Non ti piacciono”.

“No” mento “Sono carini”.

Alza un sopracciglio. “Hai detto la stessa cosa quando ti ho fatto vedere la nuova mazza da lacrosse che voglio comprare. Ormai conosco i tuoi veri versi di piacere”.

Lip si raddrizza come un cane. “Davvero?” domanda con aria maliziosa.

Lancio un'occhiataccia ad Aaron. “Ottima scelta di vocaboli”.

Lip mi da un colpetto sulla spalla. “Noi non siamo artisti, non puoi aspettarti che tiriamo fuori dei capolavori da un giorno all'altro”.

Raccolgo la borsa e tiro fuori il mio quaderno. “Volete vedere qualche mio progetto? Sono solo bozze, però”.

“Certo” affermano insieme.

 

   
 
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